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LA COLLUSIONE

Rosa Maria Paniccia1

1. Psicologi e azienda: un rapporto difficile

Questo lavoro stato scritto nell'intento di contribuire al dibattito che ha per oggetto la professionalit
dello psicologo. Dibattito sollecitato da precise contingenze storiche; come noto, si sono avute delle
importanti innovazioni tanto sotto il profilo legislativo che universitario; insieme ad esse, si pu constatare
come sia oramai rilevante il numero di presenze degli psicologi sia nell'ambito del lavoro autonomo che
dipendente, in vari contesti organizzativi, e specialmente nei servizi socio-sanitari. Crescita di presenze
avvenuta, d'altro canto, sulla base di presupposti che si sono rivelati assai problematici per la
professionalit psicologica: da un lato, le opportunit di lavoro sono state create soprattutto da interventi
legislativi in riferimento ad uno specifico ambito, quello socio-sanitario, appunto. Dall'altro, gli psicologi
sono stati formati (parlo dei laureati, pur ricordando che oggi considerevole il problema di tutte quelle
professionalit psicologiche che si sono formate fuori dall'ambito universitario) da corsi di laurea che non
hanno assolto al compito di formarli ad uno specifico "saper fare" professionale, nemmeno nel senso di
porre quelle premesse metodologiche perch il "saper fare" venisse acquisito successivamente.
Delle molte problematiche questioni aperte da queste affermazioni, voglio sottolinearne due, ai miei fini
particolarmente rilevanti: la prima, che l"'identit" psicologica stata vincolata all'area sanitaria, dato di
fatto che ha trovato un'immediata risposta collusiva negli psicologi stessi.
"Identit", non professionalit come competenza tecnica; intendo infatti riferirmi al gruppo di
appartenenza ideale che si strutturato in riferimento al modello medico, privilegiando un identit
psicoterapeutica fondata appunto su questo modello; in altri termini, sull'attesa che il profano si rivolga al
tecnico ponendosi come "sofferente", dipendente da qualcuno in grado di guarirlo. Un modello di rapporto
quindi, nel quale la dipendenza del profano dal tecnico particolarmente forte, e conferisce a quest'ultimo
un elevato potere, fondato sull'agito di una fantasia collusiva (per un'analisi della funzione del modello
medico nella identit dello psicologo, cfr. Carli, Paniccia, Lancia, 1988).
La seconda questione che intendo sollevare che la professionalit psicologica ha avuto il suo maggiore
sviluppo, in termini di presenze nel mondo del lavoro, sulla base di un provvedimento legislativo; essa,
quindi, ha tratto da quest'ultimo la principale fonte di legittimazione sociale, e non dal rapporto
tecnico/profano; in altri termini, da quel rapporto per cui un tecnico, quale che sia la sua competenza, la
struttura e la consolida in una continua relazione con la domanda dell'utenza, attraverso la verifica
dell'efficacia del proprio intervento. Tale rapporto con la domanda pu ritenersi peraltro di particolare
rilevanza, tanto da assumere una sua connotazione specifica e qualificante, come avr modo di dire in
seguito, per una prassi, come quella psicologica, che ha per oggetto l'individuo e la relazione in funzione
dei processi di adattamento.
Come si pu cogliere, le due questioni sono in rapporto tra loro: gli psicologi hanno adottato un modello
che non loro proprio, quello medico, perch privi di un modello di appartenenza ideale, che l'Universit
ha negato loro insieme con le premesse metodologiche di un "saper fare" professionale; nel contempo,
sono stati legittimati ope Iegis con l'inserimento nei servizi socio-sanitari, trovandosi a dover agire
immediatamente con l'utenza, una "prassi competente", che giustificasse l'assunzione di ruolo. Senza
potersi confrontare, quindi, con la domanda di cui l'utenza stessa poteva essere portatrice; e di
conseguenza, non strutturando in rapporto ad essa una risposta professionale specifica, fondata sulla
ricerca e sulla formazione ad hoc. Mentre il modello medico convalidava l'elusione della domanda,
rendendo irrilevante l'intenzionalit del "paziente" in rapporto alla "cura", di per s necessaria.
Privilegio dell'identit psicoterapeutica nel senso di fantasia difensiva agita, elusione della domanda
dell'utenza, sono premesse certamente problematiche ai fini del tema che intendo trattare, nel contesto
del dibattito sulla professionalit psicologica: quale sia l'utilit e l'opportunit di un rapporto professionale
tra psicologo e azienda. Proporr al proposito qualche riflessione, basata su una decina d'anni di
esperienza come consulente psicosociologa presso diverse aziende e su un lavoro di formazione di
psicologi in quest'ambito.
Identit psicoterapeutica ed elusione della domanda sono, come dicevo, premesse problematiche:
l'azienda, difatti, si presta assai poco ad essere configurata come "paziente" disponibile ad agire
collusivamente la dipendenza da un "medico"; e non perch nelle aziende non si soffra; si soffre come
dovunque; non quindi questo il problema. Tanto la realt di una dipendenza gerarchica, che in azienda
non possibile negare, come quella del potere del committente, nel caso che il rapporto sia di
1
pubblicato in Rivista di Psicologia Clinica 3/1989, pp.291-306
consulenza e non di dipendenza, sconfermano immediatamente la fantasia
"medica". La delusione molto forte; tanto da produrre una risposta reattiva: il
disprezzo per il lavoro entro quell'ambito. Disprezzo che assai spesso le
aziende ricambiano con la diffidenza nei confronti dello psicologo: lo psicologo
portatore di una tecnica fine a se stessa, cieca o contrastante con le esigenze
dell'azienda stessa.

2. "Cultura" aziendale: premesse per una ricerca e per l'individuazione di una nuova funzione
professionale
Una relazione fortemente conflittuale, quindi. Ritengo, d'altro canto, che nei casi in cui possibile
sospendere l'agito di questo conflitto per una riflessione sui problemi che esso comporta, ma anche
permette di individuare, si giunga a considerazioni di grande interesse per la professionalit psicologica.
