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Presentazione

Lo scavo della Crypta Balbi è fra i principali interventi previsti e in parte già attuati
nell’ambito della Legge 23.3.81 n. 92, per i monumenti antichi di Roma: nell’ambito cioè di un
programma di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archeologico romano che non ha
confronti, per mole e per qualità nella storia della capitale.
Per la prima volta si è scelto di intervenire sul suolo di questa città, stratificatosi nei secoli in
forme di estrema complessità, con metodo rigorosamente stratigrafico, dando ad ogni lembo di
terra il significato di un documento storico e abolendo le distinzioni di valore fra fasi edilizie e di
vita romane, medioevali e moderne.
Lo scavo del quale si presentano qui i risultati preliminari si pone quindi come esempio di
una indagine archeologica a scala urbana, finalizzata non solo ad un incremento di conoscenza
storica, ma anche al recupero di un frammento del centro cittadino, nel quadro più vasto della
strategia per comparti inserita nel programma della Soprintendenza Archeologica di Roma.
L’insieme dei dati archeologici che questa impresa, una volta portata a termine ci metterà a
disposizione, consentirà alle amministrazioni pubbliche di impostare correttamente il problema
dell’utilizzo degli edifici cresciuti a ridosso dell’area monumentale antica, garantendo al contempo il
pieno godimento di questa ultima.
Va segnalato inoltre come l’operazione in corso sia il risultato di una collaborazione positiva
stabilita dalla Soprintendenza con l’Università, e in particolare con la Facoltà di Lettere
dell’Università di Siena, che si è posta da tempo all’avanguardia nella elaborazione e nella
diffusione delle più moderne metodologie di ricerca archeologica (è del 1981 il convegno «Come
l’archeologo opera sul campo» patrocinato anche dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali).
Le tecniche e le collaborazioni che si vanno sperimentando nello scavo della Crypta Balbi
costituiranno infine un prezioso patrimonio da utilizzare allorché, ormai a breve scadenza, si aprirà il
grande cantiere di via dei Fori Imperiali, nella prospettiva della ricomposizione e del recupero
dell’intera area archeologica centrale di Roma. [5]

Vincenzo Scotti
Ministro per i Beni Culturali e Ambientali

Roma, ottobre 1982


1. Archeologia urbana a Roma

1.1 A cinquanta anni dal compimento del più devastante ed emblematico degli
sventramenti urbanistico-archeologici subiti dalla città nella sua storia più recente – l’apertura di
via dell’Impero – Roma vive una nuova stagione politica e culturale nella quale i temi della
conoscenza storica e dell’intervento archeologico giocano un ruolo di primo piano. Vi sono le
premesse perché il suolo di Roma divenga nei prossimi anni il laboratorio adatto alla
sperimentazione delle nuove metodologie (culturali prima che tecniche) della indagine
archeologica classica e post-classica che il dibattito dell’ultimo decennio sta promovendo. Vi è
possibilità che l’archeologia – continuando a liberarsi del complesso isolazionista che tanta parte
ha avuto nella creazione dell’immagine della disciplina nelle generazioni passate – ritrovi, in
pari dignità con le altre scienze del territorio, la funzione di strumento peculiare e originale di
riflessione e di intervento sulla città, di comprensione e di modifica della realtà urbana.
L’archeologia degli anni ‘80 si presenta con un volto profondamente diverso rispetto a pochi anni
addietro, sia verso l’opinione pubblica e la società civile, sia verso le proprie stesse istituzioni e i
propri stessi protagonisti.
Il grande tema dell’archeologia urbana – per una felice coincidenza della sorte – sorge in
Italia strettamente connesso con il tema dell’archeologia di Roma, uno tra i più formidabili e
antichi campi di indagine della ricerca storica, topografica, artistica, antiquaria, urbanistica del
passato. Le condizioni di questo fortunato intreccio non sono casuali. Roma è al centro del
dibattito sulla nuova archeologia urbana poiché attraverso la Legge speciale 92/81 si sono create le
premesse legislative e burocratiche per l’intervento archeologico; ma quella legge è a sua volta
frutto della consapevolezza – assai più matura di un tempo – delle esigenze primarie della
conservazione e della conoscenza delle testimonianze del passato, e del ruolo trainante che la
nuova archeologia urbana deve svolgere in questa dimensione.
Il dibattito sulla città, sulle sue possibilità di riconversione alle esigenze primarie della
“qualità della vita”, trova oggi a sua volta nella metodologia dell’intervento archeologico un
interlocutore attento e prezioso, perché l’archeologia italiana – dopo aver posto le premesse per un
recupero dei ritardi storici che ne avevano profondamente condizionato la funzione nei decenni
trascorsi – è oggi matura per trasferire sul tema della conoscenza della stratificazione urbana il
centro del proprio interesse per il consolidamento delle metodologie che in questi ultimi anni è
andata acquisendo.

1.2 La legge del 23 marzo 1981, n. 92: «Provvedimenti urgenti per la protezione del
patrimonio archeologico di Roma» fissa gli obiettivi degli interventi archeologici (conservativi e
conoscitivi) già in atto nell’ambito della città e dà alla Soprintendenza Archeologica di Roma –
guidata da Adriano La Regina, cui va il merito di aver saputo promuovere e indirizzare il
provvedimento – gli strumenti per operare (LA REGINA 1981a). [7]
L’ambito in cui si esercita l’iniziativa prevista dalla legge è evidentemente molto ampio e
ruota intorno ad alcuni grandi temi, tra i quali fondamentale per l’urbanistica cittadina è quello
della Zona archeologica monumentale, che ha negli scavi in atto presso via della Consolazione e
nella piazza del Colosseo due primi momenti di verifica, e nel progetto di scavo dei Fori Imperiali
il proprio obiettivo più arduo, ma anche più nuovo e qualificante (LA REGINA 1981b, con
bibliografia a p. 103).
La riscoperta dell’archeologia romana – o meglio del ruolo che essa può svolgere nel
futuro della città – non si limita certamente al progetto della Zona archeologica monumentale:
deve coinvolgere aspetti qualificanti dell’urbanistica cittadina al centro e in periferia (NICOLINI
1981). [8] Lo scavo dell’area della Crypta Balbi, nell’isolato semi abbandonato che costeggia a S la
via delle Botteghe Oscure, rappresenta uno dei momenti qualificanti di questa nuova stagione
archeologica (App. fig. 50).

1.3 Il caso dell’isolato di via delle Botteghe Oscure è uno dei più emblematici nella storia
recente del degrado urbano, dello spreco e della speculazione: una indagine condotta da Italia
Nostra negli anni ‘70 visualizza in pianta (fig. 1) l’importanza dell’area nel contesto del centro
storico e nell’ambito delle proprietà immobiliari di enti pubblici (Roma sbagliata 1976, p. 112,
tavv. B, 7 e 8).
Iniziatosi negli anni della seconda guerra mondiale con la demolizione delle strutture del
grande Conservatorio cinquecentesco di S. Caterina della Rosa e con la rinuncia ad edificare l’area
da parte dell’ente allora proprietario – l’Istituto Nazionale per i Cambi con l’Estero – l’abbandono
ed il deperimento di gran parte dell’area edificata e del vasto cortile interno creato dalle demolizioni
conosce un momento di accelerazione nel 1966 con l’abbandono delle case e delle botteghe da parte
degli abitanti, dei commercianti e degli artigiani. Quegli stabili, tuttora disabitati e sbarrati, sono oggi
cadenti e in condizioni statiche estremamente precarie (fig. 2; e App. figg. 52-53).
Più di una voce qualificata si levò sin dalla fine degli anni ‘60 per chiedere il riscatto
urbanistico dell’area (App. fig. 51), tornata anche al centro dell’attenzione degli studiosi dopo le
ricerche di Guglielmo Gatti, e per reclamare un intervento pubblico che collegasse il risanamento
della zona ad una campagna archeologica nell’area resa disponibile dalle demolizioni e
dall’abbandono (COARELLI 1968a; INSOLERA-STACCIOLI 1968).Le forze politiche e sociali
operanti nel quartiere si mossero – ognuna per la sua parte – nella stessa direzione, chiedendo
l’acquisizione pubblica dell’area ed in particolare una iniziativa del Comune di Roma per l’acquisto
degli stabili abbandonati e la creazione nell’isolato di servizi sociali destinati al quartiere (Risoluzione
n° 14 della I Circoscrizione del Comune di Roma del 27.6.1974).
Rimasto sempre vivo all’attenzione degli studiosi (archeologi, urbanisti) il caso della Crypta
Balbi sembrò andar perdendo di attualità nel corso degli anni successivi: la sua inclusione nei
programmi della Soprintendenza Archeologica di Roma previsti per l’attuazione della legge 92/81
ha impedito che altri anni passassero invano, senza che una soluzione urbanistica soddisfacente
venisse ricercata nel concreto e non solo nei buoni propositi. [9] L’inizio della indagine archeologica
nell’isolato costituisce da questo punto di vista un elemento di novità e di incoraggiamento. Nella
storia urbanistica di Roma non sono certamente numerosi i casi in cui l’intervento archeologico si sia
posto come condizione e premessa del recupero urbano di un’area di tali proporzioni e interesse
storico, invece di venir surrogato con tardive iniziative burocratico-amministrative, che
intervengono a cercare di sanare – a lavori già avanzati – situazioni archeologico-urbanistiche ormai
compromesse dall’iniziale disconoscimento della centralità dell’aspetto archeologico nel recupero e
nella fase di progettazione non meno che in quella della valorizzazione.
L’incontro concorde della Soprintendenza Archeologica di Roma con l’Istituto di
Archeologia e Storia dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo dell’Università di Siena consente
oggi di affrontare nel centro di Roma uno scavo su vasta area, di lunga durata e dalle implicazioni
metodologiche e scientifiche estremamente ricche, secondo i criteri di quella che si definisce
“archeologia programmata” (GARDINI-MILANESE 1979, pp. 129-132): una situazione di
privilegio che potrà riflettersi positivamente, per il suo carattere sperimentale, su possibili iniziative
future. L’archeologia programmata nel centro urbano si presenta al tempo stesso anche come
archeologia preventiva, tesa a moderare le indebite attenzioni che l’area da più parti, non sempre
limpidamente, riceve, ed a restituire agli organi pubblici competenti un’area urbana
archeologicamente compresa e pronta ad essere reinserita, in forme che è ovviamente prematuro
delineare, nel contesto cittadino.

1.4 Il suolo di Roma, così straordinariamente ricco di testimonianze monumentali di ogni


epoca, è tuttora quasi sconosciuto dal punto di vista della moderna indagine archeologica.
Nonostante l’esistenza consolidata di discipline archeologiche ed antiquarie direttamente operanti sul
suolo cittadino – ma in ambiti cronologici limitati o secondo metodologie di approccio proprie più
dell’archeologia monumentale che non di quella stratigrafica – manca tuttora non solo la pratica ma
anche la volontà di programmazione di una indagine archeologica intesa come investigazione della
successione degli insediamenti, cioè della continuità storica. Anche la frammentazione indebita delle
discipline è stata quindi una delle cause del mancato sviluppo di una archeologia urbana, a Roma
come in tutta l’Italia (CARANDINI 1981, p. 35; HUDSON 1981, pp. 52-53).
L’assenza di una moderna pratica di archeologia urbana nel nostro paese non comporta che il
suolo delle nostre città non sia stato saggiato frequentemente e, il più delle volte, maldestramente.
Anche Roma è stata per secoli, e sino ad oggi, sottoposta ad un continuo sforacchiamento non
programmato, casuale, selettivo, di cui oggi valutiamo gli effetti disastrosi sul piano della tutela e,
se non inconcludenti, certo estremamente parziali sul piano della ricerca storica.
La nuova archeologia urbana si trova dunque a dover prendere posizione non solo in favore
di scelte di intervento che prevedano indagini su aree molto estese, campagne di lunga durata, ed
équipes numerose ed attrezzate (HUDSON 1981, p. 52), ma anche in favore di una sapiente
selezione delle aree da sottoporre ad intervento archeologico integrale, nell’ambito di una
programmazione della tutela e dello sviluppo urbano. «Se dieci siti debbono essere distrutti è di gran
lunga preferibile scavare due di essi interamente [corsivo mio], e limitarsi a scavi di salvataggio
negli altri, piuttosto che saggiare, o scavare parzialmente tutti e dieci» (BARKER 1981, p. 73).
[10] Questo principio va tanto più tenuto presente nel campo dell’archeologia urbana: l’area della
Crypta Balbi è certamente in questo senso uno dei siti da privilegiare.
La scelta dei siti da indagare sarà dunque dettata – oltre che dalle condizioni oggettive dello
sviluppo del territorio urbano – dalle domande storiografiche che orientano, senza però irrigidirla, la
programmazione della ricerca (CARANDINI 1981, p. 77), e che nel caso di Roma non possono non
fare riferimento alla complessità delle sovrapposizioni degli insediamenti succedutisi nel corso dei
ventotto secoli di vita della città. Da questo punto di vista tutto è ancora da scoprire e
saggiare archeologicamente nel suolo di Roma, che non ha mai visto indagata su ampia scala la
stratificazione urbana del suo centro storico.
Vi sono tuttavia nel campo dell’archeologia classica settori di indagine più noti – che quasi
per abitudine si continua ad indagare – e settori assai meno noti, abitualmente tuttora trascurati.
L’archeologia italiana ha sempre dimostrato, ad esempio, una immotivata predilezione per i teatri,
che ha fatto sì che un gran numero di centri archeologici del nostro paese, tuttora sostanzialmente
non investigati, ci siano però noti almeno per le strutture caratteristiche del teatro che, insieme con
il Foro e l’anfiteatro, ha costituito troppo spesso l’interesse focale dell’archeologo, del topografo...
del turista, come dimostra il lungo elenco di questi monumenti più o meno noti nei centri
archeologici dell’Italia romana (FORNI 1962).
Paradossalmente dobbiamo quindi rallegrarci che la superficie interessata dallo scavo del
monumento di Balbo investa in pieno l’area occupata dalla Crypta e lasci invece a margine quella
del teatro annesso. Non si intende certo sottovalutare l’importanza storica ed architettonica del
terzo teatro di Roma antica (App. figg. 21-25), ma non v’è dubbio che questa prima esperienza di
grande scavo stratigrafico urbano, che si inizia a Roma, si presenti di particolare interesse anche per
la peculiarità del monumento antico esistente nell’area. La Crypta Balbi rimane tuttora, infatti, un
monumento ignoto nella sua tipologia architettonica e non compreso nella sua effettiva funzione nel
tessuto urbano circostante. L’area della Crypta Balbi presenta inoltre anche una ricca articolazione di
insediamenti medioevali e rinascimentali (Castrum aureum, chiese, monastero, orti, case,
Conservatorio) non testimoniata nell’area adiacente, un tempo occupata dal teatro, distrutto ed
inglobato nelle imponenti fabbriche cinquecentesche dei palazzi dei Mattei, che hanno
interamente compromesso la stratificazione classica e post-classica del sito.

1.5 Innovando profondamente rispetto ad una tradizione di routine amministrativa e di


sostanziale incapacità di intervento nella formulazione della politica del territorio, propria degli
organi periferici dello Stato preposti alla tutela, la Soprintendenza Archeologica di Roma sta
dimostrando di volere e sapere progettare anche sul piano urbanistico. Si rinnova quindi – ma con
tutt’altro segno – quell’incontro tra archeologia e urbanistica che, sia pure in termini conflittuali,
tanti guasti ha prodotto nei centri storici italiani sia sullo scorcio del XIX secolo che nei decenni
compresi tra le due guerre mondiali.
Oggi vi sono le condizioni perché questo incontro dia i frutti positivi che la sua potenzialità
esprime, riducendo le distanze e gli steccati tra le discipline, consolidati dalle pratiche accademiche,
ed esaltando invece il ruolo delle specializzazioni nell’ambito di un progetto e di un fine comuni:
conoscere la città per viverci meglio. [11] L’occhio dell’archeologo, rivolto al terreno, guarda da
dentro l’oggetto del suo studio, teso alla comprensione del movimento stratificato nel suolo ed alla
ricostruzione del suo mutevole inserimento nel contesto urbano nel corso dei secoli; l’occhio
dell’urbanista, più dall’esterno, mira alla definizione delle forme attraverso cui ricomporre nel
contesto cittadino l’oggetto indagato dall’archeologo. Ma le due ottiche necessariamente distinte
devono integrarsi continuamente nel corso della ricerca; la definizione di un progetto d’uso in
funzione della città non viene né prima né dopo l’acquisizione dei dati conoscitivi, storici prodotti
dall’indagine: ne è necessariamente l’altro compito, al cui adempimento archeologo ed urbanista –
ma certamente non solo loro – devono contribuire.
Lo scavo urbano pone problemi inediti, almeno per l’archeologia italiana, e impone scelte di
conservazione o demolizione non solo di strati (terra), ma anche di strutture (muri, pavimenti,
strade...). [12] Non disponiamo ancora di una metodologia consolidata che guidi in queste scelte:
questa va costruita nel corso stesso dell’indagine. Lo scavo stratigrafico è distruzione, ma talora
solo distruggendo (scavando) si conosce. Una struttura del passato rimessa in luce sterrando il
suolo che la coinvolge e abbandonata al sole è per noi perduta assai più di una struttura
interpretata stratigraficamente nelle sue relazioni con il terreno, e quindi smontata.
Ma – fatta salva la premessa stratigrafica – che cosa smontare e che cosa conservare è scelta
ardua di cui l’archeologo certamente – anche se non da solo – deve potersi assumere la
responsabilità. L’ipotesi archeologica su cui lavorare è quella della definizione di contesti
insediativi omogenei da scavare o da conservare integralmente, una volta che siano stati inseriti
nella sequenza stratigrafica. Sul piano urbanistico potremmo pensare – parallelamente – ad una
scelta che privilegi il mantenimento delle forme compiute, comprensibili e reinseribili nel contesto
urbano.
Questa ottica potrebbe anche tradursi in una scelta editoriale che preveda – contro la tradizionale
pubblicazione dei saggi archeologici (grandi o piccoli che siano) – l’edizione dei successivi contesti
urbani riconosciuti e definiti nel corso dello scavo. Una profonda sezione verticale, particolarmente
significativa, potrà essere “congelata” nel terreno a testimonianza scientifica e didattica eccezionale
della stratificazione storica. Analogamente l’edizione finale dello scavo potrà reinserire i contesti, già
analiticamente presentati, in una sintesi storica diacronica. [13]
2. La problematica storico-archeologica

2. 1 La stratificazione archeologica: i problemi storico-topografici

2.1.1 La identificazione sicura del monumento romano che sorgeva là dove la tradizione
erudita localizzava il Circo Flaminio ha sconvolto la ricostruzione della topografia antica del Campo
Marzio meridionale ed ha favorito una nuova stagione di studi, che non si è ancora esaurita
(bibliografia in GATTI 1979, p. 240, nota 7). Lo scavo intrapreso nell’area della Crypta Balbi ha
dunque – nelle prospettive della ricerca archeologica classica – un suo obiettivo preciso: la
conoscenza del monumento augusteo e delle forme del suo inserimento nella topografia urbana e
l’intenzione di contribuire – attraverso lo scavo di questo monumento – alla discussione sulla
natura e funzione dei criptoportici, per la quale occorrono nuovi dati archeologici, non solo
monumentali ma stratigrafici, da confrontare con quelli ampiamente esaminati in un convegno di
recente data (Cryptoportiques 1973).
Ma se l’obiettivo di ogni scavo archeologico deve sempre rifuggire da impostazioni di ricerca
monotematiche (CARANDINI 1981, p. 36), tanto più insensata sarebbe una simile impostazione in
uno scavo urbano di tale estensione e complessità. La stratificazione più che bimillenaria creatasi su
di un sito che non ha cessato mai di far parte della città abitata impone non solo di escludere ogni
gerarchia negli obiettivi della indagine archeologica, ma di ascoltare con la massima attenzione quelle
domande che solo la pratica dello scavo pone quotidianamente in evidenza e che possono ampliare e
modificare gli interrogativi e le curiosità scientifiche che l’archeologo-storico si pone al momento di
avviare la ricerca. Un tentativo di ricostruzione a priori della stratificazione presunta è quindi
complesso, e certamente parziale; ma è certamente utile prospettare in anticipo, nella
consapevolezza della loro duttilità, almeno i maggiori problemi di natura storico-topografica che lo
scavo propone.
Due documenti cartografici eccezionali sigillano la stratificazione secolare avvenuta nella zona:
il frammento della Forma Urbis severiana che conserva parte della Crypta Balbi e del quartiere
circostante ed il foglio del rione S. Angelo del Catasto Pio-Gregoriano, primo catasto urbano
moderno della città (App. figg. 6 e 44). Le due piante sono perfettamente sovrapponibili:
paradossalmente, la Pianta marmorea incisa ci offre, nella parte superstite, una conservazione di
dettagli, se non superiore, pari a quella della splendida cartografia catastale della Roma pontificia. Del
monumento augusteo, come delle fabbriche cinquecentesche rilevate nel Catasto Pio-Gregoriano,
non restano oggi che imponenti rovine ed una massa di documentazione scritta (fonti letterarie,
fonti archivistiche) e iconografica (fonti cartografiche, vedute, stampe) che consente allo storico
di riassumere gli eventi e di ricostruire le grandi fasi dell’insediamento, ma non di valutare le
selezioni avvenute nel sistema di fonti che oggi è a nostra disposizione. Questo compito spetta
all’indagine archeologica stratigrafica.

2.1.2 Ci sembra di poter distinguere al momento sei grandi fasi di occupazione urbana del
sito: [14]
1) la fase di età repubblicana, precedente alla costruzione del monumento di Balbo;
2) la fase di età imperiale, che ha inizio con l’erezione del Teatro e della Crypta di
Balbo (13 a.C.) e fine con l’abbandono di quelle strutture e l’inizio della loro rovina
(V secolo d.C.?);
3) la fase di età alto-medioevale, che vede la trasformazione del monumento e
dell’ambiente in cui esso è inserito, sino alla comparsa di una nuova struttura
(Castrum aureum) e di nuovi edifici (chiese) nel suo ambito (X secolo);
4) la fase di vita del complesso castrum-chiese-monastero e la ricomposizione intorno e
dentro di esso del tessuto urbano abitativo (case, torri) e produttivo (botteghe) sino
al XVI secolo;
5) la fase di grande ristrutturazione urbanistica che investe tutta l’area e che vede la
demolizione delle strutture antiche medioevali superstiti, insieme con la
cancellazione degli aspetti medioevali dalla iconografia urbana del quartiere,
concomitante con l’erezione dei diversi palazzi della famiglia Mattei e del grande
complesso del Conservatorio e della Chiesa di S. Caterina dei Funari, destinato ad una
vita plurisecolare (XVI-XX secolo);
6) la fase della demolizione delle strutture del Conservatorio e del loro distacco dalla
Chiesa di S. Caterina, con il conseguente pluridecennale abbandono dell’area.
Evidenziamo qui di seguito alcuni dei problemi di natura storica e topografica che guidano la
programmazione della ricerca archeologica.

