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Tempo ed Eternità
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Tempo ed Eternità

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In Appendice: Aforismi

Tempo ed Eternità è considerato il testamento spirituale di Ananda K. Coomaraswamy. In questo volume egli affronta gli argomenti chiave della dottrina e della cultura di ogni popolo, il Tempo e l’Eterno, argomenti sui quali egli aveva lavorato tutta la vita ma che solo pochi mesi prima di morire raccolse in forma di libro. Coomaraswamy, nei cinque capitoli di cui è costituita l’opera, rintraccia le concezioni base del Tempo e dell’Eterno all’interno dell’Induismo, del Buddhismo, della Grecia classica, dell’Islam, del Cristianesimo e del pensiero moderno. La sua scrupolosa e attenta analisi dei testi e delle citazioni è supportata da una preparazione culturale sulle dottrine e le religioni che difficilmente trova eguali: i dati e le informazioni contenute in questo libro sono fondative per qualsiasi studio che voglia incamminarsi sulla strada del Tempo e dell’Eternità.
Un gioiello meritevole di un attento studio, un piccolo trattato di metafisica, dove il lettore viene affascinato da continui vortici di simboli reciprocamente collegati dal linguaggio universale e perenne del Sacro. La versione adottata per la traduzione italiana ha il pregio di essere la più “aggiornata”, essendo stata fornita dallo stesso figlio dell'Autore, Rama Coomaraswamy.
LanguageItaliano
Release dateNov 7, 2013
ISBN9788827223703
Tempo ed Eternità
Author

Ananda K. Coomaraswamy

Figlio di padre indù e di madre inglese, è nato a Colombo (Sri Lanka) nel 1877 ed è morto a Needham, nel Massachussetts, nel 1947. Geologo e mineralogista, è stato un appassionato del pensiero indiano antico, nonché delle manifestazioni artistiche del mondo indù. Ha pubblicato oltre mille scritti, indagando svariati aspetti legati al pensiero, ai riti, alla simbologia, e facendo sempre ricorso a una straordinaria erudizione fondata sull'accurata analisi filologica dei testi e delle opere artistiche. Dal 1916 fino alla morte ha ricoperto importanti responsabilità presso il Museo di Belle Arti di Boston.

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    Tempo ed Eternità - Ananda K. Coomaraswamy

