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Berlinguer: L'austerità giusta
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Berlinguer: L'austerità giusta

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Segretario generale de PCI dal 1972 al 1984, Enrico Berlinguer (1922-1984) è protagonista di una ricerca politica e di una vicenda umana che alludono alla critica di un modello consumistico che a partire dagli anni ’60 stava corrodendo la società italiana e l’occidente tutto. Nei due discorsi sull’austerità del 1977, inseriti in questo volume al termine di un esauriente saggio di Giulio Marcon, sono contenute la critica al modello di sviluppo e la visione dell’economia capitalistica che più lo avvicinano all’attuale riflessione sulla decrescita. Pensieri di un leader sobrio, timido e austero, carismatico, senza cedere al narcisismo, alle apparenze, al culto dell’immagine.
LanguageItaliano
PublisherJaca Book
Release dateDec 22, 2020
ISBN9788816802568
Berlinguer: L'austerità giusta
Author

Giulio Marcon

Nato a Roma nel 1959 e laureato in Filosofia con una tesi sulla nascita del Welfare State in Gran Bretagna, Giulio Marcon è stato negli anni Ottanta segretario generale per l’Italia del Servizio Civile Internazionale e negli anni Novanta portavoce dell’Associazione per la Pace e presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà. Ha fondato l’associazione Lunaria ed è stato fino al 2013 portavoce della campagna Sbilanciamoci. Ha insegnato Politiche Sociali e Terzo Settore nelle università di Urbino e Cosenza. È stato deputato e membro della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati.

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    Berlinguer - Giulio Marcon

    Parte prima

    ENRICO BERLINGUER

    E L’AUSTERITÀ GIUSTA

    di Giulio Marcon

    Precursore della decrescita?

    Definire Enrico Berlinguer come «precursore della decrescita» può essere una forzatura e un’esagerazione. Segretario del Partito Comunista Italiano (PCI) dal 1972 al 1984 e a lungo dirigente di quel partito¹, da sempre (a eccezione di una primissima fase giovanile) segnato da una cultura comunista e marxista – produttivista e industrialista –, Enrico Berlinguer non può di certo essere annoverato in modo così disinvolto tra gli antesignani della critica della «crescita» e dello «sviluppo». Eppure i suoi discorsi sull’austerità del 1977 (e altri scritti e interventi, a partire dagli anni ’70), i suoi comportamenti e il suo temperamento sobrio e misurato, la sua tempra morale indicano le tracce di una ricerca politica e di una dimensione umana che alludono – anche esplicitamente – alla critica della hybris della società capitalistica e di un modello consumistico che a partire dagli anni ’60 stava corrodendo e corrompendo la società italiana e l’Occidente. Una consapevolezza che ebbe una più completa definizione negli anni ’70, quando si stava esaurendo il «trentennio glorioso» che aveva garantito alti tassi di crescita, sviluppo dei consumi materiali, una migliore distribuzione del reddito e un potenziamento del sistema di welfare e di protezione sociale. Nei documenti del PCI e negli interventi di Berlinguer (1.77, 2.77) ricorrevano allora espressioni come «crisi strutturale del sistema capitalistico» e «necessità di una riconversione del sistema industriale» (2.77). È in questo contesto che si collocano le riflessioni e gli interventi di Berlinguer sul tema dell’austerità.

    Il giovane Berlinguer

    È opportuno, però, prima di entrare nel merito della riflessione più matura di Berlinguer – culminata nei due discorsi sull’austerità del 1977 – ricordare che, a differenza di molti altri dirigenti comunisti suoi coetanei, egli era arrivato al PCI durante gli anni della Resistenza, non dopo la partecipazione più o meno critica alle organizzazioni studentesche o giovanili fasciste², bensì partendo dall’adesione alla causa della ribellione anarchica e libertaria:

    Da ragazzo c’era in me un sentimento di ribellione. Contestavo tutto, la religione, lo Stato, le frasi fatte, le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi consideravo un anarchico³.

    Fin da ragazzo ero mosso e guidato da un sentimento naturale di ribellione che investiva gran parte di ciò che mi circondava. All’età di tredici-quattordici anni non riconoscevo più alcuna autorità… Tutte le concezioni che avevo imparato erano state a quell’età respinte e in seguito sottoposte ad una critica spietata ed imparziale⁴.