2.1.3 Prima fase.

2.1.3.1 È ipotesi diffusa e plausibile che gli edifici di Balbo sorgessero su terreni se non
appartenenti, già un tempo appartenuti alla Villa Publica (COARELLI 1968b, pp. 367-369;
WISEMAN 1974, p. 19; COARELLI 1981, pp. 32-34). Due noti passi di Varrone (RR, III, 2, 1; III,
17, 10) situano l’estensione della villa nell’area compresa tra il Campidoglio e il Diribitorium (App.
fig. 4): è problematica – e al momento impossibile – una definizione più esatta dei limiti del terreno
occupato dalla villa, che dovettero andare sicuramente restringendosi nel corso del tempo. Se è
verisimile che la Porticus Minucia frumentaria sorgesse, in età claudia, in parte a spese del suolo
della Villa Publica (COARELLI 1981, pp. 34 ss., 46), la situazione urbanistica dei terreni che si
stendevano verso meridione appare più incerta: abbiamo infatti motivo di credere che le nuove
fabbriche di Balbo andassero a modificare un tessuto urbano più articolato e in parte almeno già
edificato.
Un passo di Orosio (5, 18, 27) ricorda la vendita di suolo pubblico, posseduto dai collegi
sacerdotali intorno al Campidoglio, al tempo della guerra sociale: cum penitus exhaustum esset
aerarium [...] l o ca publica, quae in circuitu Capitoli pontificibus, auguribus, decemviris et
faminibus in possessionem tradita erant, cogente inopia vendita sunt (CASTAGNOLI 1947, p. 114).
Non possiamo identificare quei terreni, ma la notizia ci aiuta a supporre che l’area urbana circondante
il Campidoglio, e rivolta verso il Tevere e la pianura del Campo Marzio, e quindi anche il lotto
destinato alla costruzione della Crypta e del Teatro di Balbo, fossero in parte occupati da edifici
privati almeno dall’inizio del I secolo a. C. È superfluo ricordare che lo stesso Teatro di Marcello,
contemporaneo a quello di Balbo, verrà edificato da Augusto su terreni acquistati in gran parte da
privati: theatrum ad aedem Apollinis in solo magna ex parte a privatis empto feci (Res Gestae 21,
22 Malc.). [15] La Forma Urbis indica con estrema chiarezza una porzione del quartiere che in età
imperiale si stendeva immediatamente ad E della Crypta Balbi (fig. 4): la cronologia di questo
quartiere – ipoteticamente ritenuto di età imperiale – è problematica (COARELLI 1968b, p. 367).
Abbiamo buone ragioni per ritenere che l’epoca della sua formazione vada rialzata e che quelle
insula e siano da considerare precedenti all’intervento augusteo. Colpisce, infatti, ad un esame della
loro planimetria (GATTI 1979, fig. 10) la incongruenza della forma degli ambienti che dovrebbero
essersi addossati all’esedra di Balbo, che mal si addice all’ipotesi che li vorrebbe successivi al
monumento augusteo e, se non necessariamente orientati con esso, certo ad esso collegati più
razionalmente.
L’incongruenza appare ancora più evidente sul piano urbanistico, non solo per la morfologia
e l’orientamento delle insulae, ma per lo stesso disegno del tracciato stradale, che prevede nella
situazione documentata dalla Pianta marmorea due grandi vie cieche (anche se quella più
settentrionale poteva forse dare accesso al corridoio che immetteva nella Crypta). [16] In realtà tutto
assai meglio si spiega considerando l’intervento di Balbo come avvenuto su di un’area (almeno
in quella zona più orientale del monumento) completamente edificata, cui conducevano le due
strade convergenti testimoniate dalla Forma Urbis, resecate prima della loro confluenza, che
doveva situarsi approssimativamente al centro dell’area libera del monumento augusteo, in
prossimità dell’edificio ad esso eventualmente preesistente, di cui si ha ipotetica
testimonianza nel frammento 634.
Una possibile conferma di quanto abbiamo osservato deriva dalla conoscenza di strutture in
tufo, che ben si addicono ad una eventuale cronologia tardo-repubblicana, intraviste nell’ambito di
altre insulae circostanti, in particolare in quella identificata al di sotto del palazzo attuale sede della
Direzione del PCI in via delle Botteghe Oscure (GATTI 1979, fig. 10 q).
L’urbanizzazione dell’area sembra confermata anche dalla esistenza di un complesso e in
parte antico sistema di fognature, una delle quali percorre il tracciato poi ripreso dalla via delle
Botteghe Oscure, lungo il lato settentrionale della Crypta di Balbo (MARCHETTI LONGHI
1922, p. 761): il nuovo edificio, se successivo alla costruzione di questo collettore, potrebbe aver
trovato nella sua stessa esistenza un limite alla propria espansione.
2.1.3.2 Appare certo che il monumento augusteo fosse costeggiato a N da una strada,
ridotta a dimensioni di vicolo dalla costruzione del muro meridionale della Porticus Minucia
frumentaria. Questa strada, che fiancheggia più a O anche la Minucia vetus (COARELLI 1981, p. 12),
rispettata dagli edifici di età augustea e claudia, costituisce probabilmente un tracciato molto
antico. Se in età più remota questo tracciato attraversava verisimilmente l’area della Villa Publica,
nella tarda età repubblicana esso va probabilmente identificato con la prosecuzione verso occidente
e il Campo Marzio del Vicus Pallacinae, che le pochissime fonti di età romana e la toponomastica
medioevale situano nell’area compresa tra la chiesa di S. Marco, le Botteghe oscure e l’odierna
piazza del Gesù.
Il quartiere attraversato dal Vicus Pallacinae ( il cui tratto iniziale cade in una area la cui
topografia ci è tuttora in gran parte ignota e si può forse riconnettere con la Porticus extra Portam
Fontinalem che sin dal 193 a.C. conduceva ad Martis aram, qua in campum iter esset: LIV., XXXV,
10, 12) ospitava già nell’80 a.C. –due generazioni prima delle attività edilizie di Balbo –
taverne e bagni. Se non possiamo situare con precisione le balneae Pallacinae presso le quali, rediens a
cena, fu ucciso Sex. Roscius (CIC., pro Rosc. Amer., 18, cfr. anche 32; JORDAN 1867; PLATNER-
ASHBY 1929, pp. 381-382; WELIN 1949) dobbiamo però ritenere che quei bagni, e quindi
quel tratto di città, sorgessero non lontani da un’area che collochiamo approssimativamente tra
l’attuale piazza Venezia e i luoghi dove sorsero sotto Augusto e Claudio la Crypta Balbi e la
Porticus Minucia frumentaria.
Una tessera di piombo con l’indicazione PALLACIN (ROSTOWZEW 1903, p. 61, n.
500) – se riferibile alla gestione di quei bagni – costituisce una conferma del passo ciceroniano
(fig. 5). Se vogliamo invece considerarla, con il Rostowzew, una tessera frumentaria (contra VAN
BERCHEM 1939, p. 84 ss.) avremmo un’altra e più stringente testimonianza topografica, che,
mettendo in connessione il toponimo Pallacinae con la Porticus frumentaria, consentirebbe di
meglio definire la posizione del primo, immediatamente ad E dell’edificio claudio, là dove le
fonti medioevali collocano appunto la chiesa di S. Andrea in Pallacina (HUELSEN 1927, p. 189;
ARMELLINI-CECCHELLI 1942, 1, p. 563), mentre la basilica eretta da papa Marco nel 336, più
a oriente, è detta iuxta Pallacinis (HUELSEN 1927, p. 308; ARMELLINI-CECCHELLI 1942, p.
559 ss.). [17] Il toponimo Pallacin(ae) riprodotto sulla tessera frumentaria indicherebbe in tal caso
l’accesso orientale alla Minucia, opposto al grande porticato a pilastri con semicolonne che divideva
la Frumentaria dalla Vetus (COARELLI 1981).
Ci sembra, in sintesi, di poter concludere che tutta l’area ad E della Crypta Balbi come
della Minucia frumentaria risultava parzialmente edificata prima degli interventi di Augusto e di
Claudio. Le stesse aree dove sorgeranno l’uno accanto all’altro i due monumenti non dovevano
essere libere: l’area della Crypta probabilmente ancor meno di quella della Frumentaria. La
costruzione dei grandi edifici veniva dunque a restituire integralmente all’uso pubblico suoli che –
un tempo appartenuti in buona parte alla Villa Publica – avevano visto via via affermarsi le
proprietà dei privati, in concomitanza con la restrizione del parco che pur tuttavia, nell’età di
Varrone, continuava a mantenere una sua considerevole consistenza.

2.1.4 Seconda fase.

2.1.4.1 La costruzione del monumento di Balbo si inserisce nel quadro delle attività
urbanistiche promosse da Augusto e da Agrippa in quella zona del Campo Marzio e nelle aree
circostanti, dal Pantheon alle Terme di Agrippa, dalla Basilica Neptuni al Portico degli
Argonauti, dai Saepta al restauro del Teatro di Pompeo, alle grandi iniziative che coinvolgono
gli edifici adiacenti al Circo Flaminio (App. fig. 5). Le fonti letterarie sono assai avare per il
Teatro di Balbo e addirittura mute per la Crypta. Sappiamo tuttavia che il monumento fu costruito
nell’ambito del rinnovamento edilizio augusteo da parte di L. Cornelio Balbo, trionfatore nel
19 a.C. sui Garamanti (PLIN., NH, V, 36-37); che l’edificio fu inaugurato nel 13 a.C. nel corso di
una inondazione del Tevere; che la sua scena era adorna di colonne di onice; che l’edificio fu tra
quelli distrutti nell’80 d.C. dal grande incendio divampato nel Campo Marzio; che il Teatro e la
Crypta – che viene solo allora nominata per la prima ed unica volta – erano ancora esistenti nel IV
secolo (GATTI 1979, p. 241 ss.).
Elenchiamo qui di seguito le fonti a nostra disposizione:
SUET., Aug., 29: Sed et ceteros principes viros saepe hortatus est, ut pro facultate quisque
monumentis vel novis vel refectis et excultis, urbem adornarent. Multaque a multis extructa sunt: sic a
Marcio Philippo aedes Herculis Musarum, a L. Cornificio aedes Dianae, ab Asinio Pollione Atrium
Libertatis, a Munatio Planco aedes Saturni, a Cornelio Balbo theatrum, a Statilio Tauro
amphiteatrum, a M. vero Agrippa complura et egregia.
TAC., Ann., III, 72: Isdem diebus Lepidus ab Senatu petivit ut basilicam Pauli, Aemilia
monumenta, propria pecunia firmaret ornaretque. Erat tum in more publica munificentia; nec Augustus
arcuerat Taurum, Philippum, Balbum hostiles exuvias aut exundantis opes ornatum ad urbis et posterum
gloriam conferre.

CASS. DIO, LIV, 25, 2:

PLIN., NH, XXXVI, 60: Variatum in hoc lapide et postea est, namque pro miraculo insigni
quattuor modicas in theatro suo Cornelius Balbus posuit; nos ampliores XXX vidimus in cenatione, quam
Callistus Caesaris Claudi libertorum, potentia notus, sibi exaedificaverat.

CASS.DIO, LXVI, 24, 1-2:

AUSON., Lud. Septem Sap., II, 35-41: postquam potentes nec verentes sumptuum / nomen perenne
crediderunt, si semel / constructa moles saxeo fundamine / in omne tempus conderet ludis locum: / cuneata
crevit haec theatri inmanitas: / Pompeius hanc et Balbus et Caesar dedit / Octavianus concertantes sumptibus.
Curiosum Urbis Romae reg. XIIII (VALENTINI-ZUCCHETTI 1940-, p. 122): Regio
VIIII. Circus Flaminius. Continet [...] Minuciam_Veterem et Frumentariam. Cryptam Balbi. Theatra
III. In primis Balbi qui capet loca XI.DX [...]
Notitia Urbis Romae reg. XIIII (VALENTINI-ZUCCHETTI 1940-, p. 176): Regio VIIII.
Circus Flaminius. Continet [...] Minucias duas, Veterem et Frumentariam, Cryptam Balbi. Theatra
III. In primis Balbi qui capit loca XI.DX[...]
Descrizione interpolata (VALENTINI-ZUCCHETTI 1940-, p. 231): Regio IX. Circus
Flaminius. [...] Mimitia Vetus, Mimitia Frumentaria, Porticus Cn. Octavii, quae prima duplex fuit,
Cripta Balbi, Theatrum Balbi capit loca XXXLXXXVIII.
Si aggiunge a queste testimonianze letterarie l’unica altra documentazione epigrafica che,
insieme con il frammento della Pianta marmorea, ricorda il teatro di Balbo: si tratta di una
iscrizione funeraria, databile intorno al terzo quarto del I secolo d.C., proveniente da un sepolcro
recentemente rinvenuto sulla via Flaminia (App. fig. 20). L’epigrafe cita un corinthiarius de
theatro Balbi e dimostra che nell’area circostante al monumento augusteo fiorivano nella prima età
imperiale attività artigianali, anche di alto livello (PANCIERA 1975):
L. Aufidius Aprilis / c[or]inthiarius / [de thea]tro Balbi / [sibi] et / [...]ae Secundae / [...]ri
sanctissimae et / [Gar]giliae Sp.f. Venustae / M. Antoni M.f. Pap(iria) / Flacci liberti Felicis / uxori
piissimae et / M. Antonio Felici.
2.1.4.2 L’incendio ricordato da Cassio Dione (cfr. anche LUGLI 1952, pp. 58-61) fu
all’origine dei restauri domizianei che – come nella vicina Porticus Minucia vetus et frumentaria
(COZZA 1968, pp. 16-17; COARELLI 1968b, p. 373, nota 26; COARELLI 1981, pa ssi m) – si è
ritenuto di riconoscere nelle strutture della Crypta, sia nelle murature laterizie elevate a foderatura
delle nicchie lungo il muro settentrionale dell’edificio che nel grande muro diametrale, anch’esso in
laterizio, dell’esedra (GATTI 1979, p. 272 ss.).
Potrebbero appartenere all’intervento domizianeo i tre pilastri laterizi (gli altri tre sono
affiorati nel corso delle prime due campagne di scavo effettuate nell’autunno 1981 e nella
primavera 1982 (fig. 6) messi in luce dai sondaggi effettuati nell’area dell’esedra nel 1961 (GATTI
1979, p. 290, fig. 36). [19] Questo dato di fatto contrasta con la testimonianza della Forma Urbis,
che indica al loro posto sei colonne (App. fig. 6). Al momento attuale – non potendo ancora
stabilire né i livelli pavimentali dell’esedra né il piano cui si riferisce la sezione riportata nella
planimetria della Pianta marmorea – è prematuro fornire una spiegazione di tale incongruenza.
Possiamo considerare tuttavia tra le ipotesi possibili che l’indicazione delle colonne sia relativa ad una
fase pre-domizianea del monumento e che essa ci offra pertanto una ulteriore testimonianza di una
ipotetica più antica redazione (augustea? flavia?) della Forma Urbis, non aggiornata all’atto della
elaborazione della planimetria severiana, di cui non mancano altri possibili indizi anche nell’area della
vicina Porticus Minucia Vetus (CRESSEDI 1949/50). Occorre tenere presente, d’altronde, che la
cronologia dei pilastri è ancora assai incerta e che le indagini in corso stanno dimostrando una
possibile cronologia tarda delle strutture in laterizio, alla luce della quale andrà anche valutato il
rapporto tra colonne e pilastri sinora irrisolto.

2.1.4.3 Il riconoscimento della appartenenza al complesso della Crypta Balbi del piccolo
frammento 634 della Forma Urbis (GATTI 1979, p. 244, fig. 2; cfr. RODRIGUEZ ALMEIDA
1981, p. 111, tav. XXII, frammento 30c) solleva un importante interrogativo sulla natura
dell’edificio che vi è rappresentato, del quale sopravvive solo l’indicazione dell’angolo sud-
orientale. La cautela espressa dal Gatti (tempio, edicola, fontana?: GATTI 1979, p. 288) è
d’obbligo, considerato lo stato della documentazione. L’ipotesi del tempio (COZZA 1968, p. 20;
COARELLI 1973, p. 266) è certamente suggestiva, sia per la frequente connessione dei santuari con i
criptoportici pubblici, sia per gli immediati paralleli che i grandi porticati presenti in questa parte
del Campo Marzio propongono. Sia Fausto Zevi che, più esplicitamente, Filippo Coarelli (ZEVI
1976, p. 1059; COARELLI 1980, p. 288) avanzano l’ipotesi del tempio di Vulcano, uno dei pochi
santuari in Circo Flaminio e verisimilmente assai prossimi al Campo Marzio (CASTAGNOLI 1947,
p. 161 ss.) per i quali manchi ancora – in un’area dalla topografia ormai ben conosciuta –una proposta
di localizzazione soddisfacente. La provenienza dal Palazzo Mattei di una iscrizione con dedica a
Vulcano, di età traianea (CIL, VI, 798), dà evidentemente credito a questa ipotesi (App. fig. 19). [20]
In attesa dei risultati dello scavo è possibile, sulla base della ricostruzione planimetrica in scala
1:1000 redatta dal Gatti (GATTI 1979, p. 260, fig. 10), avanzare alcune supposizioni che potranno
essere di guida nell’indagine (fig. 7). L’angolo superstite del frammento della Forma Urbis appare
evidentemente centrato nell’area della Crypta Balbi: lo stesso non accade, ad esempio, nel rapporto
tra il presunto tempio delle Ninfe e la Porticus Minucia frumentaria, che venne eretta
successivamente al tempio, anche se con il suo stesso orientamento, che è comune, d’altronde, a
tutti gli edifici di questo settore del Campo Marzio (COZZA 1968, p. 10, fig. 2; COARELLI 1981,
tav. XXVI). Nel caso dell’edificio interno alla Crypta Balbi notiamo invece una perfetta
corrispondenza delle misure (per quanto consente la base planimetrica, in parte ricostruibile ed in
parte ipotetica), che ci permette di tentare una definizione delle dimensioni dell’edificio basata su di
una sua eventuale equidistanza dalle strutture perimetrali della Crypta. Il lato S dell’edificio dista
infatti circa 40 metri (135 piedi) dal muro che limita la Crypta verso S e circa 26.5 metri (90 piedi)
dall’allineamento interno del criptoportico; se ribaltiamo queste misure sul lato N otteniamo la
possibile larghezza dell’edificio, cioè quasi 12 metri (40 piedi). Analogo procedimento possiamo
svolgere nei confronti del muro perimetrale E (muro diametrale dell’esedra), dal quale il muro E
dell’edificio centrale disterebbe qualcosa più di 26 metri (90 piedi), e dell’allineamento interno del
criptoportico, la cui distanza sarebbe di poco più di 13 metri (45 piedi).
Il calcolo del limite O dell’edificio è più complesso, poiché mancano riferimenti monumentali:
se assumiamo il limite della frons scaenae ipotizzato dal Gatti e calcoliamo 90 piedi verso E
otteniamo una soluzione interessante. Il limite occidentale dell’edificio verrebbe infatti a coincidere
approssimativamente con l’allineamento dell’odierna via Caetani, il che farebbe supporre che il
tracciato della via, ampliata nel XVI secolo (PROIA-ROMANO 1935, p. 18; GNOLI 1939, p. 117),
corresse effettivamente tra le strutture del retro della scena del teatro (realisticamente ipotizzate dal
Gatti in allineamento con il Palazzo Mattei-Caetani) e le strutture di un secondo monumento sul lato
orientale. [21] Questo monumento dimostra d’altronde di occupare il sito in cui l’unica pianta che
ce ne dà testimonianza colloca apparentemente l’antica chiesa medioevale di S. Maria Dominae
Rosae (BUFALINI 1551 in FRUTAZ 1962, tav. 202) che sarebbe sorta appunto sulle strutture
dell’edificio preesistente (App. fig. 32).
È degno di nota che l’edificio cosí ricostruito verrebbe ad avere una lunghezza di circa 35.50
metri, pari a 120 piedi, cioè esattamente ad un actus: una concordanza degna della massima
attenzione. Il limite O proposto dal Gatti è del tutto ipotetico; la lunghezza dell’edificio
centrale risultante da queste osservazioni sembra però confortata da altre due considerazioni: 1)
l’area interna della Crypta non doveva presentare molto spazio libero nel settore O, come dimostra
la didascalia THEATRVM BALBI collocata nell’estremo margine E del complesso Teatro-Crypta;
2) l’esedra esistente sul lato E non è costituita da un semicerchio completo: il suo diametro, pari a
circa 24 metri (GATTI 1979, p. 292), indica che il centro dell’esedra va situato a O del muro
diametrale (che è dunque una corda) e che il cerchio così costruito è perfettamente tangente
all’allineamento interno del criptoportico; l’ipotetico limite O dell’edificio centrale risulta distante
dall’esedra esattamente la somma di tre diametri.
I moduli così riconoscibili in pianta inducono a ritenere o che l’intero complesso di Balbo
(Crypta e Teatro) sia stato edificato avendo come punto di riferimento la struttura (templare?)
preesistente, oppure che la costruzione dell’edificio centrale sia stata contestuale a quella del
complesso, con cui perfettamente si accorda: e in tal caso l’ipotesi di una fontana o di analogo edificio
appare evidentemente preferibile.
La larghezza presunta dell’edificio centrale (circa 12 metri) ben si addice alla fronte di un
tempietto tetrastilo, quale potrebbe essere stato il tempio di Vulcano, esistente già nel III secolo a.C.
(LIV., XXIV, 10, 9; PLATNER-ASHBY 1929, p. 584) se in quello va riconosciuta la raffigurazione che
compare, alla metà del III secolo d.C., su monete di Valeriano e Gallieno (DAREMBERG SAGLIO
1877-, V, p. 1002, fig. 7579 [L. Constans]; cfr., ad esempio, l’esemplare in ROBERTSON 1978, p. 8,
nn. 56-57, tav. 3). Ma con questa larghezza non sembra concordare la eventuale lunghezza dell’edificio
ipoteticamente ricostruita. Dovremmo in tal caso presupporre un altro edificio, o area, annessi al
tempio.
2.1.4.4 I Cataloghi Regionari attestano, intorno alla metà del IV secolo, la Crypta ed il Teatro
di Balbo: è pertanto verisimile che i due edifici fossero a quel tempo ancora in funzione (App. fig.
26). La topografia della zona non sembra mutare considerevolmente nella tarda antichità, ma le
funzioni degli edifici dimostrano invece una certa evoluzione. Siamo meglio informati sotto questo
profilo su quanto accade nell’adiacente Porticus Minucia. Alla Frumentaria va forse attribuita una
iscrizione (CIL, VI, 816) relativa al restauro di una schola da parte dei viatores quaestorii nel 238
d.C.: l’unico testimone, nel XVI secolo, la segnala alle Botteghe Oscure. La connessione tra questa
categoria di apparitores e le frumentazioni non appare evidente, a meno che non si debba scorgere
in questa presenza estranea un primo indizio di quella trasformazione dell’edificio in sede per ludi che
solo ad un secolo di distanza il Calendario Filocaliano attesta nel 354 (DEGRASSI 1963, p. 249): ma
la Minucia viene usata per la sua funzione originaria sino all’età costantiniana (CHASTAGNOL 1960,
pp. 56-57; COARELLI 1981, p. 44, nota 4). [22] Tracce di interventi tardo-antichi nell’area della
Minucia Frumentaria sono state viste nel secolo scorso (COZZA 1968, p. 17, nota 15), a
testimonianza di una vitalità dell’edificio, che due iscrizioni (fig. 8) provenienti dalla zona ci
consentono di documentare nel corso del V secolo (CIL, VI, 1676: riproduzione dell’apografo
del Pighius in LANCIANI 1897, p. 454, fig. 177 e in MARCHETTI LONGHI 1922, p. 657,
fig. 9, e dell’apografo dello Smetius infra, App. fig. 27; IGVR, 69). Sappiamo infatti che fra il
421 e il 423 Anicius Acilius Glabrio Faustus, praefectus Urbi, restaurò una costruzione fatali casu
subversam (che con buoni argomenti Margherita Guarducci ha ritenuto di poter identificare con la
stessa schola nota nel III secolo) e che in quegli stessi anni dette vita nella stessa area ad un albergo,
forse lo Xenodochium Aniciorum che conosciamo al tempo di Gregorio Magno (GREG., Epist., IX,
8 del 598 d.C.; GUARDUCCI 1949/50, p. 63, nota 2; 1954; 1969/70; COARELLI 1965/67, p. 47
ss.) (App. fig. 28). Alla metà del secolo altri restauri sono attestati nell’ambito della Minucia
dall’epistilio che reca l’iscrizione di Synesius Gennadius Paulus praefectus urbi (Area Sacra 1981, pp.
116-117, n. 29, tav. XLII).
Nulla possiamo invece attribuire alla Crypta di Balbo. Se il restauro della presunta schola è
stato posto in relazione con il terremoto che colpì Roma nel 408 (GUARDUCCI 1969/70, p.
228 ss.; COARELLI 1981, pp. 25 e 48), il restauro testimoniato dall’iscrizione di Synesius
Gennadius Paulus può forse essere collegato con i terremoti che nuovamente investirono la
città nel 423 e nel 447. Nella lacuna totale di notizie ci sembra possibile che negli anni che videro i
ripetuti disastri naturali e le devastazioni causate dal sacco di Alarico (410) e poi da quello dei
Vandali (455) vada individuato il periodo in cui il complesso di Balbo cadde in rovina
definitiva (LUGLI 1952, p. 67 ss.). Non abbiamo nessun motivo di credere infatti che i restauri
effettuati tra il 507 e il 511 da Teoderico al Teatro di Pompeo (CASSIOD., Variar., 1V, 51;
PLATNER-ASHBY 1929, p. 517) potessero avere interessato anche gli altri due teatri di Roma,
ormai abbandonati.

2.1.5 Terza fase

2.1.5.1 La fine del monumento antico non significa certamente l’abbandono dell’area, che
continuò sempre a far parte dell’abitato, anche quando la restrizione della parte urbanizzata della
città medioevale toccò il suo culmine (KRAUTHEIMER 1980, p. 245, fig. 193a), e ad esser lambita
dalle arterie principali che collegavano il Vaticano al Campidoglio e al Laterano (LANCIANI
1891; KRAUTHEIMER 1980, p. 237 ss., in part. p. 248). [23]
Il lastrone che reca inciso l’alfabeto e la copia della iscrizione onoraria dell’arco di Tito
(CIL, VI, 29849a), rinvenuto nel secolo scorso in via delle Botteghe Oscure, testimonia la
vocazione antica dell’area ad ospitare attività artigianali, in questo caso botteghe di lapicidi e
scalpellini (App. fig. 29).
La paleografia delle lettere e la premessa della croce a capo del testo ne hanno consigliato
una datazione tra la fine del V ed il VI secolo (DE ROSSI 1880, pp. 137-138; cfr. Area Sacra
1981, p. 160). Lo scavo potrà forse dire se già da quel tempo l’antico edificio fosse andato
lentamente trasformandosi in luogo destinato ad attività produttive; l’odierna via delle Botteghe
Oscure insiste tutta all’interno dell’area già occupata dalla Porticus Minucia Frumentaria, dove
preferibilmente dovremmo immaginare il sorgere della apothecae medioevali. È comunque
verisimile che anche le strutture relative al monumento augusteo offrissero, specie nei criptoportici
semi-interrati, ambienti adatti all’installazione di nuove attività.

