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Eco Alfabeta
ambiente, scienza e varia umanità
In nove anni, ho scritto oltre 2500 post che spaziano dai cambiamenti climatici, al
picco del petrolio, alle energie rinnovabili, all’impronta ecologica, agli stili di vita
sostenibili, all’agricoltura biologica, alla decrescita, ai problemi del nucleare, alla
crescita della popolazione umana e all’impatto sugli ecosistemi.
Una buona parte di questi post non è più direttamente accessibile sul web e si è
salvata solo grazie all’esistenza di Internet Archive.
Per questo vorrei riproporre alcuni di questi post, scelti tra i più significativi e i più
duraturi.
Termino la rassegna con alcuni post che ho scritto dall’Africa durante la mia
partecipazione ad un progetto di cooperazione: ci possono aiutare a cogliere un
diverso mondo e un diverso punto di vista
Buona lettura
P.S. Ho mantenuto tutti i link originali, per mostrare il lavoro di documentazione che
sta dietro ad ogni post. MI scuso se alcuni tra essi non dovessero essere oggi più attivi
Foodprint: L’impronta alimentare
L'impronta alimentare
Lunedì 15 Marzo 2010, 09:33 in Alimentazionedi Marco Pagani
Per la prima volta il tema di maturità parla di cibo e del suo rapporto con la salute e la vita umana.
Interessante il testo proposto di Carlo Petrini sull'insostenibilità della filiera alimentare industriale
"La politica alimentare [...] si deve basare sul concetto che l'energia primaria della vita è il cibo. Se il cibo è
energia allora dobbiamo prendere atto che l'attuale sistema di produzione alimentare è fallimentare. [...] Il
vero problema è che da un lato c'è una visione centralizzata dell'agricoltura, fatta di monoculture e
allevamenti intesivi altamente insostenibili, e dell'altro è stata completamente rifiutata la logica olistica, che
dovrebbe essere innata in agricoltura, per sposare logiche meccaniciste e riduzioniste. Una visione
meccanicista finisce con il ridurre il valore del cibo a una mera commodity, una semplice merce. é per questo
che per quanto riguarda il cibo abbiamo ormai perso la percezione della differenza tra valore e prezzo:
facciamo tutti molta attenzione a quanto costa, ma non più al suo profondo significato [...] Scambiare il prezzo
del cibo con il suo valore ci ha distrutto l'anima. Se il cibo è una merce non importa se lo sprechiamo. in una
società consumistica tutto si butta e tutto si può sostituire, anzi, si deve sostituire. Ma il cibo non funziona
così." Carlo PETRINI in Petrini-Rifkin. Il nuovo patto per la natura, "la Repubblica" - 9 giugno 2010.
Multinazionali e governi stranieri stanno correndo ad accaparrarsi terre in Africa, per garantirsi cibo e biofuel.
Il nuovo colonialismo avanza e minaccia centinaia di milioni di contadini
Su questo pianeta la terra coltivabile non è infinita: ne abbiamo circa 0,22 ha a testa (1). Il denaro non può
creare terra coltivata dove non c'è, ma dà il potere a chi ne ha di più di portare via la terra a chi ne ha di
meno.
E' il tragico fenomeno del land grabbing, ovvero il nuovo colonialismo.
La mappa qui sopra mostra i principali accaparramenti di Terra in Africa. È una stima per difetto, relativa solo
alle transazioni documentate. (2) Il confronto tra le aree acquisite dalle multinazionali o dagli stati e la terra
totale disponibile per la popolazione locale è impressionante.
Circa 30 milioni di ettari (3) in 24 paesi, pari al 15% della terra arabile africana è già in altre mani. In 14 nazioni
in cui si sono concentrate 27 Mha di acquisizioni l'entità del land grabbing supera il 25%.
Per fare cosa? Coltivarci mais, grano riso, canna da zucchero, palma da olio, jatropha per biofuel oppure
tagliare la foresta o scavare miniere o pozzi petroliferi.
Se non si porrà un freno a livello internazionale a queste pratiche "selvagge", le guerre per la terra faranno
impallidire quelle per l'acqua. Il land grabbing è l'esatto opposto della sovranità alimentare, cioè del diritto
dei popoli a coltivare ciò che desidera per nutrirsi.
(1) Mi riferisco alla terra "buona", cioè quella ad alta resa destinata ai raccolti annuali (cereali, legumi, semi
oleosi ecc) oppure alle colture permanenti (alberi da frutta). Altri 0,5 ha pro capite sono destinati a pascolo,
perchè meno produttivi. Ogni ulteriore espansione della terra coltivabile implica deforestazione.
(2) Fonti. Il database più completo è quello di landportal.info; ulteriori dati sono disponibili
su farmlandgrab.org, sulla mappa generata dall'IFPRI e sull'Internazionale della scorsa settimana (n.949).
(3) Questa cifra deriva dalla somma dei parziali che ho trovato nelle varie fonti. Qualcuno tuttavia parla di
numeri assai più alti, forse fino a 46 milioni di ha.
Il land grabbing ha messo le mani su 200 milioni di ettari di terra agricola o di foreste per farci piantagioni
per esportazione, biofuel o ricerche minerarie. Questa terra potrebbe nutrire oltre un miliardo di persone
«Beati i miti perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Questa profezia contenuta nel (facilmente
dimenticato) discorso della montagna dovrà forse attendere tempi escatologici, dal momento che
nell'attuale orizzonte di globalizzazione i ricchi stanno rubando tutta la terra che possono attraverso il
meccanismo del land grabbing.
Quanta terra è stata comprata? Si ritiene che nell'ultimo decennio siano stati acquisiti qualcosa
come 200 milioni di ettari in tutto il mondo, pari al 13% di tutta la terra arabile ed quivalente a tutta la
terra arabile di USA e Canada (1).
Oxfam fa notare che questa estensione di terra potrebbe sfamare oltre un miliardo di persone. (2)
I prodotti della terra rubata ai poveri (3) finiranno invece tendenzialmente negli stomaci dei ricchi
sovrappeso dell'occidente, negli stomaci dei loro animali da compagnia o allevamento o nei serbatoi
delle loro auto.
È quanto mai urgente un deciso intervento delle Nazioni Unite sul tema e un governo dell'Africa che
parlando con una voce sola rivendichi i bisogni degli africani prima dei profitti e dei lussi di una
minoranza.
(1) È ben documentato il grab di 70 milioni di ettari, mentre il rimanente si basa su informazioni
indiziarie. Non è facile avere cifre precise, perché ovviamente non ci sono statistiche ufficiali. Le ONG
hanno analizato tutte le compravendite documentate da più fonti e quelle solo riportate come notizie.
Tra le fonti principali il report di Land Coalition e quello di landportal.info.
(2) I 29 milioni di ha di grab documentati in Africa potrebbero fornire ogni anno 39 Mt di cereali (con
una resa media di 1,3 t/ha. E' una resa bassa rispetto agli "standard" europei, ma bisogna tenere in
considerazione le condizioni climatiche e il fatto che la terra è meno dopata di fertilizzanti di origine
fossile), sufficienti a nutrire 170 milioni di persone con una dieta a 2000 kcal/giorno. Facendo le debite
proporzioni sull'intero pianeta, 200 milioni di ha potrebbero nutrire oltre 1 miliardo di persone.
(3) La terra è rubata (anche se formalmente acquistata), perché comprata con i proventi del petrolio,
delle miniere e delle piantagioni che si trovano nei paesi poveri, ma di cui i poveri vedono solo le briciole.
Qual è il peso dell'umanità e degli animali domestici sul pianeta?
Di EcoAlfabeta lunedì 26 maggio 2014
Homo sapiens più i suoi animali da allevamento rappresenta il 97% della biomassa dei mammiferi terrestri.
Chi ancora pensa che "là fuori" ci sia ancora un'abbondante quatità di animali selvatici dovrebbe forse
rivedere le sue convinzioni.
L'infografica che trovate più sotto riporta la biomassa animale dei mammiferi terrestri sul nostro pianeta (1).
Ogni quadratino rappresenta 1 milione di tonnellate (Mt). La massa complessiva dei mammiferi è pari a
circa 1230 Mt.
Al centro dell'immagine, in rosso, vediamo il cospicuo peso dell'umanità, pari a circa 360 Mt (2), ovvero il
29% del totale. Gli animali da allevamento, in giallo, pari a circa 840 Mt (68%). In questo gruppo bovini sono
preponderanti, con mezzo miliardo di tonnellate.
I mammiferi selvatici, in verde, rappresentano meno del 3% del totale, circa 33 Mt, ridotti ormai a
sopravvivere nei parchi naturali e in poche aree residuali di montagna, foresta e terra incolta.
Questa immagine parla da sola per renderci conto di quale sia il nostro impatto ambientale sulla classe degli
animali più simili a noi. I quadratini verdi spariranno nell'arco di qualche decennio, se crescerà il numero
degli allevamenti intensivi e degli animali da compagnia (3).
(1) L'immagine qui sopra è la versione colorata di un'infografica apparsa sul sito xkcd. La fonte dei dati è
l'opera di Smil, The earth's biosphere: evolution, dynamics and change. Il contributo dei mammiferi marini
(cetacei) è comunque marbinale (meno di 1 Mt). E' da notare che altre famiglie animali hanno biomasse
comparabili a quelle di tutti i mammiferi: formiche 300 Mt, termiti 445 Mt, krill 379 Mt, Cianobatteri 1000
Mt.
(2) La massa media corrisponde a 50 kg, visto che sono inclusi anche i bambini e le bambine.
(3) L'aumento di cani e gatti incide più di quanto ci si immagini sulla domanda complessiva di carne.
Si tratta ogni anno di oltre una tonnellata di Carbonio per abitante. Nelle zone maggiormente antropizzate il
prelievo supera il 70%.
Rifkin aggiunge inoltre che "Nelle culture carnivore del mondo occidentale, l'incidenza del cancro al colon
è dieci volte superiore a quella registrata nelle culture non carnivore asiatiche e del mondo in via di sviluppo.
Vivere al vertice della scala delle proteine si è rivelato piuttosto rischioso."
• il consumo eccessivo di carne produce un accumulo di acido urico nel sangue; per tamponare la variazione
di pH, l'organismo è quindi costretto a mettere in circolo ioni calcio; questo comporta perdita di calcio dai
denti e dalle ossa;
• aumento di colesterolo LDL, con rischi di arteriosclerosi e infarto del miocardio;
• obesità;
• maggiore probabilità di sviluppare un tumore al seno.
Non prolungo oltre questo elenco perchè non vorrei essere accusato di usare argomenti terroristici a
riguardo del consumo di carne :-). Per chi volesse approfondire c'è l'ottimo articolo The Food Revolution di
John Robbins, qui disponibile in una sintesi in italiano
Ridurre il consumo di carne non può che farci stare meglio. Sempre Rifkin cita un caso storico molto
interessante. I danesi (popolo come si è visto tra i più carnivori del mondo) nel 1917 furono
praticamente costretti al vegetarianesimo per i razionamenti di guerra; in quell'anno la mortalità,
nonostante le difficoltà della guerra si è ridotta del 34%!!
Vogliamo provare anche noi a fare questo esperimento sociologico- sanitario?