    COPERTINA

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    Tempo ed eternità

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    In Appendice: Aforismi

    Ānanda k. coomaraswamy

    Prefazione e Aforismi a cura di Grazia Marchianò

    Traduzione di Robert Rajko

    Orizzonti dello spirito / 100

    Collana fondata da Julius Evola

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    Copyright

    Titolo originale dell’opera: TIME AND ETERNITY

    di Ānanda K. Coomaraswamy

    Traduzione di Robert Rajko

    In copertina: Spirale fossile© Erik bij de Vaate

    ISBN 978-88-272-2370-3

    Per l’edizione italiana © Copyright 1961-2013 by Edizioni Mediterranee

    Prima edizioni digitale 2013

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

    Prefazione

    L’invocazione rituale a Śiva: Onore all’Interminabile Distruttore del Tempo (OM namo anantaya kalantakaya!), sigilla questo libro di Coomaraswamy che vide la luce poco dopo la sua morte. Curiosamente il caso provvedeva ad arrestare la vita dell’autore mentre era intento a meditare sul tema filosofico più poderoso e avvolgente per il pensiero indiano nella sua tensione all’assoluto. Anantaya, il senza fine, è infatti il perno su cui nei sistemi di ogni corrente¹ si avvita imperterrito l’esame della transitorietà e della finitezza, una transitorietà e una finitezza che la potenza divoratrice attribuita a Śiva nel mito e nel rito indù esalta in modo drammatico. Ma per Coomaraswamy l’indagine sul tempo e l’eternità non era stata dell’ultima ora. Attraverso la vita gli appunti accumulati, i passi selezionati dalle Scritture e dai testi d’Oriente e Occidente, erano una miniera. E nei mesi di quel 1947 in cui si disponeva al viaggio in India appena tornata libera², un presentimento che occorresse affrettarsi fece tornare la mano sui vecchi appunti e, uno dopo l’altro, i cinque capitoli sul tempo e l’eternità presero forma. Se il viaggio in India, per la morte quasi improvvisa ma non inaspettata gli fu negato, il libro si sostituiva idealmente al viaggio, diventando un itinerario molto speciale sulle tracce di un’idea ancipite: il tempo che si afferma come durata, che si numera sul prima e il dopo come aveva sostenuto Aristotele, e il tempo misticamente negato, frantumato in un atomo di istante, incuneato nella saldatura tra due respiri, subitaneo più di un battito di ciglia e tuttavia avvertito immobile, come la freccia sospesa in aria nel paradosso di Zenone. Per descrivere questo tempo interstiziale, furtivamente sottratto alla durata, soccorre nel mito indù l’immagine di Visnu addormentato cui Laksmī, devota, massaggia il polpaccio per attivare in lui il sogno del mondo.

    Nell’ambito dell’iconografia sacra, come ha accertato Alice Boner³, i principi della composizione a rilievo e in pittura esaltano, accanto alla spazialità, la componente temporale mediante accorgimenti che si trovano prescritti in vari testi tra cui le Vāstusūtra Upanisad. La superficie sulla quale saranno disposte le icone o i loro sostituti geometrici (yantra) è sottoposta a una duplice scansione. Se a fissare lo spazio provvede una rete di linee verticali e orizzontali sovrapposte a un numero fisso di quadrati e rettangoli, il dinamismo tettonico delle immagini è assicurato da linee diagonali che interagiscono con le prime in una tensione e un equilibrio unitari di forze.

    Nell’artificio della raffigurazione si configura così una terza categoria di tempo, il tempo plastico che coinvolge il contemplante non meno delle immagini da lui contemplate.

    Chi conosce lo stile lavico della scrittura di Coomaraswamy⁴, sa di non potersi attendere, anche nel caso di questo libro, un’esposizione concisa, geometrica in senso latino, ligia alle norme della rettorica classica: persuadere, dilettare, commuovere. La rettorica sanscrita certamente le applica, conferendo però una spiccata priorità alla prima di esse: l’arte del convincere. E ciò rinvia al teorema upanisadico secondo il quale la sola persuasione impassibile spogliata di egoità ha il potere di innescare gli effetti concomitanti del diletto e dell’emozione. Se, ad esempio, sia i sūfī che i maestri advaitini chiamano figli dell’istante coloro che assaporano l’uscita dal tempo, secondo Coomaraswamy l’espressione non convince perché è efficace ma viceversa è efficace perché convince.

    Una volta chiarito questo aspetto non marginale dello stile argomentativo dell’autore, ci addentriamo nei distretti ispezionati da Coomaraswamy (ne è parte il pensiero moderno ma manca un riferimento esplicito all’ebraismo), e si prova la strana impressione che i pensieri percorsi in svariate direzioni dottrinali facciano tornare ogni volta sui propri passi, come in un cammino di ronda. Se il sūfī si ritiene figlio dell’istante, arreso al Fiume (la sorgente della Vita), non al Tempo giacché presso Dio non c’è né alba né tramonto, e Rūmī afferma che il viaggio dello Spirito non è condizionato dallo spazio e dal tempo; l’eternità per Boezio è il possesso perfetto, totale e simultaneo d’una vita senza termine: nell’anima, infatti, c’è una potenza che il tempo non insidia; e se l’evangelista sprona a non preoccuparsi del domani, Plutarco ricorda che morto è l’uomo di ieri poiché è morto nell’uomo di oggi e l’uomo di oggi è morto nell’uomo di domani. Il momento nel quale, dice ‘Attār, coesistono mille anni passati moltiplicati per mille anni futuri, l’istante-unico del Risveglio alla Buddhità, e l’atomo d’istante in cui secondo S. Paolo si compirà il mistero della resurrezione dei morti, sembrano rinviare a un’identica nozione mistica di tempo negato, comune a tutte le tradizioni. Invariabilmente l’indù, il jaina, il buddhista, il sūfī, il cristiano, il greco che si affidi al proprio dèmone, come di Socrate diceva Plutarco, chiunque di costoro che esplorando la natura intima del tempo, si riconosca figlio dell’istante, non ha bisogno di negare la temporalità, semplicemente si limiterà a strappare al tempo la sua maschera: eoni, anni, stagioni. Il tempo che scorre e dura è smascherato come una costruzione del nostro pensiero, utile solo quando occorre.

