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Premessa
Il titolo di questo convegno: «Quale felicità per l’Europa di oggi?» può essere anche inter-
pretato come l’espressione di una certa preoccupazione per la situazione politica e cultu-
rale attuale, che si presenta come piena di confusione e incertezze, non di rado addirittura
critica. L’esperienza ci mostra che sovente i momenti di crisi della storia dell’umanità
hanno avuto come effetto secondario un rinnovamento della cultura in generale e della
riflessione sull’uomo in particolare. Per questo vorrei proporre di considerare un periodo
che forse fu il più tragico della storia recente dell’Europa, e precisamene i decenni centrali
del ventesimo secolo. In quell’epoca porre la domanda di una felicità per l’Europa sarebbe
risultato ancora più anacronistico di oggi. Proprio negli anni dei nazionalismi prima, e dei
totalitarismi poi, e in gran parte come reazione ad essi, ci fu una significativa spinta in
avanti di quella «svolta antropologica» della filosofia che già Kant aveva rilevato come
aspetto importante del pensiero moderno. Diversi pensatori europei, perlopiù toccati
direttamente dalle persecuzioni da parte di regimi di vario colore, si sentirono interpellati
a riflettere in modo nuovo su chi è l’uomo, e soprattutto, su chi è come individuo e come
cittadino. Le prospettive dominanti si erano rivelate come tragicamente fallimentari; sia
l’individualismo sia il collettivismo stavano dimostrando a prezzo di milioni di vite
umane di non essere in grado di render conto di ciò che l’uomo è veramente. Scrive al
proposito il filosofo ebreo Martin Buber:
…se l’individualismo non comprende che una parte dell’uomo, il collettivismo non comprende
l’uomo che come parte. Né l’uno né l’altro procede verso l’integralità dell’uomo, verso l’uomo come
totalità. L’individualismo considera l’uomo soltanto nello stato di relazione con se stesso, il
collettivismo non vede affatto l’uomo, non vede che la «società». Nell’uno il volto dell’uomo è
deformato, nell’altro è mascherato.1
Se tu prendi l’individuo come tale, vedrai dell’uomo proprio solo quanto vedi della luna, poiché solo
l’uomo-con l’uomo può offrire una «piena» immagine. Se tu consideri la collettività come tale, allora
vedrai quel tanto dell’uomo come se vedessi la via lattea: perché i contorni siano netti, occorre sempre
l’uomo con l’uomo.2
Buber stesso riconosce che in questa svolta antropologica della filosofia, un ruolo
importante va attribuito a Edmund Husserl e alla scuola da lui iniziata, la fenomenologia.
Non è un caso, ma una necessità quanto mai significativa che le opere più importanti nell'ambito
dell'antropologia filosofica siano venute alla luce durante i dieci anni susseguenti la prima guerra
mondiale. E non è neppure un caso, mi sembra, che l'uomo alla cui scuola e secondo i cui metodi sono
1
nati i più mordenti tentativi del nostro tempo rivolti all'edificazione d'una antropologia filosofica
autonoma, Edmund Husserl, sia stato un ebreo di lingua tedesca...3
Dietrich von Hildebrand appartiene a pieno diritto a questo particolare momento storico.
Egli fece parte dei primi circoli di allievi di Husserl, sorti a partire dal 1907 tra Monaco e
Gottinga, ed è considerato tra i padri della corrente realista della fenomenologia. Inoltre, si
oppose apertamente al nazionalsocialismo fin dai suoi albori, tanto che al momento del-
l’annessione dell’Austria da parte della Germania nel 1933, fu definito dall’ambasciatore
tedesco a Vienna, «il nemico pubblico numero uno di Hitler», e riuscì a sfuggire alla
Gestapo solo poche ore prima che venisse ad arrestarlo, intraprendendo un fortunoso
viaggio attraverso l’Europa che ebbe fine nel 1940, con lo sbarco negli Stati Uniti, che
divennero la sua nuova patria.
Come enunciato dal titolo, intendo presentare Hildebrand a partire da una prospettiva
assai specifica, e cioè come lettore di Aristotele. La riflessione hildebrandiana è troppo
legata alla fenomenologia contemporanea - quanto al metodo - e alla tradizione platonico-
agostiniana - quanto ai contenuti -, per poter essere considerata aristotelica. Cionono-
stante, Aristotele fu per Hildebrand una ricca fonte di ispirazione. In sede introduttiva
vorrei indicare tre punti generali sui quali Aristotele e Hildebrand si trovano su un terreno
comune, così da giustificare l’idea di proporre un dialogo tra questi due pensatori, al di là
della distanza teoretica e temporale che li separa. In seguito tenterò di illustrare in che
modo si può dire che Hildebrand sia stato influenzato da Aristotele – e soprattutto
dall’Etica Nicomachea – e sia andato oltre Aristotele, riguardo ai tre temi che ci interessano:
la relazione interpersonale, il bene e la felicità. 4
Un primo punto di incontro tra Aristotele e Hildebrand riguarda la prospettiva
gnoseologica: entrambi, infatti, appartengono alla tradizione realista della filosofia. Nel
primo libro dell'Etica Nicomachea, Aristotele si appella al «fatto» come ultimo criterio di
verità.5 Presupposto dichiarato della teoria della conoscenza hildebrandiana è il «ritorno
alle cose stesse» predicato da Husserl nelle Ricerche Logiche, e interpretato da Hildebrand
in senso realista, al punto da essere utilizzato come capo d’accusa per rompere con
l’evoluzione successiva del pensiero husserliano. Inoltre, Hildebrand condivide con
Aristotele l’idea del sapere filosofico come conoscenza di ciò che è «necessariamente o
perlopiù», di ciò che è sostanziale e non accidentale, dunque di quell’essere sovrasensibile,
che si chiama così non perché riguarda ciò che è astratto o prodotto dalla mente, bensì ciò
che è fondamento oggettivo metafisico della realtà fisica. Questa consapevolezza della spe-
cificità del sapere filosofico può offrire una risposta alle questioni sollevate nelle sessioni
precedenti di questo convegno, riguardo alla possibilità di sostenere l’intelligibilità del
reale, così come riguardo alla fondazione della discussione sul diritto naturale e sui diritti
umani, perché fa della ricerca sui fondamenti il campo proprio di indagine del filosofo.