Mangiare meno carne /2 Una questione di giustizia
Martedì 7 Novembre 2006, 09:24 in Alimentazione, Solidarietà, Stili di vita e salvezza del pianeta di Marco Pagani
Secondo post dedicato ad un messaggio chiaro e molto semplice: bisogna mangiare meno carne! Qui ci
occupiamo dell'ecosistema umano.
Un tempo la carne era il cibo dei signori e dei ricchi; i poveri la vedevano di rado, solo in alcuni giorni di festa.
Ed oggi, nel nostro mondo moderno?
• È ancora il cibo dei signori e dei ricchi, cioè di quel miliardo di persone che (in Europa, Nord America,
Australia e Giappone) ne ingurgita in media oltre 90 kg all'anno.
• Tre miliardi di persone a reddito medio (Sud America, Cina, Sud Corea, Filippine ecc.) ne consuma circa
la metà.
• 2 miliardi e mezzo di poveri (Africa, India e Asia Centrale) ne consumano invece circa un decimo, cioè 9
kg all'anno.
Dal grafico qui sopra vediamo che i paesi a reddito medio hanno aumentato i loro consumi di carne negli
ultimi 40 anni, ma i ricchi hanno sempre mantenuto i loro 45 kg di "distacco". Nei paesi più poveri non c'è
invece stato alcun aumento: si mangia la stessa (poca) carne che si mangiava quaranta anni fa.
Queste differenze nella dieta ci danno la misura della differenza che passa tra i ricchi e i poveri del nostro
pianeta, in modo ancora più incisivo che le differenze di reddito.
Mangiare troppa carne è un lusso che facciamo pagare all'indigenza dei più. Secondo uno studio dell' Istituto
Nomisma, le più importanti filiere animali italiane (bovina da latte, bovina da carne, suina, avicola)
consumano 3 milioni di tonnellate di fave di soia e quasi 9 milioni di tonnellate di farina di mais. Questo cibo
viene usato per ingrassare gli animali, ma sarebbe perfettamente adatto all'alimentazione umana e
permetterebbe di sfamare circa 60 milioni di persone con una dieta a 2000 kcal al giorno (1kg di soia fornisce
3980 kcal ed uno di mais 3620).
Come a dire che in Italia e in tutto l'occidente mangiamo almeno per due (in realtà molto di più, perchè gli
animali sono nutriti anche con altri vegetali).
Scegliere di mangiare meno carne significa scegliere di accaparrarsi una quota minore di risorse alimentari
del pianeta. Visto che in 50 stati del mondo più del 15% della popolazione è malnutrita (vedi World Food Day
2006 ) e che secondo la FAO l'obiettivo di dimezzare il numero di affamati sulla terra entro il 2015 è
praticamente fallito, non si tratta poi di una preoccupazione così accademica ...
Terzo post dedicato ad un messaggio chiaro e molto semplice: bisogna mangiare meno carne!
Gli interventi sono ordinati secondo un criterio di consapevolezza ecologica crescente. Dopo aver parlato
dell'ecosistema del nostro organismo e dell'ecosistema umano qui ci occupiamo dell'ambiente naturale
propriamente detto. Il post è un po' tosto, ma non è una faccenda che si possa sbrigare in poche righe ...].
Gli animali erbivori usano l’energia contenuta nell' erba e nei cereali per crescere, sviluppare muscoli
e grasso e per il metabolismo. Se un animale carnivoro mangia l'erbivoro, non riesce ad
ottenere tutta l'energia contenuta in quei vegetali, ma solo una piccola parte (quella che l'erbivoro ha
immagazzinato nei suoi tessuti). Questa parte di solito non supera il 10%.
Essere carnivori significa quindi usare le risorse naturali in modo molto inefficiente; non per niente negli
ecosistemi il rapporto tra carnivori ed erbivori è di solito inferiore ad 1 a 10. Se ci fossero più carnivori non
ci sarebbe semplicemente da mangiare per tutti. E se il carnivoro è l'uomo? È esattamente la stessa cosa: per
ogni kg di carne bovina vengono consumati dai 9 agli 11 kg di foraggio, una buona parte del quale è
composto da mais, soia e orzo e sarebbe quindi adatto all'alimentazione umana (per i dettagli del calcolo
vedi la nota (1) più sotto).
Questi dati possono variare considerando altri produttori, ma non dovrebbero discostarsi troppo dal
rapporto 1 a 10.
Tenendo conto della resa dei vari cereali, del loro contenuto energetico e proteico, è possibile ottenere i dati
rappresentati nei grafici qui sopra (per i dettagli vedi la nota (2)):
• per ottenere 1000 kcal (un pasto medio) dai cereali occorre una superficie coltivata minore di 1 m². Il
record spetta al mais con 0,26 m². Per ottenere la stessa energia dalla carne bovina occorrono quasi 8
m² di terra (solo per il foraggio).
• per ottenere 100 grammi di proteine (un po' più della dose media giornaliera) dai cereali occorre circa 1
m², a parte il riso che ha un minore contenuto proteico. Le stesse proteine dalla carne richiedono
invece quasi 5 m²!
• queste cifre valgono per cereali coltivati con agricoltura biologica. Considerando l'agricoltura fossil-
dipendente, le rese sarebbero un po' più alte e di conseguenza tutte le aree dei grafici un po' più basse,
ma a prezzo del consumo di risorse non rinnovabili (di questi si parlerà in un altro post)
In conclusione, essere carnivori significa avere un' impronta ecologica assai più grande e pesare molto di
più sul nostro già scricchiolante ambiente naturale. Se poi consideriamo che una buona parte della soia
destinata all'alimentazione bovina è coltivata in Brasile tagliando la foresta amazzonica, il quadro si
completa perfettamente:
• mangiar carne = usare in modo altamente inefficiente l'energia dei vegetali
• mangiar carne = distruggere il più importante capitale naturale del pianeta
Vedi anche gli altri post della serie:
(1) Secondo il coordinamento toscano produttori biologici un vitellone aumenta la sua massa di 275 kg
(da 375 a 650 kg) in circa 320 giorni mangiando circa 10 kg al giorno di foraggio. Per questi 275 kg (che
immaginiamo tutti edibili), vengono quindi consumati 3200 kg di foraggio, ovvero circa 11 kg di foraggio per
ogni kg di carne.
Questi dati sono confermati da uno studio del Comune di Piacenza, secondo il quale i 4400 bovini delle
campagne circostanti consumano circa 50000 kg al giorno, ovvero in media poco più di 11 kg a testa
(2) I grafici sono stati costruiti usando la seguente tabella:
Resa Resa Energia/g Proteine
Carne
Il film di animazione Galline in fuga illustra bene questo concetto: fintanto che operiamo in questo modo
siamo noi i nazisti degli animali.
Mangiare meno carne significa ridurre la domanda e quindi rendere inutili le fabbriche della morte che hanno
traformato gli animali in macchine.
Diventare vegetariani o vegani è una scelta di consapevolezza personale; trovare un migliore rapporto con
il mondo naturale inizia esattamente dal che cosa si mangia.
Ridurre il consumo di carne è invece un imperativo categorico: per la nostra salute, per giustizia verso i
popoli più poveri, per proteggere l 'ambiente e i diritti degli animali.
Segnalo a questo proposito la campagna del Progetto Gaia per essere vegani almeno una volta alla
settimana. Quando parlo di ridurre la carne intendo naturalmente qualcosa di più significativo, cioè
una riduzione dei consumi del 70% e non solo di un settimo; comunque è un buon punto di partenza.
Mangia meno carne, riduci la CO2
Mercoledì 25 Aprile 2007, 09:41 in Alimentazione, Stili di vita e salvezza del pianetadi Marco Pagani
Nel dibattito in corso sull' alimentazione carnivora/vegetariana , non si possono considerare solo gli aspetti
nutritivi, ma anche e soprattutto l'impatto ambientale della nostra dieta.
Consideriamo i seguenti due aspetti.
Mangiare carne significa consumare molte più risorse naturali rispetto ad una alimentazione vegetariana.
Occorrono infatti 10 kg di cereali e foraggio per ogni kg di carne consumata. Questo fa sì, come si vede nel
grafico a fianco che per ottenere 1000 kcal di carne occorrono ben 8 m² di terreno agricolo, rispetto agli 0,26
- 0,80 m² per avere 1000 cal di cereali. I dettagli in questo post .
Mangiare carne significa anche aumentare le emissioni di gas serra. Non credo esistano ancora studi
completi sulla questione. Vorrei provare a darne una stima per difetto, considerando solo due dei principali
contributi:
1. Un kg di carne bovina edibile necessita di circa 2,3 kg di mais nel foraggio, per la cui produzione sono
stati emessi circa 3.7 kg di CO2 e di CO2 equivalente.
2. Un vitellone "emette" metano dal suo apparato digerente; si tratta di circa 109 grammi per ogni kg di
carne edibile. In termini di CO2 equivalente si tratta di circa 2.3 kg. (Per i dettagli continua a leggere
sotto).
Tenendo conto solo di questi due contributi, senza contare quindi le altre emissioni per i trasporti degli
animali e della carne, la macellazione, la refrigerazione e la cottura, abbiamo comunque circa 6 kg di CO2 per
ogni kg di carne consumata.
Dal momento che i carnivori italiani consumano circa 105 kg di carne all'anno, si tratta quindi di oltre 631 kg
di emissioni pro capite. Le emissioni medie pro capite degli italiani sono di circa 8400 kg (calcolato
dal rapporto ENEA , p 262).
Il consumo di carne contribuisce quindi almeno per il 7.5% all'effetto serra.
Un modo semplice, applicabile subito senza investimenti e incentivi, per ridurre le nostre emissioni di CO2 è
quindi ridurre il nostro consumo di carne.
Ridurlo a 1/3 (circa 35 kg all'anno) porterebbe ad una riduzione di almeno il 5% delle emissioni di CO2. Vi
sembra poco?
Riporto qui il metodo che ho usato per stimare le emissioni, in modo che sia possibile migliorare la stima, se
qualcuno è in possesso di dati migliori o più attinenti alla realtà italiana, oppure se pensa che abbia fatto
qualche errore o omissione.
Secondo questo studio, i vitelloni consumano circa in media 3 kg al giorno di mais e altri cereali (che per
semplicità ho equiparato al mais). La durata media dell'ingrasso è stata di 246 giorni per un consumo totale
di 738 kg di mais. L'aumento di massa è stato di circa 1,3 kg al giorno per un aumento totale di circa 320 kg,
che per semplicità considero interamente edibili. Il consumo di mais è quindi stato di 738/320=2,3 kg di mais
per kg di carne.
Secondo questo studio australiano, per produrre 1 kg di mais si emettono 0,4 kg di CO2 (produzione
fertilizzanti, irrigazione, trasporti ecc) più altri 0,3 kg equivalenti dovuti alle emissioni di N2O dai campi. In
Italia si usano circa 180 kg di concimi azotati per ettaro contro i 43 dell'Australia, cioè 4 volte di più; anche le
emissioni di N2O saranno quindi circa 4 volte di più, ovvero 1,35 kg di CO2 equivalente per kg di mais. In
totale abbiamo quindi 0.4 + 1.35 = 1.75 kg di CO2 per kg di mais.