Prendiamo in considerazione, innanzitutto, altri aspetti della realt in esame, tracciata sinora secondo
linee significative ma certamente troppo semplificanti.
Da qualche tempo, nella letteratura specializzata, rivolta al management aziendale, compare con
insistenza la parola "cultura", peraltro solo vagamente riferita al modello antropologico in cui essa ha
avuto origine. Vediamo alcune citazioni, esemplari di questo nuovo interesse, traendole da un testo nel
quale si mette in relazione un problema tradizionalmente centrale in questo tipo di letteratura, le
formulazioni strategiche di piani e programmi, con una specifica condizione di attuazione delle strategie,
che, sempre nella tradizione, veniva ignorata o data per scontata. La condizione di attuazione delle
strategie individuate, la cui trattazione riveste un carattere di importante novit e di scoperta, cos come la
propone il testo considerato, appunto quell'aspetto della realt aziendale che viene chiamato "cultura".
Queste le citazioni.
Cos' la cultura? Per individuarla, il testo consiglia:
"Tutto ci che si deve fare, per rendersi conto delle differenti culture di queste aziende, passare un
giorno in ciascuna ed osservare i diversi modi di vestire, il diverso gergo ed il diverso stile. Ma c' di pi:
vi sono specifici modi di prendere le decisioni, di parlare al proprio superiore, di scegliere una persona
per un lavoro delicato" (Stonich 1988, p. 30).
Queste "routine", come viene definita la cultura subito dopo, sono nell'opinione dell'autore, che d'altro
canto non riesce a celare una certa sorpresa per questo, estremamente rilevanti: l'esperienza infatti
insegna che ignorare la cultura ostacola o fa fallire le strategie. E' quindi necessario intervenire su questo
fattore, ma la mancanza di categorie, gi presente nella "bizzarria" dell'elenco di cose da osservare della
citazione, rende ardua l'impresa:
"Nel contesto generale dell'attuazione della strategia [...] l'elemento cultura - nonostante la rilevante
importanza - indubbiamente il pi nebuloso ed il pi difficile da afferrare appieno" (ibid., p. 29).
L'equivalenza cultura-routine, d'altro canto, insieme alla sottolineatura dei modi di vestire, di parlare etc.,
permette allo psicologo alle prese con questo testo di riconoscere una fenomenologia a lui nota, la cui
ignoranza lascia l'autore cos perplesso e nelle nebbie: la cultura--routine la ripetizione costante di
comportamenti, specifici di un'organizzazione data, che caratterizza l'agito collusivo, o, in altri termini, la
fenomenologia istituzionale, che pu interferire con il funzionamento organizzativo di un'azienda (Carli,
Paniccia 1981,).
Se ci si vuol rendere conto del rilievo che ha assunto questa tematica nell'ambito dello studio delle
organizzazioni, si pu fare riferimento ad un'antologia di testi, prevalentemente statunitensi, uscita nel
1986 a cura di Pasquale Gagliardi. Un insieme di studi su questo tema, non sistematici,
"preparadigmatici" come dice il curatore, sta venendo alla luce, dall'inizio degli anni ottanta, ed in tutti si
sottolinea la rilevanza della "cultura". Questi studi sono sempre pi letti e numerosi, ed indicano sia il
livello di divulgazione raggiunto dalla critica alla teoria classica dell'organizzazione, che leggeva
quest'ultima esclusivamente secondo il criterio della "razionalit" (criterio economico-matematico, non
psicologico), che la mancanza di modelli per leggere il nuovo fenomeno individuato, la "cultura", appunto.
In questo dibattito interdisciplinare, gli psicologi avrebbero molto da dire, ma notevole la loro latitanza. I
testi raccolti nell'antologia, infatti, sono molto ingenui quando toccano tematiche sulle quali i modelli
psicologici e psicosociali potrebbero dare un significativo contributo; per esempio, sul rapporto tra
emozione e pensiero, sugli atteggiamenti motivazionali, e, di nuovo, sulla dinamica collusiva. Come
quando si afferma, parlando della "cultura": "Si andata pertanto sempre pi diffondendo tra imprenditori
e dirigenti d'azienda la convinzione che quella stessa forza che, al di l di ogni logica, pu essere la
chiave dell'eccellenza, al di l di ogni logica pu condurre l'azienda alla rovina" (Gagliardi 1987a, p. 22).
Una novit interessante, in questa ripresa della critica alla teoria classica dell'organizzazione, evidente
anche nell'ultima citazione, che non vengono visti solo gli aspetti conflittuali e difensivi dell'agito delle
fantasie nella relazione collusiva, ma anche la rilevante componente motivazionale di quest'ultima. Al
punto tale, che il curatore percepisce una certa euforia tra gli operatori che a diverso titolo (formatori,
manager) possono pensare di servirsi nella loro prassi di indicazioni tratte da
questi nuovi studi; si ipotizza che un atteggiamento direttivo, volto alla
"creazione e manipolazione del campo simbolico", possa aiutare i dirigenti ad
attuare cambiamenti e a superare momenti critici (Gagliardi 1987b, p. 418).
Quando si scende nel dettaglio del comportamento direttivo da assumere a tale
scopo, si pu arrivare a suggerire: "Dedicare del tempo ad una attivit che
deve essere enfatizzata e definita importante" (Pfeffer. 1987, p. 382). Questa intenzione manipolativa,
coerentemente tradotta in "consigli" pu di nuovo apparire ingenua ad uno psicologo; che pu
immaginare il conflitto interno, e presumibilmente non solo interno, vissuto da chi, in quanto manager,
attuasse un comportamento per definizione inutile (metterci pi tempo di quanto pu pensare che ce ne
voglia) per comunicare ad altri che quella certa attivit importante; la fantasia di manipolare la relazione
tradisce la sua natura ambivalente, inducendo a comunicare un messaggio opposto all'intenzione
cosciente.