2.1.5.2 Il volto della zona dovette andar ulteriormente mutando per il susseguirsi delle
disastrose inondazioni tiberine (App. fig. 30), che raggiungevano facilmente quest’area
pianeggiante sia dalla sponda a monte dell’isola Tiberina che, in particolare, rompendo
all’altezza di Ponte Milvio e percorrendo la città attraverso il tracciato rettilineo della via Lata
(D’ONOFRIO 1980, p. 302 ss.). Le fonti ricordano numerose inondazioni in questo periodo,
tra cui quelle degli anni 589, 685, 716, 725, 778, 792, 847, 856, 860 (CAPOGROSSI
GUARNA 1871, pp. 261-264; DI MARTINO-BELATI 1980, p. 35 ss.). Quelle dell’VIII e
IX secolo, testimoniate con descrizioni stereotipe ma efficaci dal Liber Pontificalis (DUCHESNE
1886-, p. 411, nota 14), furono certamente di portata eccezionale ed interessarono senza dubbio
anche l’area che ci riguarda. Delle grandi alluvioni dell’856 e dell’860 conosciamo bene il
percorso (LANCIANI 1971, pp. 133-134; HOMO 1956, pp. 64-65). II fiume, entrato nel
rettifilo della via Lata, attraversò la città fino all’odierna piazza Venezia: «...exinde regammans
ingressus est per porticum qui est positus ante ecclesiam santi Marci [...] inde impetum faciens caepit
decorrere in cloaca quae est iuxta monasterium santi Silvestri et santi Laurentii martyris qui vocatur
Pallacini[...]» (DUCHESNE 1886-, II, p. 145, cfr. anche pp. 153-154). L’antico vicus Pallacinae
costituiva quindi la via di sfogo per le acque in piena, che le riconduceva nell’alveo più a valle.
Alle macerie non rimosse dei terremoti e degli incendi ed agli accumuli delle
inondazioni ripetute dobbiamo pertanto attribuire il primo considerevole rialzamento del livello
della zona, con la conseguente obliterazione dei piani stradali e dei pavimenti antichi.

2.1.5.3 Possiamo supporre che a partire dal V secolo si sia verificato un lento processo di
smembramento del contesto monumentale antico, collegato al declino della funzione originaria
del complesso di Balbo. Nel X secolo, tuttavia, con la testimonianza dell’esistenza negli stessi
luoghi del Castellum aureum abbiamo indizio della ricostituzione di un nuovo contesto unitario,
sorto sulle rovine delle antiche murature e sugli accumuli che all’interno del perimetro erano
andati innalzando i livelli originari.
È problema topografico centrale la definizione dell’area effettivamente occupata dal
Castrum aureum. Se è evidente che il fortilizio si era insediato solo sulla parte occidentale del
presunto Circo Flaminio (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 667 ss.), non è altrettanto palese se
l’edificio sorgesse su tutta l’area del monumento di Balbo o solamente sul luogo dell’antico
teatro. [24] La prima ipotesi – che sembra in linea teorica preferibile – è connessa con il
problema della localizzazione delle chiese che fin da età remota erano andate sorgendo sull’area o
nelle sue immediate vicinanze.
La bolla di Celestino III che nel 1192 per prima ci dà testimonianza del Castellum aureum
(SCHIAPARELLI 1902, pp. 3-4-5 ss.; MARCHETTI LONGHI 1922, loc. cit.) cita le chiese di
S. Maria Dominae Rosae e del Beato Lorenzo «que posite sunt in Castello aureo» (App. fig.
31). Se la localizzazione della chiesa di S. Lorenzo in Castro aureo è assolutamente incerta – e
connessa a quella delle omonime chiese «in Pallacinis» e «in Pensilis» (LANCIANI 1891, p.
550; MARCHETTI LONGHI 1922, p. 670 ss.) – per S. Maria abbiamo qualche indicazione utile:
la pianta di Roma del Bufalini (1551) ne dà infatti la posizione e il disegno, a tre navate e con
la facciata rivolta verso occidente (App. fig. 32).
Pur nella incerta definizione topografica degli isolati delineati dal Bufalini, sembra evidente
che la chiesa sorgeva ad E della strada (futura via di S. Caterina dei Funari, odierna via Caetani) che
attraversava in senso N S il complesso antico, e che di li a poco sarebbe stata nuovamente ampliata
(GNOLI 1939, p. 117), ma che certo segnava un tracciato più antico, risalente all’età medioevale
(MARCHETTI LONGHI 1919, p. 424) ed aperto verisimilmente a ridosso del muro della
scena del teatro di Balbo.
La testimonianza del Bufalini lascerebbe presumere pertanto che la denominazione
Castellum aureum riguardasse l’intero complesso Teatro-Crypta, e che quindi le grandi mura
perimetrali in opera quadrata del criptoportico augusteo, non meno delle alte mura circolari del
teatro, avessero costituito la cinta del nuovo fortilizio medioevale, delimitando all’interno
probabilmente un’area più edificata (teatro) ed una più libera (crypta), occupata da orti e, in
seguito, dalle fondazioni ecclesiastiche ricordate dalla bolla di Celestino III.
L’ipotetica identificazione dell’area del monumento antico con quella del fortilizio
medioevale comporta evidentemente l’esclusione dalla zona in Castro aureo della chiesa di S.
Salvatore in Pensilis (odierna S. Stanislao dei Polacchi (App. figg. 33 e 40)), nota dai documenti
a partire dal 1174 (HUELSEN 1927, p. 449; ARMELLINI-CECCHELLI 1942, pp. 696, 1198,
1452-1453; MARCHETTI LONGHI 1922, p. 671, nota 3), e quindi, forse, anche di quella di S.
Lorenzo in Pensilis: la chiesa di S. Stanislao sorge infatti immediatamente ad E del perimetro del
monumento antico.
Alla luce di queste considerazioni rimane assai incerta la possibilità di identificazione con
una delle chiese medioevali ricordate nella zona, e forse proprio con quella di S. Lorenzo in
Pensilis, delle strutture laterizie, riferibili probabilmente al XII secolo, venute parzialmente in
luce nell’area dell’esedra romana (cfr. fig. 6) – all’interno quindi del presunto Castrum aureum –
nel corso dei sondaggi del 1961 (GARN 1979, p. 292). Appare isolata anche l’opinione del
Grimaldi di identificare nel S. Lorenzo in Palatinis la chiesa, opposta ai Palazzi dei Mattei, demolita nel
XVI secolo in occasione della costruzione del nuovo Conservatorio di S. Caterina dei Funari
(MARTINELLI 1668, pp. 364-365; MARCHETTI LONGHI 1922, p. 670, nota 2). Se l’ipotesi
del Grimaldi – non suffragata da testimonianze – dovesse cogliere nel vero, la chiesa delineata dal
Bufalini andrebbe più verisimilmente identificata con quella di S. Lorenzo in Castro aureo che non con
quella di S. Maria, anche se appare probabile che i due edifici sorgessero tanto vicini da costituire quasi
una sola unità (MARCHETTI LONGHI 1922, loc. cit.). [25]

21.6 Quarta fase

2.1.6.1 Nel corso del basso Medioevo e del primo Rinascimento il contesto unitario del
Castellum aureum, con i suoi orti e le sue chiese, subisce un nuovo processo di disarticolazione: i
possedimenti pertinenti alla chiesa di S. Maria ed all’annesso Monastero vengono a trovarsi al
centro di una serie di abitazioni e di luoghi di produzione che ne erodono col tempo la primitiva
estensione. Sembra questo – fra XIV e XVI secolo – il periodo di massima disgregazione
dell’insediamento antico (App. fig. 34). Le fonti archivistiche, già vagliate in buona misura dal
Marchetti Longhi (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 685 ss.) ci aiutano ad evidenziare alcuni dati
toponomastica, topografici ed architettonici che l’indagine archeologica potrà eventualmente
verificare, ma che devono essere tenuti in considerazione sin dal momento della progettazione
dello scavo.

2.1.6.2 I cataloghi delle chiese romane di Torino e Parigi testimoniano nel XIII
secolo rispettivamente la chiesa di Sancta Maria de Rosa e la chiesa di Sancta Maria
dompnae Rosae che «habet primicerium et V canonicos» (VALENTINI-ZUCCHETTI 1940,
III, p. 273, 15, p. 439, 13). Un primicerio della schola cantorum «in ecclesia dopnae Rosae de
Urbe» è ricordato anche nel XIV secolo (ARMELLINI-CECCHELLI 1942, II, p. 695).
A partire dalla seconda metà di questo secolo si infittisce sensibilmente la quantità e la
qualità dei documenti disponibili. Citiamo i più interessanti.
1363 – ricordo di un porticalis S. Marie Domane Rose (MARCHETTI LONGHI 1922, p.
716, nota 2);
– gli orti ecclesie S Marte Domane Rose si stendono a tergo delle case di due
sorelle, Simonetta e Lucarella (ibid., p. 691, nota 1);
1372 – ricordo della casa Antonia Bellihominis (ibid., p. 699, nota 1);
1376 – le mena ecclesie S. Marie Dompne Rose sorgono su di un lato della Penna (o
Penda) dei Malabranca (ibid., p. 735; MARCHETTI LONGHI 1919, pp. 507-509);
1380 – mutuo tra il Capitolo di S. Maria Dominae Rosae e due fratelli funari, Cola e
Gianni di Domenico, per la messa in opera e la fornitura di funi per la nuova campana: oggetto
del mutuo è quendam ortum seu unum petium orti ipse ecclesie[...] situm retro pariete tribune ditta
ecclesie [...] ubi est puteum; vengono anche ricordate le parietes orti et domorum di Antonio
Bellomo, la domus habitationis dei Funari e gli orti di altri proprietari vicini, tra cui l’ortus ditte
ecclesie, quem nunc tenet Petrus Saragona (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 692, nota 1);
1383 – la casa di Iacobus Pandolfucii sorge su di un lato e dietro al reclaustrum ecclesie S.
Marie Domane Rose (ibid., p. 696, nota 1);
1388 – ricordo di case che confinano a tergo con i possedimenti di Ioh. Saragona e
Paulus de Fatte (ibid., p. 697, nota 1);
1392 – vendita di una casa che confina con i possedimenti di Antonio Bellomo da un
lato e di Vanna Funarius dall’altro, ed ha a tergo gli ortus ecclesie S. Marie Domane Rose (ibid., p.
693, nota 4);
1393 – gli stessi orti sono definiti qui fuerunt ecclesie S. Marie Domane Rose (ibid);
1394 – ratifica della vendita de quodam orticello, seu de quodam petio ortus siti in
proprietate della chiesa di S. Maria Dominae Rosae, compreso fra le proprietà di Antonius
Bellihominis e Vanna Funarius (ibid., p. 694, nota 1); [26]
1395 – controversia tra la parrocchia di S. Valentino e la chiesa Sancte Marie de Rosa
Sancti Laurentii, posita intra Castellum Aureum (MARCHETTI LONGHI 1919, p. 503, nota
1);
1417 – vendita di una casa confinante su di un lato con le res ecclesie S Marie Domine Rose
e sull’altro con l’arcus in quo est depicta imago gloriose Virginis Marie (MARCHETTI LONGHI
1922, p. 696, nota 2);
1420 – vendita di una casa confinante per un lato con l’ortus heredum quondam Laurentii
de Saragonibus (ibid., p. 697, nota 3);
1444 – Flavio Biondo attesta l’esistenza delle rovine del teatro di Balbo:[...] nam ea in
ruinarum et quidem ingentium parte ad quam monasterium nunc est Rosae dictum exteriori muri
pinna in girum arcuata quandam theatri speciem exhibet (MARCHETTI LONGHI 1922, p.
626, nota 3);
1455 – ricordo di una casa compresa tra due proprietà dei Funarii (MARCHETTI
LONGHI 1922, p. 694, nota 3);
1473 – ricordo della ecclesia et monasterium domine Rose nonché della platea monasterii
dompne Rose (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 719, nota 6);
1482 – ricordo di unum ortum sive reclaustrum, cum tiratoriis actis ad tirandos pannos
posto dinnanzi alla platea que vocatur la preta de monastero della Rosa (MARCHETTI LONGHI
1922, p. 690, nota 1);
1483 – bolla di papa Sisto IV menzionante una perpetua capellania ad altare Corporis
Christi situm in ecclesia Sancti Saturnini, monasterio de la Rosa nuncupata, fondata e dotata da
Antonio Funari e conferita al sacerdote Girolamo Saragoni (MONTENOVESI 1942);
1492 – Monast(erium) et aedes S Saturnini cog(nomen)to Rosae sono ricordati in un
Catalogo delle chiese di Roma (HUELSEN 1927, p. 77, n. 227);
1493 – donazione di una casa confinante per un lato con le res capelle corporis Jeshu
Christi site in ecclesia S. Saturnini (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 716, nota 3);
1494 – vendita di una casa presso i filatoria e prope plateam (scii. della chiesa di S. Maria
Dominae Rosae) (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 719, nota 6);
1495 – concessione in enfiteusi in favore di Domenico di Matteo Ludovico de
Mattheis della parrocchialis ecclesia B. Marie della Rosa [...] dilapsa [...] et ruino
sa[…]et domorum prope ipsam positarum et eidem coniunctarum, con menzione di hortus e
puteum (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 721, nota 1);
1498 – ricordo del locum ubi est depicta gloriosissime Virginis Marie Ymago ad
monasterium Rose (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 702, nota 2);
1500 – ricordo di un cappellanus ecclesie S Saturnini de lo monasterio de la Rosa (ibid., p.
716, nota 3);
1503 – ricordo della aedes divi Saturnini in regione S Angeli (ibid.);
1516 – affitto in favore di Ant. Sasoldino calcharario di, tottum territorium, locchum
sive claustrum volgariter appellatum li tiratori iuxta monasterium de la Rosa[...] in quo locho
et territorio in presenti tempore sunt tiratorie pannorum (ibid., p. 690, nota 1);
1526 –Andrea Fulvio ricorda alcuni segnali di sedili antichi ritenuti del Circo Flaminio,
del quale ancora hoggi apparisce la forma, ed in mezzo a cui hoggi è la chiesa di S Caterina, ove
si fanno le funi, e prima si chiamava il Monasterio di Santa Rosa, cioè Castel d’oro
(MARCHETTI LONGHI 1922, p. 737);
1534 – Il Marliano riferisce l’opinione di Pomponio Leto circa l’identificazione del
Circo Flaminio, cuius vestigia quibusdam in locis adhuc extant apud apothecas obscuras, in cuius
medio nunc aedes S Caterinae sita est et funes torquentur (ibid., p. 663, nota l); [27]
1548 – a proposito del Circo Flaminio Lucio Fauno afferma che in eius autem medio D.
Catherinae est fanum, quo loco nostra aetate funes fiebant, aliquando Rosae monasterium [...]
(LUCIO FAUNO 1548, p. 113);
1551 – La pianta di Roma del Bufalini indica una chiesa a tre navate, rivolta verso
occidente, denominata S. Caterina de monasterio (FRUTAZ 1962,tav. 202).

2.1.6.3 Questa selezione di notizie indica che nell’arco di un paio di secoli la situazione
topografica della zona andò evolvendo notevolmente, da un lato per l’espansione delle proprietà dei
privati nei confronti dei possedimenti della chiesa di S. Maria (1393: orti qui fuerunt ecclesie etc.),
dall’altro per i mutamenti che intervennero nella stessa configurazione ed identità della chiesa, la cui
denominazione varia nelle diverse epoche.
A partire dalla metà del XIV secolo un buon numero di documenti ricorda mena e tribuna
di S. Maria, un porticalis e un reclaustrum; ritorna spesso la menzione di orti ed anche di un pozzo,
o, più genericamente, delle res ecclesie. Dopo la metà del XV secolo abbiamo ancora ricordo della
ecclesia domine Rose (1473) e della sua platea, su cui si affacciava probabilmente il portico, ma è
ormai più frequente la menzione del solo monasterium. Tra la fine del XV e l’inizio del XVI
appare prevalente la denominazione di ecclesia Sancti Saturnini, monasterio de la Rosa
nuncupata, ed è fatta speciale menzione di una cappella del Corpo di Cristo, mentre la parrocchialis
ecclesia B. Marie della Rosa è detta dilapsa et ruinosa (1495). La denominazione di chiesa di S.
Caterina compare con qualche decennio di anticipo sulla dedica della nuova chiesa di S. Caterina dei
Funari (1564: GIOVANNONI 1912) ed è certamente da riferire all’edificio precedente, poiché più
di un testimone e la stessa pianta del Bufalini associano la nuova denominazione alla posizione
dell’antica chiesa. Ne fa fede d’altronde una bolla di Pio V che nel 1570, ricordando le reliquie
conservate nella nuova chiesa di S. Caterina (fra cui quelle di S. Saturnino), fa menzione della
precedente ecclesia B. Catherine de Funaris, alias de Rosa de Urbe, ormai completamente
demolita (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 716, nota 1).

2.1.7 Quinta fase

2.1.7.1 I decenni centrali del XVI secolo vedono una radicale trasformazione urbanistica
dell’area, che con la costituzione della Compagnia delle Vergini Miserabili di S. Caterina della Rosa
e l’erezione del relativo Monastero, accompagnata dalla costruzione della nuova chiesa di S. Caterina
dei Funari (bibliografia in ALEANDRI BARLETTA 1978, p. 7, nota 1), assumerà l’aspetto
definitivo destinato a conservarsi nelle sue linee fondamentali sino alle demolizioni di questi ultimi
anni. Almeno in quella parte considerevole dell’isolato su cui sorgeranno chiesa e
conservatorio si assiste dunque nel Cinquecento ad una nuova ricomposizione dell’area intorno
ad un progetto architettonico complesso ma unitario (App. figg. 35-37).

2.1.7.2 La istituzione della Confraternità di S. Caterina risale agli anni del soggiorno di
Ignazio di Loyola a Roma non prima quindi del 1537 (TACCHI VENTURI 1899;
ALEANDRI BARLETTA 1978, pp. 12-13), allorché fu eretta con oracolo di viva voce da Paolo
III. Ma la sua nascita ufficiale data soltanto al 1558, quando Paolo IV ne riconobbe giuridicamente
l’esistenza, poi confermata l’anno successivo da Pio IV (testo della bolla in TACCHI VENTURI 1910,
p. 668 ss., n. 84).[28] La bolla di Pio IV concedeva la chiesa di S. Caterina dei Funari, alias de Rosa de
Urbe, alla Confraternita e le toglieva il titolo parrocchiale, per affidarlo alla chiesa di S. Lucia della
Tinta alle Botteghe Oscure.
Al momento della bolla di erezione la nuova chiesa, opera di Guidetto Guidetti, non era
stata ancora costruita: la sua fabbrica, sorta su iniziativa del card. Federico Cesi (figg. 9-10; App.
figg. 38-39), durerà dal 1560 al 1564 (GIOVANNONI 1912). In questo periodo di transizione,
effettivamente mal documentato, gli edifici presenti sul sito dovevano dunque consistere di diversi
nuclei. [30]
Lungo l’odierna via Caetani – dove poi sorgeranno la fronte del Conservatorio e il fianco
della nuova chiesa – doveva ancora esistere la primitiva ecclesia B. Catherine de Funariis, più
volte ricordata dalla bolla di Pio IV e coincidente verisimilmente con l’edificio dell’antica chiesa
medioevale di S. Maria Dominae Rosae (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 715 ss.): ne abbiamo
precisa testimonianza da un documento del 1559 che ricorda le case da abbattere «per aprire la
strada che passa da la strada delle botteghe scure alla strada de la tore delli marangolli et passa
innanzi a sancta Catalina delli Funari» (GNOLI 1939, p. 117;ALEANDRI BARLETTA 1978, p. 9,
nota 3; cfr. RE 1920, p. 74).
Accanto alla chiesa era l’annessa domus miserabilium puellarum virginum (App. figg. 41-42),
che non sappiamo quanto avesse trovato sede fra le antiche mura medioevali del monasterium
Rosae, di cui perdiamo notizia. Questa domus aveva visto sorgere l’iniziativa di Ignazio di Loyola e
avrebbe assunto negli anni aspetto monumentale con la trasformazione nel palazzo del
Conservatorio, eretto contestualmente alla chiesa del Guidetti e terminato intorno al 1575
(GIOVANNONI 1912, p. 402): l’edificio compare ormai terminato, alla fine del secolo, nella veduta
del Tempesta e nella Pianta di Roma Ignaziana (FRUTAZ 1962, tavv.265-266, 280; INSOLERA
1980, p. 161) (fig. 11).
Alla vigilia dell’inizio dei lavori per la nuova chiesa di S. Caterina la bolla di Pio IV ci informa
che la nuova domus sorgeva grazie all’acquisto già effettuato e ad altri previsti di alcune case
circostanti, nell’intenzione di edificare «unam prealtis muris circumseptam domum cum claustro,
refectorio, dormitorio, infirmaria, horto &c. ad instar monasteriorum monalium» (TACCHI
VENTURI 1910, p. 670), secondo un progetto in cui si riconosce senz’altro l’edificio poi
effettivamente eretto, insieme con l’indicazione degli spazi edificati e delle aree aperte (claustrum,
hortus).
Un terzo nucleo era costituito da quelle case più modeste, prevalentemente abitazioni e
laboratori artigiani, che avrebbero presto dovuto cedere il passo – come si è ora ricordato – sia alla
nuova domus, sia all’allargamento della via dalle Botteghe Oscure alla torre del Melangolo, sia
infine alla nuova chiesa di S. Caterina. [31] Questa sorgeva all’angolo S E dell’isolato e
verisimilmente subito a S della chiesa precedente, apparentemente sul sito occupato da alcune case e
da un’osteria, come sembra si debba ricavare da un documento che menziona la somma di «sc. trenta
pagati a m nani architetto[...] per lo amatonato ho selziato fato fare denante e la desia sino l’anno 1559
quando era ostaria» (GIOVANNONI 1912, p. 405, nota 1; MARCHETTI LONGHI 1922, p. 719,
nota 2). I recenti lavori condotti dalla Soprintendenza per i Beni architettonici del Lazio sotto il
pavimento della chiesa hanno messo in luce, fra l’altro, numerose murature rasate dall’impianto del
nuovo edificio: tra queste si conserva ancora la piccola facciata semiinterrata di una casa (fig. 12).

2.2 Ricerche e studi precedenti

2.2.1 Francesco Albertina ci ha lasciato, nel 1510, una testimonianza della ipotesi – per la
verità non molto diffusa – che le rovine del teatro di Balbo andassero identificate con quelle al
tempo ancora esistenti nell’area dei palazzi Mattei (VALENTINI-ZUCCHETTI 1940 -, IV, p.
474). Ma nel XVI secolo la communis opinio largamente prevalente situava invece lungo tutta l’area
edificata parallela al lato meridionale della via delle Botteghe Oscure un altro monumento, il Circo
Flaminio. Ce ne danno precisa testimonianza, insieme con gli astigrafi (FRUTAZ 1962, II, tavv.
222, 223, 227, 228, 234, 235), anche le affermazioni esplicite di artisti ed eruditi del tempo
(LANCIAMI 1897, pp. 452-453; MARCHETTI LONGHI 1922, p. 661 ss.; GATTI 1979, p. 245
ss.). La Crypta Balbi era, e sarà ancora per molti secoli, collocata altrove (NASH 1968, I, p. 297 ss.
con ampia bibliografia).
Non sappiamo su quali basi l’Albertina avanzasse la sua ipotesi, presentata d’altronde come
ipotesi altrui (nonnulla dicunt illud fuisse Theatrum Balbi). Mi sembra probabile che l’identificazione
sorgesse sulla base della stessa evidenza monumentale che aveva indotto nel secolo precedente
Flavio Biondo a collocare nello stesso sito le rovine del teatro di Pompeo (Nam ea in ruinarum et
quidam ingentium parte ad quam monasterium nunc est Rosae dictum exteriori muri pinna in girum
arcuata quandam theatri speciem exhibet MARCHETTI LONGHI 1922, p. 662, nota 3). Quella pinna
in girum arcuata ancora visibile nel XV secolo altro non era che il muro circolare del teatro di
Balbo sul quale era sorto il trullum Iohannis de Stacio che ancor prima, fra la fine del XII e l’inizio
del XIII secolo, sia la bolla di Celestino III che la Vita Innocenti III ricordavano apud Monasterium
Dominae Rosae (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 68, nota 1).
La confusione – consolidata in età umanistica e rinascimentale – delle rovine curvilinee del
teatro con la testata semicircolare del Circo Flaminio è fenomeno comprensibile (App. figg. 13-18):
della presunta arena, della spina, delle gradinate del Circo le profonde trasformazioni subite dalla
zona consentivano di giustificare la totale mancanza. Ma per la piena età medioevale, quando la mole
del Castellum aureum «cum parietibus altis et antiquis in circuitu positis» occupava il sito del
monumento di Balbo, le espressioni adoperate nella bolla di Celestino III (1192) sembrano ancora
rivelare la sussistenza e, verisimilmente, la parziale praticabilità degli antichi criptoportici, non ancora
obliterati dalle successive trasformazioni urbanistiche. [32]
La conferma di Celestino III in favore della chiesa di S. Maria Dominae Rosae riguarda infatti
direttamente anche l’orto, «qui est iuxta idem castellum cum utilitatibus suis et superioribus
criptarum»: un’espressione che altrimenti non saprei intendere che come la testimonianza più
antica, ed unica, della esistenza di ambienti, o comunque di utilitates, disposti al di sopra delle
grotte antiche, cioè degli antichi criptoportici (Testo della bolla in SCHIAPARELLI 1902, e
MARCHETTI LONGHI 1922, p. 668, nota 1).