Un secondo punto che avvicina Hildebrand e Aristotele riguarda il metodo scelto per
studiare i rapporti umani. I libri dell'Etica Nicomachea dedicati all'amicizia si riferiscono ad
3 Ivi, p. 73.
4 Le opere hildebrandiane che più direttamente interessano la nostra riflessione sono quelle di etica, e
soprattutto Christian Ethics, (David McKay, New York 1953. 2^ed. Ethik, in Gesammelte Werke II, Kohlham-
mer, Stuttgart 1973) e Moralia, (Moralia, in Gesammelte Werke, Band IX, Josef Habbel, Regensburg 1980) e
quelle dedicate alla filosofia sociale, in particolare Metaphysik der Gemeinschaft, (Haas & Grabherr, Augsburg
1930; 3^ ed. ampliata in Gesammelte Werke, Band IV, Habbel, Regensburg 1975) e Das Wesen der Liebe, (in
Gesammelte Werke, III, Josef Habbel, Regensburg 1971, tr. it. a cura di Paola Premoli De Marchi, Bompiani,
Milano 2002).
5 Capitoli 2 e 7.
2
essa in due sensi: talvolta in un senso ampio, nel quale l’amicizia va ad indicare l'elemento
affettivo, unitivo, e di benevolenza, concordia e beneficenza presente in ogni relazione
umana «positiva».6 Altre volte invece indica, così come l'uso comune nella lingua italiana,
quella specifica relazione tra due persone, che si scelgono a causa di una comunanza di in-
teressi, entrano in confidenza reciproca e instaurano un rapporto dotato di una certa stabi-
lità, ma né strutturato da legami formali, né derivante dall’innamoramento o dall’attrazio-
ne erotica. Anche se Aristotele oscilla con una certa libertà dall’uno all’altro significato,
questa distinzione è assai interessante dal punto di vista filosofico, perché permette di
distinguere tra la relazione di amicizia in senso proprio, e la componente amicale che può
connotare ogni relazione umana unificante, sia l’amore sponsale, o quello fraterno, o anche
le relazioni asimmetriche, come tra padre e figlio o tra maestro e discepolo.
Anche Hildebrand utilizza un procedimento analogico per studiare i rapporti umani.
Egli infatti affronta l’analisi dell’amore, studiandolo prima nel suo senso generale di rela-
zione affettiva e unitiva che connota relazioni assai differenti tra loro, e poi in modo speci-
fico, nella suddivisione tra le diverse categorie; nel far questo privilegia su tutte l’analisi
dell’amore sponsale, che è considerato esemplare per comprendere anche le altre
categorie.
Mentre Aristotele, però, con la scelta dell'amicizia come modello esemplare per le altre
forme di relazione, ha privilegiato ciò che è comune a tutti i rapporti umani – l’elemento di
unione e di benevolenza -, Hildebrand con la scelta dell'amore sponsale, pone come termi-
ne di riferimento dell’analogia la relazione più perfetta e totalizzante, dunque quel tipo di
relazione che contiene nella forma più alta ed esclusiva gli elementi delle altre, come la
pienezza affettiva, la condivisione dell’esistenza, il coinvolgimento dell’intimità, la profon-
dità del legame e la capacità di attualizzare la persona. Questa differenza è un riflesso del-
la diversa prospettiva metafisica dei due filosofi: Aristotele parte dall’essere, per arrivare
alla sostanza come essere in senso proprio e all’essere assoluto; Hildebrand considera la
riflessione aristotelica sulla sostanza e la dottrina delle quattro cause come fondamenti ine-
ludibili della metafisica, ma pone al centro la metafisica della persona, come sostanza più
perfetta, e fonte di relazioni spirituali incomparabilmente superiori rispetto alle relazioni
della realtà impersonale.
Un terzo punto che avvicina Hildebrand ad Aristotele riguarda la questione della natu-
ra sociale dell’uomo: a questo proposito l’influenza di Aristotele su Hildebrand emerge fin
dalla somiglianza strutturale tra i libri dell’Etica Nicomachea dedicati all’amicizia, e la pri-
ma e fondamentale opera hildebrandiana dedicata alla socialità, Metaphysik der Gemein-
schaft, «Metafisica della comunità», apparsa nel 1930.
A partire dall’amicizia intesa in senso ampio, Aristotele analizza anche le forme comu-
nitarie dell’esistenza umana, affermando implicitamente la sostanziale analogia tra l’essen-
za dei rapporti interpersonali e la natura delle strutture sociali. Fondamento dell’analogia
è la concezione della natura sociale dell’uomo che non è chiamato alla solitudine, ma
all’amicizia, dunque sia alle relazioni interpersonali, sia all’amicizia politica, alla concordia
della comunità civile.7
La struttura di Metaphysik der Gemeinschaft, rivela la stessa idea della sostanziale somi-
glianza tra le leggi che regolano i rapporti interpersonali e quelle che stanno alla base delle
6 San Tommaso descrive così l’amicizia, facendo riferimento ad Aristotele: «Et sic ad amicitiam pertinent tria,
scilicet benevolentia, quae hic dicitur affectus; et concordia; et beneficentia, quae hic vocatur humanitas.» (S.