In effetti, come si afferma in altro luogo della stessa antologia, tale situazione preparadigmatica va
superata: "Esistono dunque seri problemi di metodo da risolvere, che anche i pi entusiasti sostenitori di
queste prospettive analitiche non negano. Se questi problemi non saranno risolti, la pretesa di rendere
prevedibile il comportamento organizzativo cogliendone la logica culturale relativa, anzich la logica
strumentale universale, si riveler illusoria" (Gagliardi 1987a, p. 28).
Ad uno psicologo, quindi, appare evidente che chiamato ad avere un ruolo nell'individuazione di modelli
teorici e di intervento, nel nuovo orientamento assunto dagli studi sull'organizzazione.
Nell'esame della letteratura che si occupa di analisi organizzativa, ci siamo fatti accompagnare da un
ipotetico psicologo, che, dopo averne individuato alcune ingenuit, ora pronto a dare il suo contributo
nella ricerca. Questo sarebbe certamente possibile, ed in alcuni casi lo ; casi marginali, per, perch il
nostro psicologo ipotetico appartiene alle possibilit teoriche e di intervento della psicologia, ma non alla
"cultura"degli psicologi.
In primo luogo, il contesto culturale che ho ricordato nella premessa di questo lavoro rappresenta un serio
ostacolo a che lo psicologo si interessi di questo ambito; e la mancanza di interlocutori psicologi, evidente
in entrambi i volumi citati, almeno nel caso del volume italiano responsabilit che ci riguarda da vicino.
Vediamo un altro aspetto della "cultura" psicologica attuale, la cui individuazione pu esserci facilitata dal
breve excursus appena fatto nell'ambito dell'analisi organizzativa: l'identit dello psicologo, la sua
"cultura", si fonda all'Universit. Ora, lo psicologo, per poter acquisire una competenza di analisi della
collusione e di intervento in rapporto ad essa, dovrebbe aver vissuto la propria appartenenza
all'organizzazione che lo ha formato, le proprie dimensioni collusive, in un modo consapevole o almeno
non ostacolante una sua formazione successiva. In primo luogo, la strutturazione della sua appartenenza
non dovrebbe essere stata cos conflittuale da rendere assai problematica l'analisi delle difese collusive
su cui stata fondata. Quest'ultimo, in effetti, pu essere il caso dello psicologo. Si pu ricordare, difatti,
come il Corso di laurea in psicologia sia nato facendo appello a risorse provenienti dai pi diversi campi
disciplinari e professionali; soprattutto nell'indirizzo "applicativo", si fatto ricorso a persone provenienti
dall'ambito medico e psicoanalitico; provenienza che ha concorso a privilegiare l'ottica psicoterapeutica, e
che non estranea all'opinione che, al tempo stesso, gli psicologi non dovrebbero occuparsi di
psicoterapia. Singolarmente, sono proprio i medici e gli psicoanalisti tra i pi scettici sulla capacit
professionale degli psicologi, come si visto in occasione dell'approvazione de!la legge sulla
professionalit psicologica. Ci non pu non aver inciso su quella mancanza di un gruppo professionale
ideale che segnalavo all'inizio di questo lavoro. Mancanza che non assenza, ma presenza di un'identit
in negativo; conflitto assai duro da elaborare, e di cui sarebbe utile si facesse carico l'organizzazione
universitaria, cogliendo l'occasione delle rilevanti innovazioni in atto al suo interno.
In secondo luogo, se c' una cecit cos condivisa da psicologi e analisti dell'organizzazione sulla
pertinenza della psicologia in quell'ambito, bisogna ipotizzare un forte ostacolo, non fondato su
contingenze che, per quanto rilevanti, possono nasconderci altri aspetti, intrinseci, del problema.

3. L'incidenza della collusione


Vorrei ora fare qualche considerazione a partire dalla mia esperienza di consulente; ho alla mente il caso
di alcune aziende nelle quali lo Studio professionale di cui faccio parte ha condotto interventi della durata
minima di un paio di anni, in alcuni casi per periodi molto pi lunghi.
Far una breve premessa di metodo: il modello che orienta la nostra ricerca non trova la sua specificit
nel luogo di applicazione, ma appunto nel modello stesso. In questo senso, la nostra consulenza si
rivolge ad ogni tipo di organizzazioni, incluse le "aziende"; organizzazioni a loro volta assai diverse tra
loro. Si pensi alla diversit tra un'impresa che non abbia fini di profitto, una fabbrica, un'azienda
produttrice di servizi etc. D'altro canto, se vero che la scuola, se vogliamo prenderla ad esempio di
un'organizzazione produttiva che non sia un'azienda, ha come prodotto l'apprendimento, anche vero
che in questo momento storico la finalit l'apprendimento un diritto di tutti e
deve essere uguale per tutti trova difficolt a tradursi in concreti obiettivi
operativi. Emblematico l'inserimento degli handicappati; ma la stessa scuola
dell'obbligo, a pi di vent'anni dalla sua istituzione, deve ancora trovare un
assetto non troppo discrepante dai principi che l'avevano ispirata. Il carcere,
che d'altro canto un'organizzazione non produttiva per definizione, a sua
volta orientato
da fini, la detenzione e la risocializzazione, che impossibile tradurre in obiettivi perch
drammaticamente contraddittorii tra loro. C' dunque tutto un ambito di organizzazioni, che per
definizione o per contingenze storiche orientato pi da fini che da obiettivi: pensiamo alla scuola ed al
carcere, ma anche agli stessi Servizi socio-sanitari, investiti di finalit "terapeutiche" impossibili a tradursi
in obiettivi, per es. nel caso della malattia mentale e delle tossicodipendenze. Per inciso, potremmo
notare che tutte queste strutture organizzative sono direttamente preposte al trattamento della devianza
nelle sue varie articolazioni: dalla delinquenza alla malattia, alla potenziale devianza di ogni individuo
giovane da "socializzare". Questa finalit generale e comune oggetto di una continua tensione e
conflitto sociali; tanto meno scontato il consenso su di essa, tanto pi appare ideologizzata e normativa,
quindi assai difficile a tradursi in obiettivi, la finalit stessa. Trattare la devianza non vuol dire ricondurla al
consenso; com' evidente, tale finalit, se confrontata con la realt, destinata non solo a fallire, ma
anche a rivelare la sua "stupidit"; d'altro canto, sembra pure difficile elaborare la devianza come
informazione. In questo tipo di strutture organizzative, si pone il problema di perseguire tecniche
operative non applicative ma attente allo studio dei problemi in una continua verifica e ricontrattazione
sociale delle finalit stesse; l'alternativa difensiva l'arroccamento in un agito collusivo che reifichi
fantasie collusivamente condivise dall'organizzazione e dal contesto sociale, perseguendo la necessaria
legittimazione per questa via. In effetti, si pu constatare la sopravvivenza di questo tipo di organizzazioni
anche al di l di ogni conseguimento di obiettivi; l'agito collusivo pu giustificarle in s. In questi casi
l'intervento psicosociale ripropone la rilevanza degli obiettivi in rapporto ai fini; nelle "aziende" il problema
di altro genere.