    Un grande vantaggio avrebbe tratto l’argomentazione di Coomaraswamy dall’indagine, purtroppo sottaciuta, sulla nozione di tempo nel pensiero ebraico. Gli sporadici accenni a Maimonide e a Leone Ebreo non sono sufficienti a porre in evidenza il peso che ebbe la discussione sul tempo sfociata in una delle più accese diatribe teologiche dell’ultimo millennio. Guerrieri della parola di tre ecumeni si fronteggiarono su opposti spalti dialettici: l’ecumene greca divisa al proprio interno tra i partigiani dell’atomismo democriteo e i sostenitori delle tesi aristoteliche; l’ecumene islamica con le veementi dispute tra Ash’riti e Mu’taziliti, sostenitori, questi ultimi, dell’atomismo; infine l’ecumene ebraica, un mondo dialettico a sé stante, complesso e intricato quant’altri mai, dove a proposito della discussione sul tempo, lampeggia ai primi del Quattrocento la confutazione delle tesi aristoteliche riprese da Maimonide, del teologo catalano Hasdai Crescas (m. 1412?), nell’opera Or Adonai⁵, su cui nel 1929 riferiva H.A. Wolfson, in un testo che dunque Coomaraswamy avrebbe potuto consultare⁶.

    Vediamo assai in breve un punto essenziale delle tesi di Crescas. Per il teologo catalano il tempo, piuttosto che misura del movimento come aveva sostenuto Aristotele, è la durata del flusso di coscienza in una mente pensante, e si definirà: misura della durata (o stasi) tra due istanti. Una definizione che comporta due grosse implicazioni teologiche: 1. se la durata è una qualità della mente piuttosto che del corpo e del moto, il tempo si può ascrivere anche a un’entità incorporea qual è Dio; 2. in quanto durata della coscienza infinita di Dio, il tempo non è venuto in essere con la creazione dell’universo. A proposito poi dell’idea di spazio, l’acume di Crescas s’impenna ad altezze sbalorditive. Lo spazio – egli ritiene – è infinito e vuoto eccetto quando è occupato dalla materia; il luogo di una cosa è il vuoto che la circonda.

    Argomenti di tanta portata avrebbero offerto un appoggio formidabile alla prospettiva teoretica ed estetica di Coomaraswamy incline, come lo fu quello dell’amico Guénon⁷, a postulare l’esistenza di una sorta di lingua metafisica comune, soggiacente ai linguaggi delle dottrine tradizionali. Ad esempio le tesi di Crescas, cui si è potuto solo accennare, mentre si allontanano dai fondamenti della fisica classica, gettano nel secolo XV ponti arditi sia al passato, verso la concezione cosmologica buddhista del vuoto, sia al futuro, verso le teorie più avanzate della fisica del nostro secolo. Il concetto di tempo immaginario, diceva recentemente Stephen Hawking, è il concetto fondamentale in base al quale va formulato il modello matematico; il tempo ordinario sarebbe in tal caso un modello derivato che noi inventiamo – come parte di un modello matematico – al fine di descrivere le nostre impressioni soggettive dell’universo⁸.