T., II-II, q 80.)
7 Etica Nicomachea, 1155 a; cfr anche Etica Eudemia, 1235 a.
3
comunità. Anche Hildebrand intende l’uomo come essere essenzialmente ordinato ad
entrambi i tipi di relazione.
La riflessione sullo statuto metafisico della persona conduce Hildebrand ad affermare
che l’uomo deve essere spiegato alla luce delle analisi delle relazioni specificamente spiri-
tuali che egli solo, unico in tutta la natura, può compiere. E da qui, è possibile la conci-
liazione della sua individualità inalienabile con il suo essenziale ordinamento alla so-
cialità. Tale ordinamento non costituisce dunque un aspetto accidentale o marginale della
persona, ma riguarda il senso stesso della persona umana, che è essenzialmente dialogica,
e ha come interlocutori privilegiati, proprio perché pari a sé, gli altri uomini.8 Fatte queste
premesse, proviamo allora a considerare i tre temi della relazione interpersonale, del bene
e della felicità, nella prospettiva di una lettura hildebrandiana di Aristotele.
8 D. von Hildebrand, «Die korporative Idee und die natürlichen Gemeinschaften», in Der Katholische Gedanke,
non latens, per quam aliqui bene sibi volunt ad invicem gratia ipsorum propter honestatem, iucunditatem
vel utilitatem».
10 Die apriorischen Grundlagen des bürgerlichen Rechts, Halle 1921, tr. it., I fondamenti a priori del diritto civile, (a
della fenomenologia di Adolf Reinach, Giuffré, Milano 1991 e J. Dubois, Judgment and Sachverhalt. An Introduction
to Adolf Reinach’s Phenomenological Realism, Martinus Nijhoff, Dordrecht 1995.
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Hildebrand parte dalle analisi di Reinach e le approfondisce, fino a descrivere le tappe
che dal più elementare e casuale contatto interpersonale conducono a costituire una vera e
propria relazione tra due persone.
12 Pensiamo a quando vogliamo far conoscenza con qualcuno, ma non abbiamo il coraggio di fare il primo
passo. Abbiamo in mente l’altra persona, e proviamo interesse verso di lei. Tuttavia, non esiste un contatto
reale con lei, ma la relazione solo nei nostri intenti, nelle nostre intenzioni. Qui intenzionale ha allora sia il
significato proprio della fenomenologia, di presente alla coscienza secondo la modalità immateriale propria di tutto
ciò che pensiamo, sia quello che fa parte del linguaggio comune, di volontario, come è utilizzato in espressioni
come «quello sgarbo era intenzionale», oppure «mi hai mentito intenzionalmente».
13 Hildebrand indica questo tipo di contatto con un termine specifico, difficile da tradurre in italiano,
5
ascoltano, è come se la vasca si riempisse d’acqua: c’è qualcosa che mette in contatto le
persone coinvolte.
Se la comunicazione è condizione necessaria perché sia dia un contatto interpersonale,
si comprende come il linguaggio – verbale o non verbale - sia un elemento essenziale per
entrare in relazione. Hildebrand stesso ha dedicato molta attenzione alla riflessione su
questo tema, affidata a pagine tuttora inedite.15
15 In sintesi, Hildebrand indica che quattro sono le funzioni del linguaggio. In primo luogo, il linguaggio ha
la funzione di oggettivare la conoscenza: non tutto ciò che conosciamo è descrivibile con le parole, tuttavia per
pensare, nel senso di riflettere, cercare spiegazioni, e ricordare abbiamo bisogno del linguaggio. In secondo
luogo, - e già questo pone nel contesto inter-soggettivo – il linguaggio ha la funzione espressivo-comunicativa;
molto importante come fonte della conoscenza, poiché attraverso la testimonianza altrui conosciamo gran
parte di ciò che più importa per l'uomo, come i valori e la cultura, e perché è mezzo prioritario per conoscere
le altre persone. In terzo luogo, ha la funzione di atto sociale, cioè serve a compiere delle vere e proprie azioni
direttamente finalizzate ad influire sugli altri, ad esempio la promessa, il contratto, il consenso matrimoniale;
infine, nelle relazioni interpersonali profonde, ha la funzione implicata nella comunicazione intima tra le
persone, come nella dichiarazione d'amore. Come si vede, a parte la prima funzione, che può essere svolta
anche da un computer, e per l’uomo è invece condizione per tutte le altre, il linguaggio ha una funzione
principalmente interpersonale.
6
Un terzo grado nel contatto interpersonale si realizza quando Giulietta accoglie la
dichiarazione di Romeo con una reazione dello stesso «segno», anche se non della stessa
natura, ad esempio accoglie l’amore di Romeo per quello che è, come amore, e ne gioisce.