2.2.2 L’identificazione delle rovine antiche con quelle del Circo Flaminio non viene messa in
discussione per lungo tempo. Tra XVI e XVII secolo le poche notizie che abbiamo relative ai
ritrovamenti di antichità (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 733 ss.) confermano la presenza nel
sottosuolo delle strutture romane, e in particolare dei grandi blocchi di travertino, che dobbiamo
identificare con le strutture portanti del teatro e con il muro perimetrale della Crypta. Sono
particolarmente significative le testimonianze di Pirro Ligorio, relative in particolare all’area
occupata dal palazzo di Lodovico Mattei (LANCIANI 1902-, II, p. 65), e, nel secolo successivo,
quelle del Grimaldi e di Cassiano dal Pozzo. L’uno, in una nota del 1622, riferisce del Circo Flaminio
e della Chiesa di S. Lucia alle Botteghe Oscure ed afferma: «ibique cernuntur magni lapides
cinericii quod peperinum dicitur forte e ruinis dicci circi» (JORDAN 1867, p. 413); l’altro
testimonia che «nella nuova fabbrica che fece fare il cardinale S. Onofrio a S. Caterina de’ Funari
incontro alla chiesa di S. Lucia furono trovati nel far i fondamenti pezzi di trevertino grandissimi, e
molti di essi furon cavati, crederno i più che fussero vestigii del Circo Flaminio, il luogo preciso dove
erano è la propria cantonata dove si vede Tarme del cardinale» (MARCHETTI LONGHI 1922, p.
738). Entrambe le testimonianze devono fare riferimento alle strutture in travertino del
criptoportico, comparse lungo il lato settentrionale del monumento, in occasione dei lavori di
restauro ed ampliamento del Conservatorio di S. Caterina condotti dal card. Antonio Barberini. Di
questi lavori – da verificare sul monumento dal punto di vista archeologico – resta testimonianza
epigrafica in una iscrizione tuttora conservata nella sacrestia della chiesa di S. Caterina dei Funari
(fig. 13): [33]
Frater Antonius Barberinus / praesbyter cardinalis III S. Honuphrii / maior poenitentiarius
/ et Urbani VIII pont. max. germanus / monasterium puellarum / S Catharinae virg.et martyris /
instauravit / in ampliorem formam redegit / et novum odeum divinis canendis of cus / extruxit /
anno salutis MDCXXXVI.
L’iscrizione si trovava un tempo «sulla porta del Monastero[...] al primo ingresso» come
testimonia uno scritto anonimo dell’età di Leone XII conservato nell’Archivio del Conservatorio
di S. Caterina della Rosa ed intitolato Memoria delle Religiose del Ven. Monastero di S
Caterina della Rosa, detta de’ Funari dell’Ordine di S. Agostino, e delle Giovani Educande
sotto la cura delle ridette Religiose in Clausura P a pa l e.

2.2.3 La ricerca decisiva di Guglielmo Gatti – seguita dalla sterile polemica suscitata dal
Marchetta Longhi e culminata nel recente ampio lavoro corredato di abbondante documentazione
grafica (GATTI 1979, con bibl. a p. 239, nota 1) – ci esime dal riesaminare in questa sede le
argomentazioni addotte dal Gatti per la sua ricostruzione e dalla descrizione dei resti monumentali di
cui si ha sul sito del Teatro e della Crypta di Balbo traccia ancora consistente o memoria sicura (App.
figg. 7-12).
Indagini preliminari condotte in questi ultimi tempi negli ambienti prospicienti la via delle
Botteghe Oscure e sondaggi compiuti negli anni scorsi da parte della Soprintendenza per i beni
architettonici nel sottosuolo della chiesa di S. Caterina dei Funari (fig. 14) già consentono di
integrare i tratti di muratura in opera quadrata osservati dal Gatti e collocati in pianta (GATTI 1979,
fig. 10, m-n). I primi risultati dello scavo archeologico appena iniziato contribuiscono già ad una
migliore definizione e ad un ampliamento della planimetria delle strutture romane affioranti dal
suolo (fig. 15).

2.2.4 Né l’area occupata dalla Crypta Balbi, né le aree adiacenti sono mai state oggetto di
indagini archeologiche sistematiche. [34] La serie casuale e discontinua dei ritrovamenti eseguiti
tutt’intorno all’isolato a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso è stata illustrata dal Marchetta
Longhi ed aggiornata dal Gatti, sulla base del materiale di documentazione esistente presso la X
Ripartizione del Comune di Roma (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 751 ss.; GATTI 1979, p. 301
ss.; cfr. anche COZZA 1968). Disponiamo ora di una planimetria 1:1000 di tutta l’area con la
localizzazione delle strutture di età romana venute in luce nel corso del tempo, sepolte o inglobate
nelle murature successive (GATTI 1979, fig. 10).
I rinvenimenti fortuiti di strutture e di pavimentazioni antiche sembrano indicare con
sufficiente chiarezza e costanza lo spessore medio dell’interramento dell’area rispetto al piano
descritto dalla Forma Urbis severiana. Questi dati si addensano in particolare lungo il lato
settentrionale della Crypta, nell’area della Porticus Minucia frumentaria e del quartiere che ad E di
questa e della Crypta Balbi si estendeva verso il Campidoglio. I primi livelli pavimentali si
incontrano tra i -4,60 e i -4,80 metri; i più profondi raggiungono i -6,15 e i -6,30. Il piano odierno
sembra dunque essersi rialzato, lungo gli assi di via delle Botteghe Oscure e di via dell’Ara Coeli,
mediamente di 5 o 6 metri. A -7,50/8,00 metri giacciono i piani di scorrimento di alcune fognature
di età imperiale; ad oltre 9 metri di profondità si spingono in alcuni casi le fondazioni degli edifici
(GATTI 1979, pp. 302-306). [35]
Nessuno di questi dati si riferisce tuttavia all’area del Teatro e della Cripta di Balbo, per la
quale non disponiamo di alcuna informazione diretta. Resta però la testimonianza indiretta del
Marchetta Longhi, relativa a lavori edilizi eseguiti nel Palazzo Mattei «sotto l’arco d’ingresso dalla via
Michelangelo Caetani», che misero in luce un tratto di mosaico a circa 7 metri di profondità
(MARCHETTI LONGHI 1922, pp. 757-758). La notizia è una preziosa conferma della
testimonianza del Ligorio («[...] Il pavimento e suolo del Circo era di calcina e mattoni pesti molto
sodo e grosso lavorato di sopra d’alcune cose di musaico[..].»: PIRRO LIGORIO 1553, p. 17) e
del Gamucci («[...] Di questo circo essendo poi stati cavati ne’ sopraddetti luoghi una gran parte dei
suoi fondamenti, s’è ritrovato, che il suo pavimento essendo stato smaltato con la calcina, et con
mattoni haveva di sopra per maggior vaghezza di quell’opera, lavori molto belli di Musaico»:
GAMUCCI 1569, pp. 142-143) ma è indicazione parzialmente contraddittoria con quella desunta dai
dati altimetrici esterni al monumento, sempre che il mosaico intravisto debba essere riferito (ma
mancano gli elementi) al piano stradale del Teatro di Balbo. Concorda perfettamente con le altre
informazioni la notizia della presenza del terreno vergine, al di sotto del Palazzo Mattei, ad una quota
di circa -10 metri (MARCHETTI LONGHI 1922, p. 753, nota 1).

2.2.5 Il ritrovamento archeologico di maggiore interesse fu effettuato nel 1938 quando, in


occasione delle infauste demolizioni previste dal Piano particolareggiato del PRG del 1932 (App.
fig. 48), si allargò considerevolmente l’antichissimo tracciato della via delle Botteghe Oscure,
arretrando verso N il nuovo allineamento degli edifici (fig. 16; e App. fig. 47). I lavori causarono fra
l’altro la eliminazione della chiesa di S. Lucia delle Botteghe Oscure (HUELSEN 1927, pp. 300-301;
ARMELLINI-CECCHELLI 1942, pp. 602-604) e la casuale riscoperta di alcune colonne del tempio
che sorgeva al centro della Porticus Minuciafrumentaria (al tempo non ancora identificata), che fu
riconosciuto come Tempio di Bellona (App. fig. 49), prima di essere più recentemente identificato,
con migliori argomenti, quale Tempio delle Ninfe (NASH 1968, I, pp. 202-203; Cozzi 1968;
COARELLI 1968b, pp. 371-372; COARELLI 1981, p. 46). [36]
La ricomparsa del tempio ottastilo e il riconoscimento della precisa collocazione
topografica della Minucia frumentaria consentono oggi di osservare che il tracciato dell’antico
vicus che separava la Porticus dalla Crypta Balbi corre interamente al di sotto degli edifici che
costituiscono oggi il lato meridionale della via delle Botteghe Oscure, e che la strada
medioevale – almeno per come la conosciamo a partire dal tardo XVI secolo tramite gli
astigrafi – attraversava per tutta la sua lunghezza il doppio porticato della Minucia, aprendosi
il cammino tra l’ordine esterno delle colonne a S e il fianco meridionale della chiesa di S.
Lucia a N: la chiesa era sorta evidentemente tutta all’interno dell’area della Minucia.
Sulla base di questi elementi le apothecae obscurae dovrebbero andare riconosciute negli
ambienti meridionali del grande porticato, piuttosto che in quelli settentrionali della Crypta
Balbi, che nel lato rivolto verso la via (ammesso che il suo tracciato in età medioevale
remota fosse spostato più a S) si presentavano d’altronde chiusi dall’alto muro in opera
quadrata che circondava il monumento.
Le apot heca e erano andate sorgendo verisimilmente su entrambi i lati della via: sul
lato S le dobbiamo immaginare in stretta relazione con la chiesa di S. Salvatore in pensilis,
dove si riuniva periodicamente nel XIV secolo la corporazione dei mercanti di Roma, tanto
che nel 1317 la chiesa stessa assume nello Statuto dei mercanti la denominazione di ecclesia
Sancti Salvatoris de apotheds mercatorum (GATTI 1885, p. 24). In questa epoca non sembra
essersi ancora affermata la denominazione di apothecae obscurae. La disposizione de candelis
dello stesso Statuto dei mercanti (GATTI 1885, p. 30) offre tuttavia una informazione
interessante, poiché in essa si ordina «quod VI candele ponantur in mercatantia et conmurent
de sero, silicei tres in apothecis superioribus et tres in inferioribus»: sembra evidente che le
botteghe inferiori dovessero essere state ricavate negli ambienti semisotterranei appartenenti
agli edifici antichi sepolti, e forse – in via di ipotesi – a parte degli stessi criptoportici del
monumento di Balbo.

2.2.6 Abbiamo notizia di sicuri interventi nel sottosuolo dell’area della Crypta Balbi
durante il 1941 (GATTI 1979, pp. 272-273). Non si trattò di indagini archeologiche, ma di
sondaggi effettuati dalla Società Immobiliare in vista di una ricostruzione degli edifici
abbattuti nell’isolato in seguito alla vendita del complesso effettuata intorno al 1937 da parte
delle suore del Preziosissimo Sangue, succedute alle Agostiniane, che avevano diretto il
Conservatorio sin dal XVI secolo (fig. 17).
Le operazioni avvennero nella massima clandestinità, all’insaputa della Soprintendenza
alle Antichità e degli Uffici del Governatorato. Ne abbiamo notizia da una nota di Antonio
Mutnoz, Ispettore Generale delle AA.BB.AA. del Governatorato all’allora soprintendente
Pietrogrande, in data 28 giugno 1941:
«Nel superiore interesse della tutela dei resti monumentali di Roma, e in particolare di quelli –
pochissimo noti – del Circo Flaminio, si comunica per competenza a codesta R. Soprintendenza quanto, da
notizie pervenute a questo Ufficio e da informazioni successivamente assunte, risulterebbe essere avvenuto
nella zona di quell’insigne monumento: = Circa sei mesi fa la Soc. Immobiliare, avendo acquistato vari stabili in
via delle Botteghe Oscure, dall’angolo con la via Michelangelo Caetani fin verso la Chiesa dei Polacchi,
effettuò alcuni tasti nel sottosuolo, quasi certamente allo scopo di accertare la eventuale presenza di resti
archeologici e di compilare, in conseguenza, i progetti di ricostruzione nelle aree acquistate.
Con certezza si può comunicare che tali tasti furono eseguiti almeno in via Michelangelo Caetani, e
precisamente nel cortile dietro la Chiesa di S. Caterina dei Funari, e in una cantina in via delle Botteghe
Oscure n. 24; in ambedue le località furono incontrati resti di antiche costruzioni. [37]
Non sembra che di tali scoperte – che possono avere notevole importanza per la conoscenza delle
strutture del Circo Flaminio – sia stata fatta denuncia dalla predetta Società; consta invece a questo Ufficio
che soprattutto nella cantina di via delle Botteghe Oscure n. 24, i lavori furono condotti con la massima
segretezza, e non fu permesso ad alcuno di accedere nella cantina stessa, sia mentre si lavorava, che quando le
indagini venivano sospese. Detta cantina è tuttora chiusa.
Si comunica quanto sopra affinché codesta R. Soprintendenza, sulla base delle informazioni
trasmesse, e dopo gli opportuni accertamenti, possa procedere all’applicazione della legge, trattandosi, in
sostanza, di scavi abusivi condotti in proprietà privata e nella zona di uno dei monumenti più importanti e
meno noti dell’antico Campo Marzio».
Al sollecito del Governatorato fa riscontro la relazione stesa il 6 agosto successivo
da parte di un operaio, delegato dal Soprintendente all’accertamento dei fatti:
«In seguito all’avvertimento dato dal Governatorato di Roma Ripartizione X AA.BB..AA., che
circa sei mesi or sono la Società Immobiliare, domiciliata in via Depretis 45 Roma, aveva eseguito dei lavori
di sterro nelle cantine del fabbricato in via delle Botteghe Oscure n. 24 e nel cortile di S. Caterina angolo Via
Michelangelo Caetani, avvertivano che nelle dette località furono trovate resti di antiche costruzioni.
Come da ordine ricevuto dal Dott. Pietrogrande mi sono recato sul posto accompagnato dall’Ing.
Natili e risulta quanto appresso.
La Società Immobiliare dovendo cedere il fabbricato al Ministero Cambi e Valute con l’Estero hanno
praticato alcuni tasti per accertamento del sottosuolo, durante tali lavori in un solo punto è venuto in luce dei resti di
costruzione con blocchi parallelepipedi con misti di tufaceo e di travertino. [38]
In seguito a tali lavori sono venuti a conoscenza che i blocchi di tufo una buona parte erano sfarinati,
poiché nello stesso tratto vi era appoggiato un pilone centrale del fabbricato avendo avuto bisogno di
consolidarlo, chiesero un sopraluogo della R. Soprintendenza dei Monumenti, nel frattempo si recò personalmente il
Comm. Terenzio dove consigliò la detta Società di eseguire il consolidamento del pilone con materiale laterizio,
come infatti risultò dai lavori eseguiti.
Si fa presente che tale costruzione sono già accennate la parte superiore della pianta dell’Urbes di
Roma del Lanciavi sul foglio n. 21 pertanto la suddetta Società non ha fatto preavviso alla nostra
Soprintendenza.
Salariato Testa Odoardo».
Al rapporto del Testa, piuttosto addomesticato, non fece seguito alcuna iniziativa
amministrativa; sembra comunque che i sondaggi furono sospesi. Se i restauri laterizi
suggeriti dall’arch. Terenzio sono stati chiaramente riconosciuti dal Gatti (GATTI 1979, p.
273, nota 49, p. 281, fig. 29), la localizzazione dei luoghi interessati dai sondaggi della
Immobiliare è invece molto difficile, in assenza di qualunque indicazione planimetrica.
Appare tuttavia possibile – e lo scavo in corso già offre qualche indicazione in proposito – che
in quella occasione i citati tasti eseguiti nel cortile dietro la chiesa di S. Caterina furono
praticati anche nell’area dell’orto, presso il muro dell’esedra (fig. 18). [39]
Risale a quel periodo la demolizione pressoché integrale del Conservatorio, effettuata in
vista di una riedificazione dell’area da parte dell’Istituto Nazionale Cambi con l’Estero. Le
demolizioni furono portate indisturbate a compimento, nonostante l’atto di notifica comunicato in
base alla legge n. 364/1909 sin dal 20 agosto 1938 alla Società Generale Immobiliare, allora
proprietaria del terreno e dei fabbricati. Gli eventi bellici impedirono invece l’esecuzione del progetto
di ricostruzione.

2.2.7 Sondaggi a fini archeologici furono effettuati invece – come è noto – solo venti anni più
tardi, quando l’area versava ormai da tempo in stato di completo abbandono. All’origine dello scavo
fu la polemica suscitata dagli studi del Gatti, che avevano condotto alla nuova identificazione della
Crypta Balbi nell’area un tempo ritenuta occupata dal Circo Flaminio (GATTI 1979, pp. 238-239,
note 2-3). Animatore dell’iniziativa – condotta dalla Soprintendenza alle Antichità di Roma – fu
Giuseppe Marchetta Longhi, cui dobbiamo anche un breve, ed unico resoconto di quegli scavi,
eseguiti in due riprese nel luglio 1961 e nel giugno 1962 e quindi sospesi per mancanza di fondi
(MARCHETTI LONGHI 1963; GATTI 1979, p. 240). [40]
Le indagini misero presto in luce una serie di strutture antiche non meglio definite sia
nell’area dell’esedra che – pare – nel centro del cortile: tanto bastò per fornire una ulteriore prova
archeologica della esattezza della tesi del Gatti. La notizia stesa dal Marchetti Longhi dà conto solo in
minima parte delle indagini effettivamente condotte nell’area, che dovettero essere piuttosto estese e,
in alcuni casi, considerevolmente approfondite nel suolo.
Purtroppo di quelle ricerche non venne redatta alcuna documentazione grafica: mancano negli
archivi della Soprintendenza Archeologica di Roma sia sezioni di scavo che planimetrie, sia pure a
scala ridotta (MARCHETTI LONGHI 1963, p. 169). Non risulta che siano stati raccolti e conservati
materiali di scavo. Disponiamo in sostanza solamente di due schizzi non in scala, stesi per calcolare
la cubatura del terreno asportato nel corso dei sondaggi (figg. 19-20), e di un ristretto numero di
fotografie, per lo più non utilizzabili (GATTI 1979, p. 289). Alcune di queste fotografie sono già
state pubblicate, sia dal Marchetta Longhi (1963, p. 171) – che correda il suo articolo anche con
fotografie del proprio archivio personale – sia dal Gatti (1979, p. 291, fig. 37).
Gli schizzi planimetrici – benché privi di validità scientifica – indicano con sufficiente
chiarezza le aree che furono interessate dai sondaggi. Si operò sia nell’orto che all’interno del
perimetro del Conservatorio demolito. [41] Nell’orto si praticò un saggio presso l’esedra antica,
sbancando il terreno nei settori centrale e meridionale e lasciando invece quasi intatto il settore
settentrionale (fig. 21). Lo schizzo indica che lo scavo raggiunse in alcuni punti quota -1 metro, in
altri -2,40 e -3,50 e in due settori, lungo il muro diametrale laterizio, fu portato fino a quota -
5,30: si scese in quell’occasione ben al disotto delle fondazioni delle murature medioevali che
occupano trasversalmente l’area dell’esedra (GATTI 1979, p. 292) (figg. 22-23).
Nella parte più meridionale dell’orto lo scavo raggiunse il livello di calpestio precedente alle
demolizioni e fu spinto mediamente ad una quota compresa tra -1,20 e -1,90 metri, ad eccezione
di due sondaggi stretti e molto profondi portati sino a quota -2,70, presso l’angolo S
dell’esedra, e a quota -2,85, a ridosso della vasca presente al centro dell’orto. Una fotografia del
tempo ci testimonia lo sbancamento effettuato intorno a questa vasca ed il piano di camminamento
rimesso in luce, coincidente con la superficie di un chiusino (fig. 24). Questo chiusino non è
stato rinvenuto negli scavi praticati nel 1981: il sondaggio del 1961 dovette evidentemente essere
ancora approfondito dopo lo scatto della fotografia che ce ne lascia testimonianza.
Due ampi sondaggi a scalino furono effettuati all’interno dell’edificio demolito, lungo il
lato meridionale, raggiungendo in un caso solo i 60 cm di profon dità, nell’altro progressivamente
-1,50, -2,75 e -3,60 metri. Nella stessa area vennero anche condotti due stretti sondaggi di
m1,40 x 0,90 e profondi sino a 3 metri. [42] Due ulteriori approfondimenti, l’uno a quota -
2,60, l’altro a quota -3,00 furono infine praticati nel centro del cortile, il primo probabilmente
nell’area dell’orto, il secondo in quella del cortile porticato. La loro ricollocazione in pianta è labile,
poiché mancano le coordinate necessarie. È possibile che il più orientale di essi sia stato praticato
con l’intento di rimettere in luce la struttura di incerta identificazione testimoniata al centro dell’area
dal frammento 634 della Forma Urbis, che tuttavia non dovrebbe essere stata raggiunta.
I risultati di quelle indagini rimasero dunque sostanzialmente inediti: né sappiamo quanto – al
di là degli affioramenti delle murature romane su cui si concentrò l’attenzione – fu visto delle
strutture rinascimentali e medioevali presenti nell’area. Le profondità massime raggiunte dai
sondaggi nel cortile (-3 metri) non dovrebbero avere attinto i livelli pavimentali romani; quelle
raggiunte nell’esedra (-5,30 metri) potrebbero essersi spinte invece sino al presunto livello antico,
ma la particolarità del monumento consente di supporre che i piani di uso delle strutture dell’esedra
non dovevano coincidere con quelli dei monumenti e delle strade circostanti.
Se le indagini condotte nel 1961/62 non furono quindi di alcuna utilità sul piano
scientifico (furono anzi di sicuro grave danno per le stratigrafie plurisecolari dell’area e in particolare
per quelle di età medioevale), costituirono tuttavia l’occasione favorevole per l’imposizione del
vincolo archeologico, esteso all’intero complesso il 4 gennaio 1962, facendo seguito al vincolo
monumentale, già imposto alla chiesa di S. Caterina dei Funari ed agli ambienti connessi superstiti
il 9 giugno 1959. [44]
3. L’indagine in corso

3.1 L’impostazione dello scavo

3.1.1 L’area interessata dall’intervento archeologico, sulla quale vige il decreto di


occupazione temporanea del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, è compresa nel
pentagono irregolare delimitato dalla via delle Botteghe Oscure a N, da via M. Caetani a W,
da via dei Delfini a S e SE, da via e vicolo dei Polacchi a est. L’intervento è limitato alle aree,
aperte o edificate, di proprietà dell’Ufficio Italiano Cambi.
L’area consta di una cornice esterna di superfici occupate da edifici per la massima parte
abbandonati e in stato di grave fatiscenza, e di due aree interne, corrispondenti l’una al grande cortile
dell’isolato (formatosi per la fusione delle aree già scoperte di pertinenza del Conservatorio di S.
Caterina della Rosa con quelle già occupate dalle strutture demolite dello stesso Conservatorio),
l’altra all’area sterrata esistente a SE del muro di andamento circolare elevato sopra l’esedra
romana e compresa tra questo, il vicolo dei Polacchi e gli edifici, tuttora abitati, prospicienti sulla via
dei Polacchi e la via dei Delfini.
Questa seconda area, che occupa una superficie di circa 500 mq, è esterna al monumento
romano; un interro notevole, accresciuto dalle recenti demolizioni, ricopre parti di due insulae di un
quartiere antico, attraversato da una strada, la cui pianta ci è interamente testimoniata dalla Forma
Urbis (GATTI 1979, p. 255, fig. 7, frammenti 39a e 398a = RODRIGUEZ ALMEIDA 1981, tav. XXII,
frammenti 30 d-e). Nella stessa zona sono collocate ipoteticamente dal Marchetta Longhi alcune
dimore medioevali: la domus et Palatium iudicis Angeli e la «Torre vecchia» (MARCHETTI LONGHI
1922, tav. all., nn. 14-15). Questa area non è compresa nel primo programma di intervento: né è
previsto a breve termine il risanamento e lo sgombero dei detriti di demolizione per la redazione della
planimetria dello stato di fatto e del futuro progetto di scavo.
Sono in corso di programmazione interventi sistematici nelle cantine tuttora agibili degli
stabili prospicienti su via delle Botteghe Oscure e su via dei Delfini, dove sono ampiamente
attestate le strutture perimetrali della Crypta Balbi. I lavori di scavo verranno intrapresi dopo il
consolidamento delle strutture, per il quale è in corso la necessaria perizia tecnica. Lo scavo si
concentra pertanto, in questa prima fase, nel cortile centrale (figg. 25-26).