Non ho considerato l'input energetico dell'altro foraggio, che suppongo però essere assai minore di quello
del mais. Una parte significativa della dieta è costituita da silomais, cioè dalla pianta intera triturata,
pannocchie comprese. In questo caso occorrerebbe conoscere a quanta granella di mais corrisponde 1 kg di
silomais
Combinando insieme i due risultati precedenti si ottiene 2.3 x 1.75 = 4 kg CO2 per kg di carne.
Secondo questo articolo, un vitellone in crescita emette in media 140 g di metano al giorno(menter un bovino
adulto ne emette circa 230 grammi). Moltiplicando questo valore per i 246 giorni di ingrasso di trovano circa
35 kg di Metano, ovvero 0.1 kg per ogni kg di carne edibile, corrispondenti a 2,3 kg di CO2 equivalente per
kg di carne (il CH4 e 21 volte più efficace della CO2 per l'effetto serra).
Abbiamo così 4 + 2.3 = 6,3 kg CO2 per kg di carne.
Il consumo medio di carne è di 90 kg/anno; questo dato va però corretto dal momento che i 2,5 milioni di
bambini con meno di 5 anni non mangiano così tanta carne e i 6 milioni di vegetariani e vegani non ne
mangiano affatto; si ottiene così per i carnivori circa 105 kg carne/anno.
Le emissioni annue di un carnivoro sono quindi 6.3 x 105 = 660 kg CO2/anno
Rifkin e la gigantesca macchina inquinante
Lunedì 30 Luglio 2007, 09:42 in Alimentazione, Impatto ambientale, prodotti e consumi di Marco Pagani
Poichè mangiamo molte più proteine del necessario, sarebbe anche una buona scelta per la salute. Le sole
emissioni di N2O della carne bovina sono pari a 25 volte quelle del grano, per cui si tratta di un impatto
davvero pesante.
L'olio di palma contiene molti grassi saturi e subisce diversi processi cimici di raffinazione, ma soprattutto è
uno dei maggiori responsabili della deforestazione in Malaysia e Indonesia. Quindi, per favore, leggi le
etichette di ciò che compri!
L'olio di palma è ricco di grassi saturi e poverissimo di omega-3,quindi non giova alla nostra salute. Fa però
soprattutto male all'ambiente, perché è una delle maggiori cause di deforestazione in Asia orientale. Scegli di
non mangiarlo più!
L'olio di palma è il più prodotto al mondo e costa un po' meno degli altri oli, ma ha due fortissime negatività:
• nuoce alla salute, visto che contiene il 49,3% di grassi saturi; l'olio di palmisto, cioè del seme, arriva fino
all'81%! (1)
• nuoce all'ambiente visto che è uno dei principali motori di deforestazione in Asia orientale. (2)
Possiamo fare perfettamente a meno dell'olio di palma nelle nostre diete. Occorre un po' di impegno è vero,
perchè un enorme numero di prodotti confezionati contiene olio di palma, ma ce la si può fare.
Basta leggere l'etichetta degi ingredienti che tutti i prodotti devono avere per legge: se c'è scritto "grasso
vegetale" o "olio vegetale", quasi sicuramente è in tutto o in parte olio di palma. Come riprova controllate
la tabella nutrizionale; se i grassi saturi sono più o meno la metà del totale, si tratta indubbiamente di olio di
palma.
La maggior parte dei biscotti contiene OdP, ma se ne trovano alcuni (in genere bio) con olio di girasole o
meglio ancora con olio di oliva. Altri sono ancora fatti solo con il burro (3).
Quasi tutti i grissini sono palmificati. Si può optare per i taralli con olio d'oliva che personalmente trovo
incomparabilmente superiori.
La pasta sfoglia o la pasta da pizza non sono immuni dall'olio deforestante. Ma perchè comprare un prodotto
già fatto quando lo si può fare in casa quando se ne ha tempo e voglia?
Molti prodotti per l'igiene e la bellezza contengono OdP. Controllate e scegliete tra le (numerossisime)
alternative senza.
E' inoltre possibile scrivere alle aziende e alla grande distribuzione chiedendo che usino grassi più salubri nei
loro prodotti. Se scriveremo in mille, alzeranno un sopracciglio, se saremo in diecimila inizieranno a farci su
riunioni. Se saremo un milione, potremo davvero cambiare. Per tutte le cose è stato sempre così.
Aderisci alla causa in facebook Stop all'olio di palmna nel nostro cibo.
(1) Dati USDA
(2) Dati FAOSTAT
(3) Il burro contiene più o meno gli stessi grassi saturi dell'OdP e l'allevamento bovino ha un notevole impatto
ambientale, ma è assai più ricco di omega 3 dell'OdP e non causa direttamente deforestazione.
Basta distruggere le foreste per le saponette!
Lunedì 28 Aprile 2008, 09:32 Marco Pagani
Un video di Greenpeace e mette sotto accusa la grande multinazionale Unilever, (proprietaria tra gli altri dei
marchi Dove, Lysoform, Mentadent, Svelto, Sunsilk, Rexona...) perchè continua a rifornirsi di olio di palma
da aziende che distruggono la foresta indonesiana.
Unilever fa parte del Round Table on Sustainable Palm Oil che promuove "la crescita e l'uso sostenibile
dell'olio di palma". Questa tavola rotonda ha approvato dei principi guida, dove si afferma (pag 40) che a
partire dal novembre 2005 le nuove piantagioni non devono più rimpiazzare foreste primarie o aree di
valore naturale.
Secondo Greenpeace, questo impegno è però di fatto disatteso (clicca qui per scaricare il documento,
piuttosto corposo, 22 Mb): i fornitori indonesiani continuano a tagliare la foresta.
Il principale è Sinar Mas- Golden Agri, che ha in programma di acquisire 1 milione e 100 mila
ettari in Borneo e West Papua (è un po' difficile che riescano a trovare tutta questa terra in modo
"sostenibile"...). Non si tratta di un'informazione segreta, dal momento che è sbandierata sul sito
dell'azienda.
La cartina qui a fianco mostra l'espansione complessiva delle piantagioni di palma da olio in Borneo (blu), le
zone di deforestazione (in marrone scuro) e l'habitat dell'Orango (marrone chiaro).
Greenpeace non chiede di boicottare i prodotti della Unilever, ma di fare sentire la nostra voce, scrivendo
lettere al CEO Patrick Cescau.
Anche se personalmente non faccio uso di prodotti Unilever, mi unisco all'appello di Greenpeace; non un
boicottaggio organizzato, ma una pressione sul management perché faccia qualcosa e lo faccia subito. Se
riceveranno centinaia di migliaia di lettere non dubitate che inizieranno a muoversi, se non per amore degli
oranghi, almeno per amore dei loro azionisti...
Le foreste dell'asia orientale decisamente non godono di buona salute: come si vede dalla cartina qui a
fianco in soli quindici anni (dal 1990 al 2005) sono stati persi ben 466 mila km² di foresta primaria
naturale (dati World Resources Institute ).
La situazione peggiore si riscontra in Indonesia e nelle Filippine (-26%), seguite da Myanmar, Cambogia
e Thailandia (da -14% a -19%). Unica nota positiva è la riforestazione del Vietnam, dove sono stati
ripiantati oltre 18 mila km² di foresta (+ 22%).
In termini assoluti, la situazione più critica rimane quella dell' Indonesia, dal momento che ospita la più
grande foresta tropicale dell' Asia Orientale. Sono bastati 15 anni per divorare 293 mila km² di foresta!
E' un'estensione di poco inferiore all'Italia !
Le cause principali di questa deforestazione sono:
• industria del legname (il grafico qui a destra mostra la produzione cumulativa dal 1961 a oggi). Ogni
anno vengono tagliati dai 7 agli 8 mila km² di foresta da imprese che operano legalmente; si
stima tuttavia che le attività illegali(pari al 75% del totale secondo il governo indonesiano) possano
raddoppiare questa cifra.
• attività minerarie: danni relativi agli scavi e agli scarti di lavorazione
• piantagioni: oltre 55 mila km², di cui 40 mila dedicati alla palma da olio ; il governo prevede di
impiantare altri 30 mila km² di piantagioni entro il 2011.
• insediamenti umani: con 222 milioni di abitanti è il 4° paese per popolazione. Rispetto al 1990
l' aumento demografico è stato del 24%!
• ampliamento delle coltivazioni agricole con pratiche distruttive: i fuochi degli incendi si vedono
anche dal satellite!
• uso del legno come combustibile.
Questo è un chiarissimo esempio di sviluppo insostenibile, dal momento che non ha senso pensare di
sviluppare un paese distruggendo il suo capitale naturale.
È l'Occidente (insieme con la Cina) che esporta la deforestazione in Indonesia. Occorre capire la
provenienza del legno contenuto nei prodotti che acquistiamo: dobbiamo smettere di usare legno
tropicale!
Il problema della palma da olio è forse uno dei più scottanti (gli dedicheremo qualche post), dal
momento che si sta diffondendo in modo rapidissimo su molte delle isole indonesiane, in risposta alla
domanda occidentale di olio alimentare a basso costo.
Un ulteriore incremento nelle piantagioni di palma potrebbe venire dalla crescente domanda di
biocarburanti. Il biodiesel potrebbe davvero rivelarsi una delle ricette più tossiche: pensiamo davvero
di continuare a sostenere la nostra assurda e inquinante mobilità privata usando il carburante
"ecologico" comprato a prezzo della deforestazione?
La possibilità di fornire crediti ambientali ai paesi che proteggono le loro foreste nell'ambito del mercato
della CO2 (se ne parla in questo post ), potrebbe rappresentare un freno potente alla deforestazione,
ma occorre fare in fretta, le Tigri si sono già estinte e l'Orango potrebbe fare la stessa fine ...
La monocoltura non è una foresta, ma un deserto
Lunedì 22 Settembre 2008, 11:25 in Ecosistemi e complessità, Impatto ambientale, prodotti e consumidi Marco Pagani
Prepariamoci da soli la pasta per le torte salate usando l'olio di oliva. Anche se non siamo dei bravi cuochi,
avremo un prodotto più sano ed eviteremo la deforestazione causata dall'olio di palma
L'olio di palma è pieno di grassi saturi ed è uno dei principali motori della deforestazione. Mangiando 5 biscotti
al giorno con olio di palma (quasi tutti ce l'hanno) se ne consumano 5 kg all'anno, equivalenti a 17 m² di
deforestazione!
Greenpeace denuncia i progetti dell'americana Herakles Farm che vorrebbe deforestare in Camerun per
piantare olio di palma, mettendo a rischio l'habitat di scimpanzé, babbuini e altre specie di scimmie rare
La fame occidentale per l'olio di palma sembra non conoscere limiti: dopo aver devastato Malesia e
Indonesia, ora ci si rivolge all'Africa. L'azienda americana Herakles farm vorrebbe distruggere lotti di foresta
in Camerun per produrre il contestato olio pieno di grassi saturi (1).
Lo denuncia Greenpeace, che contesta le affermazioni della Herakles secondo cui i terreni di coltura della
concessione Nguti sarebbero già deforestati e di scarso valore naturalistico.
Le rilevazioni aeree e le visite sul campo effettuate dall'associazione ambientalista mostrano invece che il
territorio interessato (2) è ricchissimo di specie animali e vegetali, tra cui numerosi primati, in particolare
lo scimpanzé, il mandrillo e il colobo rosso di Preuss. Il fatto è confermato anche da uno studio congiunto di
un'università camerunense e tedesca.