Il contatto spirituale si realizza in modo pieno solo se il destinatario – e siamo ad un
grado ulteriore rispetto al precedente - risponde con un atto corrispondente a quello che gli
è indirizzato; nell’esempio, Giulietta ricambia l'amore di Romeo. Solo qui si arriva alla pie-
nezza della relazione io-tu, perché il contatto diventa reciproco. Ciò che è essenziale in
quest’ultimo stadio, quello più profondo, è lo sguardo reciproco che si instaura tra le due
persone, uno sguardo spirituale che ha un’analogia con lo sguardo fisico.16
Possiamo allora concludere che la comunicazione reciproca invocata da Aristotele come
condizione dell’amicizia ha la sua ragion d’essere nel carattere di esseri personali, dunque
consapevoli e liberi, posseduto da coloro che entrano in relazione. Aristotele ha il merito di
aver intuito un aspetto essenziale delle relazioni umane, che dipende strettamente dal
carattere razionale e libero dell’uomo. Hildebrand, con la fenomenologia degli atti sociali,
permette di comprendere con più chiarezza gli elementi che concorrono a costituire la
comunicazione reciproca che sta alla base dei rapporti intersoggettivi.
16 «Qui le due persone si rivolgono l'una all'altra coinvolte contemporaneamente come oggetto e come
soggetto nella situazione spirituale. Che siano l'amore o l'odio ad essere comunicati nello stesso tempo da
entrambe le persone, si giunge così al vertice formale del contatto spirituale, allo sguardo reciproco (Inein-
anderblick) dell'amore o dell'odio. Abbiamo qui di fronte a noi il vertice del prototipo del contatto spirituale, che
possiamo indicare come contatto Io-Tu.»
«Guardo qualcuno, e questi non lo nota. Qui abbiamo il gradino inferiore – uguale al contatto solo potenziale
e non reale; quando egli lo nota, senza guardarmi, il secondo; se guarda il mio volto nello stesso tempo in cui
io guardo il suo, il terzo. Se i nostri sguardi s'incontrano e raggiungono la persona dell'altro – come spinti
l'uno nell'altro – allora c'è un contatto spirituale del tutto nuovo, un vertice formale dell'esplicito riferirsi
l'uno all'altro. » (Metaphysik der Gemeinschaft, p. 29. Corsivo mio.)
Lo sguardo reciproco pone le persone una di fronte all’altra, in una relazione io-tu. Hildebrand ammette
anche una seconda forma di relazione, quella io-noi, che si dà quando le persone non stanno una di fronte
all’altra, bensì una accanto all’altra, in vista di uno scopo comune. La relazione Io-Tu è quella antropologica-
mente più rilevante perché coinvolge la persona nella sua totalità diversamente dalle relazioni-Noi, che in
genere – si può pensare ad una squadra di basket o a un gruppo di soccorso alpino - coinvolgono le persone
solo limitatamente allo scopo da raggiungere.
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sposte personali, spirituali, motivate da oggetti colti consapevolmente e anche passibile di
un’influenza della volontà, seppure non sotto la forma di un comando, bensì di un atto che
sanziona, asseconda, o al contrario ripudia e si emancipa dalla reazione affettiva.
In secondo luogo, la stabilità ha come effetto immediato la durata. E questa si manifesta
nel modo particolare con cui la relazione è presente nella coscienza. Quando qualcuno mi
chiede un’informazione ad un incrocio, appena se ne va il contatto che abbiamo avuto ter-
mina, e probabilmente me ne dimentico quasi immediatamente. Si è trattato di un contatto
attuale. Quando invece mi innamoro, o sono in conflitto con qualcuno, la coscienza del
rapporto con quella persona permane in me, anche se mi occupo di altro, e quando ci
ripenso si ripresenta alla mia consapevolezza. Si tratta di una presenza superattuale nella
coscienza della persona. Ci sono relazioni, come l'amore e l’amicizia, che si costituiscono
sempre come contatto superattuale tra due persone, ma anche il contatto presente in forme
più deboli di relazione, come tra compagni o colleghi, può essere di natura superattuale.
Questa riflessione ha un rapporto con le considerazioni che Aristotele (VIII, 6) fa sulla
differenza tra l’amicizia come disposizione del carattere, e l’esercizio dell’amicizia in atti
concreti. Non è necessario essere sempre consapevolmente concentrati sul rapporto,
perché questo sussista. L’amore per un amico perdura anche se non ci penso continuamen-
te. Ma se non esercito mai l’amicizia attraverso atti concreti, attuali, questa prima o poi
verrà meno.
La stabilità delle relazioni ha infine a che fare col fatto che esse spesso danno luogo a
legami tra le persone. Le tappe con cui dal contatto interpersonale si arriva allo sguardo
reciproco, afferma Hildebrand si riscontrano sia nelle relazioni amorevoli sia in quelle
riconducibili all’odio. Ma l’odio non instaura mai un’autentica relazione (Beziehung) tra le
persone, perché per sua natura implica separazione ed estraneità, e dunque per sua natura
rende impossibile la costituzione di un vero legame interpersonale.17 Lo sguardo reciproco
proprio dell'amore, e di quegli atti positivi che contengono almeno un nucleo di amore -
come la venerazione, la stima, la gioia -, invece, realizzano un'unificazione (Vereinigung)
tra le persone, che può scaturire in un legame o, nella forma più profonda, nella comunione
interpersonale.
Per quanto riguarda in particolare l’amicizia, essa implica certamente un legame,
espresso ad esempio dal senso di possesso, per cui affermiamo che qualcuno è mio amico.