Le finalit che rientrano nella logica del processo produttivo sembrano scontatamente legittimate; questo
le rende se si vuole di ancor pi difficile valutazione; ma garantisce, al tempo stesso, il loro rapporto con
gli obiettivi, della cui congruenza e presenza non possono fare a meno. L'intervento psicosociale si
occuper quindi della possibile contraddittoriet tra obiettivi e fini causata dall'interferenza collusiva da un
lato; supporter l'interrogazione sulle finalit dall'altro, nella misura in cui la riflessione da esso promossa
lo include; n mancano agenzie sociali che ne propongano l'opportunit, come il sindacato, o gli
ambientalisti, o la stessa variabilit del mercato.
Le domande che le aziende hanno rivolto al nostro Studio sono state del pi diverso genere: dal formare
le persone a lavorare in gruppo per indirizzarle ad una nuova professionalit che richiede questa
competenza, ad una domanda di aiuto nella riconversione di una fabbrica in azienda; dall'individuazione
del potenziale delle risorse umane, alla richiesta di fornire di nuovi strumenti gestionali capi intermedi in
crisi con i vecchi; dalla formazione di dirigenti, alla selezione di personale laureato da assumere; dalla
richiesta di rendere pi efficaci i processi di comunicazione, alla messa a punto dei modelli di
incentivazione sotto il profilo motivazionale; dallo studio dell'immagine interna- esterna, a quello del
rapporto tra struttura e cultura.
E' stato richiesto l'intervento di psicosociologi, insieme o al posto di quello che avrebbero potuto proporre
altri professionisti, perch si supponeva sempre, da parte della committenza, che fosse implicato un
qualche "problema emozionale"; il conflitto, in primo luogo, o la demotivazione, o la resistenza a
cambiamenti; oppure, perch si riteneva opportuno che qualcuno, con funzioni specifiche all'interno
dell'organizzazione, per es. manageriali, imparasse "qualcosa sulle persone" per gestirle meglio, o
valutarle meglio etc. Oppure, che si studiasse e si intervenisse sul rapporto "cultura/struttura", per
esempio in concomitanza di un cambiamento di strategia; ma questo un tipo di domanda che ci stato
rivolto quando si era instaurato da tempo un rapporto di consulenza, ed era stato possibile chiarire meglio
con la committenza che tipo di aiuto potevamo dare.
In effetti, questo non affatto chiaro fin dall'inizio; ci sono piuttosto molte fantasie, da parte della
committenza, su cosa lo psicologo dovrebbe fare; fantasie che sono oggetto dell'analisi della domanda
(Carli, Paniccia, Lancia 1988; Paniccia 1988) e che danno molte informazioni sul problema che lo
psicologo pu effettivamente affrontare.
Voglio soffermarmi sulla rilevanza di queste fantasie e sull'incidenza che hanno nel rendere cos
problematico l'ingresso dello psicologo nelle strutture organizzative.
La domanda della committenza sempre espressione di una fantasia collusiva; in altri termini, di una
fantasia agita, con valore pragmatico immediato: nella relazione con lo psicologo, essa ha una valenza di
pressante richiesta di azione. L'agito che viene insistentemente richiesto destinato a confermare la
"cultura" presente; la cultura di un'organizzazione viene assimilata dai membri della stessa e coloro che
non vi si adattano spesso decidono (o sono costretti) a lasciare
l'organizzazione (Stonich 1988; p. 33). La fantasia, collusivamente condivisa
da un gruppo sociale, ed avente valore pragmatico immediato, non ultimo
quello di confermare o sconfermare la commessa di lavoro allo psicologo,
rappresenta una specifica dimensione di potere: la collusione potere. Ma di
che tipo di potere si tratta, visto che la collusione un rapporto, una relazione
in cui impossibile distinguere le ''parti" in causa, in quanto fondata sull'accordo inconscio e non sulla
percezione delle differenze? Il conflitto collusivo comporta sempre un "loro" che si contrappone ad un
"noi"; per esempio, "noi" (noi che qui ed ora stiamo parlando con lo psicologo, indipendentemente dalla
funzione, dal ruolo, che possono essere nella realt assai differenziati) e "loro/l'azienda", controparte
aliena al gruppo che parla con il "noi", sede di tutto il potere, ed in quanto tale, inattendibile ed arbitraria.
