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Questo lavoro stato scritto nell'intento di contribuire al dibattito che ha per oggetto la professionalit
dello psicologo. Dibattito sollecitato da precise contingenze storiche; come noto, si sono avute delle
importanti innovazioni tanto sotto il profilo legislativo che universitario; insieme ad esse, si pu constatare
come sia oramai rilevante il numero di presenze degli psicologi sia nell'ambito del lavoro autonomo che
dipendente, in vari contesti organizzativi, e specialmente nei servizi socio-sanitari. Crescita di presenze
avvenuta, d'altro canto, sulla base di presupposti che si sono rivelati assai problematici per la
professionalit psicologica: da un lato, le opportunit di lavoro sono state create soprattutto da interventi
legislativi in riferimento ad uno specifico ambito, quello socio-sanitario, appunto. Dall'altro, gli psicologi
sono stati formati (parlo dei laureati, pur ricordando che oggi considerevole il problema di tutte quelle
professionalit psicologiche che si sono formate fuori dall'ambito universitario) da corsi di laurea che non
hanno assolto al compito di formarli ad uno specifico "saper fare" professionale, nemmeno nel senso di
porre quelle premesse metodologiche perch il "saper fare" venisse acquisito successivamente.
Delle molte problematiche questioni aperte da queste affermazioni, voglio sottolinearne due, ai miei fini
particolarmente rilevanti: la prima, che l"'identit" psicologica stata vincolata all'area sanitaria, dato di
fatto che ha trovato un'immediata risposta collusiva negli psicologi stessi.
"Identit", non professionalit come competenza tecnica; intendo infatti riferirmi al gruppo di
appartenenza ideale che si strutturato in riferimento al modello medico, privilegiando un identit
psicoterapeutica fondata appunto su questo modello; in altri termini, sull'attesa che il profano si rivolga al
tecnico ponendosi come "sofferente", dipendente da qualcuno in grado di guarirlo. Un modello di rapporto
quindi, nel quale la dipendenza del profano dal tecnico particolarmente forte, e conferisce a quest'ultimo
un elevato potere, fondato sull'agito di una fantasia collusiva (per un'analisi della funzione del modello
medico nella identit dello psicologo, cfr. Carli, Paniccia, Lancia, 1988).
La seconda questione che intendo sollevare che la professionalit psicologica ha avuto il suo maggiore
sviluppo, in termini di presenze nel mondo del lavoro, sulla base di un provvedimento legislativo; essa,
quindi, ha tratto da quest'ultimo la principale fonte di legittimazione sociale, e non dal rapporto
tecnico/profano; in altri termini, da quel rapporto per cui un tecnico, quale che sia la sua competenza, la
struttura e la consolida in una continua relazione con la domanda dell'utenza, attraverso la verifica
dell'efficacia del proprio intervento. Tale rapporto con la domanda pu ritenersi peraltro di particolare
rilevanza, tanto da assumere una sua connotazione specifica e qualificante, come avr modo di dire in
seguito, per una prassi, come quella psicologica, che ha per oggetto l'individuo e la relazione in funzione
dei processi di adattamento.
Come si pu cogliere, le due questioni sono in rapporto tra loro: gli psicologi hanno adottato un modello
che non loro proprio, quello medico, perch privi di un modello di appartenenza ideale, che l'Universit
ha negato loro insieme con le premesse metodologiche di un "saper fare" professionale; nel contempo,
sono stati legittimati ope Iegis con l'inserimento nei servizi socio-sanitari, trovandosi a dover agire
immediatamente con l'utenza, una "prassi competente", che giustificasse l'assunzione di ruolo. Senza
potersi confrontare, quindi, con la domanda di cui l'utenza stessa poteva essere portatrice; e di
conseguenza, non strutturando in rapporto ad essa una risposta professionale specifica, fondata sulla
ricerca e sulla formazione ad hoc. Mentre il modello medico convalidava l'elusione della domanda,
rendendo irrilevante l'intenzionalit del "paziente" in rapporto alla "cura", di per s necessaria.