Eppure l’amicizia può coprire una gamma assai diversa di relazioni, che vanno da un’ami-
cizia occasionale e di breve durata, all’amico del cuore, che lo resta per tutta la vita.18 È
però assai difficile individuare la linea che separa i conoscenti, seppure simpatici, dagli
amici. Hildebrand trova una linea di demarcazione nel fatto che l’amicizia si «stringe»:
questo significa che implica un tipo particolare di comunicazione, che egli ritiene già
intuita da Aristotele:
Ogni amicizia deve essere «conclusa», anche se non in un atto sociale e neppure in un’unica esplicita
comunicazione, ma in una graduale crescita interiore; tuttavia, entrambi sanno di potersi chiamare
amici. Aristotele richiama l’attenzione in modo meraviglioso sul fatto che ognuno dei due amici non
solo deve sapere che l’altro lo ama, ma anche, che l’altro sa che egli lo ama. Poiché ciascuno potrebbe
sapere di essere amato, ma non necessariamente che l’altro sa si essere amato da lui.
Ogni amicizia deve essere «stretta» e anche se l’amore di amicizia precede questo momento della
costituzione dell’amicizia nei due, esso riceve la sua piena proprietà categoriale solo nel momento in
cui l’amicizia viene stretta. Tra me e l’amico si dà allora un legame che non si dà tra me e il conoscente
simpatico, apprezzato, piacevole, e così è possibile dire: non appena qualcuno è un amico, non appena
17 MG, cap. 9.
18 Op. Cit., p. 44, 52-6.
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lo posso chiamare amico, non appena gli viene riservata questa posizione nel mio cuore, gli sono
debitore di un «più» nell’amore rispetto al conoscente. Egli ha diritto ad essere amato «di più» e
specialmente ad una condotta da parte mia diversa, ad un altro modo di preoccuparsi e avere a che
fare con lui, agli atti dell’amore. Per questo si può dire che la misura dell’amore, del prendersi cura e
della donazione complessiva, dipende del tutto dalla «parola» individuale che viene pronunciata tra
gli amici, dalla vicinanza e dalla profondità dell’amicizia.19
Anche se, dunque, a differenza dei legami familiari, l’amicizia non costituisce una comuni-
tà né si innesta in una comunità preesistente, ma resta sempre una relazione tra due perso-
ne, essa è una relazione d’amore reciproco che implica anche un legame stabile e duraturo
tra le persone.20 Ecco perché si è liberi di scegliere gli amici, ma una volta che l’amicizia si
è stabilita, esiste un dovere di fedeltà verso l’altro,
mento essenziale la nozione di Wertantwort, di risposta al valore. La vita morale è cioè costituita dalle risposte
che la persona dà (o si rifiuta di dare) al mondo dei valori morali e dei beni moralmente rilevanti. Più in
particolare la vita morale ha come proprio fondamento la risposta generale che la persona dà alla sfera
morale come tale (atteggiamento morale fondamentale), e si articola e si sviluppa attraverso le singole rispo-
ste ai diversi valori morali particolari (azioni e risposte), fino a condurre la persona ad acquisire le diverse
virtù, che sono risposte superattuali e durature alle varie sfere di valori morali, come quelli legati alla sinceri-
tà, alla purezza, alla generosità e via dicendo.
22 Vedi Essenza dell'amore, p. 85.
23 Il principale valore ontologico della persona è il fatto stesso che esiste, come persona, i suoi valori estetici
sono, oltre alla bellezza fisica, anche il fascino nel modo di porsi e di muoversi, i suoi valori morali sono, ad
esempio, la generosità, la lealtà, la sincerità, la fortezza, tra i valori vitali troviamo la forza e l’agilità fisica.
9
zamento. Aristotele sembra già aver intuito questo quando afferma che si ama solo ciò che
è amabile. 24
24 Ivi, p. 113. Hildebrand rifiuta l'opinione comune che considera l'amore una tendenza cieca, che non solo
non è in grado di conoscere l'amato nella sua verità, ma anzi ostacola questa conoscenza. Al contrario, l'amo-
re per sua essenza permette una conoscenza massimamente obiettiva dell'altro, perché chi ama non chiude gli
occhi davanti alle mancanze dell’altro, ma è anche disposto ad accettarle; ciò che può deformare la visione
obiettiva dell’amato sono secondo Hildebrand tendenze estranee all'amore, ad esempio la sensualità, l'orgo-
glio e una disordinata sete di felicità, tutte espressioni di un ripiegamento della persona su se stessa che per
sua natura si oppongono all’amore autentico, che, come vedremo meglio tra poco, è centrato sull’altro e non
su se stessi.
25 Metapyisik der Gemeinschaft, cit., p. 84-91.
26 Ivi, p. 90.
10
È proprio il riferimento ai valori (dell’altro e della relazione) il fondamento metafisico
del legame che si instaura nelle relazioni interpersonali. Tutti i valori positivi (morali ed
extra-morali) possiedono una capacità di creare legami tra le persone, una virus unitiva,
una forza unificante; così come i valori negativi hanno una forza disgregante.27 «La cono-
scenza della virtus unitiva dei valori – ritiene inoltre Hildebrand – è anche la chiave per la
comprensione della struttura oggettiva della comunità»28, e non solo delle relazioni io-tu.
27 Ivi, cap. 8.
28 Ivi, p. 105.
29 Metaphysik der Gemeinschaft, p. 38.
30 «Il momento della bontà traboccante – la materia propria dell'amore –, si realizza nella speciale
affermazione dell'essenza altrui e della sua felicità. Si realizza in ogni beneficare che si rivolge all'altro, in
ogni sacrificio che si sopporta per lui, nella cura amorosa con la quale lo si circonda.» Ibidem.
31 «La tendenza all'unificazione di manifesta nel desiderio di comunione con l'altro, di partecipare alla sua
vita, ai suoi interessi, ai suoi pensieri, al suo presente, ma soprattutto di partecipare alla sua essenza e di
divenire felici attraverso la comunione con l'altro». Ibidem.