Oppure, un "noi" che parla allo psicologo, in nome dell'innovazione e del desiderio di cambiamento, di un
"loro" che ostile e che resiste ad ogni innovazione etc. Ma il conflitto collusivo occulta le differenze,
nega tanto quelle individuali, che quelle legate alla diversit di ruolo, di funzione, di competenza; anche
quelle di potere, in tutte le accezioni del termine che non siano quella che sto tentando di chiarire. La
confusione tra mondo interno di ciascuno e mondo esterno condiviso nell'azione, che l'agito collusivo
comporta, rende di complessa utilizzazione le categorie di singolarit e di individualit. Il conflitto
collusivo, che pure pu essere ed molto violento, e non manca di vittime, fondato su un accordo
inconscio tra le parti; per cogliere, confrontare, valutare l'effettiva diversit delle posizioni, necessario
fare ricorso al pensiero, strutturare altre modalit di relazione, non collusive; per esempio attraverso la
sospensione dell'azione e la riflessione su di essa. Dunque, di che potere si tratta, finalizzato a cosa?
Attraverso la collusione si propone di far diventare normativa una fantasia e di porre questa norma a
riscontro dei comportamenti, in sostituzione della realt; questa difesa sembra costituirsi come idealit
regressiva ed onnipotente condivisa, che preservi da un confronto continuato e confusivo con la realt
stessa.
Torno, per chiarire queste affermazioni, sulle domande iniziali che le aziende hanno rivolto al nostro
Studio: in esse stata veicolata una specifica richiesta collusiva; ad esempio, che si convalidasse la
scissione tra pensiero delle persone ed azione organizzativa; azione regolata da un progetto predefinito
riassumente in s ogni razionalit, che lascia come "scoria" residua l'emozione. Su questa scoria deve
agire l'intervento psicologico, eliminando il conflitto e riorientando le motivazioni a supporto del progetto.
Progetto che non affatto necessario, nella proposta collusiva, chiamare in causa nel suo senso, nelle
sue finalit, negli obiettivi nei quali articolato; in altri termini, nella struttura organizzativa che ne
permette la realizzazione. Al proposito, la collusione ha un suo gergo: si parler, come di realt tra loro
separate, di "persone" e di "struttura". Ancora, si parler, per rappresentare il comportamento
organizzativo ottimale, di un'adeguata congiunzione di "tecnica" e di "esperienza". La "tecnica" indicher i
comportamenti competenti atti a perseguire un obiettivo verificabile, secondo criteri di scientificit;
l"'esperienza", scissa dalla prima, "aggiunta" e non integrata, indicher quella capacit di trattare con
"buon senso" i problemi di gestione; in altri termini, l'abilit collusiva acquisita attraverso un'adeguata
permanenza nell'organizzazione, che permette di promuovere e consolidare l'appartenenza ad essa.
Questa fantasia ad effetto pragmatico elimina il pensiero dall'organizzazione, reificando la mente in
"razionalit" ed "emozione" scisse tra loro. In effetti, la "razionalit" appare affidabile proprio in quanto non
delle persone, di chi utilizza le tecniche, ma delle tecniche stesse in quanto "scientifiche", al riparo dalla
contingenza e dall'emozione. E' quindi una razionalit che rimanda ad un pensiero e ad una scienza
prodotti altrove. Al tempo stesso, questa fantasia aliena le persone dall'emozione, che da un lato appare
come un "privato" ineffabile, che non mai oggetto di comunicazione o di una riflessione utilizzata
nell'esperienza professionale; dall'altro si manifesta come agito collusivo nel quale l'emozione non pi
riconoscibile come tale, perch l'azione dandole valenza pragmatica ed innescando la reazione dell'altro,
non permette pi la distinzione tra mondo interno ed esterno, tra fantasia ed azione. Questa fantasia
difensiva agita permette di preservare un'idealit comune che al tempo stesso, confusivamente, quella
di ciascuno.
Declinare in parole l'idealit, articolarla in categorie, contraddittorio con la sua stessa natura; ma si pu
cogliere come essa rimandi attraverso la "tecnica" a un vissuto onnipotente; o come neghi, insieme
all'emozione, la violenza dell'agito, e quindi la sua distruttivit.
Ho sottolineato la presenza di effetti pragmatici della collusione; ne ricorder alcuni particolarmente
rilevanti al nostro scopo, in quanto si traducono in specifiche modalit di intervento professionale
all'interno dell'organizzazione, in ambiti che hanno rappresentato sinora il luogo elettivo dell'inserimento
di psicologi in azienda.
Ad esempio, la formazione. Formazione che pu giocare regolarmente su due tavoli, quello dei modelli
concettuali e delle teorie da un lato; quello delle esperienze che sollecitino l'espressione di emozioni
dall'altro; magari contemporaneamente, nello stesso "corso"; ma senza un modello del rapporto tra i due
piani proposti, senza una teoria della tecnica che connetta le due esperienze tra loro; ribadendo,
piuttosto, la scissione collusiva sulla quale ci siamo soffermati. Vengono alla mente, in proposito, le
"lezioni" sui diversi modelli di lettura dell'organizzazione nel primo caso; le
"dinamiche di gruppo" nel secondo; senza rapporto tra loro. E senza rapporto
con l'esperienza che i partecipanti stanno vivendo della loro specifica struttura
organizzativa: con le "teorie" attraverso cui la pensano: con il vissuto collusivo
che condividono.
Oppure, la selezione. Selezione che pu ribadire la scissione tra "persona" ed
"organizzazione", ponendo quest'ultima come dato scontato, inesplorato, ed al contempo proponendosi di
accertare caratteristiche che si pretendono individuali e non oggetto di apprendimento e di adattamento,
come "la capacit di lavorare in gruppo" o "l'attitudine alla leadership". Strutturando, di fatto, una
situazione in cui l'obiettivo della conoscenza totalmente inperseguibile; mentre invece lo la finalit
collusiva di porre le premesse per un processo di identificazione del "neofita" con coloro che gi
appartengono all'organizzazione. In effetti, dando per scontata l'organizzazione e proponendo la
variabilit da esplorare tutta a carico dell'individuo, si anticipa un preciso modello culturale sin dal
momento della selezione, dando uno specifico messaggio al neoassunto. Messaggio che tanto chiaro
quanto ineffabile; in altri termini, una fantasia collusiva agita, che chiede al neoassunto di convenire con
essa. Ho sottolineato le molteplici difficolt, peraltro contingenti, che ostacolano la scelta degli psicologi
ad occuparsi di questa problematica: non vedo d'altro canto, quale altra disciplina possa dare strumenti di
ricerca ed intervento su di essa.