Negli ultimi 20 anni la domanda europea di olio di palma è cresciuta di circa 5 volte; è davvero una pia illusione
pensare che tutto questo olio possa esse prodotto nelle regioni equatoriali in modo "sostenibile" senza
danneggiare l'ambiente.
(1) L'olio di palma contiene il 50% di grassi saturi, più o meno come il lardo suino. Lo si può vedere nel
database nutrizionale USDA o semplicemente leggendo le etichette dei prodotti alimentari (biscotti, grissini,
fette biscottate ecc), in cui i grassi saturi sono sempre la metà del totale.
(2) L'area si trova nell'interstizio tra quattro parchi nazionali, di cui il più importante ("A" sulla mappa) è il
parco di Korup, che si unisce al Cross River park nigeriano oltre confine.
Il cibo industriale
Napoleone III, la margarina e la colonizzazione
industriale del cibo
Venerdì 18 Febbraio 2011, 10:25 in Alimentazione, Salute di Marco Pagani
La margarina, nata per esigenze militari, è stata il primo cibo industriale. Il marketing ha convinto milioni di
persone a mangiarla, prima di scoprire i danni alla salute dei grassi idrogenati e dei grassi trans.
Dimenticate la margarina, come ormai abbiamo dimenticato il secondo impero: l'olio d'oliva esisteva prima
di essa e continuerà ad esistere nei secoli. Costa di più, ma è il prezzo della nostra salute.
Lo zucchero integrale di canna contiene minerali e vitamine che vengono eliminati nel processo di raffinazione
per ottenere lo zucchero bianco. È migliore, ma da consumare comunque con moderazione.
Il bianco deve avere un effetto ipnotico sulla debole ragione umana; non si spiega altrimenti l'illusione
collettiva secondo cui lo zucchero bianco sarebbe un alimento "più raffinato" e quindi migliore, rispetto allo
zucchero integrale (brown sugar).
In realtà si tratta di un alimento impoverito, dal momento che la raffinazione isola il saccarosio, privando lo
zucchero del 98% dei suoi minerali e vitamine.
Come si vede nel grafico in alto, lo zucchero integrale di canna è piuttosto ricco di Potassio, Calcio, Sodio,
Magnesio e Fosforo, elementi quasi completamente assenti nel suo pallido cugino.
Altri elementi presenti in minore quantità (vedi sotto), vengono completamente eliminati durante i numerosi
trattamenti chimici di raffinazione.
Lo stesso discorso vale per le tre vitamine del gruppo B (B3, B5 e B6) che scompaiono.
Nel passaggio da zucchero integrale si spreca circa il 30% del cibo (la resa è del 70%) e si sprecano energia e
reagenti chimici.
Se infatti lo
zucchero
integrale è
ottenuto per
semplice
spremitura
della canna e
successiva
evaporazione
dell'acqua, la
«Lo zucchero, che si coltivava su piccola scala in Sicilia e nelle isole di Madera e Capo Verde era un articolo
tanto ambito dagli europei da figurare persino nel corredo delle regine, come parte della dote. Veniva
venduto nelle farmacie e pesato a grammi.
Per tre secoli o quasi, a partire dalla scoperta dell'America, per il commercio europeo non ci fu prodotto
agricolo più importante dello zucchero coltivato in queste terre.
I canneti fiorirono sul litorale umido e caldo del Nordest del Brasile; più tardi anche le isole dei Caraibi,
Veracruz e la costa peruviana costituirono terreno proprizio per lo sfruttamento su grande scala dell'oro
bianco.
Immense legioni di schiavi giunsero dall'Africa per offrire al re zucchero la forza lavoro, numerosa e gratuita,
che esso richiedeva: combustibile umano da bruciare.
E le terre furono devastate da questa pianta egoista che in vase il Nuovo Mondo distruggendo i boschi,
dissipando la fertilità naturale e consumando l'humus accumulato dal terreno.
In America Latina il lungo ciclo dello zucchero diede origine a una prosperità effimera, come quella creata a
Potosì e a Ouro Preto dai furori dell'argento e dell'oro. [...]
Lo zucchero del tropico latino americano diede un grande impulso all'accumulazione di capitali per lo
sviluppo industriale dell'Inghilterra, della Francia, dell'Oanda e anche degli Stati Uniti;
contemporaneamente, tagliò le gambe all'economia del Nordest del Brasile e delle isole dei Caraibi, e
suggellò la rovina storica dell'Africa.
Il commercio triangolare tra Europa, Africa e America ebbe come asse portante il traffico di schiavi destinati
alle piantagioni di zucchero. La storia di un granello di zucchero costituisce una vera e propria lezione di
economia politica, di politica e anche di morale, diceva Augusto Cochin.»
Eduardo Galeano, Le vene aperte dell'America Latina, pp72-72 e 94
Quanto zucchero mangiare? L'OMS vorrebbe
dimezzare le dosi consigliate
Di EcoAlfabeta mercoledì 26 febbraio 2014
25 grammi al giorno per le donne e 38 per gli uomini sarà probabilmente la nuova dose suggerita, ma per ora
non c'è nulla di ufficiale, forse perché si teme il massiccio contrattacco dell'industria alimentare e dei baroni
dello zucchero
Sappiamo ormai con certezza che lo zucchero agisce come una droga sul nostro organismo, creando veri e
propri fenomeni di desiderio acuto, dipendenza, astinenza e ricadute, come dimostrato da
una ricerca dell'Università di Princeton.
Il nostro cervello da cacciatori-raccoglitori non sa quando smettere di fronte allo zucchero raffinato e sembra
non essere mai sazio: in un secolo in Italia il consumo di zucchero è cresciuto di sei volte, da 5 a 30 kg pro
capite.
Negli USA il consumo è più che doppio, a causa dei dolcificanti, tra cui il famigerato HFCS, lo sciroppo di
fruttosio: 64 kg all'anno sono un bel fardello, come mostra l'immagine in basso!
Non sempre questo consumo è visibile in termini di bustine o cucchiaini: quanto zucchero c'è ad esempio in
una lattina di bevanda gassata? (vedi il video in alto).
Conosciamo anche gli effetti negativi dello zucchero sulla salute, al punto che l'Organizzazione Mondiale della
Sanità raccomanda da almeno una decina di anni di ridurne il consumo e di non superare il 10% dell'apporto
calorico quotidiano, cioè circa 65 grammi al giorno per una dieta da 2500 kcal. In Europa in media oggi si
viaggia intorno al 12% e in America addirittura al 16%.
Da qualche tempo però si vocifera che l'OMS vorrebbe dimezzare le dosi consigliate al 5% dell'apporto
calorico, indicativamente 25 grammi al giorno per le donne e 38 per gli uomini.
Per ora non c'è nulla di ufficiale, anche perchè si tratta di un argomento che scotta: "l'industria alimentare
farà qualunque cosa per bloccare una simile mossa", ha dichiarato Philip James, il presidente
dell'Associazione Internazionale per lo studio dell'obesità.
Saremo in grado di autocontrollarci senza limiti di legge? Non sarebbe male, anche perchè parte dei 31 milioni
di ettari dedicati alla canna (26 milioni) e alla barbabietola da zucchero (5) potrebbero lasciare spazio ad altre
calorie meno "vuote".
Il dominio del "pane bianco" nell'immaginario collettivo ha impoverito la nostra dieta degli alimenti
importanti contenuti nella crusca e nel germe di grano: si tratta di uno dei più grandi sprechi alimentari della
storia.
La farina bianca rappresenta probabilmente uno dei più grandi sprechi alimentari nella storia dell'occidente.
Un tempo per la sua minore resa era lo status symbol dei ricchi; oggi è lo standard nutritivo, sia per il grano
tenero, sia per quello duro.
La farina bianca 00 ha una resa del 70%-75% rispetto al grano iniziale: questo significa che
lo spreco alimentare del cibo più comune dell'occidente rappresenta il 25-30% del raccolto! Si tratta di
almeno 50 kg all'anno pro capite.
La farina bianca e i relativi prodotti sono preferiti dall'industria alimentare perchè prolunga la shelf life dei
prodotti (1), ma è un "alimento monco", perchè come si vede dal grafico in alto (2) il processo di raffinazione
sottrae una grande quantità di nutrienti: il 25% delle proteine, quasi la metà dei grassi e i 2/3 della fibra.
Se indaghiamo meglio alla voce proteine, vediamo che la farina integrale ha in media il 50% in più di
amminoacidi essenziali e in particolare il 66% in più di lisina, l'amminoacido scarsamente presente in tutti i
cereali. Si tratta quindi di un alimento più bilanciato dal punto di vista proteico.
Un discorso analogo vale anche per gli acidi grassi: mangiando farina bianca, ci si priva di una fonte naturale
di grassi, compresi gli omega-3. La maggiore presenza di proteine e grassi abbassa l'indice glicemico del pane
integrale da 70 a 51.
Minerali e vitamine saranno oggetto di un altro post, perchè questo è già fin tropo lungo.
Non è solo uno spreco alimentare, ma anche uno spreco di vita e di salute, dal momento, che diverse analisi
epidemiologiche hanno associato il consumo di cereali integrali a livelli significativamente più bassi di
mortalità (vedi un'eccellente sintesi in questo articolo di Jacobs e Steffen, Am J Clin Nutr, 2003;78).
(1) La farina bianca, poichè ha perso gran parte della componente lipidica e proteica, è meno aggredita dai
parassiti e meno soggetta a irrancidimento, per cui si conserva meglio. Il suo aspetto candido e la sua grana
più fine la fanno apparire come più pregiata, ma tutto questo non significa che sia un alimento di migliore
qualità.
(2) Fonte database USDA dei nutrienti, voci "whole grain flour" (integrale) e "white all purpose non
enriched" (corrispondente più o meno alla farina bianca tipo 0. la doppio zero ha probabilmente vlaori ancora
più bassi.)
Link utili
Lo spreco alimentare collegato alla farina bianca non riguarda solo la perdita di fibre, proteine e lipidi, ma
anche le vitamine e i minerali. Per questo negli USA 3 milioni di persone sono state vittime della pellagra tra
il 1900 e il 1940
Non è facile, né immediato, comprendere che un prodotto come la farina bianca, percepito come di "migliore
qualità", sia in realtà uno "spreco alimentare".
Eppure, come ho mostrato ieri, la farina bianca è impoverita, rispetto alla farina integrale del 25% delle
proteine, del 50% dei grassi e dei 2/3 delle fibre.
Ma non si tratta solo di questo: anche le vitamine sono decurtate nella farina bianca.
Come si vede dal grafico in alto (1), la farina integrale ha in media circa il doppio delle vitamine rispetto alla
bianca. Queste vitamine resistono alla cottura in forno del pane per quote che variano tra il 70 e il 100%, per
cui questa differenza è rilevante per l'alimentazione complessiva.
Una triste prova storica di questo fatto è l'epidemia di pellagra che nel sud degli USA causò 1 milione di casi
e circa 100 mila morti tra il 1900 e il 1940.