32 1155 b.
33 Le somiglianze della fenomenologia hildebrandiana con la descrizione aristotelica dell’amicizia su questi
due aspetti, celano una fondamentale differenza che è forse la più rilevante tra i due autori che stiamo
considerando. Si tratta del modo con cui è considerato l’amore di sé. Aristotele ritiene che l’amicizia – e
quindi anche i suoi elementi di benevolenza e desiderio di unione con l’amico – debbano essere ricondotti
all’amore di sé. Hildebrand è invece figlio della tradizione cristiana e rifiuta assolutamente l’idea che l’amore
di sé sia alla base sia della benevolenza, sia dell’intenzione unitiva. Egli ritiene che l’intenzione benevolente
sia segno della capacità dell’uomo di uscire da sé e volere il bene dell’altro, anche quando per ottenere
11
Preoccupazione dominante nella filosofia dell'amore hildebrandiana è salvaguardare la
capacità che la persona possiede di uscire da sé e donare se stessa. Questa - che
Hildebrand chiama anche capacità di trascendimento - è forse la dimensione che più rivela il
carattere spirituale della persona e dimostra l'inadeguatezza delle concezioni materialiste,
deterministe e immanentiste dell'uomo. Da questa preoccupazione deriva la critica di
Hildebrand alle concezioni che fanno derivare l'amore per gli altri dall'amore di sé.
Aristotele non è citato esplicitamente in queste critiche, nonostante il fatto che nell'Etica
Nicomachea egli citi espressamente l'amore di sé come fondamento per l'amore per gli
altri. La ragione di questo silenzio forse è che il testo aristotelico può dare adito a due
interpretazioni differenti: da un lato l'amore di sé può essere considerato come un modello
per comprendere ogni forma di amore, e questo non è del tutto innammissibile nella
prospettiva hildebrandiana;34 dall'altro, l'amore di sé può essere considerato come la
radice dell'amore per gli altri.35 Solo questa seconda interpretazione è il bersaglio delle
critiche di Hildebrand, che ritiene inaccettabile la posizione che riduce la relazione con
l'altro ad un «prolungamento» della relazione con se stessi. Anzi, ritiene che questa – ad
esempio laddove un genitore cerca il successo dei figli per mera ambizione personale - è
una forma patologica dell'amore.
La ragione principale per cui né l’intenzione benevolente, né quella unitiva possono
derivare dall’egocentrismo, è che l’amore esige il dono di sé. Nel rapporto tra fratelli o tra
amici si dona parte della propria vita privata, tempo, interesse, aiuto, comprensione. Nelle
forme più profonde ed esclusive di amore, pensiamo all'amore per Dio e all'amore sponsa-
le, e, anche se in misura inferiore, all'amore dei genitori verso i figli, la persona dona se
stessa, in modo totale ed esclusivo. Questo conferisce un valore unico ad ogni tipo di amo-
re, anche all’amore non corrisposto – per Aristotele insensato -, a quello fondato su un
fraintendimento dell’amato, a quello che non risponde ai valori più alti che l’altro pos-
siede.36 E nello stesso tempo spiega la grandezza dell'amore reciproco, perché in esso, con
le parole di Hildebrand «apriamo le braccia della nostra anima per abbracciare l'anima
della persona amata»,37 cosicché – sono ancora parole di Hildebrand - «un uomo non può
farci dono più grande di quando cerca l'unione con noi, desidera che il suo amore sia
ricambiato. »38
questo bene si deve rinunciare ad un bene per sé. Proprio la benevolenza permette di superare la tentazione
dell'egocentrismo, che porterebbe a desiderare l’altro per se stessi, ad esempio per essere felici o perfezionare
se stessi in qualche modo e a perseguire il bene per lui, anche quando va contro qualche bene per sé.
Ma neppure l’intenzione unitiva può essere intesa in senso egocentrico, come tensione alla propria felicità e
perfezione. In primo luogo, essa addirittura presuppone l’apertura all’altro, la relazione spirituale tra
persone. E non mina l’individualità delle persone, ma la esige, in quanto «l'unio, invece di implicare la
perdita dell'esistenza individuale, mette in risalto in modo ancora più pieno e specifico le due persone nella
loro esistenza propria, rende dunque l'unità più profonda. (Essenza dell’amore, p. 358.)
34 1166 a; 1169 a.
35 1161 b; 1168 b.
36 Come abbiamo già accennato, non si tratta rinunciare alla propria individualità. La privazione di sé è
impossibile sia dal punto di vista oggettivo, metafisico, perché contraddice la natura individuale e inalie-
nabile della persona sia dal punto di vista soggettivo: non possiamo decidere di smettere di essere un io o il
nostro io. La donazione consiste, piuttosto, in un atteggiamento di uscita da sé per aprirsi all'altro, coglierne
tutta la bellezza, e nel vivere per lui o lei. L'atto di dono di sé che è insito in ogni tipo d'amore rende la per-
sona più autenticamente propria. Questo è da attribuire al fatto che l’amore ha la capacità di risvegliare
spiritualmente la persona di renderla presente a se stessa. Solo in virtù di questo essa è capace di donarsi
realmente all'altro. («The Role of human Love», cit., p. 48).
37 Essenza dell’amore, p. 377.
38 Ivi, p. 375.
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3. L’amicizia e la vita morale
Abbiamo visto che l’amore implica molti legami con il bene. Per bene però non abbiamo
considerato solo ciò che inerisce la sfera morale, ma tutte le qualità dell'altro, anche quelle
estetiche, intellettuali, vitali, etc., e tutti i beni – morali o extra-morali - che entrano nella
relazione.