Privilegio dell'identit psicoterapeutica nel senso di fantasia difensiva agita, elusione della domanda
dell'utenza, sono premesse certamente problematiche ai fini del tema che intendo trattare, nel contesto
del dibattito sulla professionalit psicologica: quale sia l'utilit e l'opportunit di un rapporto professionale
tra psicologo e azienda. Proporr al proposito qualche riflessione, basata su una decina d'anni di
esperienza come consulente psicosociologa presso diverse aziende e su un lavoro di formazione di
psicologi in quest'ambito.
Identit psicoterapeutica ed elusione della domanda sono, come dicevo, premesse problematiche:
l'azienda, difatti, si presta assai poco ad essere configurata come "paziente" disponibile ad agire
collusivamente la dipendenza da un "medico"; e non perch nelle aziende non si soffra; si soffre come
dovunque; non quindi questo il problema. Tanto la realt di una dipendenza gerarchica, che in azienda
non possibile negare, come quella del potere del committente, nel caso che il rapporto sia di
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pubblicato in Rivista di Psicologia Clinica 3/1989, pp.291-306
consulenza e non di dipendenza, sconfermano immediatamente la fantasia
"medica". La delusione molto forte; tanto da produrre una risposta reattiva: il
disprezzo per il lavoro entro quell'ambito. Disprezzo che assai spesso le
aziende ricambiano con la diffidenza nei confronti dello psicologo: lo psicologo
portatore di una tecnica fine a se stessa, cieca o contrastante con le esigenze
dell'azienda stessa.
2. "Cultura" aziendale: premesse per una ricerca e per l'individuazione di una nuova funzione
professionale
Una relazione fortemente conflittuale, quindi. Ritengo, d'altro canto, che nei casi in cui possibile
sospendere l'agito di questo conflitto per una riflessione sui problemi che esso comporta, ma anche
permette di individuare, si giunga a considerazioni di grande interesse per la professionalit psicologica.
Prendiamo in considerazione, innanzitutto, altri aspetti della realt in esame, tracciata sinora secondo
linee significative ma certamente troppo semplificanti.
Da qualche tempo, nella letteratura specializzata, rivolta al management aziendale, compare con
insistenza la parola "cultura", peraltro solo vagamente riferita al modello antropologico in cui essa ha
avuto origine. Vediamo alcune citazioni, esemplari di questo nuovo interesse, traendole da un testo nel
quale si mette in relazione un problema tradizionalmente centrale in questo tipo di letteratura, le
formulazioni strategiche di piani e programmi, con una specifica condizione di attuazione delle strategie,
che, sempre nella tradizione, veniva ignorata o data per scontata. La condizione di attuazione delle
strategie individuate, la cui trattazione riveste un carattere di importante novit e di scoperta, cos come la
propone il testo considerato, appunto quell'aspetto della realt aziendale che viene chiamato "cultura".
Queste le citazioni.
Cos' la cultura? Per individuarla, il testo consiglia:
"Tutto ci che si deve fare, per rendersi conto delle differenti culture di queste aziende, passare un
giorno in ciascuna ed osservare i diversi modi di vestire, il diverso gergo ed il diverso stile. Ma c' di pi:
vi sono specifici modi di prendere le decisioni, di parlare al proprio superiore, di scegliere una persona
per un lavoro delicato" (Stonich 1988, p. 30).
Queste "routine", come viene definita la cultura subito dopo, sono nell'opinione dell'autore, che d'altro
canto non riesce a celare una certa sorpresa per questo, estremamente rilevanti: l'esperienza infatti
insegna che ignorare la cultura ostacola o fa fallire le strategie. E' quindi necessario intervenire su questo
fattore, ma la mancanza di categorie, gi presente nella "bizzarria" dell'elenco di cose da osservare della
citazione, rende ardua l'impresa:
"Nel contesto generale dell'attuazione della strategia [...] l'elemento cultura - nonostante la rilevante
importanza - indubbiamente il pi nebuloso ed il pi difficile da afferrare appieno" (ibid., p. 29).
