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La voce e lo spazio.

Per un’estetica della vocalità

In che modo la voce interpreta le morfologie spaziali che la circondano? Il campo giocato dalla voce che
risuona è dinamico, una spazialità che si coglie sempre in movimento. Forse potremmo spingerci a
dire che, fin da adesso, la voce è una rappresentazione dinamica dello spazio, della sua
direzionalità, che persino quando è ferma, la voce che risuona si sostiene, resistendo a qualcosa. In
questa direzione, le occorrenze del termine latino trapassano quasi naturalmente in un altro contesto
metaforico: vox è nel rimbombo degli elementi, nel rumore, nello strepito. Avremo così la voce del
fulmine, o il mugghiare del mare. La voce richiama immediatamente una rappresentazione della
natura: gli elementi hanno voci ora morbide, ora terrificanti e si lasciano contemplare nel
preannunciarsi sonoro della loro azione. La voce dell’elemento è rumore, oggettualità non
modulabile, che esplode all’improvviso come il tuono, o ci accompagna in una situazione di
crepitante continuità, come il canto degli uccelli che si dispiega fra i suoni che ci circondano, in un
intreccio di fonti puntiformi o continue, nella passeggiata per il bosco: attraverso la voce, abbiamo
l’impressione di poter almeno sfiorare un vasto campo di indeclinabili. Fra soffio e detrito, essa può
l’una e l’altra cosa, secondo il crescere o del decrescere della propria intensità, come accade per il
gonfiarsi del soffio di vento. Il movimento della voce sembra assumere sfumature semantiche che
riportano alla natura intima delle trasformazioni dell’elemento: il gonfiarsi del vento o il suo passar
placido come brezza hanno naturalmente un significato metaforico, ma si muovono su un piano
intermedio, che si colloca fra l’opacità del suono e la trasparenza del segnale. Il nucleo del
problema è di tipo espressivo: l’elemento urla o canta in trasposizione metaforica, rivolto a
qualcuno. Il senso del rumore è il manifestarsi di un appello, di una minaccia, del simbolismo
connesso ad una personalizzazione dell’idea di natura che parla senza parole, trasformando in
fenomeno psicologico, ed espressivo, il sonoro con cui ci sollecita o ci opprime. Nella metafora la
voce dell’elemento prelude alla sua interpretazione in termini mitici, e, come accade nella vita
pratica l’alterarsi della voce ci segnala un mutamento di condizione, una trasformazione.
Nell’incrociarsi dei riferimenti ad una natura intima, interiore dell’elemento ed alla sua
fuggevolezza, intravediamo, sublimato il tema della corporeità. Nella sua indeterminatezza, la
nozione rimanda ora alla dimensione logica del discorso, ora alla dimensione opaca del sonoro, non
immediatamente sigillato in direzione della funzione-segnale, ma tenuto libero nella ricchezza delle
sue direzioni semantiche, nello stratificarsi di rimandi con cui l’esperienza dell’ascolto prende
forma. Come accade per la relazione fra Eco e Narciso, proposta nel quadro di Poussin: Narciso
cerca la propria immagine, e la propria voce, in quella metafora del luogo chiuso che è l’anfora, in
grado di ospitare l’icona acustica (voce) e l’immagine riflessa di se stesso.

Vorremmo modulare il discorso attraverso quattro grandi immagini, quattro illustrazioni che
raccontino il percorso di costituzione del senso della spazialità della voce: per poter dar consistenza
a questi temi, vorremmo partire dal piano delle cosiddette musiche native. Scavando in questi
contesti, infatti, incontriamo tutti quei temi che fanno da sottofondo alle teoria della spazialità
musicale, in genere, e di quella della voce in particolare. Spazio, materia, tempo e relazione sono le
strutture filosofiche che giacciono dietro all’elaborazione concettuale di tali forme musicali.

La prima immagine (Spazio) su cui declinare il rapporto fra voce e spazio è affidata all’analisi di
un gruppo di versi da caccia, attraverso cui i cacciatori africani ritualizzano e mettono sotto presa
simbolica il percorso che porta dal qui, il centro del villaggio, luogo di riconoscimento di una
comunità al là, lo spazio remoto, lontano, dove si muovono le prede. Il canto si fa melodia
continuamente interrotta. Il richiamo diventa così indice spaziale ed affettivo, come accade, in
parte, per la ricerca timbrica su cui si costituiscono le forme diplofoniche della tradizione mongola
o le forme di inibizione del continuum sonoro nella tradizione greca, (Materia) con un ponte che
porta fino allo Stockhausen di Stimmung. Il pensiero sulla materia sonora passa così attraverso le
tecniche vocali, e, da lì, si muovono verso la trasposizione simbolica del paesaggio e della spazialità
in forme dell’abitare. Infine, tempo e relazione verranno analizzati, attraverso l’analisi delle regole
musicali che guidano le forme improvvisative tipiche interne alla cultura Inuit, o ai canti per
pensare di origine centroafricana. Il terreno teorico verrà quindi, di volta in volta riguadagnato, per
fissare i caratteri essenziali dei problemi che una teoria della musica affronta, spesso in modo
silente e sublimato. La rinuncia al mondo del madrigale, dell’opera lirica, della liederistica o
all’ambito della sperimentazione novecentesca è un prezzo che paghiamo volentieri, rispetto alla
possibilità di tentare di trovare un luogo da cui poter tracciare il profilo del problema del declinarsi
delle relazioni reciproche fra voce e movimento o voce e luogo. D’altra parte, anche gli esempi
etnomusicologici proposti, fra i molti possibili, sono pochi, ma sufficienti, per accennare alle
articolazioni principali del nostro tema, che potremmo ridurre all’intreccio dei tre concetti spazio,
materia e relazione. Le modalità attraverso cui la voce occupa lo spazio, e lo fa proprio, ci
porteranno sull’orlo più rarefatto del problema, la modalità della rappresentazione del tempo da
parte della voce, nel costituirsi del legame che unisce il gioco al linguaggio.

Il ponte che il libro stende nei confornti della tematica della voce in ambito novecentesco è piuttosto
ricco, ma non esplicitato sino in fondo: l’aspetto sorprendente, semmai, sta nel fatto che un’estetica
della vocalità che prenda come oggetto le forme primitive e arcaiche connesse all’uso della voce,
incontra immediatamente le tematiche vocali che hanno segnato il novecento. Il lavoro di
fibrillazione sulla materia vocale, l’analisi fonematica, il rapporto fra spazialità e suono, il lavoro
sulla dinamica come nostalgia utopica: chiunque conosca il lavoro sulla vocalità con cui
Schoenberg, Janáček, Stravinsky, Debussy, Bartók Nono, Ligeti, Berio hanno riaperto la via del
vocale nel secolo scorso, ritrova in questi esempi la radice di atteggiamenti compositivi,
sorprendentemente lontani da quei contesti. Ed il motivo, in realtà, è molto semplice: il lavoro sul
materiale musicale, e sulle grammatiche che ne organizzano l’articolazione, trova nella forma
vocale un luogo di sperimentazione, in costante dialogo con lo spazio delle sue risonanze, esterne e
interne.

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