È noto che nel primo capitolo del libro ottavo dell’Etica Nicomachea Aristotele si doman-
da se l'amicizia sia pertinente all'etica e risponde affermativamente: l’amicizia ha a che fare
con la vita morale perché: a) è una virtù o è unita alla virtù b) è necessaria per la vita, sia
per i ricchi, sia per i poveri, sia per i giovani, sia per i vecchi; c) è innata nell’uomo, tanto
che si rivela anche nelle relazioni familiari e tra gli uomini come tali; d) la concordia che va
unita all'amicizia tiene unite le città e quindi rende superflua la giustizia.39
La ragione più profonda del legame tra amicizia e vita morale, tuttavia, ci sembra quella
enunciata a partire dal capitolo 3, e cioè a partire dalla distinzione tra le tre specie di
amicizia, in base al fine cui tendono, sia esso l'utile il piacere, o il bene, alla quale segue
l'affermazione che solo l'amicizia in vista del bene è autentica. Hildebrand fa propria la
prospettiva di Aristotele in un testo dell’Essenza dell’amore.
Già Aristotele ha visto che la vera amicizia è possibile solo nel bene, perché solo allora il nostro
interesse si riferisce all’altra persona come tale, e anche questo fa emergere chiaramente il carattere di
risposta al valore dell’amore. L’interesse insito nell’amore si dirige essenzialmente all’altra persona
come tale, la sua esistenza e tutto il suo essere sono pienamente a tema. Finché l’altra persona mi è
solo utile o mi offre una fonte di intrattenimento o di divertimento, non è pienamente a tema come
tale, io non la amo. Finché per me qualcuno è solo utile, non necessariamente mi affascina. Mi può
addirittura disgustare, ma resto legato a lui, perché ne ho bisogno per determinati fini. La semplice
utilità non è mai fondamento di diletto. Inoltre, l’altra persona in questo caso non è in alcun modo a
tema come tale. Al contrario, mi interessa solo come mezzo per qualcos’altro. Questo tipo di interesse
è lontanissimo dall’amore.40
Quale è dunque il rapporto tra amore e vita morale? In generale, possiamo rispondere
che Hildebrand distingue nettamente la morale naturale da quella evangelica. E la linea di
demarcazione è data dai comandamenti dell'amore enunciati da Cristo: nella morale natu-
rale l'amore è un dono e non un obbligo morale, mentre il cristiano ha ricevuto un preciso
mandato: deve amare il prossimo e Dio.
Nell’ultima parte di Essenza dell’amore affronta in modo dettagliato le relazioni tra
amore e vita morale, dividendo la trattazione in due parti: in primo luogo, illustra i
pericoli morali che l’amore può correre; in secondo luogo descrive le forme positive di
relazione tra amore e sfera morale.
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relazioni, bensì, l’ordo amoris, la disposizione ordinata, secondo la corretta gerarchia ogget-
tiva, delle proprie relazioni affettive, ponendo quella per Dio al primo posto.
Un secondo pericolo può derivare da una cattiva influenza tra coloro che si amano. Le
relazioni d’amore implicano sempre il crearsi di una reciproca influenza tra le persone.
Questa di per sé è legittima,41 però può diventare nociva, se conduce l’amato a compiere il
male. Il pericolo dell’influenza cattiva che può essere esercitata nelle relazioni d’amore è
una delle ragioni per cui colui che ama deve essere buono.
Un terzo pericolo dell’amore è quello di corrompersi e di degenerare nella passione,
nella gelosia o nell’invidia.
Infine, l’amore può incorrere nell’infedeltà. Nell’amicizia questa può essere colpevole o
incolpevole.
41 Può cessare di esserlo, se consiste in una forma illecita di influenza, come quella basata sulla suggestione o
sull intimidazione.
42 Essenza dell’amore, p. 847.
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more tra uomo e donna e l’amore di amicizia, invece, non hanno questa struttura
che li precede e quindi neppure gli obblighi che da essa deriva;
d) esiste dunque un dovere di accettare l’amore nel senso che per rifiutarlo ci devono
essere dei motivi legittimi; non si può parlare di un obbligo morale in senso stretto,
ma di un appello e di una chiamata che l’amore che un altro ci rivolge (soprattutto
nel caso dell’amore di amicizia e sponsale). Accettarla o rifiutarla non è un valore
morale, ma ha a che fare con una situazione moralmente rilevante, in modo analo-
go al caso della vocazione religiosa.
Un’altra relazione tra amore e moralità riguarda il dovere della fedeltà. Non sono stretta-
mente obbligato ad amare, ma una volta che amo, devo essere fedele. Questo nell’amore
sponsale assume la forma più alta dell’esclusività, ma riguarda tutte le forme di amore.
Nell’amicizia si parla in modo particolare dell’amico fedele, come di colui che sta accanto
nelle sofferenze della vita. L’amicizia implica però una fedeltà specifica, diversa da quella
dell’amore sponsale. L’amicizia non è esclusiva, però non è lecito, nel crearsi nuove
amicizie, diminuire o sopprimere l’amore di amicizia che già abbiamo realizzato.
Infine, una relazione tra amore e moralità riguarda l’ordine nell’amore, e cioè il fatto che
nella vita di ciascuno le relazioni affettive devono rispettare un preciso ordine, dato
dall’importanza delle relazioni, dalla loro natura propria, dalla centralità che le persone
che amiamo hanno nel nostro cuore, dai valori coinvolti, dai legami formali che abbiamo
stretto, etc.