Si tratta di morti indotte dall'industria alimentare (effetti collaterali, come usano dire i militari...); la
brevettazione del mulino industriale in acciaio (dal temibile nome di degerminator) nel 1900 permise di
ottenere farina priva di crusca, più facilmente gestibile dalla grande industria per la sua maggiore
conservazione. Peccato che con la crusca se ne andava anche gran parte della vitamina B3; i poveri, per cui
la farina (di mais in questo caso) era la principale fonte di sostentamento si ammalavano e morivano.
I medici hanno faticato a capire (e ad ammettere) che si trattava di una malattia da povertà e da
alimentazione industriale e non una malattia infettiva, ma alla fine la reintroduzione della vitamina nelle
farine risolse il problema. Credo che, in luogo di arricchire la farina bianca con vitamine, sarebbe
meglio evitare di toglierle al grano, mangiando la farina integrale.
Lo spreco riguarda anche i minerali, che sono ridotti a un quarto, o anche meno nella farina raffinata. Nel
post di ieri, Guido faceva giustamente notare che la presenza di fitati (o acido fitico) nella crusca, può inibire
l'assorbimento di alcuni di questi minerali ed anche di alcune vitamine. Tuttavia, occorre notare che:
• l'attività antinutrizionale dei fitati viene significativamente ridotta dal processo di lievitazione e cottura;
• la vitamina C può contrastare l'inibizione del ferro da parte dei fitati.
• I fitati possono avere un ruolo positivo come antitumorali e come neuroprotettori
Tutti gli indicatori relativi alla salute, alla riduzione dello spreco e dell'impatto ambientale puntano a favore
delle farine integrali. Cosa aspettiamo?
(1) Fonte database USDA dei nutrienti, voci "whole grain flour" (integrale) e "white all purpose non
enriched" (corrispondente più o meno alla farina bianca tipo 0. la doppio zero ha probabilmente valori ancora
più bassi.)
Agricoltura biologica e sostenibile
Fonti: Database FAO per i dati relativi ai flussi energetici del foraggio e del cibo. Mario Giampietro, Energy use in agriculture,
Encyclopedia of life sciences, 2002, per gli input fossili in agricoltura. Heller e Keoelian, Life Cycle-Based Sustainability Indicators or
Assessment of the U.S. Food System , Center for sustainable systems, University of MIchigan, 2000 per gli input fossili della filiera
alimentare.
L' agricoltura del passato (o del futuro?)
Mercoledì 14 Novembre 2007, 10:07 in Alimentazione di Marco Pagani
Qualche giorno fa ho parlato della follia energivora che caratterizza l'agricoltura dei 42 paesi più sviluppati
del pianeta. E gli altri come stanno?
La figura qui sopra (clicca per ingrandire) rappresenta lo schema dei flussi energetici nel sistema agricolo dei
115 paesi meno sviluppati (continua a leggere sotto per i dettagli).
Questa è l'agricoltura del passato, più arcaica e meno sviluppata, o piuttosto è l'agricoltura del futuro,
a basso input energetico fossile?
I paesi meno sviluppati sono un insieme molto eterogeneo, che comprende paesi in rapido sviluppo come
la Cina, paesi con un'economia abbastanza sviluppata come l'Argentina, paesi poveri come l'Indonesia e
paesi poverissimi come l'Etiopia. Ciononostante, le differenze nel consumo energetico con i paesi ricchi sono
impressionanti.
Questa agricoltura fa uso solo di 1000 kcal fossili pro capite al giorno per la coltivazione e l'allevamento,
mentre l'occidente ne usa quasi 7000.
In questo modo è possibile in media garantire a 5 miliardi di persone una dieta da 2450 kcalal giorno
di prodotti vegetali e 330 di prodotti animali.
Purtroppo, questo input alimentare è mal distribuito, dal momento che si va dalle 3400 kcal pro capite
di Cuba alle 1830 dell'Etiopia.
È comunque vero che se la produzione agricola dei paesi più poveri fosse divisa equamente al loro
interno (senza quindi contare quello che potrebbero fare i paesi ricchi) si avrebbero in media quasi 2800 kcal
a testa al giorno, che è il livello alimentare di un paese come l'Argentina.
La minore dipendenza dai combustibili fossili dovrebbe in teoria mettere i paesi poveri al riparo dalle
conseguenze del picco del petrolio. La situazione potrebbe però aggravarsi in futuro per i due fattori
combinati della crescita demografica e della corsa all'occidentalizzazione del tenore di vita di diversi paesi
emergenti.
Cosa accadrà se e quando la Cina diventerà carnivora come l'Occidente?
Non esistono valutazioni precise del consumo energetico della filiera alimentare post agricola nei paesi
poveri; la "freccia nera" di 2000 kcal rappresenta semplicemente una stima basata sul fatto che in consumi
fossili pro capite nei paesi meno sviluppati sono circa un ottavo di quelli nei paesi ricchi. Ho quindi
semplicemente assunto che l'input fossile per ogni caloria di cibo prodotta fosse un ottavo di quello dei paesi
ricchi. In questo modo non si dovrebbe sottostimare l'apporto fossile, anche perchè ogni giorno vengono
anche consumate 2700 kcal pro capite da biomassa per cuocere i cibi (la freccia verde/nera).
Fonti:
Database FAO per i dati relativi ai flussi energetici del foraggio e del cibo
Mario Giampietro, Energy use in agriculture, Encyclopedia of life sciences, 2002, per gli input fossili in agricoltura
Heller e Keoelian, Life Cycle-Based Sustainability Indicators or Assessment of the U.S. Food System , Center for sustainable systems,
University of MIchigan, 2000 per gli input fossili della filiera alimentare.
L'energia da biomassa usata per la cottura è valutata nell'articolo The fuelwood problemdella FAO.
(non illustro qui la metodologia che ho usato per i calcoli, perchè è piuttosto lunga;lo farò in un articolo apposito)
Secondo un classico studio svedese pubblicato su The Lancet, uno stile di vita che comprende alimentazione
biologica/biodinamica e scarso uso di medicinali e antibiotici riduce significativamente il rischio di allergie.
Sarebbe riduzionistico (oltre che inutile) andare alla ricerca dell'ingrediente magico che protegge dalle
allergie. È il complesso dell'alimentazione costituita da cibi veri a fornire protezione e non qualche singolo
principio attivo, che gioca il ruolo moderno della pietra filosofale.
L'altro giorno, gironzolando per un supermercato ho notato che una confezione di cereali per la colazione
portava in un angolo il marchio conservation grade. E' un'idea piuttosto interessante nata da un produttore
inglese. I cereali possono avere il marchio conservation grade se:
1. non sono acquistati sul mercato mondiale, ma provengono da piccoli
produttori
2. non fanno uso di colture ogm
3. fanno un uso ridotto di pesticidi, secondo il codice di
autodisciplina voluntary initiative
4. gli agricoltori devono lasciano il 10% dell'area agricola a tutela
della biodiversità, creando un habitat favorevole ai tradizionali abitanti
non umani della campagna inglese (per questo intervento gli agricoltori
ricevono un surplus sul prezzo dei cereali).
Questa è forse la caratteristica più importante di questo progetto: lasciare spazio alle altre specie
viventi non umane. Oltre 10 mila ha di terra coltivabile inglese sono già conservation grade.
È un'utopia in un pianeta sempre più affamato?
Penso di no, soprattutto per due motivi:
• la fame nel mondo non è dovuta alla penuria di cibo, ma alle ingiustizie e al colonialismo dei paesi
ricchi e delle multinazionali;
• mettere a coltura per il consumo umano ogni singolo centimetro quadrato di terra coltivabile uccidendo
la biodiversità non è esattamente una buona idea e ne stiamo già pagando le conseguenze.
Nello specifico il 10% di area non coltivata, ma riservata ad habitat naturale, è così suddivisa:
• 4% fiori e trifoglio per polline e nettare per gli insetti.
• 2% piante che provvedono cibo per uccelli
• 2% zone erbose come rifugio per ragni, coleotteri e piccoli mammiferi
• 2% caratteristiche tipiche della fattoria, come siepi, fossi, laghetti o boschi
(1) Per chi abita nelle vicinanze, si tratta dell'azienda Al Carlîn di pôum di Bellinzago
(2) Le eventuali imprecisioni e inesattezze non sono da imputare alla spiegazione di Carlo, ma alle mie scarse
conoscenze agronomiche
Encourage Organic and Local Agriculture: Help organic farmers afford to certify their crops and reform crop
insurance to not penalize organic farmers. Promote regional food systems. Encourage Young People to
Become Farmers.
Ora il Presidente ha fornito anche un endorsement personale all' organic farming, che per la prima volta nella
storia entra di diritto sulla scena politica internazionale.
Parlando delle grandi aperture del Concilio Vaticano II, Lorenzo Milani scrisse di essere stato superato a
sinistra da un Papa: oggi possiamo ben dire che molti di noi (almeno quelli che parlano di orto, ma non ce
l'hanno) sono stati superati a sinistra da un Presidente.
Se si legge con più attenzione l'articolo originale si scopre però che i lavori scientifici inizialmente presi in
considerazione erano assai di più, e cioè 162. Nelle conclusioni dell'articolo ne sono stati considerati poi solo
55 perchè soddisfacevano dei (non troppo trasparenti) criteri di qualità.
Se si considerano invece tutti i 162 studi emergono invece numerose differenze significative a vantaggio dei
prodotti biologici.(1) Perchè questo non è stato scritto nelle conclusioni?
Ho riassunto in questa tabella i nutrienti maggiormente presenti nel cibo biologico, limitandomi a quelli
statisticamente significativi (2)
Indicatore Numero di studi Differenza % p (siginificatività)
(3) Ehm, gli studi presi in considerazione dovrebbero essere 162, ma qui misteriosamente si arriva a 164 (ho
ricontrollato il valore)
La (sporca) guerra all'agricoltura biologica
/2 Guardare al di là del proprio naso
Lunedì 3 Agosto 2009, 10:27 in Alimentazione, Salutedi Marco Pagani
Nel post precedente ho parlato della sporca guerra condotta dalla Stampa e da altri giornali contro
l'agricoltura biologica, spiegando che le
cose non stanno esattamente così e che
proprio lo studio della FSA mostra che in
diversi casi gli alimenti biologici hanno una
maggiore quantità di nutrienti.
L'approccio della FSA è
comunque semplicistico, perché alimentarsi
non significa solo farsi una flebo di nutrienti
e perché "biologico" più che un insieme di
prodotti è uno stile di vita.
Ecco 6 buoni motivi per cui l'agricoltura biologica è superiore all'agricoltura fossile-industriale:
1. L'agricoltura biologica rispetta l'ambiente: non usa pesticidi tossici e fertilizzanti che rovinano il suolo
e inquinano l'acqua e l'aria e mantiene il livello di sostanza organica nel terreno;
2. L'agricoltura biologica risparmia energia, come ho ben documentato in questo post ;
3. L'agricoltura biologica si coniuga bene con l'economia locale e la filiera corta : piccoli produttori
possono consegnare direttamente verdura e frutta fresca ai consumatori;
4. Il rapporto diretto tra produttore e consumatore ("guardarsi negli occhi") è un elemento di fiducia che
mette al riparo dalle frodi e sofisticazioni alimentari , purtroppo assai diffuse nell'agroindustria.