    Un argomento sollevato dal Coomaraswamy nell’ultimo capitolo merita infine un rilievo. Si tratta della base sentimentale del giudizio sulla quale, senza averne la minima consapevolezza, poggiano i loro assunti anti-tradizionali gran parte delle filosofie e delle estetiche contemporanee.

    Di fronte a una dottrina tradizionale – scrive Coomaraswamy – quella, poniamo, di un essere statico, intemporale, immutabile, la questione se tale dottrina sia vera o falsa non è quasi mai sollevata, e tutto ciò che sembra importare è se la dottrina piaccia o meno. In altre parole, una dottrina che osi coinvolgere (senza certo confonderli) più piani di un problema, ad esempio la natura del tempo, mettendo in luce la rete di connessioni che dall’osservato – il fenomeno del fluire – s’irradia all’osservatore – l’idea del fluire costruita dalla mente – e alle interazioni tra osservatore e osservato, con conseguenti modifiche del quadro del mondo e della posizione della mente in esso, è una dottrina che fino a poco tempo fa – e lo dimostra la resistenza alle idee di Coomaraswamy – era quasi invariabilmente votata a una sprezzante liquidazione. Ma il cammino della conoscenza, nel fluire apparente del tempo, provvede a raddrizzare certe storture, basta saper attendere senza attaccamento.

    Le parole con cui licenziavo la prefazione a Tempo ed Eternità nel 1996 si prestano a una nota aggiuntiva in occasione della ristampa benemerita di quest’opera fondamentale di Coomaraswamy. Essa accoglie in appendice una silloge di pensieri in forma di aforismi, attinti ai tanti scritti del filosofo cingalese le cui fonti sono indicate alla fine. Ne allestii la raccolta nel 1998⁹, e il tempo trascorso da allora non solo non intacca la loro pregnanza ma ne amplifica la portata in un tempo in cui il disorientamento e il malessere sono pane quotidiano senza il soccorso di alcuna medicina dell’anima che offra una visione dall’alto e da lontano, l’unica in grado di arrecare beneficio e sollievo all’avventura di vivere.

    Nei pensatori in voga oggi, in India come in Occidente, non c’è quasi più traccia infatti dell’arte di ammaestrare a reggere alla prova dell’esistenza affidandosi a pochi, lineari principi-guida, validi per chiunque, indipendentemente dalla cultura e dalla società di appartenenza, dal grado di istruzione, dalle condizioni fauste o infauste in cui ci si trova immersi. Sono principi attinti a una consapevolezza che si acquista attraverso uno strenuo allenamento della mente e del cuore, e Coomaraswamy vi si è temprato mettendo in pratica gli insegnamenti intramontabili della sapienza tradizionale, agli antipodi di quella che C.G. Jung definì la misérable vanité des savants. Ogni aforisma è come il grano di un rosario da trattenere in mano fino a quando il senso del pensiero sigillato in una sola frase diventa parte del nostro stesso pensare e ci solleva al di là dell’opinione, del facile abbaglio, del pregiudizio che è sempre confinario. Il problema reale – si legge nel primo aforisma – è di scoprire in che cosa bisogna credere. E l’ultimo, il 250°, ci rammenta che dove non v’è illusione, non vi può essere disillusione.

    Grazia Marchianò

    Introduzione

    "Το δ προτερον και υοτερον εν κινηοει εοτιν, χρονος δ ταυτ εοτιν

    [...] τα αει οντα η αει οντα, ουκ εοτιν εν χρονω".

    (Il prima-poi è nel movimento e, in quanto numerabile, costituisce

    il tempo [...]. Gli esseri eterni, in quanto tali, non sono nel tempo).

    Aristotele, Fisica, IV, 14, 223 A; IV, 12, 221 B.

    "Nunc fluens facit tempus, nunc stans facit aeternitatem".

    (L’ora che passa fa il tempo, l’ora che sta fa l’eternità).