Aggiungerei, e forse non sar inutile, visto che ho proposto molte categorie concettuali tratte da
quell'ambito di ricerca: nemmeno la psicoanalisi; soprattutto la psicoanalisi fuori dalla psicologia, ancorata
al modello della "cura", che come abbiamo visto, non congruente col nostro intento. Non sar inutile,
nel tentativo di chiarire ancora cosa si intenda per collusione, e di differenziare quindi il transfert dal
transfert istituzionale (Paniccia 1988), tornare per un attimo alla selezione di nuovo personale da
assumere, per considerarla in questo caso dal punto di vista dell'individuo, e fare in seguito alcune
considerazioni su questo cambiamento di ottica. Possiamo immaginare un neolaureato (perfettamente
verosimile; quanto sta per dire questi ipotetica persona la sintesi di discorsi ascoltati molte volte durante
delle consulenze per la selezione) che dica ai rappresentanti dell'azienda che stanno confrontandosi con
lui sull'opportunit di una sua assunzione:
Quel che mi interessa e un lavoro che corrisponda ai miei studi; all'inizio, vorrei approfondire la mia
competenza tecnica; so che ad un laureato si chiede anche di occuparsi di problemi gestionali, ma vorrei
chiedervi di impegnarmi in questo solo in seguito. No, quale tipo di organizzazione possa essere quella
nella quale lavorer non I'ho incluso tra i miei criteri di scelta; non mi sembra cos importante, mentre mi
sembra importante il contenuto del lavoro, cosa effettivamente mi sar chiesto di fare. L'ambiente? s, so
che importante, ma non vedo come potrei farmene un'idea da un colloquio, si vedr poi, con
l'esperienza....
Se ci mettiamo in un'ottica di comprensione psicodinamica dell'individuo, questo discorso, nel contesto
della relazione e di quant'altro potr dire la persona, ci condurrebbe ad una serie di inferenze; anche cos
mutilato del contesto, potr aver fatto venire alla mente qualche ipotesi interpretativa; forse, nemmeno del
tutto fuori luogo. Certamente, interpretazioni ed inferenze a carico della persona.
Ora per, vorrei ricordare che ho affermato come questo sia un discorso ascoltato molte volte, e con
poche varianti tra una persona ed un'altra, sia nella sequenza che nel tipo di affermazioni riportate; per
quanto grandi potessero essere le differenze tra le persone stesse sotto altri aspetti. Questo un dato
che non si pu ignorare, e dovrebbe insinuarci i primi dubbi sulla correttezza delle inferenze appena fatte.
Alle dimensioni individuali dobbiamo aggiungere qualcosa di diverso: la ricorsivit del discorso segnala la
presenza di fantasie sull'inserimento in azienda, comune ad un gruppo di persone che ha condiviso
un'appartenenza organizzativa importante ai fini dello strutturarsi di quell'identit professionale della
quale ci parlano: I'universit. Possiamo cos ipotizzare che I'universit contribuisca con la sua cultura",
alla creazione di questi stereotipi, e abbiamo qualche dato in pi sul problema, tante volte denunciato
invano, della frattura tra universit e mondo del lavoro. Per esempio, possiamo ipotizzare che
l'irrisolvibilit di un problema che per altri aspetti appare cos evidente, risieda nella sua natura collusiva,
inesplorata.
Possiamo fare ancora un altro passo: se riconsideriamo il discorso emblematico che abbiamo iniziato a
commentare, ne vediamo la coincidenza piena con quel modello collusivo caratterizzato dalla scissione
tra "persona" e "struttura organizzativa", tra "tecnica" ed "esperienza". L'interrogazione
sull'organizzazione, sui suoi fini, sui suoi obiettivi, sul progetto che richiede a supporto la tecnica con cui
la persona si identifica, esclusa; essa appare "irriIevante", in un modo che non pu che destare
sospetto, tanto inadeguato rispetto all'importanza che queste dimensioni rivestono nelle realt. Sembra
che la persona stia facendo l'ipotesi che non gli verr richiesto un pensiero progettuale, organizzante,
interrogativo sul processo che struttura e rende possibile il lavoro; al tempo stesso, la persona non
propone le sue risorse per questo. E' implicito che altri si faranno carico di questi aspetti, che saranno
quindi risolti, per esempio, attraverso il potere gerarchico, da cui la persona ritiene di doversi chiamar
fuori sino a quando non potr assumerlo a sua volta; secondo un modello "culturale" specifico, d'altro
canto; quello fondato sulla scissione tra funzioni progettuale ed esecutiva, e in
cui la funzione gestionale o non esiste o puramente di controllo. Con essa, si
prefigura una modalit specifica di conflitto, la controdipendenza verso chi
assegner i compiti esecutivi. Contemporaneamente, si preserva nella fantasia
l'illusione ideale che nulla limiter il potere tecnico col quale ci si identifica, se
non una serie di vincoli che potranno essere sentiti come estranei, quindi
stupidi e violenti insieme; vincoli equivalenti all'organizzazione stessa, che diviene l'azienda mi ha detto,
l'azienda mi impone; l'azienda altro da s che appare in alcune rappresentazioni culturali. L'assunzione
di un ruolo gestionale viene rimandata e vista come un male necessario, perch in essa si prefigura la
necessit di riassumere in s il conflitto che la scissione permette di collocare in "parti" della struttura
organizzativa e di agire; come si intuisce la necessit di affrontare una delusione in ordine alla propria
identit tecnica ideale. Nelle ultime battute, infine, Possiamo vedere confermata quella singolare cecit
all'evidenza dell'emozione e del suo significato nella relazione che caratterizza l'agito colIusivo. Intendo
dire, se ancora non chiaro, che certamente la struttura organizzativa attraverso la quale si realizza il
colloquio, la sua modalit, quanto viene proposto nella relazione, espressivo dell' "ambiente" aziendale
in questione; inoltre, che tale messaggio, se caratterizzato dall'agito colIusivo, e certamente percepito con
intensit dalla persona invitata al colloquio, che, tuttavia, pu non pensare nulla di quanto sta vivendo
emozionalmente. Ed possibile che, proprio per rispondere, sul piano inconscio, a precise attese
collusive percepite nell"'ambiente", la persona proponga come risposta adeguata quello specifico modello
"culturale".