5. Mangiare cibi biologici porta a uno stile di vita più sano: meno carne, meno cibi industriali, più frutta e
verdura, più contatto con la natura ecc
6. Il cibo biologico ha un sapore migliore e una migliore consistenza: nell'intervista alla Stampa, il signor
Dangour, primo autore dell'articolo compilativo della FSA, dice che qualcuno trova il cibo biologico più
saporito. Evidentemente non ha mai provato l'ebbrezza di assaggiare pomodori, patate, pesche o fragole
biologiche; o forse è talmente abituato a mangiare schifezze surgelate da non rendersi conto di quanto
giovi alla salute mangiare cose buone.
Non ha molto senso confrontare i nutrienti del pomodoro A (bio) e del pomodoro B (non bio),
ipotizzando che Mr Jones compri A e Mr Brown compri B. Spesso capita che Mr Jones compra A e va in
giro in bicicletta, mentre Mr Brown compra patatine fritte e gira in SUV...
Intendo dire che più che una ricerca sui nutrienti sarebbe interessante fare una ricerca (assai più difficile
per la definizione del campione) sui rispettivi livelli di salute di mangiatori di biologico e mangiatori di
cibo industriale.
La (sporca) guerra all'agricoltura biologica
/3 Chi c'è dietro la FSA?
Lunedì 3 Agosto 2009, 11:31 in Alimentazione, Salute di Marco Pagani
Chi c'è dietro la FSA (Food Standard Agency), che la scorsa settimana
ha lanciato un attacco contro l'agricoltura biologica? Non si tratta di
fare della dietrologia, perché si tratta di informazioni di pubblico
dominio.
Mangio tutti i giorni vegetali biologici, ma ne parlo meno di quanto sarebbe giusto. Infatti l'agricoltura
biologica non è uno sfizio per ricchi, ma una reale opportunità sostenibile per milioni di persone,
produttori e consumatori.
Il grafico mostra la crescita dell'agricoltura biologica nel mondo negli ultimi anni: ora abbiamo superato
i 90 milioni di ettari, circa l'1% delle terre coltivate, una superficie equivalente a quella di Francia e
Germania (qui il link ai rapporti annuali sull'agricoltura biologica mondiale).
Si tratta di un dato sottostimato, visto che si tratta solo di agricoltura certificata. La parte verde chiaro
del grafico rappresenta l'agricoltura vera e propria, mentre la parte verde scuro è la wild collection, cioè
la raccolta selvatica di bambù e frutti effettuata in modo sostenibile (leggi oltre per vedere i requisiti
della wild collection).
L'agricoltura biologica ha caratteristiche molto diverse nei vari paesi del mondo. L'Australiaguida la
classifica delle nazioni con oltre 12 milioni di ettari, ma possiede solo 1800coltivatori. Si tratta quindi di
grandi aziende agricole con una media di oltre 6000 ettari pro capite.
Al contrario, il Messico ha solo 300 mila ettari di colture biologiche con ben 120 milacoltivatori diretti,
con una media di 2 ettari e mezzo pro capite.
Entrambe queste coltivazioni sono amiche dell'ambiente, ma il caso messicano è assai più emblematico,
dal momento che si tratta di un vero e proprio popolo che si riappropria della terra e dei metodi naturali
di coltivazione che negli ultimi 50-100 anni sono stati sconvolti dai metodi dell'agricoltura industriale.
L'umanità ha praticato l'agricoltura biologica per diecimila anni senza saperlo. Poi è arrivata
la produzione industriale di fertilizzanti e pesticidi ed abbiamo avuto il nostro secolo di agricoltura
fossile.
Ora è il momento di fare tornare l'agricoltura a camminare sulle sue gambe, prima che le conseguenze
del peak oil si facciano sentire.
La raccolta selvatica sostenibile (wild collection) deve soddisfare i seguenti requisiti (qui la fonte, pag.
41):
• La raccolta deve provenire da piante cresciute naturalmente
• L'area di raccolta deve essere bene definita
• L'area di raccolta non deve essere trattata con input ptoibiti (fertilizzanti, pesticidi) e deve essere
libera da fonti inquinanti significative
• Completa tracciabilità del flusso dei prodotti
• Tutte le parti coinvolte nella raccolta sono tra loro legate da un contratto che segue le regole della
raccolta organica [che non sono però specificate, NdB].
Giornata mondiale alimentazione: due libri per
ridurre lo spreco e capire cos'è il cibo sostenibile
Di EcoAlfabeta mercoledì 16 ottobre 2013
Il "Libro verde" analizza gli sprechi di energia connessi allo spreco alimentare in Italia, suggerendo rimedi
per recuperare cibo ed energia, ma soprattutto per ridurre gli sprechi; "Un pianeta a tavola" sottolinea il
fatto che il cambiamento delle abitudini alimentari (più bio e meno prodotti animali) è un elemento
fondamentale di ogni percorso di decrescita verso la sostenibilità.
Oggi è la giornata mondiale dell'alimentazione, dedicata quest'anno ai" sistemi alimentari sostenibili". Due
libri appena pubblicati ci aiutano a capire quanto sia insostenibile l'attuale sistema agro-alimentare
mondiale e cosa possiamo fare per migliorarlo.
Il libro verde dello spreco in Italia: l'energia
Il libro verde, curato da Andrea Segré e Matteo Vittuari, raccoglie i contributi di molti autori prosegue il
percorso intrapreso con Il libro nero e Il libro blu esaminando lo spreco di energia collegato alla produzione
alimentare e ai suoi sprechi. Nei cosiddetti "paesi ricchi" (anche se oggi un po' meno) la sovraproduzione
industriale di cibo crea uno spreco strutturale e non occasionale lungo tutta la filiera.
A livello di prodotti finiti, lo spreco può essere recuperato con iniziative come Last Minute Market, che
organizzano il recupero dei prodotti invenduti per scopi di solidarietà sociale, mentre per gli scarti
alimentari lungo la filiera (dal cibo non raccolto agli scarti di lavorazione), è possibile pensare ad un
recupero energetico della biomassa.
Si tratta tuttavia di operazioni transitorie volte ad un miglioramento dell'efficienza del sistema, perchè
l'obiettivo principale è la riduzione e l'eliminazione dello spreco attraverso una serie di provvedimenti che
sono oggetto di una risoluzione del Parlamento Europeo: maggiore attenzione alla qualità della
produzione rispetto alla quantità,modifica dei regolamenti che stabiliscono forma e dimensione di frutti e
ortaggi che sono alla base di molti scarti inutili, vendite scontate dei prodotti in scadenza e valorizzazione
della produzione su piccola/media scala e sulla filiera corta.
Sono tra i contributori di questo libro e mi sono dedicato in particolare a descrivere in una ventina di
pagine l'impronta energetica dell'agricoltura industriale (par 2.2) e del packaging (par. 2.3).
Se il primo libro ha origine nella ricerca universitaria, questa opera è nata invece da un'attività di ricerca
indipendente di un gruppo persone esperte in problematiche agro-ambientali e interessate ai temi della
decrescita (1).
"Un pianeta a tavola" esplora in modo articolato la complessità del sistema agroalimentare industriale,
mettendone in luce la doppia insostenibilità: ambientale (eccessivo prelievo di risorse, inquinamento) e
sociale (concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di pochi padroni del cibo).
La transizione agroalimentare riguarda la produzione di cibo con minore ricorso ai combustibili fossili e
la diminuzione nel consumo di prodotti animali, che hanno un'impronta ecologica significativamente più
alta di quelli vegetali.
Ho dato il mio contributo anche a questo lavoro con due paragrafi sulle conseguenze ambientali e per la
salute dell'eccessivo consumo di carne e con una breve stima di quanto occorra ridurre il consumo di carne,
latte e uova per rientrare nella sostenibilità.
Una simile transizione alimentare (più bio e meno prodotti animali) richiede una rivoluzione copernicana
delle proprie abitudini, ma può essere effettuata dai cittadini in tempi brevi, senza necessità di leggi
quadro, mutui o finanziamenti.
(1) La teoria della decrescita intende fare uscire le società umane dall'ossessione economicista della
crescita per la crescita che sta saccheggiando e devastando l'ambiente e creando grandi disuaglianze tra gli
uomini. I percorsi decrescita prevedono un ricorso alla sobrietà volontaria, alla riduzione dei consumi inutili
e di lusso e al contenimento delle attività più dannose (pubblicità e speculazione finanziaria). Sono stati
scritti molti libri sul tema, in particolare da Serge Latouche, suo principale teorico, ed ho avuto occasione di
parlarne più volte gli scorsi anni nel blog EcoAlfabeta."
Carbon farming: l'agricoltura bio sequestra carbonio nel suolo
Di EcoAlfabeta martedì 27 gennaio 2015
Secondo esperimenti condotti in California, l'uso dei compost nei campi permette di immagazzinare piu'
carbonio nel suolo, sequestrandolo dall'atmosfera. Gli agricoltori che usano queste pratiche sono
ricompensati con crediti di carbonio.
Secondo la ricerca di Berkeley, se il compost fosse applicato al 5% dei pascoli californiani, il suolo potrebbe
immagazzinare l'equivalente di un anno di emissioni dell'agricoltura industriale californiana; se cio' fosse
esteso al 25% dei pascoli, il suolo potrebbe assorbire il 75% delle emissioni della California.
Si tratta di cifre impressionanti, che potrebbero dare un impulso straordinario all'agricoltura biologica, visto
che gli agricoltori bio verranno ricompensati con crediti di carbonio nel meccanismo cap and trade.
L'agricoltura biologica rigenerativa può
mitigare i cambiamenti climatici
Di EcoAlfabeta mercoledì 23 aprile 2014
I processi biologici possono immagazzinare da 2 a 6 tonnellate di carbonio per ettaro per anno. Se fossero
diffusi su scala planetaria potrebbero quindi neutralizzare tra il 20 e il 60% delle emissioni, mentre un ulteriore
contributo verrebbe dai pascoli biologici.
Invece di baloccarsi con improbabili e pericolose tecniche di geoingegneria, è quindi assai più sensato iniziare
a praticare una tecnologia semplice, sperimentata, disponibile e senza controindicazioni, qual è l'agricoltura
bio. Peccato che chi produce fertilizzanti e pesticidi si trovi dall'altra parte della barricata...
(1) Secondo la definizione del Rodale Institute, l'agricoltura biologica rigenerativa è una sorta di processo
autofertilizzante che migliora le risorse che usa invece di saccheggiarle o distruggerle. E' una pratica agricola
che va oltre essere sostenibile, migliorando la fertilità dei suoli. Vengono utilizzati cicli chiusi per i nutrienti,
maggiore biodiversità, più piante perenni e meno annuali e maggiore affidamento sulle risorse
interne piuttosto che esterne.
Il picco della pesca planetaria
Pesca /1 Gamberi, mangrovie e rapine
Venerdì 15 Settembre 2006, 08:09 in Acqua, Alimentazione, Economia e ambiente, Ecosistemi sotto stressdi Marco Pagani
Il problema più importante è naturalmente la distruzione degli ecosistemi naturali. Lungo le coste asiatiche
le foreste di mangrovie vengono abbattute per fare spazio agli
allevamenti. L'immagine satellitare qui a fianco (pubblicata in un
articolo dell' Università di Bangkok) mostra la diffusione delle
fattorie acquatiche dove prima c'erano solo foreste costiere. In soli
dieci anni (tra il 1980 e il 1990) sono così scomparse il 35% delle
mangrovie del pianeta. Vandana Shiva spiega molto bene
l'importante ruolo di questi alberi acquatici: "Le mangrovie
assorbono parte dell'energia delle onde e delle maree, proteggendo
la terra retrostante; gli alberi formano anche una barriera contro il
vento. La distruzione delle Mangrovie nell'Orissa [costa
nordorientale dell'India, NdB] ha permesso alle tempeste e ai venti
ciclonici di seminare la devastazione nella regione.