    Fu anche sulla spinta di questo moto di ribellione alle ingiustizie e all’oppressione che Berlinguer – già diventato comunista – guidò nel 1944 a Sassari la rivolta del pane. Furono giorni di manifestazioni e di assalto ai forni di una popolazione poverissima e affamata. Per la guida di questa rivolta Berlinguer passò oltre tre mesi in carcere. Va ricordato anche che Berlinguer trascorse la sua adolescenza e giovinezza, più che nella cornice culturale crociana⁵ (caratterizzata dalla continuità con il percorso intellettuale delle classi dirigenti italiane prefasciste), dentro lo spirito azionista⁶ che ebbe modo di conoscere dal padre Mario, che del Partito Sardo d’Azione⁷ fu dirigente e parlamentare nell’immediato secondo dopoguerra. In gioventù entrò in contatto, anche grazie a suo zio, con quelle correnti del socialismo umanitario che secondo alcuni possono essere accostate ai temi sollevati dal movimento della decrescita. E inoltre va ricordato che Berlinguer aveva apprezzato degli scritti di Marx ciò che i custodi dell’ortodossia ritenevano come la produzione di un «Marx non ancora marxista», ovvero gli scritti giovanili anteriori al 1844. In un volume commemorativo, a cinque anni dalla morte, nel 1989, Massimo D’Alema⁸ ha ricordato che il comunismo di Berlinguer

    non coincideva certo con il carattere sistemico e dogmatico dei canoni del cosiddetto comunismo scientifico; quanto invece con una idea della libertà come liberazione umana da ogni forma di oppressione e di sfruttamento, come bisogno di giustizia e di eguaglianza, come arricchimento morale ed intellettuale. In Berlinguer questa idea del comunismo non derivava soltanto dalla tradizione italiana, dalla lezione di Gramsci – pure decisiva per comprendere la sua ispirazione – ma insieme da una sua personale lettura di Marx, dall’influenza che su di lui avevano esercitato, come egli stesso rilevò, gli scritti giovanili di Marx, con la loro impronta individualistica e libertaria⁹.

    Occorre sottolineare che il testo più importante della produzione giovanile di Marx e che in qualche modo la chiude sono i Manoscritti economico-filosofici del 1844¹⁰. Si tratta di un testo che può offrire spunti importanti per chi intende ricollegare l’elaborazione del giovane Marx alla critica dell’economia politica come critica del denaro, dell’alienazione, del consumismo e – in qualche modo – della crescita. In questo testo Marx afferma:

    L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose¹¹.

    Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, quanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l’economista ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che non puoi, può il tuo denaro¹².

    Queste parole ritorneranno – con una diversa formulazione, legata al momento politico e al ruolo del dirigente politico – a ispirare i due discorsi del 1977 sull’austerità. La critica antropologica e libertaria di Marx all’economia e alla crescita consumistica tornerà a echeggiare nei passaggi più espliciti degli interventi (2.77) del 1977 di Berlinguer contro un modello economico che alimenta consumismo, sprechi e asservimento della persona alle dinamiche più nefaste di un mercato dove contano il profitto e l’interesse privatistico¹³.

    La sobrietà di un leader

    Come «precursore della decrescita», Berlinguer potrebbe essere ricordato innanzitutto per i suoi comportamenti, per il modo di essere, per i suoi atti. Si è sottovalutato per lungo tempo il ruolo dell’esempio nella politica. Spesso nella sinistra hanno contato molto – troppo – le parole, l’affabulazione dei discorsi, le fascinose teorie, le costruzioni ideologiche, grandi o piccole che siano. Dietro tutto ciò – molte volte – si sono nascosti atti e comportamenti cinici e incoerenti, talora immorali. Talvolta, tra i politici di professione (anche quelli di sinistra) si dice una cosa, se ne pensa un’altra e magari se ne fa un’altra ancora. Una certa «doppiezza comunista» si è costruita anche in questo humus psicologico e culturale. Nel caso di Enrico Berlinguer, le cose andarono diversamente, a dimostrazione di come in politica l’esempio (o la coerenza, il disinteresse personale, i gesti, ecc.) conti spesso molto più delle teorie e dei discorsi¹⁴.

    Berlinguer fu un leader sobrio, timido e austero. Fu carismatico, senza cedere al narcisismo, alle apparenze e al culto dell’immagine. La sua postura fisica era il contrario di ciò che ci si aspetta oggi da un leader politico: gracile, misurata, non ostentata, severa, per nulla ammiccante – nelle pose e nelle espressioni – nei confronti di quello che ormai non è più un popolo, ma solo un pubblico. Per lui la politica non era mai separata dall’etica, sin da ragazzo. Ricorda il regista Gillo Pontecorvo¹⁵, che conobbe il giovane Berlinguer, allora ventiduenne:

    Pur essendo così giovane, si sentiva già in lui la profonda convinzione che una politica senza etica è misera cosa¹⁶.

    Il tema dell’etica nella politica lo attraversò – anche senza doverne parlare o scrivere – per tutta la vita, ma fu nel 1981 che divenne chiaro (dieci anni prima di Tangentopoli e trent’anni prima dell’esplosione del Movimento 5 Stelle)

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