    Boezio, De Consolatione Philosophiae, V, 6.

    "In ēwikeit ist weder vor noch nāch [...] Allez,

    daz ist got ie geschuof [...] die beschepfet got nū zemāle".

    (Nell’eternità non c’è né prima né poi [...]

    Tutto ciò che Dio ha creato, Egli lo manifesta in un istante).

    Meister Eckhart (Pfeiffer, p. 190, 207).

    Fu un inizio perpetuo.

    Jacob Boehme, Mysterium Pansophicum, IV. 9.

    "In principio... id est verbo... in sapientia fecit".

    (In principio... cioè nel Verbo... nella Sapienza creò).

    S. Agostino, Confessiones, XII, 20, 28.

    "Anyatra bhūtāc-ca bhavyāc-ca [...] anādy-anantam

    [...] īśāno bhūta-bhavasya-ca evādya sa u śvah"¹⁰.

    (Né passato né futuro [...] senza inizio né fine [...]

    Signore del passato e del futuro, Egli è a un tempo oggi e domani).

    Katha Upanisad, II, 14; III, 15; IV, 13.

    Mi sembra necessario comprendere in qual senso la Scrittura parli del Tempo e dell’Eternità (Dionigi l’Areopagita, De Divinis Nominibus, X, 3)¹¹. Esamineremo la dottrina del Tempo e dell’Eternità nei contesti vedico, buddhista, greco, cristiano e islamico. Entrambi i termini sono ambigui. Il Tempo è sia la totalità, o una parte, del continuum della durata passata e futura, sia questo punto presente del tempo (nunc fluens) che distingue fra loro le due durate. L’Eternità è sia, dal nostro punto di vista temporale, una durata senza inizio né fine sia, in se stessa, quel punto inesteso del tempo che è Ora (nunc stans).

    Dal punto di vista che si può chiamare esteriore o letteralista, si concepisce che il tempo, nel primo senso, abbia avuto un inizio e proceda verso una fine; esso viene pertanto contrapposto all’eternità considerata come una durata perpetua senza inizio né fine. L’assurdità di queste posizioni diventa manifesta se ci domandiamo con S. Agostino: Che cosa faceva Dio (l’Eterno) prima di creare il mondo?; la risposta è, naturalmente, che essendo il tempo e il mondo interdipendenti – o, in temini di creazione, concreati – la parola prima non ha alcun senso in una tale questione. È per questo che l’esegesi cristiana afferma abitualmente che εν αρχη , in principio, non implica un inizio nel tempo bensì un’origine nel Principio Primo; ne consegue logicamente che Dio (l’Eterno) crea il mondo ora e sempre.

    La dottrina metafisica contrappone semplicemente il tempo in quanto continuum all’eternità, che non è nel tempo e che non può essere propriamente chiamata durata perpetua, poiché essa coincide con il presente reale, l’istante, di cui non si può avere esperienza nel tempo. Qui la confusione sorge solo per una coscienza che riflette in funzione del tempo e dello spazio, poiché, per essa, un istante succede a un altro istante senza interruzione e sembra che vi sia una serie indefinita d’istanti, collettivamente assommati nel tempo. Questa confusione può essere dissipata se ci rendiamo conto che nessuno di questi istanti ha durata e che, quanto alla misura, essi sono tutti degli zero la cui somma è impensabile. È una questione di relatività: siamo noi a essere in movimento, mentre l’Ora è immutabile anche se sembra spostarsi – proprio come il sole sembra levarsi e tramontare a causa della rotazione della terra.

    Il problema che si pone è quello del luogo della realtà (satyam,το ον, ens): la realtà o l’essere possono essere attribuiti a una cosa¹² che esiste nel flusso del tempo e che, di conseguenza, non è mai uguale a se stessa, o solamente a degli enti, o a un ente onnicompresivo, situati fuori dal tempo e pertanto sempre identici? Un breve esame di questo problema fornirà una

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