3.1.2 L’area del cortile occupa attualmente una superficie di circa 3100 mq. Presenta una
forma approssimativamente quadrata; strutture pertinenti al complesso di S. Caterina dei Funari e
di S. Stanislao dei Polacchi ne occupano rispettivamente gli angoli S W e NE (fig. 27). Sul lato
orientale il cortile si estende nell’area semicircolare delimitata dall’esedra romana e dalle strutture
che le si sono addossate e sovrapposte.
Al momento dell’inizio dei lavori l’area si presentava pianeggiante lungo i lati W e S del
cortile; il lato N era occupato da una piccola collina formata dall’accumulo di detriti derivati dalle
demolizioni del Conservatorio (fig. 28). Sia la collina che il lato E del cortile erano ricoperti da
vegetazione, per la massima parte spontanea, cresciuta durante gli anni di abbandono. Il lato E in
particolare era, ed è in parte tuttora, occupato da alberi di alloro (fig. 29). [45]
La presenza di alberi è elemento che non deve essere sottovalutato al momento della
programmazione dell’intervento e della individuazione delle aree di scavo, sia per quanto la
vegetazione può dirci circa la natura del terreno, sia per i disturbi che le radici possono aver prodotto
anche in profondità nella stratificazione archeologica. Nel nostro caso la presenza degli alberi e dei
cespugli indicava con evidenza i limiti della terra, fertile e spessa, dell’antico giardino del
Conservatorio nel settore orientale del cortile; la loro asportazione ha consentito, tramite lo
sradicamento dei ceppi delle piante, di verificare sin dall’inizio dei lavori la potenza dello strato dei
detriti accumulati anche nell’area del giardino e la profondità presumibile del piano di calpestio
precedente le demolizioni ed il conseguente rialzamento generale del livello dell’area (fig. 30).
Insieme con la vegetazione è stata valutata anche la consistenza – preliminare ad ogni
programma di intervento urbano – della rete delle fognature nell’area, nonché l’eventuale presenza di
cavi sotterranei elettrici, telefonici, del gas e simili, che avrebbero potuto intralciare
considerevolmente le attività di scavo. Il lungo abbandono cui è stata sottoposta l’area sembra aver
ridotto fortunatamente in misura considerevole questo genere di rischi. [47]

3.1.3 La delimitazione delle aree di scavo è momento assai delicato e decisivo della indagine
archeologica (CARANDINI 1981, pp. 46-47). Uno scavo urbano garantisce – per definizione – la
individuazione di una serie certamente numerosa e complessa di strutture murarie, di strati di
terreno e di ogni tipo di interventi umani e naturali: non è ad una riesumazione del sepolto
purchessia che deve tendere la programmazione dello scavo, quanto piuttosto alla individuazione
– scandita nel tempo sulla base delle stratificazioni presunte – di quelle porzioni, possibilmente
definite, di strutture abitative o produttive, private o pubbliche, che siano sufficientemente ampie
da consentire una interpretazione funzionale e storica degli insediamenti (CARANDINI 1981, p.
152). Nel nostro caso la definizione delle aree iniziali dello scavo (nella prospettiva di uno scavo
integrale di tutta l’area libera del cortile) è stata dettata da una serie concomitante di fattori diversi,
di natura pratica, topografica e stratigrafica.
È parsa innanzitutto condizione necessaria cominciare lo scavo dal lato orientale del cortile,
per consentire in ogni momento la asportazione delle terre di risulta ed il libero accesso all’area dal
lato occidentale.
Ci si è valsi della possibilità di distinguere nettamente – sulla base della topografia
rinascimentale e moderna – le aree fabbricate da quelle aperte, e in particolare da quella del
giardino. Ciò ha consentito di mirare l’apertura delle prime aree di scavo alla indagine del contesto
giardino/orto, tenendo presente che questo insediamento ci è perfettamente noto nella sua
planimetria sin dal 1748 (pianta del Nolli: App. fig. 43), ma che esso certamente risale almeno alla
costituzione del Conservatorio nel XVI secolo, come dimostra la vegetazione disegnata nella veduta
del Tempesta (1593) (App. fig. 35). [49]
L’orto costituisce quindi quella porzione ampia di struttura abitativa cui si faceva riferimento
in precedenza che, nel momento in cui ci consente di vagliare un arco di tempo che comprende i
secoli XVI-XX, potrebbe favorire, nei livelli inferiori della stratigrafia, anche una parziale verifica
delle aree aperte di età medioevale, se l’ortum qui est iuxta idem Castellum ricordato dalla bolla di
Celestino III coincide, almeno in parte, con il giardino del successivo insediamento rinascimentale. Al
tempo stesso quella porzione di giardino moderno che occupa l’area semicircolare dell’esedra
potrebbe – secondo l’ipotesi del Marchetta Longhi (MARCHETTI LONGHI 1922, tav. all., n. 12) –
sovrapporsi parzialmente all’orto ed alla casa di quell’Antonio Bellomo che a più riprese i documenti
della fine del XIV secolo ci fanno conoscere tra i proprietari delle abitazioni che a corona sorgevano
intorno alla primitiva proprietà della chiesa di S. Maria Dominae Rosae (MARCHETTI LONGHI
1922, p. 691 ss., in part. p. 692, nota 1, p. 699, nota 1). [50]
A quéste osservazioni si aggiunge la circostanza che la sovrapposizione planimetrica dei
frammenti della Forma Urbis sulla topografia attuale fa coincidere quasi esattamente la larghezza
del giardino, esteso tra le strutture superstiti del Conservatorio e l’esedra, con la luce del
criptoportico antico, che dovrebbe pertanto riaffiorare integralmente in quel settore col procedere
dello scavo della terra dell’orto.
Queste scelte sono rafforzate dalla circostanza, non secondaria, che proprio l’area del
giardino, assai più di quella interna ai fabbricati demoliti, è stata oggetto probabilmente dei
sondaggi effettuati nel 1941 e certamente delle indagini svolte nel 1961 (fig. 31), tanto che al
momento dell’inizio dei lavori nel 1981 l’area dell’esedra, che non fu ricolmata dopo la sospensione
degli scavi, appariva – ed appare tuttora – profondamente segnata dalla fosse delle trincee praticate
venti anni fa (fig. 32).
«Scavare quanto è già stato scavato (dai tagli verticali alle terre di riporto) – scrive
CARANDINI 1981, p. 67 – è un modo insolito ma efficace di riprendere questioni archeologiche
non risolte e per scrivere in modo assai concreto la storia degli scavi, tanto più che nella maggior
parte dei rapporti di scavo i tagli verticali eseguiti nel terreno non vengono pubblicati». La situazione
nell’area della Crypta Balbi è esattamente quella evocata da Carandini. Lungi dall’emarginare dal
progetto di scavo le zone già interessate dalla precedente indagine, si tratta invece di cogliere
l’occasione offerta da quello «sconvolgimento», del quale non ci resta documentazione, per
organizzare una necessaria opera di bonifica del terreno, ma anche per sfruttare al massimo le
informazioni che quei tagli recenti possono restituirci. [51] La ripresa dello scavo là dove era stato
interrotto, sia pure in un’ottica metodologica profondamente diversa, consente innanzitutto il
recupero delle sezioni occasionali (CARANDINI 1981, p. 117), tanto più importanti nell’area
dell’esedra, in quanto proprio in quel settore lo scavo si era spinto a notevole profondità,
evidenziando in parete una ricca stratigrafia (fig. 33) e mettendo allo scoperto murature di diverse
epoche, purtroppo in gran parte «liberate» fin sotto il livello delle loro fondazioni.
In tale azione di recupero è ovviamente norma imprescindibile l’osservazione tanto più
accurata del metodo stratigrafico quanto più sconvolto si presenta il sito, facendo rientrare anche le
azioni che hanno prodotto quello sconvolgimento nelle «regole del gioco stratigrafico»
(CARANDINI 1981, p. 75).

3.1.4 Sulla base di queste premesse la prima campagna di scavo è stata avviata impostando due
aree di scavo di grandezza media nell’ambito del giardino, l’una (saggio I) compresa tra
l’allineamento E del muro demolito del Conservatorio e l’allineamento del muro diametrale
dell’esedra, già parzialmente messo in luce nel 1961, l’altra (saggio II) interamente compresa
nell’area delimitata dall’esedra e dalle murature che ad essa si collegano. La necessità di scavare in
estensione, prerogativa ormai affermata negli scavi moderni (BIDDLE 1969; CARANDINI 1981,
p. 150), ha sconsigliato evidentemente l’esecuzione di sondaggi ristretti volti a scandagliare la
potenzialità stratigrafica del sito, peraltro parzialmente evidenziata dalle sezioni occasionali che
abbiamo ricordato.
Nel saggio I le attività di scavo sono state inizialmente indirizzate ad una bonifica per
quanto possibile completa del terreno, alla individuazione ed allo svuotamento dei tagli operati nel
1961, che erano stati interamente riempiti con le stesse terre di risulta. Nel saggio II al contrario,
con scelta strategica diversa, le fosse superstiti sono state solo parzialmente svuotate, dopo un lavoro
preliminare di ripulitura e di ricomprensione dei tagli effettuati e dei rapporti stratigrafici tra le
diverse trincee. II lavoro di scavo si è concentrato nel settore N dell’esedra, che era stato interessato
solo parzialmente dagli scavi precedenti (fig. 34). [52] L’esistenza, in una superficie pari a circa un
terzo dell’intera area, di una stratificazione quasi intatta consente infatti di ottenere una stratigrafia,
anche orizzontale, tale da rendere possibile il recupero di quei brandelli di terreno stratificato
superstiti nel settore già scavato, altrimenti difficilmente recuperabili nel loro stato attuale di
isolamento sia reciproco che nei confronti delle principali strutture murarie presenti nell’area.

3.2 I saggi del 1981: primi dati

3.2.1 La prima campagna di scavi nell’area della Crypta Balbi si è svolta dal 2 novembre al 12
dicembre 1981. Precedentemente, nel corso dell’estate, era stato eseguito, a cura dell’arch.
Paolo Fiore, il rilievo planimetrico di tutto il cortile in scala 1:50. Hanno partecipato allo scavo, in
questa fase iniziale, quindici archeologi, divisi in due aree di scavo. La documentazione grafica è stata
coordinata dall’arch. Micaela Alemà.

3.2.2 Il saggio I ha interessato un’area rettangolare di m 21,50 x 15, per un totale di 322,50
mq. È stato condotto sotto la responsabilità di Stefano Tortorella, ricercatore presso l’Istituto di
Archeologia dell’Università di Roma, in collaborazione con Valeria Bartoloni, Cecilia D’Ercole,
Ada Gabucci, Paula K. Lazrus, Lucia Saguì, Maria Todaro e Giuliano Volpe.
Il sito – come già accennato – si presentava ricoperto di una folta vegetazione arborea
spontanea, che è stata asportata su tutta l’area con l’ausilio dei mezzi meccanici, che hanno estirpato
le ceppaie. Lo sradicamento della vegetazione ha permesso di valutare la consistenza delle
stratificazioni più superficiali ed ha favorito l’individuazione dei tagli di terreno effettuati nel
1961 che avevano parzialmente seguito l’andamento della vegetazione (fig. 35). [53]
Al di sotto di un livello di humus recente, formatosi in questo ultimo ventennio, si è
individuato un potente strato di accumulo di detriti e materiali edilizi provenienti dalle demolizioni
del Conservatorio di S. Caterina della Rosa, avvenute circa quaranta anni or sono. Questo
accumulo è stato asportato completamente su tutta l’area del saggio, mettendo in luce due diverse
situazioni (fig. 36). Nel settore S è comparsa parte dell’ambiente, pavimentato in mattoni, che
costituiva il prolungamento orientale del portico del chiostro del Conservatorio, aperto sul
giardino; nel settore centrale e settentrionale è apparso – anche se parzialmente danneggiato dai
tagli più profondi eseguiti nel 1961 – il piano del giardino. Di questo restava ben conservata la
struttura di una vasca centrale e, ancora leggibile sul terreno, la divisione interna in aiole e
vialetti (figg. 37-38).
L’indagine stratigrafica del suolo dell’orto – iniziata nel settore N del saggio – ha consentito
di distinguere due momenti di vita nella fase più tarda del giardino. Il più antico è caratterizzato da
un sistema ancora ben riconoscibile di aiole, parzialmente confrontabile con la situazione
documentata all’inizio del XIX secolo dal Catasto Pio-Gregoriano, in cui compare anche la vasca
centrale; il secondo, più recente, segna un evidente degrado nella conduzione del giardino, con
conseguente minore distinzione di uso del suolo e perdita parziale del perimetro delle aiole.

3.2.3 Il saggio II, impostato in un’area approssimativamente semicircolare di m 20,50 di


lunghezza massima per 11,80 di larghezza massima, ha interessato una superficie di circa 191 mq.
ll stato condotto sotto la responsabilità di Lucilla Anselmino, ricercatrice presso l’Istituto di
Archeologia dell’Università di Roma, in collaborazione con Susanna Cini, Alessandra Molinari,
Antonella Pinna e Marco Ricci.
Lo scavo ha avuto inizio con una generale pulizia dell’area e con l’asportazione dell’humus
contemporaneo, costituito da terre smosse, fogliame ed una grande quantità di rifiuti, indice del
lungo stato di abbandono del complesso. [54] E seguita la distinzione dei tagli praticati nel terreno nel
1979 da parte della Soprintendenza Archeologica di Roma per l’impianto di tre puntelli in tubi di
ferro collocati a sostegno della parte sopraelevata del muro circolare dell’esedra romana (fig. 39).
Si sono quindi identificati, e parzialmente svuotati dei loro riempimenti, i tagli eseguiti nel
1961 nel corso delle precedenti indagini. Si sono individuati due momenti successivi di intervento,
confrontabili con i due schizzi planimetrici conservati negli archivi della Soprintendenza. È
risultato che ad una prima trincea aperta parallelamente al muro diametrale romano per tutta la sua
estensione ha fatto seguito una seconda trincea, dall’andamento curvilineo, che ha contribuito a
mettere in luce parte dei tre pilastri meridionali con andamento concentrico a quello
dell’esedra, successivamente analizzati dal Gatti (GATTI 1979, p. 287 ss., in part. fig. 36).
La trincea primitiva sembra essere stata quindi allargata e approfondita verso l’angolo SE
dello scavo, in prossimità del muro augusteo in opera quadrata di tufo e travertino, mettendo in
luce la parte superiore di una struttura ad arco, sottostante ad una potente piattabanda a conci di
travertino (GATTI 1979, p. 291, fig. 37). Anche lungo la fronte E del muro diametrale e nel settore
settentrionale dell’area i sondaggi dovettero essere allargati attorno alle murature emergenti e
considerevolmente approfonditi, tanto da esporre per ampi tratti le stesse fondazioni dei muri
medioevali (figg. 40-42).
Anche in quest’area è stato riconosciuto lo stesso livello di accumulo di materiali edilizi
relativo alle demolizioni, rinvenuto nel saggio I. [56] Una moneta (20 centesimi di Vittorio
Emanuele III) del 1943 offre una utile indicazione cronologica per la datazione di questo
considerevole rialzamento del terreno, in assenza – al momento – di altri documenti che possano
meglio definirne la cronologia, immediatamente successiva alle demolizioni dei fabbricati che i
documenti in nostro possesso consentono di situare nel corso del 1941. Attraverso lo svuotamento
delle fosse del 1961 e al di sotto dello strato di demolizioni si sono messe in luce altre fosse, molto
profonde, e regolari, praticate lungo il muro circolare dell’esedra, che sembra siano da mettere in
relazione con quei sondaggi clandestini praticati nel 1941 cui si è già fatto riferimento. [57] Il
proseguimento dello scavo e lo studio dei materiali di riempimento potranno meglio definire il
problema, che non può essere considerato marginale. È possibile, infatti, che i sondaggi del 1941
avessero colto alcuni aspetti della muratura augustea dell’esedra, contrastanti con la planimetria della
Forma Urbis, di cui le indagini successive e lo stesso studio del Gatti non poterono tenere conto.
Nel settore settentrionale è stato esposto il livello del giardino, del quale sono state distinte più
fasi di vita (fig. 43). La più recente prevede una comunicazione dall’area del giardino verso l’esterno,
cioè verso il vicolo dei Polacchi, attraverso una apertura nel muro di cinta, oggi murata. Il muro che
chiude il passaggio poggia in parte anche sullo strato di demolizioni, che viene quindi a datare la
chiusura, che andrebbe pertanto messa in relazione con l’inizio dell’abbandono dell’area. Il vialetto di
transito all’esterno, di cui si conserva una minima porzione del battuto, segna una fase finale di
degrado dell’area, che comporta l’obliterazione di una aiola disposta lungo il muro orientale di cinta
del complesso, e di una vasca, entrambe relative ad una fase precedente del giardino che prevedeva un
sistema di a iole perimetrali costituite da muretti di tufi e laterizi disposti lungo i muri esterni ed
intorno ad una vasta aiola centrale, quasi integralmente risparmiata dagli scavi del 1961. Questi
hanno invece completamente distrutto il vialetto che limitava a S l’aiola, secondo uno schema che
possiamo ancora riconoscere nella pianta del giardino testimoniata dal Catasto Pio-Gregoriano.
Una fase anteriore dello stesso giardino prevedeva una situazione meno articolata, precedente
alla costruzione delle aiole in muratura. È ipotesi possibile la connessione di questa fase più
antica con quella testimoniata dalla planimetria del Nolli (1748).
Lo scavo del settore N del giardino ha messo in luce una situazione antecedente all’ultima
utilizzazione dell’area, che è in corso di scavo nel 1982. [59] Affiorano dal suolo sia la
prosecuzione a settentrione del muro circolare dell’esedra, considerevolmente arretrata verso
W rispetto alle soprelevazioni di età più recente, sia la sommità dei tre pilastri previsti nella metà N
dell’area, e non visti nel 1961, appartenenti al porticato laterizio concentrico al muro perimetrale
dell’esedra. Sono apparsi anche, al di sotto delle aiole demolite, la prosecuzione N, a quota molto alta,
del muro diametrale che costituisce il limite W dell’esedra, nonché un muro radiale alla stessa esedra,
ben delineato nella Forma Urbis, che prosegue in direzione della via dei Polacchi al di sotto degli
stabili abbandonati.
I primi dati di scavo – mentre da un lato confermano nelle sue grandi linee la planimetria
della Forma Urbis – verificano ed allargano la documentazione relativa al porticato in laterizio, le cui
strutture furono dal Gatti riferite ai restauri domizianei successivi al grande incendio divampato nel
Campo Marzio al tempo di Tito (GATTI 1979, p. 293). Mentre la Pianta marmorea indica con
evidenza sei colonne lo scavo sta riportando alla luce altrettanti pilastri quadrangolari. Ma questa non
sembra essere la sola incongruenza della planimetria severiana: gli scavi attualmente in corso
dimostrano infatti che lo stesso muro semicircolare dell’esedra, in opera quadrata, presenta al
centro una grande nicchia rettangolare assente o fraintesa nella Forma Urbis. [60]
4. Aspetti organizzativi dello scavo

4.1 Il lavoro dell’archeologo

4.1.1 Ogni indagine archeologica che intenda assumere il respiro di un progetto deve poter
contare su di una base organizzativa solida e su di un impegno costante ed implica una
concentrazione di forze che sappiano agire in tempi anche lunghi mantenendo standard di intervento
scientifico elevati.
I centri di ricerca universitari sono attualmente in posizione favorita rispetto agli organi
periferici dello Stato – le Soprintendenze – per quanto riguarda le capacità di progettazione concreta
degli interventi archeologici, che soffrono in misura eccezionale delle pastoie e delle vischiosità
burocratiche proprie della Pubblica Amministrazione. Uno scavo archeologico di lunga durata deve
infatti prevedere una programmazione a medio e a lungo termine che faccia leva, oltre che su di una
mobilitazione costante della équipe scientifica, anche sui momenti qualificanti della ricerca (lo scavo,
in primo luogo) durante i quali le potenzialità organizzative dell’impresa devono manifestarsi al
meglio e concentrarsi nel tempo: titubanze, slittamenti, ritardi possono non solo procrastinare, ma
snaturare un intero progetto.
Certamente le Soprintendenze, assorbite nella amministrazione ordinaria e negli interventi di
emergenza, si trovano oggi ad essere ancora impacciate davanti a necessità organizzative che
richiedano non solo elementi di programmazione complessiva degli interventi, ma capacità di
previsione e di soluzione rapida delle necessità indilazionabili che uno scavo scientifico moderno
presenta. La lunga pratica degli appalti, delle perizie con calcolo degli sterri a cubatura, della delega
dello scavo ad assistenti non qualificati (si vedano le critiche puntuali di LAMBOGLIA 1954, su cui
cfr. MANACORDA 1982) sono eredità, in via di progressivo superamento, di una concezione
arcaica dell’intervento archeologico. Quelle Soprintendenze che si lasciano alle spalle questi vecchi
metodi si trovano a dover affrontare, con strutture e mentalità non sempre adeguate, i nuovi
compiti e le nuove metodologie. In tale situazione un rapporto diretto tra le Soprintendenze e quelle
Università che siano particolarmente impegnate nel settore della ricerca archeologica sul campo non
solo può rivelarsi di reciproco vantaggio, ma rappresenta una delle vie attraverso cui passa il
rinnovamento delle strutture preposte alla tutela ed il coinvolgimento dei centri universitari
nella programmazione degli interventi sul territorio.
L’incontro tra la Soprintendenza Archeologica di Roma – che rappresenta oggi un polo
avanzato di intervento e di progettazione delle attività archeologiche – e l’Università di Siena –che in
questi ultimi anni ha costituito per molti un punto di riferimento per una concezione più moderna
dell’intervento archeologico (Come l’archeologo opera sul campo, c.s.) – è alla base della ricerca
avviata sull’area della Crypta Balbi.

4.1.2 Lo scavo avviene nell’ambito delle attività programmate dalla Soprintendenza


Archeologica di Roma sulla base della legge n. 92 del 23.3.1981 dedicata alla salvaguardia dei
monumenti romani (cfr. supra 1.2). [61] Al personale della Soprintendenza è affidata la direzione del
cantiere di scavo e la sua gestione amministrativa; all’Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte,
della Musica e dello Spettacolo della Facoltà di Lettere di Siena è affidata la direzione
scientifica dello scavo, la programmazione dei tempi di intervento, la scelta delle aree da indagare, la
preparazione e la selezione del personale scientifico che collabora alla ricerca (fig. 44).
Sono note le difficoltà di ordine burocratico che impediscono attualmente alle
Soprintendenze di attingere alla offerta di personale qualificato esterno per via della assenza di
norme che riconoscano in qualche modo la professionalità del lavoro dell’archeologo: la prassi
abituale registra ancora “assunzioni” più o meno al limite della legalità o espedienti che
prevedono la fornitura, e quindi il pagamento, solo di materiali inventariabili (FRANCOVICH
1981, p. 358). L’archeologo qualificato, se vuole avere un rapporto di lavoro con una
Soprintendenza per una attività di scavo, deve dunque in qualche misura paradossalmente
camuffarsi, o comunque porre in secondo piano nella propria immagine professionale la sua attività
primaria, cioè lo scavo scientifico. Eppure è ormai assai più matura di un tempo la convinzione che
il vero operatore dello scavo non può essere altri che l’archeologo, che uno scavo, anche non
complesso, non può essere condotto materialmente solo da operai e che la manodopera non
qualificata – sostanzialmente inutile sul cantiere di scavo se non per lavori di puntello, carpenteria,
movimenti-terra che rappresentano un aspetto pur importante, ma laterale, dell’intervento – può
semmai trovare spazio nella ricerca solo nell’ambito di una programmazione accurata del suo
impiego, proporzionata alle forze messe in campo (CARANDINI 1981, pp. 143-144).
La figura dell’archeologo va dunque riconosciuta anche a livello burocratico in tutta la sua
complessità e peculiarità anche, certamente, sul piano della retribuzione, nel senso che l’archeologo
deve essere retribuito per quello che effettivamente fa, e che solo lui è qualificato a fare.
Partendo da queste premesse, nella consapevolezza delle difficoltà di ordine burocratico e
amministrativo che intervengono a rendere più difficile la definizione del lavoro professionale
dell’archeologo, si è individuato nel «m 2 stratigrafico» una unità di misura archeologica che consente
di quantificare, anche a livello contabile, il lavoro dell’archeologo.
Questa unità convenzionale, cui fanno riferimento le voci di spesa presenti nelle perizie
apprestate dalla Soprintendenza Archeologica, è stata individuata sulla base delle esperienze sinora
accumulate nei primi mesi di scavo urbano, ed è certamente destinata ad essere ulteriormente
analizzata e perfezionata. Essa si fonda sul rapporto esistente tra la superficie esposta nel corso dello
scavo e le singole unità stratigrafiche che compongono la stratificazione archeologica, e
comprende tutte le operazioni scientifiche eseguite dagli archeologi nel corso dello scavo di quel
m2 multiplo di esso: individuazione sul terreno – secondo le moderne metodologie della ricerca
archeologica e con l’uso degli strumenti più appropriati – della sequenza delle unità stratigrafiche
presenti sul sito; esecuzione della documentazione grafica, orizzontale e verticale, e fotografica,
finalizzata allo studio degli strati e delle strutture; compilazione delle schede descrittive e
interpretative delle unità stratigrafiche; preparazione, siglatura e classificazione preliminare dei
reperti di scavo; redazione del diagramma stratigrafico. [62]
Queste diverse operazioni, distinte per voci, concorrono a determinare il costo medio di un
m 2 stratigrafico, venendo ciascuna di esse valutata secondo un parametro costruito sulla base delle
precedenti esperienze di scavo e quindi destinato ad essere aggiornato nel tempo e modificato.
Attualmente – sulla base di elaborazioni condotte da Antonella Pinna e Giuliano Volpe – un m 2
stratigrafico risulta corredato di 0,125 schede US (o USR), 0,125 piante di strato o strutture, 0,05
rilievi particolari di dettagli, 0,025 sezioni grafiche generali, 0,65 fotografie e 5 reperti di scavo
preparati, siglati e classificati.
Il calcolo dei m 2 stratigrafici analizzati nel corso di una campagna di scavo – o da analizzare in
una previsione di spesa – può essere eseguito sulla base della superficie interessata dallo scavo
moltiplicata per un coefficiente, variabile tra 2 e 4, desunto da una presunzione di minore o
maggiore articolazione e complessità della stratigrafia.
Tra le vecchie perizie che prevedevano gli sterri calcolati a m 2 e le nuove perizie basate sullo
scavo del m 2 stratigrafico credo si possa misurare il salto qualitativo effettuato dalla archeologia
italiana in questo ultimo decennio e valutare anche le potenzialità di successo che si aprono per
quelle Soprintendenze ed Università che, nella tutela come nella ricerca, abbiano scelto la via del
rinnovamento e della esaltazione del lavoro dell’archeologo e della sua professionalità.