L'equivalenza cultura-routine, d'altro canto, insieme alla sottolineatura dei modi di vestire, di parlare etc.,
permette allo psicologo alle prese con questo testo di riconoscere una fenomenologia a lui nota, la cui
ignoranza lascia l'autore cos perplesso e nelle nebbie: la cultura--routine la ripetizione costante di
comportamenti, specifici di un'organizzazione data, che caratterizza l'agito collusivo, o, in altri termini, la
fenomenologia istituzionale, che pu interferire con il funzionamento organizzativo di un'azienda (Carli,
Paniccia 1981,).
Se ci si vuol rendere conto del rilievo che ha assunto questa tematica nell'ambito dello studio delle
organizzazioni, si pu fare riferimento ad un'antologia di testi, prevalentemente statunitensi, uscita nel
1986 a cura di Pasquale Gagliardi. Un insieme di studi su questo tema, non sistematici,
"preparadigmatici" come dice il curatore, sta venendo alla luce, dall'inizio degli anni ottanta, ed in tutti si
sottolinea la rilevanza della "cultura". Questi studi sono sempre pi letti e numerosi, ed indicano sia il
livello di divulgazione raggiunto dalla critica alla teoria classica dell'organizzazione, che leggeva
quest'ultima esclusivamente secondo il criterio della "razionalit" (criterio economico-matematico, non
psicologico), che la mancanza di modelli per leggere il nuovo fenomeno individuato, la "cultura", appunto.
In questo dibattito interdisciplinare, gli psicologi avrebbero molto da dire, ma notevole la loro latitanza. I
testi raccolti nell'antologia, infatti, sono molto ingenui quando toccano tematiche sulle quali i modelli
psicologici e psicosociali potrebbero dare un significativo contributo; per esempio, sul rapporto tra
emozione e pensiero, sugli atteggiamenti motivazionali, e, di nuovo, sulla dinamica collusiva. Come
quando si afferma, parlando della "cultura": "Si andata pertanto sempre pi diffondendo tra imprenditori
e dirigenti d'azienda la convinzione che quella stessa forza che, al di l di ogni logica, pu essere la
chiave dell'eccellenza, al di l di ogni logica pu condurre l'azienda alla rovina" (Gagliardi 1987a, p. 22).
Una novit interessante, in questa ripresa della critica alla teoria classica dell'organizzazione, evidente
anche nell'ultima citazione, che non vengono visti solo gli aspetti conflittuali e difensivi dell'agito delle
fantasie nella relazione collusiva, ma anche la rilevante componente motivazionale di quest'ultima. Al
punto tale, che il curatore percepisce una certa euforia tra gli operatori che a diverso titolo (formatori,
manager) possono pensare di servirsi nella loro prassi di indicazioni tratte da
questi nuovi studi; si ipotizza che un atteggiamento direttivo, volto alla
"creazione e manipolazione del campo simbolico", possa aiutare i dirigenti ad
attuare cambiamenti e a superare momenti critici (Gagliardi 1987b, p. 418).
Quando si scende nel dettaglio del comportamento direttivo da assumere a tale
scopo, si pu arrivare a suggerire: "Dedicare del tempo ad una attivit che
deve essere enfatizzata e definita importante" (Pfeffer. 1987, p. 382). Questa intenzione manipolativa,
coerentemente tradotta in "consigli" pu di nuovo apparire ingenua ad uno psicologo; che pu
immaginare il conflitto interno, e presumibilmente non solo interno, vissuto da chi, in quanto manager,
attuasse un comportamento per definizione inutile (metterci pi tempo di quanto pu pensare che ce ne
voglia) per comunicare ad altri che quella certa attivit importante; la fantasia di manipolare la relazione
tradisce la sua natura ambivalente, inducendo a comunicare un messaggio opposto all'intenzione
cosciente.