A partire dai processi collusivi che possibile evidenziare in alcune attivit di selezione, ho proposto un
cambiamento di ottica dall'organizzazione all'individuo, per tornare poi all'organizzazione. Per esplorare
questo problema: finch certe fantasie che una persona pu esprimere non sono ricondotte al contesto
organizzativo che le giustifica, esse appaiono come idiosincrasie individuali; la passivit controdipendente
espressa nel discorso emblematico appena commentato un esempio quanto mai attenuato delle
"patologie" proprie di un processo collusivo, che possono essere di ben altra drammaticit e regressione.
E' del tutto improprio, peraltro, trattarle in un'ottica "psicoterapeutica".
Lo psicologo che intenda analizzare il fenomeno collusivo dovr quindi avere una competenza clinica ad
hoc. Al tempo stesso, si ritrover a tentare delle ipotesi interpretative circa le difese collusive del tutto
inattendibili, se non potr collocarle nel contesto organizzativo che d loro un senso. In altri termini, dovr
fare riferimento a modelli di analisi organizzativa. Modelli che non potr "importare" utilmente senza
sottoporli ad una duplice, radicale trasformazione: da un lato, dovr mutare dei modelli descrittivi della
relazione organizzativa in modelli genetici; dall'altro, dovr tradurli nella storia. Si potrebbe dire che si
tratta di promuovere una "razionalit" non pi separata dal pensiero e dall'intenzione di chi applica le
tecniche da essa dedotte; "razionalit" squisitamente psicologica, quindi, come riflessione sul
comportamento e sull'esperienza. Potremo allora parlare di pensiero secondo i modi di funzionamento
della mente, che includa il riconoscimento dell'emozione e il sentimento del tempo presente entro un
contesto storico. Quanto abbiamo chiamato altrove "spazio anzi" (Carli, Paniccia 1984). Nel proporre
esempi di un possibile modello collusivo, ho semplificato ancora una volta le cose: non ho dato nessun
parametro di contesto, di spazio, di luogo. Nella realt, ogni modello collusivo idiosincratico; connesso
con una storia, a dei problemi, delle circostanze, delle persone specifici; nato per rispondere ad essi e
per permettere un adattamento efficace dell'organizzazione alla realt. Se esso apparso "negativo",
come temo, solo perch scotomizzato dal contesto nel quale ha un senso sempre importante; molte
volte, funzionale al perseguimento degli obiettivi organizzativi. Vorrei pregare il lettore di correggere il tiro,
se nelle panie di una descrizione forse troppo sintetica di un fenomeno complesso ho favorito questa
impressione. Mentre invece certamente problematico che la collusione caratterizzi modalit di
intervento, come la formazione o la selezione, che possono costituirsi come prassi competente solo se
l'agito collusivo stato sospeso. In caso contrario, la collusione rende impossibile il persegui mento degli
obiettivi, e l'agito di fantasie si sostituisce a quel funzionamento organizzativo che formazione e selezione
dovrebbero supportare.
4. Conclusioni e Prospettive
Come nasce dunque l'opportunit dell'intervento psicologico nelle organizzazioni, a partire, come ho
proposto, dall'analisi della collusione? Quanto d significato all'intervento, lo rende possibile, opportuno,
la domanda. Quanto appare cos ovvio, non lo affatto. Basti pensare alla domanda che pu essere
trasformata dallo psicologo in occasione di applicazione di una tecnica, senza un'analisi delle fantasie
agite in essa e senza riferimento al progetto che la giustifica. Domanda quindi come intenzione che
motiva l'azione, tanto nel suo versante progettuale che collusivo; proponendo confusamente insieme sia
un intento di conoscenza che una difesa da esso. L'analisi delle fantasie presenti sar tesa alla
ricostruzione di un pensiero progettuale; l'attenzione alla teoria della tecnica permetter allo psicologo di
non colludere con la richiesta di strumenti da mettere al servizio di un progetto non esplorato e dato per
scontato. Lo psicologo, in questo caso, non potrebbe che trovarsi nell'impossibilit di declinare la sua
prassi in obiettivi congruenti col progetto; non potrebbe, in altri termini, che
agire una risposta collusiva.
L'attenzione alla centralit della domanda mi ha portato a far riferimento alla
tematica "culturale" di cui si sta occupando l'analisi organizzativa; essa non
solo propone agli psicologi degli interlocutori sul piano della ricerca scientifica,
ma segnala l'interesse, da parte delle organizzazioni produttive, verso
metodologie d'intervento che possono avere gli psicologi tra i protagonisti. La revisione del rapporto tra
cultura, struttura e strategia apre la strada a nuove professionalit; in alcuni casi gli psicologi potrebbero
esserne gli attori, in altri i formatori o i consulenti. Pensiamo ad esempio alle "integrazioni orizzontali" che
si affiancano alla gerarchia, come strutture di interlocuzione, con obiettivi di sinergia, tra differenti aree
aziendali; innovazione che pu profondamente rivoluzionare i tradizionali sistemi di appartenenza e
richiede capacit di mettere a fattor comune le esperienze, che fanno appello a un pensiero critico
profondamente innovativo rispetto alle risorse tradizionalmente richieste alle persone. Oppure, alle nuove
funzioni di servizio alla produzione richieste ad agenzie, come quella del personale, che per adempierle
devono radicalmente rivedere i vecchi modelli culturali; ad esempio passando da una cultura di controllo
degli adempimenti ad una cultura di supporto agli obiettivi. O ancora, pensiamo al viraggio dal
perseguimento dell'aumento della quantit di lavoro da parte delle persone, all'ottimizzazione del
processo produttivo.