4.1.3 Gli archeologi invitati a partecipare allo scavo romano della Crypta Balbi, consapevoli
della centralità di questo aspetto per la definizione della loro stessa immagine professionale, si sono
pertanto costituiti in cooperativa. [63] All’incontro tra Soprintendenza Archeologica e Istituto
Universitario si è aggiunto quindi un terzo soggetto, autonomo anche se saldamente ancorato
nella formazione dei suoi membri ai principi di professionalità e di scientificità dell’intervento
archeologico elaborato nell’ambito universitario. Attraverso la AR.CO Cooperativa
Archeologi passa pertanto il rapporto economico e di lavoro tra committenza statale
(Soprintendenza) e équipe scientifica (Università). Ciò naturalmente non esclude l’apporto
anche di altre imprese edili private in quei settori che siano funzionali al progetto di ricerca,
ma marginali all’indagine scientifica.
Riproduciamo a titolo informativo l’articolo dello Statuto della Cooperativa AR.CO
che fissa intenti, limiti e metodologie degli interventi:
Art. 4 «( ...) La cooperativa si compone di persone portatrici di diversi livelli di esperienza in diversi
ambiti della ricerca archeologica, che hanno come comune interesse e finalità l’applicazione di metodologie
critiche e scientifiche in tale campo.
Tale finalità viene esplicata tramite interventi interdisciplinari nei settori: storico, archeologico,
architettonico, storico-artistico e in attività ad essi riconducibili.
1. Gli interventi sono attuabili attraverso:Scavi archeologici in ambiente urbano e rurale senza
limitazione cronologica, con finalità di ricerca scientifica, salvataggio e tutela.
2. Ricognizioni e ricerche topografiche in ambiente urbano e rurale, schedatura di siti
archeologici e redazione di carte archeologiche.
3. Ricerche bibliografiche e di archivio finalizzate all’analisi di tutte le notizie relative a
complessi o a territori.
4. Fotointerpretazione e prospezioni magnetiche e geoelettriche.
5. Ricerche paleoecologiche finalizzate allo studio di paesaggi agrari antichi.
6. Rilievo di strutture e documentazione grafica e fotografica di ogni tipo di evidenza
archeologica.
7. Restauro di strutture e di reperti mobili.
8. Tutela e valorizzazione di aree e complessi archeologici al fine della conservazione e della
apertura al pubblico.
9. Mostre: dalla progettazione all’allestimento.
10. Musei: allestimento e progettazione, ristrutturazione, inventario e catalogazione.
11. Inventariazione, schedatura e classificazione di materiale archeologico museale e non,
proveniente da vecchi scavi e da scavi in corso, di collezioni private, di complessi archeologici
e di singoli monumenti, complete di documentazione grafica e fotografica.
12. Studio e pubblicazione di qualunque tipo di evidenza archeologica.
13. Immagazzinamento, formalizzazione ed elaborazione di dati relativi a classificazione di
materiali e strutture archeologiche per mezzo di elaboratore elettronico.
14. Prestazione di attività didattiche finalizzate alla divulgazione e alla pubblica fruizione del
patrimonio archeologico e culturale.
I settori di ricerca e lavoro potranno essere ulteriormente ampliati in base a nuove richieste degli enti
preposti alla tutela relativamente alla disponibilità di personale specializzato».

4.1.4 Uno scavo di lunga durata, su grandi estensioni e praticato per grandi aree di
scavo, richiede non solo campagne lunghe ( lo sforzo organizzativo è troppo oneroso perché
non debba essere ammortizzato dai risultati conseguenti da uno scavo prolungato), ma équipes
numerose.
Non siamo ancora in grado di stabilire il rapporto ottimale archeologi/m 2 per uno
scavo urbano di grandi potenzialità stratigrafiche quale quello della Crypta Balbi. Peter
Hudson ha fornito recentemente alcuni dati, desunti dagli scavi condotti nel centro di Pavia,
che prevedono una capacità di scavo da parte di ogni singolo archeologo di 0,3 m 2 al
giorno (HUDSON 1981, p. 54): si intende, naturalmente, 0,3 m 2 di terreno scavato e
documentato. [64] È un dato di grande interesse, non ancora verificato in altri cantieri urbani, che
potrà certamente subire modifiche e che dovrà essere preso in considerazione con l’elasticità che la
natura di ogni singolo sito impone. Ma non v’è dubbio che queste cifre debbano essere
valutate con molta attenzione e che la base di dati-campione di questo genere debba essere
ampliata, poiché la quantità di personale scientifico da impiegare e la quantità di terreno
archeologico indagabile stratigraficamente in un periodo di tempo definito sono due
parametri centrali per la programmazione di ogni intervento, specie nei centri urbani, dove
questi dati vanno verificati il più delle volte alla luce dei tempi e delle condizioni dettate
dall’emergenza.
Su di uno scavo ideale, in linea teorica, potremmo prevedere un rapporto pari ad un
archeologo per 15-20M 2: ma non v’è dubbio che un simile parametro può venir mutato anche
considerevolmente da un’analisi degli aspetti stratigrafici del sito e che il numero di m 2 per
archeologo sembra destinato piuttosto ad essere diminuito nel corso dello scavo, che non ampliato.
4.1.5 Uno scavo ben organizzato, che può contare su di una équipe stabile e qualificata, può
prevedere una rotazione di altro personale meno esperto, invitato a partecipare ad una o più
campagne, ma non direttamente integrato nel progetto generale di ricerca. In queste condizioni
è possibile, anzi auspicabile, l’apertura del cantiere anche a personale volontario. La presenza
di volontari di diversa estrazione, mossi talora anche da motivazioni differenti, è prerogativa di
numerosi cantieri archeologici inglesi e segno dei livelli di profonda integrazione con la
società civile che uno scavo archeologico condotto come servizio pubblico può raggiungere
(CARANDINI 1981, p. 145).
Non tutti possono essere retribuiti: anzi, le finanze a disposizione della ricerca archeologica
garantiscono generalmente basse retribuzioni a scarso personale scientifico. I grandi scavi urbani
potranno diventare tuttavia, oltre che occasioni di lavoro per il personale più qualificato, anche
grandi occasioni di addestramento per le nuove leve della archeologia stratigrafica, invitate a
svolgere in questi siti il loro apprendistato.
In questa prospettiva lo scavo della Crypta Balbi ha intenzione di aprire le sue porte al lavoro
volontario, individuando le forme, non semplici ma necessarie, del suo coordinamento con il
lavoro retribuito. Le difficoltà principali, specie in uno scavo non (esclusivamente) condotto
nei mesi estivi, possono essere costituite dalla lunghezza delle campagne di scavo, e quindi
dell’impegno totale che un volontario può non essere in grado di garantire. Forme di rotazione
e di turni – in genere da evitare perché sicuramente dannose alla organizzazione dello scavo e non
produttive per gli stessi archeologi che ne beneficiano – potranno essere sperimentate, calibrando le
necessità produttive dello scavo con il ruolo di centro di addestramento professionale che una simile
struttura viene oggettivamente a svolgere.
Ricerca scientifica, formazione professionale, servizio pubblico: sono questi i tre poli intorno a
cui ruota il progetto di scavo della Crypta Balbi. L’apertura, in orari definiti, del cantiere di
scavo e l’allestimento sul posto di una mostra esplicativa delle attività in corso, costituiscono
due aspetti di questa iniziativa che, nella salvaguardia delle prerogative professionali, richiede e
favorisce la partecipazione. [65]

4.2 L’organizzazione logistica

4.2.1 Un grande cantiere di scavo urbano, condotto da una comunità scientifica numerosa
che si avvale solo marginalmente del lavoro di operai, necessita di attrezzature efficienti e di una
organizzazione logistica complessa. Le condizioni in cui si svolge lo scavo della Crypta Balbi,
in una grande area circondata di edifici liberi, seppure in stato di grave abbandono,
consentono di programmare un intervento prolungato nel tempo che sia sorretto da una
buona struttura logistica, che garantisca alle attività di ricerca tutti i servizi la cui mancanza
potrebbe riflettersi negativamente sul livello scientifico dell’intervento (fig. 45).
L’accesso all’area avviene da un portone sito in via Caetani 6c, praticabile sia per i pedoni che
per le vetture e gli automezzi adibiti al trasporto delle terre. Un accesso secondario, solo pedonale,
esiste da via delle Botteghe Oscure 24.
1. Il fabbricato allineato lungo Via Caetani, consistente in cinque vani comunicanti,
chiusi sulla via e aperti sul cortile, è in corso di riadattamento temporaneo per le
esigenze del cantiere. In esso sono stati installati i seguenti servizi:vano:
spogliatoio, lavabi, docce, servizi igienici;
2. vano: magazzino per i materiali dello scavo in corso, con tavoli e scaffalature;
3. vano: magazzino per gli attrezzi di scavo; spogliatoio e servizi igienici;
4. vano: laboratorio per la classificazione e lo studio dei materiali; ambiente per
riunioni e seminari;
5. vano: laboratorio per la documentazione grafica e archivio.
Lungo la fronte interna del fabbricato il terreno è stato adattato in modo da consentire
attività di studio e classificazione all’aperto e predisposto per la eventuale esposizione dei pannelli
della mostra che accompagna le attività di scavo, delle planimetrie, dei diagrammi stratigrafici,
degli avvisi collettivi necessari alle attività di ricerca.
4.2.2 Nel corso della prima parte della indagine archeologica le attività di scavo si
concentreranno nella metà orientale del cortile, principalmente nel giardino-esedra e negli
ambienti, coperti e scoperti, esistenti nell’angolo NE dell’area. Una semplice recinzione indica sul
terreno i limiti delle aree in corso di scavo.
Nella metà occidentale del cortile il terreno viene mantenuto sgombro per agevolare il lavoro
delle macchine per movimento-terra e la circolazione dei ricercatori e dei visitatori. Le terre di
risulta vengono concentrate lungo il lato meridionale dell’area. Nell’angolo SW è stato
attrezzato, presso l’antica fontana dell’acqua di Trevi esistente nel chiostro del Conservatorio,
al riparo di una tettoia, il settore per il lavaggio e la siglatura dei reperti provenienti dallo
scavo.

4.3 Norme in vigore sul cantiere di scavo

4.3.1 Una chiara organizzazione che regoli i comportamenti all’interno di una comunità di
ricerca numerosa è premessa necessaria ad ogni scavo archeologico moderno. [66] In uno scavo
urbano complesso tali norme devono essere ancor più evidenti e previdenti. Sia sul piano della
organizzazione logistica che su quello della condotta scientifica (due livelli assolutamente
interdipendenti e condizionantisi l’uno con l’altro) la definizione delle responsabilità deve essere
chiara e riconoscibile ad ogni momento.
Il Regolamento dello scavo, predisposto all’inizio di ogni campagna ed inviato per
accettazione in anticipo ai ricercatori invitati ad operare sul cantiere, mira appunto a fissare le
norme generali di comportamento, individua le responsabilità dei singoli, descrive diritti e
doveri dei partecipanti alla ricerca e regola i rapporti della comunità scientifica al suo interno
e nei confronti del pubblico (cfr. CARANDINI-SETTIS 1979, p. 27 ss.). [67]

Regolamento in vigore per la campagna 1982:

- Organizzazione, finalità e metodi della ricerca verranno illustrati sul cantiere


di scavo il primo giorno della campagna.
- Ogni ricercatore dichiara – sotto la propria responsabilità – di godere di sana
e robusta costituzione fisica e di essere stato vaccinato contro il tetano.
- Ogni ricercatore gode di una polizza di assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro a carico della organizzazione dello scavo.
- Ogni ricercatore dovrà osservare con la massima attenzione le norme di
sicurezza previste sul cantiere ed indicate dalla direzione dei lavori.
- Ogni ricercatore è impegnato a garantire la sua presenza per l’intero
periodo dello scavo. Sabato e domenica non sono lavorativi, ad eccezione
dell’ultima settimana di scavo. I lavori cominciano alle 7.30 del mattino e si
concludono alle 16.30 del pomeriggio. È prevista una sosta per la colazione
dalle 9.30 alle 9.50 ed una per pranzo dalle 12 alle 13. La Direzione dello
scavo si riserva di anticipare o ritardare gli orari in considerazione dalle
esigenze del lavoro sul cantiere.
- L’osservazione degli orari di lavoro deve essere scrupolosa ed impegnativa per
tutti ed è condizione per la partecipazione alla ricerca.
- I ricercatori lavorano per gruppi diretti da un responsabile, cui è affidata la
conduzione di un taglio di scavo. Ogni ricercatore deve fare riferimento al
responsabile per tutti gli aspetti scientifici ed organizzativi del lavoro sul
proprio taglio di scavo.
- Il responsabile di taglio cura l’organizzazione dell’area che gli è affidata;
vista le schede e le piante di strato redatte dai ricercatori, vista le sezioni e
le piante generali redatte dai ricercatori o dai responsabili della
documentazione grafica; redige il diagramma stratigrafico e la relazione
finale al termine dello scavo; richiede la documentazione fotografica che
ritiene necessaria.
- La documentazione grafica generale dell’intera area di scavo è affidata ad un
responsabile, che può richiedere la temporanea collaborazione dei ricercatori.
- La gestione del laboratorio per i materiali dello scavo è affidata ad un
responsabile, che programma e coordina le attività di lavaggio, siglatura e
classificazione preliminare svolte dai ricercatori.
- Il responsabile del laboratorio cura l’ordine dei locali ed organizza i turni di
pulizia degli ambienti di lavoro e dei servizi tra i ricercatori; controlla
l’accesso al cantiere nell’orario di visita.
- Le forniture dei materiali necessari alla ricerca sono affidate ad un responsabile,
che cura i contatti con la Soprintendenza.
- Sono previste le seguenti responsabilità di carattere pratico: pulizia dei
tagli e dell’area di scavo; cura della terra di risulta e della sua asportazione;
custodia del materiale fotografico e degli strumenti ottici; cura della mostra
sul cantiere; cura del materiale di pronto soccorso; cura della
documentazione grafica, delle cassette dei materiali e dei relativi cartellini,
dei materiali di cancelleria, degli attrezzi di lavoro (per ogni taglio).
- Lo scavo ha preminenti finalità di ricerca e di tutela. Aspetti didattici saranno
presenti nello svolgimento delle attività di ricerca.
- I ricercatori collaborano – secondo turni prefissati – sia alle attività di scavo
che a quelle di laboratorio. Useranno sia gli strumenti necessari allo scavo
(piccone, pala, carriola, trowel, spazzola), che quelli necessari alla
documentazione grafica.
- I ricercatori sono tenuti a fornirsi di impermeabile (o tuta) per condurre le
attività di scavo in caso di maltempo, e di scarpe adatte al lavoro nel
fango, come anche di cappello e occhiali per il sole, preventivando il proprio
abbigliamento sulla base del periodo stagionale in cui si effettua la campagna
di scavo.
- L’illustrazione scientifica dei settori di scavo ai diversi gruppi di ricercatori verrà
effettuata periodicamente, in linea di massima con frequenza settimanale.
- L’accesso degli estranei all’area del cantiere è regolamentato da orari.
- La direzione dei lavori del cantiere è affidata all’arch. M. Letizia Conforto, per
conto della Soprintendenza Archeologica di Roma. La direzione scientifica dello
scavo è affidata a Daniele Manacorda, per conto della Soprintendenza
Archeologica di Roma, nell’ambito delle attività dell’Istituto di
Archeologia e Storia dell’arte, della Musica e dello Spettacolo
dell’Università di Siena.
- Su richiesta potranno essere rilasciati attestati di partecipazione alla ricerca.
[68]

4.3.2 La pubblicità delle operazioni di scavo è prerogativa non eludibile di ogni intervento
archeologico moderno. Tale esigenza è ancor più sentita nel caso di scavi condotti nei centri
urbani. La centralità, politica e scientifica, del sottosuolo archeologico di Roma rende questo aspetto
ancor più decisivo e delicato.
Il dovere della pubblicità delle operazioni di scavo deriva dalle stesse premesse giuridiche che
riservano all’intervento pubblico le attività archeologiche sul territorio. La pubblicità dell’intervento
non può esaurirsi pertanto nella pubblicità dei risultati scientifici, cioè nella pubblicazione, sia perché
la relativa pubblicazione scientifica venga assicurata (gli scavi condotti nell’area della Crypta
Balbi nel 1961/62 ne sono piccola ma emblematica testimonianza), sia perché la pubblicazione –
rivolta necessariamente ad un uditorio ristretto – non dà conto, se non in modo assai indiretto nei
casi più fortunati, delle metodologie di ricerca, delle premesse scientifiche, delle tecniche impiegate,
che il lavoro in corso d’opera verifica, modifica, supera.
Per questo motivo l’accessibilità al cantiere di scavo è un compito primario nei confronti del
diritto della cittadinanza alla informazione culturale. Una semplice mostra didattica sul cantiere,
rinnovata nel corso dello scavo, può svolgere egregiamente la funzione di divulgazione e di
aggiornamento, mettendo in luce sia i contenuti della ricerca che gli aspetti generali del know how su
cui quella ricerca viene condotta (cfr. Appendice).
Un cantiere archeologico aperto richiama certamente l’interesse di un pubblico numeroso, la
cui presenza sullo scavo può recare intralcio allo svolgimento delle attività di ricerca. La mostra a
margine dell’area di scavo può servire anche ad evitare un continuo ricorso da parte del pubblico ai
ricercatori per informazioni e dettagli. A fianco della mostra – sulla base della effettiva richiesta da
parte del pubblico – vengono istituiti orari particolari per visite guidate al cantiere e alla mostra da
parte dei ricercatori, rivolte specialmente alle scuole ed alle associazioni culturali.
4.3.3 Se è tempo che i cartelli di «Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori» vengano banditi
dagli scavi archeologici (CARANDINI 1981, pp. 78, 146 e fig. a p. 217), occorre anche prevedere,
specie in uno scavo urbano, tutti quegli accorgimenti che tutelino la produttività del lavoro degli
archeologi, la salvaguardia delle strutture e dei reperti, nonché la stessa sicurezza degli operatori e
dei visitatori.
Lo scavo della Crypta Balbi si pone pertanto, sin dal suo inizio, il duplice obiettivo di
garantire, con un alto standard di produttività scientifica, il massimo di pubblicità e di sicurezza, il
massimo di informazione e di “spettacolo” nel corso della ricerca, che non pregiudichi la qualità e la
celerità della acquisizione e della divulgazione dei risultati (pubblicazione).
Gli aspetti della sicurezza delle condizioni di lavoro sul cantiere devono essere oggetto di
attenzione costante. Il nostro Paese, che conosce un indice di infortuni sul lavoro nel settore
industriale ed artigianale piuttosto elevato, non raggiunge fortunatamente le cifre relative ad
incidenti sugli scavi archeologici note in altri paesi (FOWLER 1972) per il solo motivo che la
pratica degli scavi urbani su grandi aree, in zone di demolizione e ricostruzione edilizia, condotti da
équipes di archeologi è ancora – per nostro grave ritardo culturale – assai poco diffusa. [69] Ma non
v’è dubbio che questo tipo di intervento archeologico, che nulla ha a che vedere con la prassi abituale
dello sterro su vasta scala o del sondaggio di pochi metri quadrati, tradizionalmente delegato ad
una impresa edilizia, comporta un indice di rischio piuttosto elevato, che può e deve essere
consistentemente ridotto tramite la formazione precoce di una coscienza professionale nelle
nuove leve di archeologi e la individuazione precisa dei punti di massimo rischio. Ciò si
traduce nella codificazione di norme (abituali nei cantieri inglesi) che prevedano e prevengano
gli infortuni.
Sul cantiere della Crypta Balbi a ciascun ricercatore viene consegnato un codice di
comportamento, che ovviamente deve essere adattato alle necessità peculiari di ciascun sito ed
agli standard professionali delle équipes che vi operano.

Norme di sicurezza da osservare sul cantiere:

La mancanza di attenzione durante il lavoro può causare incidenti, anche gravi. È quindi
necessario:
- fare attenzione agli avvertimenti di pericolo e rispettarli
- non correre e non saltare sullo scavo, usare i percorsi prestabiliti per attraversare
l’area, senza prendere scorciatoie
- mantenere sempre puliti i percorsi e tutta l’area dello scavo, con particolare riguardo
per quella che circonda i singoli tagli
- non arrampicarsi e non stazionare mai sulle strutture
- fare molta attenzione quando si lavora o si cammina in vicinanza di terra smossa o
di un piano mobile (tavolato, ponteggio...)
- non lavorare ad una profondità superiore a m. 1.50 senza aver indossato l’elmetto e
senza che le pareti del taglio siano giudicate sicure
- non arrampicarsi e non sostare mai sulle pareti del taglio
- non gettare attrezzi o pietre fuori e dentro il taglio
- non lasciare la carriola in posizione instabile lungo i bordi del taglio – non
sollevare mai gli attrezzi al di sopra della testa
- non sollevare pesi superiori alle proprie capacità o che nel trasporto impediscano
la visuale
- non cercare di usare alcuna macchina senza essere autorizzati a farlo
- riferire al proprio responsabile ogni circostanza in cui non siano garantite le
norme di sicurezza
- fare attenzione ogni qualvolta si debba usare una scala: assicurarsi che sia aperta
completamente, se a libretto, o appoggiata alla parete con un angolo di 75°; non
indossare scarpe sporche di fango o scivolose e rimanere, durante la salita e la discesa,
rivolti verso la scala
- indossare stivali o scarpe adatte a proteggere il piede da eventuali ferite, colpi o
distorsioni.
L’osservazione delle norme di sicurezza deve essere tanto più attenta quanto più
frequente si fa l’uso – indispensabile in uno scavo urbano di grandi dimensioni – delle
macchine per movimento-terra. Mentre la pala meccanica è strumento essenziale per il
carico delle terre di risulta, che devono essere continuamente asportate dal terreno che
circonda lo scavo, l’escavatore si rivela strumento prezioso e talora decisivo nel caso dello
svuotamento di potenti accumuli omogenei, specie se costituiti da materiali di demolizione, la
cui asportazione manuale comporterebbe tempi inaccettabili (fig. 46).
L’archeologia stratigrafica non ha timore delle macchine. La pratica antica degli sterri
disastrosi compiuti con le ruspe in spregio ad ogni norma scientifica non deve far bandire l’uso
di questi strumenti dal cantiere dello scavo stratigrafico. Al contrario, un escavatore ben
guidato può essere strumento anche più duttile dei più delicati utensili in dotazione
all’archeologo. Ancora una volta ciò che conta è il metodo stratigrafico e la capacità
dell’archeologo di distinguere e coordinare i tempi dell’analisi e quelli della sintesi. [70]

4.4 Aspetti dell’organizzazione scientifica dello scavo

4.4.1 Ogni scavo ha le sue proprie esigenze di organizzazione, anche scientifica, delle attività.
Non v’è dubbio, d’altronde, che le scelte di fondo per la conduzione di uno scavo stratigrafico, specie
se su vasta area, devono essere chiare sin dall’inizio della ricerca e rifarsi a quelle metodologie
scientifiche ed organizzative che oggi anche in Italia cominciano a diffondersi.
La teoria e la pratica dello scavo stratigrafico di derivazione britannica, ma rivissute in
un’ottica propria alla cultura ed alle esigenze della situazione archeologica italiana, sono state oggetto
di un recente manuale di Andrea Carandini (CARANDINI 1981), nel quale è stata riversata una
lunga esperienza di scavo – e di organizzazione dello scavo – maturata in particolare nelle sette
campagne di scavo e ricognizione effettuate a Settefinestre (CARANDINI- SETTIS 1979). Il nucleo
dirigente dello scavo della Crypta Balbi appartiene a quella scuola, proviene in parte da quella
esperienza, si richiama a quei principi, codificati in Storie dalla terra, che sono anche stati oggetto di
presentazione e discussione critica nell’ambito del Convegno «Come l’archeologo opera sul campo»
organizzato a Siena nel maggio 1981.