Nel 1991, un'ondata di marea ha causato la morte di migliaia di
persone in Bangladesh a causa delle vasche per l'acquacoltura. Nel
1960 un'ondata simile non aveva neppure danneggiato i villaggi, grazie alle mangrovie che a quel tempo
proteggevano l'entroterra." (Le guerre dell'acqua, p. 58-59).
Destano tuttavia preoccupazione anche i fatti seguenti (vedi qui per la fonte):
• Salinizzazione delle acque dolci e dei terreni agricoli (se l'allevamento è nelle acque interne);
• uso di proteine provenienti dai pesci nella dieta dei gamberi (a quando il gambero pazzo?);
• inquinamento delle acque costiere dovuto all'uso di pesticidi e antibiotici;
• eccesso di nutrienti: il 70% del mangime viene sprecato e si diffonde in mare sconvolgendo l'equilibrio
ecologico locale.
• Sul fondo dello stagno di acquacoltura si accumula un deposito tossico di prodotti di scarto e di
escrementi che costringe ad abbandonare lo stagno dopo pochi anni di utilizzo per spostarsi altrove. Nel
giro di 7 sette anni in Thailandia sono stati abbandonati il 60% dei siti di allevamento. Occorrono poi
almeno trent'anni per poter riablitare il terreno
Ritengo particolarmente negativo il fatto che per allevare i gamberi si sia diffuso questo metodo di rapina
ambientale: tagliare gli alberi, inquinare tutto e poi andarsene via. E' imprenditoria o rapina a mano armata?
Tra l'altro un comportamento simile risulta a lungo andare antieconomico!
In un prossimo post fornirò alcune notizie positive, dal momento che la FAO ha definito delle linee guida per
l'"allevamento responsabile". Speriamo che non sia "troppo poco, troppo tardi" ...
Allevamento sostenibile o ecologico, dunque? La FAO ci ha pensato ed ha pubblicato alcune linee guida
per allevare il pesce rispettando l'ambiente. Ne parleremo nella prossima puntata ...
Se la caccia e la raccolta di bacche hanno da lungo tempo cessato di essere una significativa fonte di cibo, per
l'umanità, la pesca è invece ancora l'unica attività di "cattura" di animali selvatici che condividiamo con i
nostri antenati del paleolitico (cioè prima dell'invenzione dell'agricoltura).
Ma anche questo ultimo legame con il mondo dei cacciatori-raccoglitori è destinato in un breve volgere di
tempo a perdere la sua importanza, dal momento che stiamo pescando troppo e male.
Il grafico qui sopra (rielaborazione da dati FAO, il database figis non è sempre on-line)) mostra che negli
ultimi 50 anni la quantità totale di pescato (linea blu, scala a sinistra) è aumentata di un fattore 5, da 20 a
quasi 100 milioni di tonnellate.
Tuttavia, dal 1994 la produzione
totale non è più aumentata,
oscillando intorno ai 94 milioni di
tonnellate annue. All'occhio
del picchista, questo
fa presagire l'imminenza di un picco
di produzione, a cui dovrebbe
seguire inesorabilmente un declino.
Come spiego in altri post alcune
specie (come il tonno e
il merluzzo nell'oceano
Atlantico) hanno già raggiunto il
picco.
Se consideriamo il pescato pro
capite (linea rossa, scala sulla destra), il picco è stato già raggiunto nel 1988 con 17,3 kg di pesce all'anno a
testa: in altre parole, la popolazione mondiale sta crescendo più in fretta di quanto si stia pescando.
Consideriamo inoltre che dal 1970 al 1995 (dati FAO, non ho trovato statistiche più recenti)
• il numero di pescherecci è più che raddoppiato, passando da 600 mila a 1 milione e 250 mila. Una flotta
simile sarebbe in grado di pescare in ben quattro pianeti !;
• anche il tonnellaggio delle imbarcazioni è raddoppiato, da 13 a 28miliardi di tonnellate;
• la profondità media di pesca è passata da 150 a 300 m (Le Monde Diplomatique, Atlante per l'ambiente,
novembre 2007, p-57).
• le tecniche di pesca (ecoscandagli, reti a strascico) sono diventate sempre più invasive e devastanti.
Le statistiche FAO non tengono inoltre conto dei cosiddetti danni collaterali, cioè della distruzione del
fondale oceanico causato dalle reti e dall'uccisione di un gran numero di pesci che non sono di interesse
commerciale, ma che vengono accidentalmente a trovarsi dentro alle reti.
Quello che sta accadendo nel mondo della pesca è uno dei più evidenti fallimenti delle teorie economiche
classiche, che si disinteressano della sostenibilità delle pratiche antropiche e ritengono che la tecnologia
possa compensare la riduzione delle risorse. Invece, aumentare ulteriormente il numero di pescherecci non
ci farà ritrovare magicamente il pesce...
La catastrofe del merluzzo nel nordatlantico
Mercoledì 23 Gennaio 2008, 09:29 in Economia e ambiente, Ecosistemi sotto stress, Sviluppo "insostenibile" di Marco Pagani
La catastrofe del merluzzo Atlantico è una storia che andrebbe raccontata ai bambini e riportata su tutti i
libri di testo, per spiegare come la stupida avidità degli uomini possa portate il disastro in un intero
ecosistema.
Eppure, sembra che si parli poco di questa triste vicenda. Non ne avevo mai sentito parlare prima e l'ho
scoperta quasi per caso, mentre cercavo dati relativi alla pesca globale (vedi il post Il picco della pesca
planetaria). Oggi vorrei provare a raccontarla.
Si tratta di una tragedia in sei atti.
1. Nell'oceano Atlantico la
popolazione
di merluzzi (Gadus
Morhua) è sempre stata
estremamente
abbondante. I canadesi ne
hanno pescato circa 250
mila tonnellate all'
annoper più di un secolo,
fino agli anni '50.
2. La diffusione di grandi
pescherecci oceanici ha
fatto sì che anche spagnoli,
portoghesi, francesi, sovietici e diversi altri iniziassero a pescare il merluzzo, fino a raggiungere un picco
di 1,8 milioni di t nel 1968 (Dati FAO-FISHSTAT). Il Canada decise allora di proteggere il "suo" merluzzo
estendendo le acque territoriali fino a 200 miglia dalla costa, in modo da "bandire" gli stranieri.
3. Per un po' le cose andarono bene ed anche i canadesi ridussero le quote di pesca a livelli più sostenibili;
come si vede dal grafico (che riporta solo i dati canadesi) a partire dalla metà degli anni '70 la pesca al
merluzzo è però tornata a crescere a ritmi incredibili, più che triplicando nel giro di sette anni.
4. Il picco del merluzzo canadese è stato nel 1982. Diversi pescatori si erano accorti della diminuzione del
pescato negli anni '80, ma il governo non fece nulla per fissare quote di pesca.
5. In quegli anni presero invece a solcare i mari enormi pescherecci-fabbrica in grado di rastrellare il mare
con immense reti a strascico, per poi trattare subito il pesce e congelarlo. Le reti a strascico rovinano i
fondali e catturano tutto quello che incontrano, contribuendo a distruggere anche le uova di pesce e i
giovani esemplari.
6. Il sovrasfruttamento del merluzzo e la distruzione del suo habitat hanno portato in pochi anni alla
catastrofe: la quantità di pesce pescato è crollata dalle 400 mila t del 1990 alle 12 mila del 1995 e da
allora non si è più ripresa. Un vero e proprio genocidio.
Il grafico in alto riporta anche il numero delle navi a strascico canadesi (dati FAO-figis). Osservate come
il loro numero sia cresciuto a partire dagli anni '80 e abbia continuato a crescere anche negli anni critici
della distruzione del merluzzo!
Questo dimostra quanto sia difficile fermare una megamacchina industriale, una volta che essa si sia
avviata.
Questo dimostra che una tecnologia più sofisticata, potente ed energivora non ci può salvare dal collasso
degli ecosistemi, ma ha solo l'effetto di accelerarlo.
Riusciremo a imparare qualcosa dalla lezione canadese? Riusciremo a regolare le quote di pesca in tutti
gli oceani del mondo prima che sia troppo tardi?
Il Canada non sembra aver imparato molto, dal momento che ha sì fissato quote di pesca per il Merluzzo, che
sono però probabilmente troppo alte, ma ha avuto il coraggio di dare la colpa della diminuzione della pesca
alle foche.(!)
A volere essere maligni viene da pensare che le quote dell'ICCAT siano definite più in funzione dell'industria
della pesca che della effettiva popolazione dei tonni. Inoltre, per favore, sarebbe possibile smetterla di
riferirsi ai tonni con l'appellativo poco gentile di "tonnellate" e riferirsi ad essi come esseri viventi?
Il Sugarello (Mackerel) è una delle specie più pescate del pianeta: le catture sono dimezzate negli ultimi 15
anni da 10 a 5 Mt. Eppure, le nazioni fanno a gare per devastare gli ultimi stock degli oceani meridionali
When will they ever learn? Quando gli umani comprenderanno che la loro attività di pesca è insostenibile e
devastante sarà troppo tardi.
Il grafico qui in alto mostra la quantità pescata di 24 diverse specie di Sugarello (Mackerel) (1). Il picco della
pesca è stato raggiunto nel 1995 con 10 Mt. Da allora le quantità sono diminuite fino alle 5 Mt del 2010 con
un trend inesorabilmente calante.
Una gestione mondiale responsabile della pesca avrebbe imposto quote di produzione già nel 1996, o al più
tardi verso la fine degli anni '90.
Invece non si è fatto nulla e anche oggi si assiste alla corsa di tutte le nazioni ad aggredire gli ultimi stock di
Mackerel nell'oceano meridionale. Nel 2010 operavano nella zona antartica ben 75 grandi navi da pesca, tra
cui la fabbrica galleggiante Lafayette, vero mostro dei mari, in grado di lavorare e surgelare 1500 t di pesce
al giorno.
Ai nostri figli
consegneremo un
deserto liquido. Altro
che mangiare più
pesce per migliorare la
dieta: riduciamo
drasticamente il nostro
consumo di pesce (2);
non cambierà il trend,
ma almeno la
devastazione non sarà
fatta in nostro nome.
(1) Il sugarello
(Mackerel) è un nome
generico che raggruppa
diverse deine di pesci del genere Scomber, Scomberomorus e altri, con masse che variano da qualche etto a
decine di kg. E' un pesce predatore che si nutre di altri pesci più piccoli (il suo livello trofico nella catena
alimentare varia, ma in genere è compreso tra 3 e 4).
(2) Una scelta ragionevole potrebbe essere quella di limitarsi a mangiarlo fuori casa, in poche e controllate
occasioni.