3. L’amicizia e la felicità
a) Bene e felicità
Nell'Etica Nicomachea Aristotele afferma che c'è coincidenza tra bene e felicità, e che la
felicità è premio del bene.
Hildebrand ha il merito di aver proseguito su questa linea, arrivando a chiarire la
natura della relazione tra bene e felicità. Egli infatti afferma che, come tutte le cose impor-
tanti della vita, e forse più di tutte, la felicità non può essere perseguita per se stessa, ma si
riceve come dono quando l’intenzione del nostro agire è qualcos’altro. E questo qual-
cos’altro, secondo Hildebrand è il bene. La relazione tra il bene e la felicità è allora detta di
sovrabbondanza: quando perseguiamo il bene, otteniamo la felicità come dono in più. Si
tratta di una relazione oggettiva, insita nella natura stessa del bene, ma con una conse-
guenza immediata sulla persona. Se nostro scopo unico è essere felici e concentriamo la
nostra attenzione solo su questo, non raggiungeremo l’obiettivo.43
Questo carattere di dono sovrabbondante della felicità è in qualche modo implicito nel
legame che Aristotele pone tra virtù e felicità. A Hildebrand però forse va il merito di aver
trovato un nome alla natura di questo legame e di aver inserito la relazione di sovrabbon-
danza tra i tipi di relazione metafisica necessari per dare conto della realtà.44
43 In una prospettiva ultimativa, ecco che allora la felicità intesa come beatitudine eterna non può essere il
fine primario ultimo della volontà, ma solo il fine secondario ultimo. Fine primario, nella prospettiva
cristiana di Hildebrand, deve essere la Gloria di Dio.
44 Hildebrand afferma che Aristotele con la dottrina delle quattro cause ha fatto compiere un passo avanti
decisivo alla metafisica occidentale, tuttavia con essa non ha esaurito le forme di relazione metafisica
presenti della realtà, e precisamente, oltre alla relazione di sovrabbondanza – che è in qualche modo opposta
a quella mezzo-fine, la causa exemplaris, che spiega la relazione tra Dio e gli altri esseri, la relazione gerarchica,
che assume particolare importanza in rapporto ai valori, la relazione di antitesi (tra bene e male, bello e brutto,
profondo e superficiale), la relazione tra colpa e pena, la relazione di glorificazione di Dio, le relazioni specifica-
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Possiamo allora affermare che la felicità ha come fondamento oggettivo la capacità
eudemonica dei beni. Però dipende anche dalla disposizione di chi ne fruisce. Quando
ascolta Bach, un esperto di musica prova una gioia molto più intensa di una persona che
non ha competenze musicali. Ciò vale in massimo grado per i beni inerenti alla sfera
morale, che sono per il virtuoso motivo di amore e fonte di gioia. Ancora una volta
Hildebrand cita Aristotele.
Il virtuoso non solo vuole il bene, ma anche lo ama, si rallegra per la vittoria del bene, sia che anche
soddisfi un’obbligazione morale, sia che abbia avuto l’opportunità di fare qualcosa di meritorio, sia
anche che un altro agisca moralmente bene. Già Aristotele ha visto questo, quando nella sua Etica
Nicomachea dice che il buono non solo vuole il bene, ma anche ne gioisce. E sant’Agostino lo afferma
ad un livello molto più alto, quando parla della sequela del comando divino: «non solo siamo attratti
con la volontà, ma anche con l’affetto.»45
Se è così, la felicità si presenta nello stesso tempo come dono e come frutto della capacità di
gioire, che dipende dalla capacità di apprezzare i beni e di dar loro una risposta affettiva
adeguata alla loro rilevanza. Questa capacità è una virtù, dunque può essere oggetto di
educazione, così come lo è un talento artistico o intellettuale.
In altre parole, la felicità è premio dell’amore quando questo è autentico, dunque innestato
nel bene. In questo Hildebrand è di nuovo aristotelico. Ora, l’amore è causa di felicità sia
per l’amato, sia per colui che ama. Il fatto che l'amore sia l'esperienza umana che più rende
felici, è la prova più valida della sua centralità unica per l'uomo. E soprattutto del fatto che
è importante non solo a livello psicologico, soggettivo, ma oggettivamente, come via
privilegiata perché la persona si realizzi come tale.
Per concludere tornando alla domanda che ha dato il titolo al convegno, vorrei proporre
una risposta alla questione di «Quale felicità per l’Europa di oggi?», utilizzando le parole
di Viktor Frankl, che Hildebrand sarebbe pronto a sottoscrivere:
Il successo, così come la felicità, non deve essere inseguito, deve giungere come effetto collaterale e
non intenzionale di una personale dedizione a un ideale più grande di se stessi.47
La felicità, per l’Europa come comunità umana e per ciascuno dei suoi cittadini, smette di
essere un fine utopistico solo quando ciò che si persegue non è né la felicità stessa, né un
mente personali, come quella tra soggetto e oggetto (D. von Hildebrand, «Selbstdarstellung», in L. J. Pongratz
(Hrsg), Philosophie in Selbstdarstellungen, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1975, vol. II, p. 77-127, qui p. 96).
45 Essenza dell’amore, p. 279.
46 «The Role of Human Love», in Man and Woman, Franciscan Herald Press, Chicago 1966, p. 39. Vedi anche il
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successo calcolato in modo utilitaristico, ma le energie vengono spese alla ricerca del bene,
di tutti e di ciascuno. Solo allora la felicità può scaturire come dono sovrabbondante,
conseguenza della giustizia e della pace.
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