Inutile moltiplicare gli esempi; piuttosto, vediamone la comune portata: quel che sollecita una prospettiva
di inserimento degli psicologi in questi ambiti il ricorso a capacit di pensiero organizzativo e di
gestione, da parte dei componenti dell'azienda, che, per essere acquisite, richiedono, un'analisi delle
difese collusive. Il progetto, negli esempi riportati, ma vengono alla mente tanti altri casi di cambiamento
in seno a diversi tipi di organizzazione, non pu essere riassunto nei criteri della "razionalit superiore"
scientifica, economico-matematica, cui si affianca un'emozionalit scissa e agita nella collusione, che
garantisca l'appartenenza Possiamo quindi ipotizzare che al "progetto" tradizionalmente inteso, come
modello di razionalit che una volta definito diviene la norma che regola l'azione, si affianchi un pensiero
progettuale, come capacit dell'organizzazione di regolare il proprio comportamento sulla base dei
rimandi di realt come sulla revisione critica della stessa intenzione che fonda il progetto.
Altrove abbiamo descritto altri aspetti della nostra ricerca che in questo luogo non ho nemmeno modi di
accennare, che restano indispensabile contesto in cui collocare queste riflessioni. In questo lavoro, d'altro
canto, ho voluto soffermarmi sulla rilevanza e l'incidenza dell'agito collusivo, perch a mio avviso la
difficolt di dare una risposta non agita, di contrattare una relazione che permetta il pensiero alla base
della problematicit del rapporto professionale tra psicologo e azienda. Ho sottolineato come non sia
facile sottrarsi alla pressione collusiva, alla richiesta violenta che si agisca in modo conforme ad una
fantasia che non deve essere smentita; come si debba, in seguito all'analisi della domanda,
accompagnare un processo delusorio e una fase confusiva, in cui ripristinare il rapporto con la realt
attraverso la costruzione di modelli di funzionamento organizzativo che mobilitino ed articolino un
pensiero progettuale.
Un processo complesso, certamente; molte le ipotesi da verificare ed i nodi da sciogliere. Voglio ancora
indicarne uno, di grande rilevanza sul piano della legittimazione di questa linea di ricerca da parte del
gruppo professionale degli psicologi: quello che si apre nei confronti del "mercato", della sua
"spartizione", dell'immagine che si vuole proporre all'utenza.
Nodo problematico non solo nel senso che la rinuncia alla mediazione del modello medico pone il
problema di individuare con precisione quale sia il "prodotto" professionale che si propone, e di
confrontarlo con l'utenza; a questo proposito, la via non sembra chiusa. Assai pi dura appare la
questione della rinuncia all'agito collusivo per promuovere e mantenere il rapporto con l'azienda cliente;
ad esempio, la rinuncia al perseguimento del "successo", cos incongruente con la sconferma dell'agito
collusivo. Non un caso se ho proposto cos spesso, nel corso di questo lavoro, la ricerca, come
atteggiamento conoscitivo che qualifica e regola la prassi psicosociale. Posizione peraltro tutt'altro che
scontata, in rapporto ad una prassi di intervento, per una "cultura" psicologica che fino a ieri ha
rigidamente separato sperimentalit ed applicazione, e perfino teoria e clinica; e che oggi solo con
grande difficolt inizia una qualche revisione di questa frattura. Il potere del pensiero pu affiancarsi al
potere dell'agito collusivo; nel prendere parte a questo processo, gli psicologi possono forse ritrovare,
accanto ad una professionalit congruente con i loro strumenti, teorici e tecnici, un valore. Se i postulati di
una ricerca presuppongono delle scelte, se queste scelte sono, a monte del metodo e della ricerca
stessa, arbitrarie, sar anche opportuno che gli psicologi si interroghino su quali sono i valori che le
orientano. Credo ci siano risorse molto importanti in quest'ambito per rispondere a quel vuoto di identit
che segnalavo all'inizio.
Sono sempre pi consapevole, ora che sono giunta al limite dello spazio concessomi, di quanto questo
lavoro tagli troppo corto su una quantit di questioni rilevanti; per esempio, sul rapporto tra la ricerca che
rappresento e il lavoro di altri psicologi che si sono mossi nella stessa direzione; o sul rapporto con la
psicologia del lavoro, che si pu solo intuire distante, nel momento in cui sottolineo la rilevanza dell'analisi
dell'agito collusivo. L'accompagnarmi, su questo numero della Rivista, a dei
colleghi con cui ho una lunga prassi di ricerca e di lavoro in comune mi fa
sperare che alcuni vuoti che ho lasciato vengano colmati da loro, come dagli
altri contributi, tutti raccolti intorno allo stesso tema. Non manco di auspicare,
tuttavia, che anche sull'apporto della psicologia all'analisi organizzativa si
cominci a lavorare ad un paradigma condiviso che renda pi agevole la
comunicazione scientifica.

Bibliografia
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Bologna.
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CARLI R., PANICCIA R.M., LANCIA F. (1988), Il gruppo in Psicologia Clinica, La Nuova Italia Scientifica,
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GAGLIARDI P. (1987a) Teoria dell'organizzazione e analisi culturale, in GAGLIARDI P. (a cura di) Le
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