L'ex petroliera Lafayette da 50 mila tonnellate è stata sottoposta a restyling per diventare una
nave per il trattamento del pesce oceanico, al comando di una flotta di 12 megapescherecci,
una vera arma di distruzione di massa
In questi tempi di post picco del petrolio può capitare che si faccia il restyling di una vecchia petroliera russa
per farne una nave da pesca, anzi più precisamente la più grande fabbrica ittica galleggiante del mondo.
La Lafayette, circa 50 mila tonnellate di stazza, è lunga 228 m e larga 32. Appartiene alla
multinazionale Pacific Andes e agisce come ammiraglia di una flotta di cinque super pescherecci a strascico
oltre ad altre sette navi più piccole.
Il pesce è aspirato dalle altre navi con grandi tubi a vuoto. La nave è in grado di trattare e congelare 1500 t
al giorno. Poiché è pensata per operare senza mai tornare in porto (viene rifornita di gasolio in mare, come
un bombardiere), ha una capability di circa 550 mila tonnellate di pesce all'anno; tanto per farsi un'idea è
più del doppio del consumo del Belgio. Una vera arma di distruzione di massa.
Questo mostra il
paradossale fallimento dell'economia
di mercato. Senza regole e senza
arbitrati superiori, quando gli stock
ittici iniziano a scarseggiare, l'attività
di pesca non si riduce, ma al contrario
si intensifica.
Tutti i paesi e le aziende fanno a gara
per pescare quanto più pesce
possibile prima che finisca: in questo
modo gli utili trimestrali e i consumi
immediati della specie homo
sapiens in continua crescita demografica stanno mettendo a rischio tutta la fauna superiore degli oceani,
un'estinzione di massa quale forse non si è più vista dai tempi del Cambriano-Ordoviciano, 488 milioni di
anni fa.
Questo è già successo nel caso della catastrofe del Merluzzo nord Atlantico: tra il 1988 e il 1991 gli stock
sono calati del 33%, ma nello stesso periodo le navi a strascico sono cresciute (in tonnellaggio) del 78%, per
poi restare ad arrugginire al sole quando la pesca del merluzzo è crollata al 5% del valore del picco.
Se le risorse naturali sono compromesse non saranno il capitale e la tecnologia avanzata a fare saltare fuori i
pesci dal nulla.
Riporto stralci di un
interessante articolo uscito
qualche giorno fa sul
Guardian, che resta sempre il
miglior quotidiano di lingua
inglese al mondo per
l'attenzione intelligente ai
problemi dell'ambiente.
Dobbiamo mangiare meno
pesce, non pesce più
sostenibile
Incoraggiare semplicemente
la gente a mangiare nuove specie, non ridurrà la pressione sugli stock ittici.
[Antefatto: una campagna per la pesca sostenibile afferma che oltre metà del pesce pescato dagli inglesi
viene buttato a mare, perché senza valore commerciale. Si chiede agli inglesi di essere più di bocca buona e
di mangiare anche questi pesci, per ridurre lo spreco.]
Incoraggiare i britannici ad essere più avventurosi e provare nuove specie di pesci non diminuirà
automaticamente la pressione sugli stock delle specie più a rischio.
Al contrario, potrebbe avere come effetto una crescita della quantità totale di pesce mangiato. Forse sta già
succedendo: la scorsa settimana Mark & Spencer e Waitrose hanno riportato un aumento di vendite di pesce
del 25% e del 15%.
In Gran Bretagna si consumano 20 kg di pesce all'anno. È la metà di quanto mangiano gli spagnoli e un terzo
del consumo dei portoghesi, ma è sempre molto di più di quanto mangia in media il cittadino del mondo. Nel
contesto del declino globale degli stocks e della crescita della domanda globale, aumentare i consumi di pesce
nel Regno Unito non risolverà l'overfishing.
Il Regno Unito dipende dal pesce estero per più di cinque mesi all'anno. Questa dipendenza riduce la sicurezza
alimentare in paesi che hanno bisogno del pesce più di noi.
Questa tendenza è in crescita; se il Regno Unito dovesse contare solo sulle proprie risorse ittiche, le finirebbe
a metà luglio, tre settimane prima dell'anno scorso.
La maggiore causa del deficit di pesce è il sovrasfruttamento di tre quarti degli stock europei che producono
molto meno di un tempo. La loro gestione insostenibile è un problema ecologico ed economico.
Portare nuove specie nel menu senza dare la possibilità agli stock di riformarsi porterà il Regno Unito un
passo più vicino ad essere un predatore di pesce come la Spagna, il Portogallo o il Giappone, che mangiano
di tutto, ma non sono per questo sostenibili.
I tropici contribuiscono ormai al 42% delle catture. Il consumo in Indonesia, Cina, Filippine e Vietnam è
cresciuto di 12 milioni di tonnellate.
.
Non è solo il consumo di pesce del ricco occidente a minacciare il futuro delle specie marine; secondo il
rapporto State of the Tropics, la pesca nelle zone tropicali è in crescita, mentre nel resto del mondo è in lieve
calo dal 1988. Se i tropici pesavano per il 12% negli anni '50, la loro fetta è oggi arrivata al 42% del totale delle
catture (esclusa quindi l'acquacoltura).
La crescita maggiore si è riscontrata nell'Asia Sud Orientale: Indonesia, Cina, Filippine e Vietnam hanno
aumentato i propri consumi di 12 milioni di tonnellate.La combinaizone di crescita demografica e
miglioramento del livello di vita ha contribuito ad aumentare la pressione sugli ecosistemi marini. Oggi in
questa regione il consumo pro capite di pesce (32 kg/anno) supera del 70% la media planetaria (dati FAO).
Il rischio è che un sovrasfruttamento degli
stock possa portare al collasso della pesca
in questa regione, colpendo soprattutto le
comunità più povere che basano la propria
sopravvivenza sulla pesca di piccola scala.
Questo è già avvenuto in Perù, dove
la pesca delle acciughe è cresciuta da
75000 a 12 milioni di tonnellate tra il 1950
e il 1970, per poi crollare brutalmente negli
anni '70 per la distruzione della
popolazione. Solo ora gli stock stanno
iniziando a riprendersi. Una situazione simile si è verificata con la catastrofe del merluzzo nel nord Atlantico.
Si ritiene che il sovrasfruttamento e gli sprechi nel mondo della pesca causino danni per circa 50 miliardi di
dollari all'anno. Una gestione più sostenibile della pesca è quindi vitale di fronte alla duplice minaccia
dei cambiamenti climaticie della crescita della popolazione.
Dall’ Africa
Cosa manca?
Lunedì 10 Marzo 2008, 09:13 in Decrescita sostenibile, Economia e ambiente di Marco Pagani
Cosa c'è:
• Una casa (anche se essenziale) di proprietà
• Terra sufficiente (in media) per nutrire una famiglia
• Un pozzo dotato di pompa (in ogni villaggio)
• Una buona diffusione dell'istruzione primaria
• Un limitato accesso alla sanità
• Entrate minime dalla vendita di tabacco, zucchero, tè o caffè
• Legna e carbonella per la cottura e lume a paraffina per la notte
Cosa manca
• Un'economia più giusta, che paghi i prodotti di esportazione a un "prezzo di dignità "
• L'introduzione di coltivazioni di maggiore contenuto proteico (es. soia)
• Una fossa settica per non rischiare di contaminare la falda
• Migliore accesso alla sanità
• Una bicicletta
• Un pannello solare sufficiente per 1-2 lampadine e un laptop
• Un laptop (vedi il programma One Laptop per Child) con connessione a internet
... in questo grafico vediamo infatti che la terra coltivata è aumentata (linea gialla), ma senza riuscire a
tenere il passo con l'aumento della popolazione.
Di conseguenza, la terra arata pro capite (linea fucsia) ha continuato lentamente a diminuire fino a
raggiungere la soglia piuttosto bassa di 0,2 ha a testa. 0,2 ha equivalgono a 2000 m². Da qualche parte
ho letto (scusate se non riesco ad essere più preciso, ma qui non riesco a ricercare i link bene come in
Italia) che per nutrire un essere umano occorrono all'incirca 1000 m² di terra.
In Malawi non siamo poi così lontani da questo limite, se consideriamo che più o meno un quarto della
terra coltivata è usata per il tabacco, lo zucchero, il tè e il caffè destinati all'esportazione.
Le rese agricole potrebbero
aumentare, ma per questo
occorrono più fertilizzanti di
origine fossile, che negli anni a
venire aumenteranno
moltissimo di prezzo.
Nonostante i fertilizzanti
ricevano un sussidio pubblico,
sono già troppo cari per la
maggior parte della
popolazione.
Le Nazioni Unite prevedono
per il Malawi una popolazione
di 29 milioni di abitanti nel
2050. Dubito che ci
avvicineremo a questa cifra. Penso che la capacità di carico di questa bellissima terra non superi i 20
milioni di persone. In questo caso, non mi dispiacerebbe sbagliare per difetto.
Si tratta di tabacco (Nicotiana Tabacum; la foto qui a fianco mostra le piante di tabacco un po' più da
vicino).
Il tabacco viene fatto essiccare per poi essere venduto a
traders che attraverso vari passaggi lo vendono
alle multinazionali. I guadagni del tabacco permettono di
acquistare quanto non può essere trovato o prodotto
localmente nelle campagne: sale, vestiti, scarpe, quaderni
per la scuola, biciclette...
Un quintale di foglie di tabacco secche viene pagato ai
contadini 50 euro. La resa del tabacco dovrebbe essere tra
le 2 e le 3 tonnellate per ettaro. Una famiglia che possa
permettersi di coltivare a tabacco 1 ettaro di terra (che
quindi possiede una quantità di terra superiore alla media, verrebbe così a guadagnare dai 1000 ai 1500
euro all'anno.
E' decisamente troppo poco, tenendo conto che, una volta trasformato in sigarette il tabacco costa più
di 10 mila euro al quintale!
In una buona annata, coltivando la terra, una famiglia malawiana può avvicinarsi all' autosufficienza
alimentare, ma non potrà mai vivere una vita un minimo dignitosa finchè il frutto del suo lavoro è
pagato così poco. I più poveri difficilmente potranno mandare i figli a scuola, prendere l'autobus per
andare a fare le vaccinazioni, potersi comprare vestiti prima che quelli indossati siano a brandelli ecc.
Una modesta proposta. Il commercio equo e solidale potrebbe proporre ai malawiani di coltivare tè,
caffè, banane o canna da zucchero (prodotti che già vengono coltivati in alcune parti del paese) pagano
ai contadini un prezzo più dignitoso.
Altrimenti, se il prezzo del tabacco dovesse scendere ancora, l'unica alternativa che si troveranno
davanti è quella di coltivare oppio...
Il Grande Baobab di Salima
Sabato 16 Febbraio 2008, 10:19 in Piccolo atlante di Gaia di Marco Pagani
Il grande Baobab (Adansonia digitata) merita davvero un bel po' di spazio nel blog...
Venticinque metri di altezza, cinque metri di diametro, un tronco spugnoso che contiene
oltre centomila litri d'acqua... questi numeri non rendono l'effetto che questo straordinario albero
esercita se lo si può osservare dal vivo.
Guardate con con un po' di venerazione questo esemplare, fotografato a Salima, presso il lago Malawi;
potrebbe essere antico quanto le piramidi...