4.4.2 I principi sperimentati a Settefinestre ed esposti nel manuale di Carandini sono stati
adattati alla situazione dello scavo urbano.[71]
Sull’area della Crypta Balbi è stata imposta una quadrettatura ideale, con maglie di 2,50 metri
di lato, che ha il punto di origine delle coordinate presso l’incrocio meridionale del muro
dell’esedra romana con la fronte orientale del grande muro diametrale in laterizio. L’allineamento
NS della quadrettatura segue pertanto quello del muro romano affiorante. Ogni punto sull’area di
scavo è individuato dai valori delle coordinate NS e WE Ogni quadrato della quadrettatura è
individuato dalle coordinate del suo angolo SW.
Agli allineamenti NS e WE della quadrettatura corrispondono altrettante sezioni dell’area di
scavo, redatte in scala 1:20 nel corso del lavoro. Nella aleatorietà della previsione delle strutture
presenti in un sito urbano pluristratificato l’imposizione di un reticolo di sezioni estremamente fitto,
pur se astratto, è parsa la soluzione più adatta a garantire il massimo di potenzialità alla
documentazione verticale.
Ogni sezione, pur se impostata parzialmente ‘alla cieca’, viene verificata e definitivamente
avviata solo dopo l’asportazione del primo e potente livello di macerie, che consente la messa in
luce almeno delle strutture superstiti degli edifici di età rinascimentale. Sin dall’inizio alcune delle
sezioni possono venire pertanto deviate dagli allineamenti originari in conformità delle esigenze del
terreno (CARANDINI 1981, p. 115). Alla impossibilità di previsioni circa le strutture inferiori si
supplisce con le sezioni aggiunte e con la impostazione di nuove sezioni generali del sito a livelli più
bassi: le possibilità di ricostruzioni a posteriori sono in questo caso garantite dalla documentazione
planimetrica quotata di tutte le unità stratigrafiche del sito.
È evidente la centralità a questo fine della documentazione stratigrafica orizzontale, la quale
non deve comportare, d’altra parte, uno svilimento della documentazione verticale. Quest’ultima sul
cantiere della Crypta Balbi viene apparentemente ipervalutata, almeno a livello progettuale, in
considerazione della scarsa incidenza delle sezioni parietali nelle grandi aree, specie negli scavi
urbani. Questa incidenza è ulteriormente diminuita dalla frequenza con cui – per motivi di
sicurezza e di impostazione scientifica dei tagli di scavo – le pareti dei singoli saggi vengono a
coincidere con gli allineamenti dei muri affioranti dal terreno.

4.4.3 Sul cantiere vengono usate contemporaneamente due schede diverse per le unità
stratigrafiche (App. fig. 2). All’atto dello scavo viene compilata la scheda US ampiamente
sperimentata a Settefinestre (CARANDINI-SETTIS 1979, pp. 104-107), dotata sul retro del reticolo
millimetrato necessario per la documentazione grafica. In sede di rielaborazione dei dati in
laboratorio vengono travasate le informazioni nelle schede US (e USR) predisposte dall’Istituto
Centrale del Catalogo e presentate a Siena in occasione del Convegno del 1981 (CARANDINI
1981, p. 103 ss.). Per le murature è prevista la utilizzazione delle schede USM predisposte da
Roberto Parenti per lo scavo medioevale di Scarlino, diretto da Riccardo Francovich, ed illustrate
anch’esse nel corso del Convegno di Siena (Come l’archeologo opera sul campo, c.s.).
Le piante di strato (overlays) vengono redatte su fogli di lucido prestampati (App. fig. 3),
ideati tenendo presente il modello in uso presso il Department of urban archaeology del Museum of
London (CARANDINI 1981, p. 216). I fogli sono approntati in tre formati diversi (70x50 cm;
50x35 cm; 35x25 cm); riportano tutti una quadrettatura con maglie di 5 cm di lato, che consente un
facile rilievo sia in scala 1:20 che 1:50, e sono corredati da una intestazione che prevede vede le
voci: località, anno, saggio, settore, ambiente, quadrato, scala, data, esecutore, numero di unità
stratigrafica, annotazioni, numero d’inventario. [72]
Insieme con gli strumenti fondamentali per un sistema corretto di documentazione
grafica e scritta dello scavo, i ricercatori, specie se alle loro prime esperienze, vengono
guidati nelle attività in modo da acquisire, insieme con gli strumenti teorici necessari e le
nozioni pratiche che solo l’esperienza dello scavo insegna, anche il necessario ‘automatismo
critico’ che consente di svolgere con compiutezza e nell’ordine prestabilito tutte le operazioni
necessarie per lo scavo e la documentazione di ogni unità stratigrafica, con il minimo
dispendio di energie fisiche ed organizzative (figg. 47-48). A tal fine è stato predisposto un
elenco delle operazioni fondamentali necessarie, che guida lo scavatore inesperto nel corso
del suo lavoro ed aiuta il responsabile del saggio nel controllo costante di tutte le attività
svolte nell’area di scavo da lui coordinata:

Scavo e documentazione di una unità stratigrafica (US)

1. Pulisci l’area di scavo


2. Identifica i limiti della US
3. Prendi la scheda numerata ed impostala (voci: località – anno – saggio – settore – ambiente –
unità stratigrafica – definizione – misure – stato di conservazione – descrizione – sequenza fisica
– sequenza stratigrafica)
4. Identifica le coordinate della US nell’ambito della quadrettatura
5. Prendi il foglio lucido e disegna la pianta della US in scala 1:20, riportandovi il numero già
assegnato
6. Prendi le quote dei punti più significativi della US e comunque quelle degli incroci della
quadrettatura
7. Chiedi al responsabile l’eventuale esecuzione di una fotografia
8. Decidi con il responsabile il metodo di scavo da adottare e le eventuali sezioni cumulative da
eseguire
9. Prendi la cassetta per i materiali e predisponi il relativo cartellino
10. Scava la US
11. Finisci di compilare la scheda nelle parti mancanti (voci: componenti – consistenza – colore –
descrizione – osservazioni – sequenza fisica – sequenza stratigrafica – interpretazione – elementi
datanti – setacciatura – campionatura – flottazione – affidabilità stratigrafica); apponi la tua
firma e la data
12. Porta la cassetta dei materiali al laboratorio.
Le attività prescritte in questa sorta di vademecum dello scavatore (fig. 49) possono
apparire a prima vista semplici e banali, e la loro proposizione in forma ‘catechistica’ può
apparire oziosa. In realtà, l’esperienza dimostra che da una corretta osservazione delle norme
sopra elencate e dal loro concatenamento deriva quella attenzione critica che deve guidare ogni
gesto dell’archeologo nell’atto dello scavo, e insieme quel sistema coordinato e integrato di
documentazione che è alla base di ogni futuro lavoro di interpretazione storico-archeologica
e quindi di predisposizione del materiale per la pubblicazione. La semplicità delle norme e la
chiarezza delle indicazioni è quindi presupposto fondamentale della accuratezza e della
profondità di analisi di ogni più complessa indagine stratigrafica. [74]
5. Problemi del recupero urbano
di Maria Letizia Conforto

L’ipotesi che la valorizzazione del patrimonio archeologico costituisca comunque un


presupposto fondamentale per la riqualificazione del tessuto urbano rende necessario individuare una
strategia di intervento che esalti le potenzialità particolari di ciascun settore e proietti alla scala
generale della intera città le qualità ritrovate. In questo senso la proposta di operare all’interno delle
Mura Aureliana per comparti diventa una proposta strumentale ma anche di metodo, finalizzata
all’individuazione di aree di intervento nelle quali il dato archeologico sia tale da prefigurare, anche
attraverso una riorganizzazione dell’immagine, una via originale di ricomposizione del patrimonio
storico nel suo insieme con la città nella sua totalità.
Le stesse opere di restauro e recupero vengono così a definirsi in termini complessi ed ormai
totalmente estranei al tradizionale concetto di monumento. Ad esso si sostituisce l’interesse di una
testimonianza diacronica costituita dall’insieme dei dati scientifici propri di uno scavo
stratigrafico in area urbana. Qualità e quantità di dati che documentano le trasformazioni e
testimoniano degli usi e dei costumi ma non portano necessariamente alla «scoperta di monumenti»,
rendono tuttavia problematico l’uso anche delle metodologie più avanzate del recupero, sino a oggi
tendenti a conservare le funzioni compatibili ed a sostituire quelle obsolete senza alterare la
fisionomia del complesso architettonico e la sua struttura, articolata in elementi ripetitivi ed
emergenze.
Nel caso della Crypta Balbi, ma forse si deve pensare di estendere questo metodo di lavoro a
tutte quelle aree per le quali distruzioni più o meno recenti e dovute ad eventi diversi hanno
definitivamente compromesso la immagine urbana esistente senza definirne una nuova, ci si trova ad
operare al di fuori delle ipotesi già sperimentate come valide, e secondo parametri metodologici
ancora da definire e di difficile definizione. A qui possibile avvalersi solo in parte degli apporti
scientifici e disciplinari che hanno consentito di affrontare nei centri storici, ma separatamente ed
in tempi diversi, interventi di restauro e di risanamento, ristrutturazioni e integrazioni, piani di
ricostruzione e piani di recupero.
Si tratta in questo caso prima di tutto di acquisire allo spazio urbano la lettura scientifica delle
trasformazioni avvenute nelle zone lasciate libere dalle demolizioni del convento di S. Caterina, dei
cambiamenti subiti dalle unità abitative e dagli edifici che definiscono il perimetro, distinguendo
strutture originarie e superfetazioni, adattamenti e trasformazioni in un insieme reso oggi
incomprensibile dal collasso delle strutture orizzontali, ritrovando una forma che questo insieme
riscatti dal risultato casuale di oltre quaranta anni di abbandono (tavv. I-III).
Dati meno particolari, ma significativi sul piano dell’intervento metodologico, emergono
all’intorno dall’esame del settore urbano compreso tra il teatro di Pompeo e quello di Marcello.
Rispetto ad esso l’isolato della Crypta costituisce forse attualmente uno dei punti di maggior degrado
nel tessuto rinascimentale ma proprio in virtù di questo stato di abbandono, uno dei punti di
maggiore potenzialità per un recupero significativo nel complesso del tessuto generale della città,
sconvolto e approssimativamente disegnato dall’apertura di via Arenula, dall’allargamento di via
delle Botteghe Oscure, dall’arbitrario diradamento di piazza Venezia e di via del Teatro Marcello,
dai pesanti inserimenti di strutture pubbliche e private. [75]
Ci si trova così di fronte ad un settore urbano di enorme valore storico e di eccellente qualità
architettonica reso frammentario da interventi finalizzati alla volorizzazione delle aree più che degli
edifici, che tendendo a rendere efficiente la circolazione veicolare, hanno reso ormai quasi impossibile
anche quella pedonale.
Il restauro ed il recupero dell’isolato diventano così operazioni complesse, che partendo dal
presupposto che non è possibile privilegiare un particolare momento storico rispetto a quelli
successivi, si propongono di far assumere all’insieme un nuovo significato prima di tutto culturale
rendendone leggibili le fasi di trasformazione; si pone dunque in modo evidente la necessità di
intervenire, anche nel restauro, con un progetto. Progetto basato sull’importanza dei dati
conoscitivi emersi, dati che è necessario riorganizzare in una proposta complessa, funzionale alla
città moderna. Il recupero è quindi recupero delle qualità storiche attraverso una attenta analisi dei
materiali architettonici e delle loro trasformazioni, che va dal ripristino del livello di calpestio del
teatro alla lettura dello spaccato delle trasformazioni degli stadi successivi attraverso piani di
sezione simbolici che favoriscano la ricomposizione formale dei volumi dell’intero complesso.
Il recupero degli usi e funzioni storiche non tende dunque al ripristino di situazioni ormai
difficilmente compatibili con la città moderna, ma più generalmente a distinguere la specificità degli
spazi destinati a funzioni collettive o a funzioni individuali. Saranno quindi da destinarsi a funzioni
pubbliche l’invaso stesso della piazza interna reso accessibile da più parti con prospettive e percorsi
conoscitivi diversi; assumeranno il valore di punti di concentrazione per manifestazioni culturali
quanto resta della struttura del convento di S. Caterina e la sequenza omogenea dei piani terra a
magazzino o a passaggio, mentre il volume interno compreso tra la quota attuale e quella antica, da
strutturarsi come opera di contenimento e di sostegno dei livelli superiori, si propone venga destinato
a polo di servizio conoscitivo, dove possano essere raccolti ed elaborati dati relativi alla costruzione
della città ed organizzati i vari tipi di media che tali dati rendano comunicabili in aree di
consultazione specializzata.
Tutti gli spazi di taglio più minuto già destinati a funzioni residenziali potranno essere
recuperati come tali purché si abbia chiaro che questi si qualificano come residenze con connotati del
tutto particolari (estrema mobilità, prevalenza dei servizi comuni sullo spazio privato ecc.), e,
soprattutto, che superando la concezione tradizionale della cellula abitativa si può forse dare
risposta alla giusta esigenza collettiva della difesa degli spazi residenziali all’interno del centro
antico.
Per quanto riguarda l’accessibilità restano valide le ipotesi generali formulate altrove sulla
sostituzione del traffico di attraversamento veicolare con infrastrutture metropolitane che trovino
in opportuni punti i nodi di interferenza tra le diverse reti di comunicazione urbana. [79]
È possibile così far riemergere i tradizionali percorsi urbani di attràversamento tra il Campo
Marzio e il Campidoglio, percorsi che risultano nel progetto integrati ed in costante tangenza con il
sistema discreto dei centri di informazione e di scambio già in parte attestato nei palazzi storici e che
troverebbe nel nuovo centro un punto di riorganizzazione per un definitivo salto di scala. A
questi si affianca e si sovrappone la rete più minuta ed articolata dei percorsi interni agli isolati che
mette in comunicazione spazi e livelli diversi. Si individua così un sistema complesso di attività
che vanno dalla raccolta ed elaborazione dei dati conoscitivi sulla città alla loro organizzazione
e divulgazione, sistema che definisce e qualifica anche l’attività intellettuale e scientifica nell’ambito
dell’intera area metropolitana.
Si definisce e si qualifica infine rispetto all’intera area metropolitana la nuova funzione del
centro antico trasformato dal nuovo ruolo del patrimonio archeologico, non più come terziario
commerciale che emargina e declassa le altre attività, ivi comprese quelle culturali, ma come
efficace strumento di cultura e di informazione. [80]
Appendice

La mostra sul cantiere

Coordinamento e allestimento:
Micaela Alemà, Matilde Cante, Maria Letizia Conforto, Daniele Manacorda, Lidia Paroli

Testi e ricerche:
Micaela Alemà, Valeria Bartoloni, Maria Teresa Cipriano, Cecilia D’Ercole, Ada Gabucci,
Paula K. Lazrus, Daniele Manacorda, Alessandra Molinari, Antonella Pinna, Lidia Paroli, Lucia
Saguì, Stefano Tortorella, Giuliano Volpe

L’allestimento della mostra e la elaborazione del progetto di scavo hanno potuto valersi in diversa misura della
collaborazione e della cortesia di amici e colleghi di lavoro cui va il nostro ringraziamento: Pier Giovanni Guzzo,
Rosalba Quinto ed Emanuele Gatti della Soprintendenza Archeologica di Roma, che hanno fornito materiale
fotografico, documentazione di archivio e notizie, gli architetti Ferretti e Porzio della Soprintendenza per i Beni
Architettonici del Lazio, che hanno favorito le ricerche di archivio, Eugenio La Rocca, che ha fornito documentazione
fotografica di materiali conservati nelle collezioni archeologiche comunali, Eugenio Monti, che ha eseguito numerose
fotografie per conto della Soprintendenza Archeologica di Roma, la signora Maria Luisa Fiorentino, che ha favorito lo
studio della documentazione archeologica e di archivio di pertinenza del Conservatorio di S. Caterina della Rosa, ed infine,
ma non ultimo, Filippo Coarelli, cui siamo più volte ricorsi per informazioni e consigli circa la situazione topografica
antica dell’area indagata. Un ringraziamento particolare dobbiamo alla Direzione dell’Ufficio Italiano Cambi, proprietario
dell’area, che segue con interesse fin dall’inizio le attività di ricerca, ed a Riccardo Francovich, che ha voluto
accogliere questo testo nella collana da lui diretta. [82]

QUESTO SCAVO (fig. 1)

Questo scavo interessa l’area urbana abbandonata compresa fra via delle Botteghe Oscure, via
Caetani, via dei Delfini e via dei Polacchi, visibile al centro della fotografia aerea.
L’indagine è condotta dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, nell’ambito della legge
speciale n. 92 del 23.3.81, e affidata, per quanto riguarda la direzione scientifica, all’Istituto di
Archeologia e Storia dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo dell’Università di Siena.
La prima campagna di scavo si è svolta nei mesi di novembre e dicembre 1981. Per il 1982
sono previste due campagne in primavera e in autunno. Le attività di ricerca sono condotte da
archeologi (docenti, ricercatori, laureati e studenti) provenienti da numerose università italiane.
Gli archeologi conducono direttamente tutte le operazioni di ricerca: individuazione e scavo
degli strati; raccolta dei materiali; documentazione grafica (planimetria e sezioni) e fotografica;
compilazione delle schede stratigrafiche; classificazione dei reperti.
Questo scavo interviene in un’area molto vasta del centro storico di Roma, che ha già visto
in questo secolo numerosi interventi archeologici spesso finalizzati alla esaltazione retorica dei
monumenti antichi, perseguita attraverso la distruzione sistematica delle stratificazioni millenarie
della città.
Obiettivo di questa ricerca è la restituzione – finora mai tentata – di uno spaccato di vita
urbana, attraverso il riconoscimento degli insediamenti che in età romana, medioevale,
rinascimentale e moderna si sono succeduti in questo sito.
I risultati dell’indagine archeologica costituiscono un patrimonio comune che deve essere
comunicato anche nel corso stesso dello scavo: questa mostra intende rispondere a tale esigenza. [82]

LO SCAVO ARCHEOLOGICO (figg. 2-3)

L’indagine archeologica fornisce gli elementi essenziali e insostituibili per la ricostruzione


delle civiltà passate, basata sui dati materiali, costituiti dagli oggetti, dai monumenti, dalle opere
d’arte, dalle strade o da qualunque altra traccia lasciata sul terreno dalla successione delle diverse
civiltà. Lo scavo archeologico è lo strumento attraverso il quale possiamo ripercorrere le tappe di
questa presenza umana e recuperare i prodotti del lavoro di chi ci ha preceduto, inserendoli nel
contesto del momento storico che li ha pensati, creati, utilizzati.
L’archeologia nel senso più moderno del termine è scienza giovane, sviluppatasi in questi
ultimi cento anni. Lo scavo oggi non è più considerato come una operazione di sterro, con la quale
si liberano i monumenti antichi dalle terre che li hanno sepolti, ma come un’operazione scientifica,
molto delicata, volta a restituire ad ogni traccia lasciata dall’uomo o dalla natura un posto preciso
nello svolgimento della serie di eventi che si sono succeduti in un determinato luogo. La terra –che
ora ricopre queste tracce ed ora fornisce il supporto per nuove attività – non è più dunque la nemica
dell’archeologo, che nasconde i tesori sepolti, ma è essa stessa, come gli oggetti in essa contenuti,
un campo di indagine, che può fornire molte risposte alle domande dell’archeologo.
Lo scavo archeologico scientifico applica un metodo, detto stratigrafico, che consente di
non perdere le infinite informazioni storiche sedimentate nel sottosuolo. La stratigrafia consiste
nella rilettura, in ordine inverso, di tutti gli eventi grandi e piccoli succedutisi nel tempo: il terreno
viene sfogliato come un libro, pagina dopo pagina, cominciando dalla fine, cioè dall’oggi.
Il rapporto dell’uomo con l’ambiente si manifesta in una successione continua di
avvenimenti, che l’archeologo deve riconoscere nel corso dello scavo e che chiama unità
stratigrafiche. La somma di queste unità e le loro giuste relazioni cronologiche consentono la
ricostruzione del passato. Le unità stratigrafiche possono essere « positive », cioè concrete,
prodotte dall’uomo (un muro, un pavimento, uno strato di terra, un mucchio di rifiuti...) o dalla
natura (una duna di sabbia trasportata dal vento, uno strato alluvionale depositato da un fiume in
piena, uno strato di lapilli derivati da un’eruzione vulcanica...); oppure « negative », ed essere il
prodotto, anche questo umano o naturale, di un’azione di distruzione, di usura, di erosione (la cresta
di un muro crollato, il taglio eseguito nel terreno per scavare una fossa, la consunzione di una soglia,
lo smottamento di una strada per frana...).
L’archeologo deve individuare queste unità e disporle secondo un ordine cronologico.
Lo scavo stratigrafico deve cioè permettere di stabilire quale evento sia accaduto prima e quale
dopo di un altro. L’osservazione dei rapporti esistenti tra gli strati di terreno e le strutture edilizie
è uno dei compiti fondamentali dello scavo stratigrafico. Analizzando le relazioni tra le terre e le
strutture, gli interventi umani e naturali, l’archeologo può creare un sistema di cronologia relativa,
che assegni ad ogni avvenimento una posizione nel tempo rispetto agli altri (più antico,
contemporaneo, più recente).
Un momento successivo della interpretazione archeologica è costituito dal passaggio alla
definizione della cronologia assoluta, cioè dell’epoca precisa, del secolo, del decennio, dell’anno
(se possibile) in cui i singoli eventi si sono verificati. Questa operazione richiede non solo
l’indispensabile perizia tecnica necessaria nello scavo stratigrafico, ma anche una conoscenza
profonda del periodo storico indagato, e dei materiali (oggetti della vita quotidiana, materiali da
costruzione, monete, opere d’arte...), che il terreno restituisce. [83]
Lo studio dei materiali di scavo rappresenta un momento molto importante del lavoro
dell’archeologo. Sono infatti questi materiali, il più delle volte semplici cocci, che consentono di
stabilire la data di uno strato di terra, di una struttura e delle singole fasi di un insediamento. La
conoscenza dei materiali e della loro cronologia permette di definire i limiti di tempo entro i quali un
evento può essersi verificato: uno strato viene infatti datato sulla base del materiale più recente che in
esso si rinviene.
I cocci, tuttavia, non servono solo a definire la datazione degli strati, delle strutture e delle
fasi edilizie di un sito archeologico; essi hanno anche una grande importanza come fonti dirette per
la storia economica e commerciale. Attraverso il loro studio veniamo informati, infatti, delle
produzioni artigianali più diffuse nelle civiltà passate, degli scambi commerciali, della qualità e della
quantità delle derrate alimentari (scomparse). La presenza o l’assenza negli strati archeologici
di questa o quella diversa produzione ceramica diventa quindi indizio importante di grandi mutamenti
nella storia economica delle antiche civiltà. La classificazione, attenta e minuta, di tutti i generi
prodotti nelle epoche passate, e rimasti inalterati nella terra, non è più un’operazione antiquaria ed
erudita, ma uno strumento necessario per ricostruire tecniche artigianali, forme di produzione,
trasmissioni di modelli, modifiche del gusto e della cultura.
L’archeologo-storico è ora sempre più uno scienziato, sempre meno un letterato o un esteta,
come nel passato. Lo scavo è divenuto un’operazione di alta specializzazione scientifica, che richiede
una preparazione adeguata e una lunga esperienza sul campo. Come il corpo umano viene affidato
alle mani del chirurgo quando debba subire un’operazione, così la terra, per far rivivere la quantità di
storia sedimentata nei suoi strati, deve essere aperta e sezionata dall’archeologo, seguendo
scrupolosamente le leggi della stratigrafia. [84]

LA TOPOGRAFIA ANTICA: IL TEATRO E LA CRYPTA DI BALBO (figg. 4-7)