In effetti, come si afferma in altro luogo della stessa antologia, tale situazione preparadigmatica va
superata: "Esistono dunque seri problemi di metodo da risolvere, che anche i pi entusiasti sostenitori di
queste prospettive analitiche non negano. Se questi problemi non saranno risolti, la pretesa di rendere
prevedibile il comportamento organizzativo cogliendone la logica culturale relativa, anzich la logica
strumentale universale, si riveler illusoria" (Gagliardi 1987a, p. 28).
Ad uno psicologo, quindi, appare evidente che chiamato ad avere un ruolo nell'individuazione di modelli
teorici e di intervento, nel nuovo orientamento assunto dagli studi sull'organizzazione.
Nell'esame della letteratura che si occupa di analisi organizzativa, ci siamo fatti accompagnare da un
ipotetico psicologo, che, dopo averne individuato alcune ingenuit, ora pronto a dare il suo contributo
nella ricerca. Questo sarebbe certamente possibile, ed in alcuni casi lo ; casi marginali, per, perch il
nostro psicologo ipotetico appartiene alle possibilit teoriche e di intervento della psicologia, ma non alla
"cultura"degli psicologi.
In primo luogo, il contesto culturale che ho ricordato nella premessa di questo lavoro rappresenta un serio
ostacolo a che lo psicologo si interessi di questo ambito; e la mancanza di interlocutori psicologi, evidente
in entrambi i volumi citati, almeno nel caso del volume italiano responsabilit che ci riguarda da vicino.
Vediamo un altro aspetto della "cultura" psicologica attuale, la cui individuazione pu esserci facilitata dal
breve excursus appena fatto nell'ambito dell'analisi organizzativa: l'identit dello psicologo, la sua
"cultura", si fonda all'Universit. Ora, lo psicologo, per poter acquisire una competenza di analisi della
collusione e di intervento in rapporto ad essa, dovrebbe aver vissuto la propria appartenenza
all'organizzazione che lo ha formato, le proprie dimensioni collusive, in un modo consapevole o almeno
non ostacolante una sua formazione successiva. In primo luogo, la strutturazione della sua appartenenza
non dovrebbe essere stata cos conflittuale da rendere assai problematica l'analisi delle difese collusive
su cui stata fondata. Quest'ultimo, in effetti, pu essere il caso dello psicologo. Si pu ricordare, difatti,
come il Corso di laurea in psicologia sia nato facendo appello a risorse provenienti dai pi diversi campi
disciplinari e professionali; soprattutto nell'indirizzo "applicativo", si fatto ricorso a persone provenienti
dall'ambito medico e psicoanalitico; provenienza che ha concorso a privilegiare l'ottica psicoterapeutica, e
che non estranea all'opinione che, al tempo stesso, gli psicologi non dovrebbero occuparsi di
psicoterapia. Singolarmente, sono proprio i medici e gli psicoanalisti tra i pi scettici sulla capacit
professionale degli psicologi, come si visto in occasione dell'approvazione de!la legge sulla
professionalit psicologica. Ci non pu non aver inciso su quella mancanza di un gruppo professionale
ideale che segnalavo all'inizio di questo lavoro. Mancanza che non assenza, ma presenza di un'identit
in negativo; conflitto assai duro da elaborare, e di cui sarebbe utile si facesse carico l'organizzazione
universitaria, cogliendo l'occasione delle rilevanti innovazioni in atto al suo interno.
In secondo luogo, se c' una cecit cos condivisa da psicologi e analisti dell'organizzazione sulla
pertinenza della psicologia in quell'ambito, bisogna ipotizzare un forte ostacolo, non fondato su
contingenze che, per quanto rilevanti, possono nasconderci altri aspetti, intrinseci, del problema.
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