Il Campo Marzio era la pianura, esterna alle Mura Serviane, compresa tra il Campidoglio a
S, il Tevere a W, le estreme pendici del Quirinale e del Pincio ad E e a N.
Il settore S orientale del Campo Marzio, dove sarebbero sorti il Teatro e la Crypta di Balbo,
era occupato in età repubblicana dalla Villa Publica. All’interno di questo grande parco sorgeva un
edificio, dove ogni cinque anni aveva luogo il censimento del popolo romano. L’estensione della
Villa fu progressivamente ridotta per la costruzione di edifici pubblici e privati. In età augustea vi fu
edificato il Teatro di Balbo con la Crypta annessa. [85]
All’inizio dell’età imperiale il Campo Marzio meridionale aveva assunto il suo aspetto
monumentale pressoché definitivo. A S sorgevano il Teatro di Marcello e i templi di Apollo e di
Bellona, seguivano quindi da un lato la vasta piazza del Circo Flaminio e dall’altro le grandi aree
porticate (tra cui il Portico di Ottavia, ancora in parte conservato) che racchiudevano celebri edifici
templari dedicati a Giove Statore, a Giunone Regina e ad Ercole e le Muse. A N W l’antica
area sacra di Largo Argentina era stata delimitata, verso occidente, dal complesso costituito dai
portici e dal Teatro di Pompeo, verso oriente (probabilmente al tempo di Claudio) da una grande
piazza porticata, la Porticus Minuciafrumentaria, che circondava un tempio dedicato alle Ninfe. In
questa piazza avvenivano le distribuzioni gratuite di grano al popolo romano. Ancora più a N
sorgevano le Terme di Agrippa e il Pantheon, il Diribitorium e i Saepta Iulia, grandiosa piazza
rettangolare dove in età repubblicana si riuniva in assemblea il popolo romano. Il Teatro e la Crypta
di Balbo sorgevano pertanto al centro di un’area monumentale densamente edificata.
La Forma Urbis è una grande pianta di Roma (m 18,30 x 13) incisa su lastre di marmo
all’inizio del III secolo d.C., durante l’età di Settimio Severo. Si trovava in un’aula del Foro della
Pace, affissa ad una parete di mattoni che è ancora oggi visibile lungo la via dei Fori Imperiali
(chiesa dei SS. Cosma e Damiano). La pianta andò distrutta per la massima parte nel corso dei
secoli; molti frammenti tuttavia furono ritrovati a partire dal XVI secolo (attualmente sono
conservati al Museo di Roma a Palazzo Braschi). La pianta offriva una descrizione estremamente
dettagliata della topografia di Roma antica con le sue XIV regioni. Le didascalie che vi compaiono
hanno permesso l’identificazione di molti monumenti antichi. [87]
Il Teatro di Balbo è il terzo e il più piccolo dei teatri in muratura costruiti a Roma, dopo quelli
di Pompeo e di Marcello: esso aveva una capienza di 11.510 spettatori. La sua architettura doveva
essere fastosa: Plinio il Vecchio ricorda quattro preziose colonne di onice, che probabilmente
appartenevano alla scena del teatro.
I lavori per la costruzione dell’edificio furono condotti a spese di Lucio Cornelio Balbo,
nativo di Cadice, sostenitore prima di Cesare e poi di Ottaviano, grazie al bottino del suo trionfo,
celebrato nel 19 a.C. su di una popolazione dell’Africa, i Garamanti. L’edificio fu inaugurato nel 13
a.C. in condizioni del tutto eccezionali, dal momento che, avendo straripato il Tevere, si dovette
accedere al teatro in barca. Il teatro fu danneggiato da un incendio rovinoso che, nell’anno 80 d.C.,
aveva devastato numerosi edifici pubblici da un capo all’altro del quartiere, e in seguito fu restaurato,
probabilmente dall’imperatore Domiziano (81-96 d.C.). Il teatro era ancora in funzione nel IV
secolo d.C.
Alle spalle della scena dobbiamo immaginare una vasta area aperta, circondata da un portico o
piuttosto da un ambulacro, sovrastante ad un portico sotterraneo o criptoportico (Crypta).
La Crypta Balbi era destinata a svolgere diverse funzioni connesse alla vita del teatro. Essa
costituiva un riparo per gli spettatori in caso di pioggia, o un luogo per il passeggio pubblico. Poteva
offrire inoltre gli ambienti necessari alla preparazione degli spettacoli ed ospitare, forse,
anche botteghe artigiane.
Fino al 1960 si riteneva che il Teatro e la Crypta di Balbo fossero situati ad E di via Arenula,
nella zona del Ghetto. In realtà essi sono da individuare nell’area compresa tra via delle Botteghe
Oscure, piazza Paganica, piazza Mattei, via dei Funari, via dei Delfini e via dei Polacchi, dove prima
si riconosceva erroneamente il sito del Circo Flaminio. L’identificazione del monumento, dovuta
agli studi di Guglielmo Gatti, è stata resa possibile dall’analisi dei frammenti della Forma Urbis e
delle strutture ancora superstiti. [88]

LE SOPRAVVIVENZE MONUMENTALI (figg. 8-12)

Nelle cantine del Palazzo Paganica restano tre cunei relativi alla cavea del Teatro di Balbo,
costituiti da muri radiali in perfetta opera reticolata con testate in blocchi di tufo e travertino. Nel
cortile del palazzo sono ancora visibili imponenti strutture in travertino e tufo appartenenti
all’elevato del Teatro.
I resti visibili della Crypta consistono in due grandi muri paralleli, in opera quadrata di tufo e
travertino, movimentati da nicchie, conservati nelle cantine degli edifici moderni lungo via delle
Botteghe Oscure e via dei Delfini, e in un muro di laterizio connesso ad un grande muro
semicircolare in blocchi di travertino e tufo in parte emergenti nel cortile interno di via Caetani
6c.[89]

I DOCUMENTI ARCHEOLOGICI (figg. 13-20)

Oltre alle strutture antiche ancor oggi visibili si possono attribuire al complesso monumentale
Teatro-Crypta alcuni resti archeologici provenienti dalla zona.
Alcuni disegni di particolari architettonici, eseguiti da artisti cinquecenteschi nell’area delle «
botteghe oscure », potrebbero riferirsi alla decorazione di parti del Teatro o della Crypta di Balbo,
erroneamente identificata al tempo con l’antico Circo Flaminio, come indicato –ad esempio – nella
veduta di Roma di F. Paciotti del 1557.
L’edificio al centro dell’area della Crypta che appare in un frammento della pianta marmorea
severiana si presta a diverse ipotesi interpretative (tempio, fontana, monumento onorario).
L’iscrizione con dedica a Vulcano, che proviene dall’area di Palazzo Mattei (ora conservata nei
Musei Capitolini), potrebbe avvalorare l’ipotesi del tempio e darci anche l’indicazione della divinità.
D’altra parte non sarebbe insolito trovare al centro di simili edifici fontane e giochi d’acqua.
Un’altra iscrizione – attualmente al Museo Nazionale Romano – ritrovata in un sepolcro della
via Flaminia, ci testimonia ancora il Teatro di Balbo. Si tratta dell’ara sepolcrale di Lucio Aufidio
Aprile, corinthiarius de theatro Balbi, cioè di un artigiano che eseguiva oggetti in lega metallica
pregiata (corinthia) presso il Teatro di Balbo. Questo documento fa pertanto ritenere che una serie di
attività artigianali e commerciali di alto livello avessero sede nel quartiere circostante il teatro. [93]

I TEATRI DI ROMA ANTICA (figg. 21-25)

La costruzione di teatri stabili, in muratura, fu vietata a Roma durante l’età repubblicana,


poiché il carattere delle rappresentazioni sceniche non era ritenuto adatto allo spirito romano. Una
legge obbligava addirittura ad assistere agli spettacoli stando in piedi, per evitare che il popolo
perdesse troppo tempo in ozio. I più antichi teatri furono pertanto costruzioni in legno, provvisorie e
poco sicure. I teatri costruiti in muratura furono soltanto due, oltre a quello di Balbo: il teatro di
Pompeo e il teatro di Marcello.
Il Teatro di Pompeo fu fatto costruire nel 55 a.C. da Pompeo Magno, che aggirò il divieto di
erigere teatri stabili innalzando un tempio a Venere Vincitrice sulla sommità della cavea. Questo
teatro, che poteva contenere fino a 17.580 spettatori, per la sua grandiosità ed il lusso dei marmi e
delle sculture che lo ornavano, era considerato uno dei monumenti più belli di Roma. Ne restano
notevoli avanzi nei sotterranei delle case circostanti la piazza di Grottapinta, presso Campo de’ Fiori,
fondate sulla cavea stessa e disposte quindi con andamento ricurvo. La pianta dell’intero edificio è
nota dalla Forma Urbis, che rappresenta anche i grandiosi portici costruiti da Pompeo dietro la scena
del teatro, secondo le regole dell’architettura romana che saranno applicate anche nel Teatro di
Balbo. La grande area rettangolare era ornata da statue e da fontane, ed aveva al centro un
giardino con portici e fontane, delle quali restano tracce al di sotto del Teatro Argentina. In una sala
all’interno dei portici di Pompeo fu ucciso Giulio Cesare il 15 marzo del 44 a.C. Anche la pianta dei
portici è conservata nella topografia moderna della zona. [98]
Il Teatro di Marcello fu cominciato da Giulio Cesare, desideroso di emulare l’opera di
Pompeo, nell’area in cui probabilmente, durante l’età repubblicana, venivano eretti i teatri provvisori
in legno. Fu completato nel 13 o nell’11 a.C. da Augusto, che lo dedicò al genero e nipote Marcello,
destinato a succedergli ma morto prematuramente. È uno dei più noti monumenti romani, grazie
soprattutto al suo stato di conservazione.
La facciata esterna della cavea, in travertino, era composta originariamente da tre piani, dei
quali si conservano parte del primo e del secondo, mentre la scena è andata quasi del tutto distrutta.
Anche il Teatro di Marcello, che poteva accogliere fino a 20.000 spettatori, è rappresentato nella
Forma Urbis.
Nel Medio Evo il teatro fu trasformato in fortezza, e poi in palazzo signorile dai Savelli. Il
palazzo, opera di Baldassarre Peruzzi, passò poi agli Orsini. Nei suoi sotterranei sono ancora visibili
molti avanzi della cavea. Tra il 1926 e il 1932 il teatro, al quale si era addossato un quartiere
popolare, fu isolato e restaurato nell’ambito dei grandi sbancamenti attuati per l’apertura della via del
Mare (oggi via del Teatro di Marcello), che modificarono irreparabilmente L’aspetto di tutta la zona,
distruggendone secoli di storia. [99]

LA TARDA ANTICHITA (figg. 26-29)

Il Teatro e la Crypta di Balbo vengono ancora ricordati, in epoca tardoantica, dai Cataloghi
regionari, che offrono una descrizione delle XIV regioni di Roma nel IV secolo.
Durante il V secolo parecchi monumenti della zona dovettero subire trasformazioni o
danneggiamenti a causa di alcune catastrofi naturali, come i terremoti del 408 e del 447, o in seguito
alle invasioni barbariche (sacco di Alarico del 410). In questo periodo possiamo immaginare, in
assenza di notizie sicure, gli ultimi decenni di vita del Teatro di Balbo e l’inizio del suo abbandono.
La porticus Minucia frumentaria, vicina al Teatro, cadde anch’essa in rovina; una sua parte fu
trasformata in albergo per gli stranieri, tra il 421 e il 423, dal praefectus urbi Acilius Glabrio
Faustus, come sappiamo da due iscrizioni rinvenute nella zona.
Ad età molto tarda, forse al VI secolo, appartiene il riuso di un lastrone di marmo rinvenuto
nell’800 in via delle Botteghe Oscure. Inizialmente esso doveva appartenere alla pavimentazione di
un monumento romano: porta infatti incise le 64 caselle del ‘filo’, un gioco molto simile al nostro
filetto. In seguito l’edificio cui il blocco apparteneva dovette essere abbandonato e usato come cava
di marmo; la superficie della lastra fu quindi utilizzata per prova di scrittura da un lapicida, che vi
incise l’alfabeto e vi copiò parte di una antica iscrizione monumentale. A forse questa una delle prime
testimonianze dell’esistenza di botteghe di marmorari e scalpellini nella zona. [101]

IL MEDIO EVO: CASTELLI E CHIESE (figg. 30-33)

Abbiamo poche notizie sui monumenti della zona nell’alto Medio Evo. Tra la fine del VI e
l’inizio dell’XI secolo lo stato di abbandono nel quale si trovavano le sponde del Tevere rese più
disastrose le conseguenze delle inondazioni, che frequentemente si verificavano. Il luogo ove
sorgevano le rovine del Teatro e della Crypta di Balbo fu sicuramente colpito dallo straripamento
delle acque.
Si ricordano in particolare l’inondazione disastrosa del 589, quella del 716, che allagò Roma
per sette giorni, quella del 792, che per la sua violenza ridusse la città alla fame, e quelle successive
dell’847, dell’856 e dell’860. [103]
Sulle strutture del monumento sorge in quest’epoca un fortilizio, detto Castrum Aureum
(Castello d’oro), che probabilmente apparteneva ai conti di Tuscolo o ai loro congiunti, i
Crescenza.
Intorno alla metà del X secolo abbiamo notizia dell’esistenza, in questa area fortificata, di due
chiese: S. Maria Dominae Rosae e S. Laurentius. S. Maria traeva il nome da una nobildonna, Rosa,
che con i suoi parenti Imilla, Graziano e Gregorio aveva fondato le due chiese.
S. Maria Dominae Rosae compare in una pianta di Roma della metà del XVI secolo,
disegnata pochi anni prima della sua distruzione: è rivolta verso occidente ed ha tre navate. Un’altra
chiesa, dedicata a S. Lucia, era sorta ai margini del Teatro di Balbo, nell’area un tempo occupata
dalla Porticus Minuda; dal XV secolo prese il nome di S. Lucia de apothecs obscuris (alle
botteghe oscure). [105]
All’esterno dell’angolo nord orientale della Crypta di Balbo sorge, forse già nel IX secolo, la
chiesa di S. Salvatore in Pensilis, il cui nome derivava forse da un lupanare esistente nelle vicinanze.
Un’iscrizione del papa Onorio IV, del 27 ottobre 1285, ricorda una ricostruzione della chiesa. [106]

IL MEDIO EVO: CASE E BOTTEGHE (fig. 34)

Nel basso Medio Evo la zona del Castrum Aureum viene ricordata anche nei Mirabilia Urbis
Romae, una sorta di guida ai monumenti di Roma risalente al XII secolo. In questa area all’inizio del
XIII secolo sorgeva il Trullum di Iohannes de Stacio presso il monastero di Santa Maria Dominae
Rosae (il termine ‘trullo’ indicava nel Medio Evo un edificio con struttura circolare, ricordo, in
questo caso, delle antiche mura del Teatro di Balbo). Nelle vicinanze del Castrum Aureum andranno
sviluppandosi abitazioni, torri e botteghe artigiane. A nota la presenza di calciaiuoli, marmorari e
scalpellini, la cui attività si basava sulla utilizzazione dei marmi degli edifici romani.
Un’intera contrada ad occidente delle rovine del Teatro di Balbo era denominata Calcarario,
per le numerose calcare che vi erano sorte. Questo tipo di industria durò fino al XVII secolo, e
contribuì in larga misura alla distruzione degli antichi edifici romani. Mentre le botteghe e le
abitazioni di calciaiuoli e marmorari dovevano trovarsi per lo più ad W e a N del monumento
di Balbo, a sud e a E avevano la loro sede i funari, che nella vasta area interna all’antico criptoportico
trovavano il luogo adatto a torcere le corde. Un contratto, risalente al XIV secolo, tra la chiesa di S.
Maria Dominae Rosae e due fratelli, Nicola e Giovanni, per la fornitura di corde per le campane,
conferma la presenza dei funari nella zona, che è anche testimoniata dalla toponomastica odierna (via
dei Funari) e dal modo in cui, ancora nel XVI secolo, si designava la chiesa di S. Caterina: «dove si
torcono le funi».
A sud della Crypta di Balbo lavoravano anche cimatori, cardatori, tintori e tenditori di panni;
questi ultimi trovavano nell’antico portico il luogo adatto a stendere e stirare i panni usciti dalla
tintoria. [107]
IL CINQUECENTO (figg. 35-42)

La costruzione del nuovo Palazzo S. Marco (Palazzo Venezia), voluta da Paolo II nella seconda
metà del ‘400, avvia una radicale trasformazione urbanistica della città medioevale. Si tratta di un
lento processo destinato a mutare il tessuto urbano e sociale con la creazione di lussuose
residenze che diventano centri di potere, di clientela e di beneficenza.
L’isola dei Mattei. Nella zona del Castrum Aureum e del Monastero di S. Maria Dominae
Rosae un ruolo determinante nell’opera di ristrutturazione fu svolto dalla famiglia dei Mattei. Nel
1495 alcuni edifici del Monastero, ormai fatiscente, furono concessi a Domenico di Matteo Ludovico
de Matheis. Solo intorno al 1540 venne realizzata la prima grande costruzione, il palazzo di Giacomo
Mattei, che ne affidò la realizzazione all’architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio. Seguì poco dopo
il palazzo di Ludovico Mattei (Palazzo Mattei-Paganica) e ancora, nel 1564, su progetto di Annibale
Lippi, il palazzo di Alessandro Mattei, l’odierno Palazzo Caetani. Queste costruzioni
determinarono la scomparsa definitiva delle strutture superstiti del Teatro di Balbo che furono
descritte in quell’occasione da Pirro Ligorio. Infine, più lussuosa espressione dell’architettura
rinascimentale nella zona, sorse il palazzo di Asdrubale Mattei (Palazzo Mattei di Giove), innalzato tra
l’antica Salitula (oggi via dei Funari) e la nuova ampia via che la congiungeva con le Botteghe
Oscure (Via Caetani).
Il termine apothecae obscurae (Botteghe Oscure) indicava la via popolata allora dalle
botteghe di artigiani e mercanti che avevano trovato sede negli ambienti seminterrati degli antichi
monumenti romani (Crypta Balbi e Porticus Minucia). [108]
S Caterina dei Funari. Poco dopo la sua ascesa al pontificato Paolo III (1534-1549) concesse
la antica chiesa di S. Maria Dominae Rosae ad Ignazio di Loyola, che vi fondò un istituto di
beneficenza, la Compagnia delle Vergini Miserabili Pericolanti. Tra il 1560 e il 1564, per iniziativa
del cardinale Federico Cesi e su progetto di Guidetto Guidetti, fu edificata la nuova chiesa di S.
Caterina dei Funari. L’edificio, con facciata a due ordini sovrapposti e interno ad unica navata, fu
eretto con orientamento diverso rispetto a quello della chiesa di S. Maria, ormai demolita, e fu
completato con un singolare campanile innalzato probabilmente su una torre preesistente.
Contemporaneamente fu costruito l’annesso Conservatorio di S. Caterina della Rosa, destinato
all’istituto fondato da Ignazio di Loyola ed affidato alle suore Agostiniane.
S Stanislao dei Polacchi. Altro intervento di rilievo interessò l’antica chiesa di S. Salvatore
in Pensilis, che fu concessa nel 1578 da Papa Gregorio XIII al cardinale Stanislao Hos, il quale
adattò la casa adiacente come ospizio per i pellegrini polacchi. La chiesa, riedificata nel 1580, fu
consacrata a S. Stanislao. Ospizio e chiesa verranno nuovamente ristrutturati tra il 1729 e il 1735
dall’architetto Francesco Ferrari.
Il Conservatorio fu istituito – come si legge in una bolla di Pio IV (1559-1565) – per
prevenire il pericolo che correvano «molte zitelle figliuole per lo più di cortigiane o di donne di
mala vita e persone di estrema povertà, le quali o per la poca cura dei loro parenti o per l’angustie
della povertà o per il mal’esempio domestico delle loro madri impure, facilmente potessero scapitare
dell’onestà». Le fanciulle imparavano «ogni arte donnesca per ben governare la casa» e per facilitare
il loro matrimonio si organizzavano processioni per la città. Se il matrimonio non riusciva felice,
«occorrendo che le zitelle maritate fossero maltrattate dai loro mariti o non potessero stare con essi
senza scandalo, ovvero restassero vedove o cascassero in qualche errore», venivano ospitate «in
una casa contigua a quest’effetto deputata» restandovi finché non fossero «accomodate con i loro
mariti ovvero di nuovo maritate, se vedove». [110]

TRA ‘700 e ‘800 (figg. 43-46)

La prima planimetria del nostro isolato compare nella pianta del Nolli (1748). Questa è la
prima pianta zenitale e in scala (1:3600) della città di Roma, conseguente ad un rilievo completo ed
originale, stampata con precisione e ricchezza di informazioni. Le indicazioni toponomastiche
essenziali sono indicate con numeri di cui ritroviamo in particolare:
998 - Strada delle Botteghe Oscure
999 - Chiesa del Salvatore e S. Stanislao dei Polacchi
1000 - Vicolo dei Polacchi
1003 - Conservatorio delle Zitelle (S. Caterina dei Funari).
Nel rilievo si distinguono le aree fabbricate da quelle libere, dove si riconoscono il chiostro
del convento, il suo grande orto con le mole e un lungo cortile.
Questa costruzione appare sostanzialmente immutata nel secolo successivo quando viene
realizzato, su iniziativa di Pio VII, il primo catasto urbano moderno, detto poi Gregoriano perché
entrò in vigore nel 1835 sotto Gregorio XVI. Disegnato su carta e acquarellato, illustra tutti i rioni
romani in scala 1:2000. Questa scala consente la definizione delle proprietà pubbliche e private e
una descrizione dettagliata dei rapporti tra le aree libere e quelle edificate.
Verso la metà dell’800 si stese un progetto per la trasformazione del Conservatorio di S.
Caterina in ospedale. Il progetto, dovuto a P. Camporese, non fu realizzato ma resta quale
testimonianza della organizzazione degli spazi all’interno dell’edificio. [113]

GLI SVENTRAMENTI (figg. 47-49)

Dopo l’epoca dei grandi interventi seicenteschi Roma, a differenza delle altre capitali
europee, non subisce trasformazioni sostanziali fino al 1870, anno in cui diventa capitale d’Italia.
Per adeguare la città alle nuove esigenze si avviarono numerosi interventi nel centro storico che
prevedevano sventramenti radicali per l’apertura di alcune grandi arterie di collegamento e la
costruzione dei Lungotevere. Il rione S. Angelo è uno dei quartieri interessati da queste profonde
trasformazioni: nel Piano Regolatore Generale del 1873 veniva infatti programmato il totale
risanamento del Ghetto. In questa occasione fu demolita completamente la zona che si affacciava sul
fiume, creando uno squarcio nell’insieme organico ed omogeneo del quartiere. Ma è solo con
l’avvento del fascismo che assistiamo a mutilazioni ancora più gravi nel tessuto del rione. Uno di
questi interventi, legati agli sventramenti già effettuati per l’apertura di via dei Fori Imperiali e di via
del Teatro di Marcello, fu l’allargamento di via delle Botteghe Oscure, effettuato nel 1938 e
completato dopo la guerra. In quell’occasione furono in parte o del tutto demoliti numerosi palazzi
che sporgevano dal nuovo allineamento previsto: Palazzo Astalli, Palazzo Senni, Palazzo Margani ed
anche Palazzo Ginnasi con l’annessa chiesa di S. Lucia, che fu rasa al suolo. Nel corso delle
demolizioni tornarono alla luce i resti di un tempio romano di età repubblicana che si credette di
poter identificare con quello di Bellona, dea della guerra. Si tratta probabilmente, invece, del
Tempio delle Ninfe, che sorgeva al centro della Porticus Minucia Frumentaria. [116]

DALL’ABBANDONO AL RECUPERO (figg. 50-53)

L’edificio del Conservatorio di S. Caterina, già decaduto nel corso dell’800, viene
abbandonato intorno al 1937: gran parte delle strutture cinquecentesche vengono abusivamente
demolite. L’area interna e le abitazioni adiacenti divengono proprietà dell’Istituto Nazionale
Cambi con l’Estero, che vi progetta la costruzione della sua nuova sede. L’edificio tuttavia non
verrà mai realizzato e la zona cadrà in uno stato di completo abbandono.
1961. La Soprintendenza Archeologica di Roma effettua nel cortile alcuni sondaggi non
stratigrafici che dimostrano la presenza di strutture antiche e confermano l’identificazione del sito
con l’area della Crypta Balbi, sostenuta in quegli anni da Guglielmo Gatti sulla base della
testimonianza della Forma Urbis severiana.
1962. L’area viene sottoposta a vincolo archeologico.
1966. L’Ufficio Italiano Cambi, in qualità di ente liquidatore dell’INCE, mette all’asta il
complesso: l’asta va deserta.
Tre anni dopo viene bandita una nuova asta a prezzo ribassato: le case ormai sono vuote
perché gli inquilini e gli artigiani hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni. Al secondo tentativo
di asta l’opinione pubblica reagisce fermamente e pone il problema di un recupero del complesso a
fini sociali e culturali. Da allora la consapevolezza della salvaguardia del Centro Storico si è
approfondita e diffusa. Di questo recupero agli interessi pubblici l’intervento archeologico in atto
vuole essere premessa e garanzia. [118]
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