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Alessandro Arbo

L’OPERA MUSICALE NELLO SPAZIO CIBERNETICO:


IMPLICAZIONI ONTOLOGICHE ED ESTETICHE

Estratto da:

Le cadeau du village
Musiche e Studi per Amalia Collisani
a cura di

Maria Antonella Balsano, Paolo Emilio Carapezza, Giuseppe


Collisani, Pietro Misuraca, Massimo Privitera, Anna Tedesco

Palermo

Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari

2016
Alessandro Arbo*
L’opera musicale nello spazio cibernetico: implicazioni ontologiche ed
estetiche

1. Introduzione
Quante rivoluzioni ha attraversato la musica nell’ultimo secolo? Sembrava-
no tante già trent’anni fa, quando si parlava soprattutto di linguaggio: dal
cromatismo esasperato all’atonalità, alla dodecafonia, al serialismo integrale,
fino all’apertura degli orizzonti al suono concreto ed elettronico. Quanto
basta per gonfiare gli ultimi capitoli dei manuali di storia. Eppure ancora
poco, se visto dal nostro presente. A rovesciare le carte, negli anni a venire, la
consapevolezza del fatto che quel percorso, che aveva trovato in Adorno uno
dei suoi più autorevoli interpreti, costituiva uno fra i tanti che la musica aveva
attraversato nel corso del secolo. Dopo essersi accanita sulle serie retrograde
e inverse, la musicologia incominciava a interessarsi al jazz di New Orleans,
al reggae giamaicano, al rock di Londra e di Seattle, al pop, al rap, all’electro,
fino a ogni genere di métissage fra tradizioni di tutto il mondo. A questa presa
di coscienza ­— della quale, a inizio millennio, l’Enciclopedia Einaudi diretta
da Jean-Jacques Nattiez costituisce il documento più esemplare1 — se ne ac-
compagna un’altra (non meno cruciale e altrettanto ben rappresentata nella
stessa opera): quella delle conseguenze che l’invenzione dei sistemi di ampli-
ficazione, riproduzione, registrazione e manipolazione del suono hanno avu-
to non solo sui linguaggi musicali, ma sul modo di ascoltare e di interpretare
le opere.2 Il cambiamento non è di ieri, visto che l’invenzione del fonogra-
fo risale al 1877, la commercializzazione del disco di Berliner a una ventina
d’anni più tardi e l’utilizzazione del microfono elettrico al primo dopoguer-
ra. Ma è dagli anni Cinquanta che queste invenzioni avrebbero mostrato
appieno la loro capacità di rivoluzionare i cicli di produzione, esecuzione e
ricezione della musica; ed è ancora più tardi, vale a dire negli ultimi decenni

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del secolo, appunto, che il fenomeno sarebbe stato oggetto di una riflessione
approfondita, da parte di musicologi, sociologi ma anche filosofi,3 al punto
che oggi si può parlare di un vero e proprio settore disciplinare, denominato
musicologia della registrazione o «fonomusicologia».4
Agli albori del nuovo secolo, mentre la ricerca prendeva atto di queste tra-
sformazioni, un nuovo cambiamento avrebbe rimescolato le carte in tavola.
In maniera quasi inavvertita, la musica registrata, già convertita nei formati
digitali, migrava — come tutte le entità del mondo sociale — nel web. Quel-
lo che aveva l’aria di presentarsi come un semplice cambiamento nel sistema
di diffusione di un prodotto artistico avrebbe scosso in profondità l’apparato
dell’industria musicale — un apparato che, da alcuni decenni ormai, aveva
riconosciuto nel disco il suo perno centrale. Siamo di fronte all’ennesima
rivoluzione, talmente invasiva da poter essere comparata a quella prodotta
dall’invenzione del fonografo.5 I suoi effetti si propagano in un vasto terreno
nel quale s’incrociano questioni antropologiche, economiche, legali, etiche,
sociali e quant’altre, in una pressoché totale riorganizzazione del mondo mu-
sicale, con nuove corporazioni di musicisti che fanno fronte a nuove comuni-
tà di ascoltatori generatesi nello spazio cibernetico.6
Nell’avvicinarsi a tale quadro si possono distinguere due principali di-
rezioni di approfondimento: quella che dall’analisi delle trasformazioni
tecniche si dirige verso i contesti sociali;7 e quella che, a partire dalla stesso
punto di partenza, si concentra sulle modifiche prodotte sullo stesso oggetto
musicale. Seguiremo questa seconda linea di approfondimento, evocando in
misura più circoscritta la prima. Ci chiederemo in particolare quali sono le
principali conseguenze determinate dall’ingresso delle opere musicali nello
spazio cibernetico sul loro modo di essere e, in parallelo, sul modo in cui
le apprezziamo.8 Il primo punto rientra nell’ambito di un’indagine di tipo
ontologico; quanto al secondo, è di pertinenza estetica, nella misura in cui
con questo termine qualifichiamo un’esperienza nella quale una dinamica
attenzionale ci appare come «regolata dall’indice di attrazione della stessa
attività attenzionale».9

2. Musica e registrazione: un cambiamento di paradigma


Prima di avviare l’indagine è importante precisare l’oggetto del discorso.
Si è molto parlato, in questi ultimi decenni, di opere musicali: del modo in

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cui esistono e agiscono su di noi. Terremo presente questa riflessione, non
senza segnalare, tuttavia, il suo carattere parziale. La musica manifesta fin
dalle origini una doppia anima o un carattere «anfibio», per dirla con la me-
tafora di Frédéric Bisson:10 se da un lato si presenta come un insieme di entità
che manifestano una certa stabilità nel tempo («il valzer di Strauss», «l’ulti-
mo album degli U2»), dall’altro è evento, processo, attività che si svolge nel
tempo. Questa duplicità la rende particolarmente difficile da pensare: come
un’arte della performance o dell’esecuzione fondata su regole condivise da
un lato; come arte della traccia dall’altro. Una tradizione musicale può ac-
centuare l’uno o l’altro significato: se i generi votati all’improvvisazione (vie-
ne subito in mente il jazz, ma possiamo pensare all’improvvisazione diffusa
nelle culture tradizionali) portano l’attenzione su un certo risultato di abilità
performative,11 quelli nei quali si parla esplicitamente di «composizione»
o «creazione» (come nel caso della musica colta occidentale, ma anche del
rock o del pop) hanno insistito sulle proprietà del prodotto, senza cancellare
l’idea di performance, almeno nella maggior parte dei casi, ma assegnando-
le un ruolo in qualche modo subordinato.12 In questo articolo intendiamo
occuparci del modo di essere delle opere intese come risultato di un’attività
artistica o compositiva, non senza tener conto del carattere limitato di questa
prospettiva e del significato prevalentemente estemporaneo di molte espres-
sioni musicali.
Anzitutto, perché si possa parlare di opera, è necessario riferirsi al fissarsi
di una traccia. In un primo tempo, nelle società senza scrittura, la sua sedi-
mentazione è assicurata dalla memoria dei membri di una comunità. La no-
tazione ha costituito la prima importante discontinuità, determinando quel-
lo che, nei termini di Stephen Davies,13 si può indicare come un aumento di
spessore ontologico: da schemi operativi fondati su un’esecuzione modello,
le opere diventano tipi strutturali completi. Con l’avvento della registrazione
si assiste a un ulteriore passo in avanti: se l’invenzione del fonografo cambia
«lo stesso modo di esistere del sonoro per la specie umana»,14 i progressi nel-
la registrazione determinano la nascita di nuove entità musicali: le opere di
musica concreta,15 quelle di musica elettronica e quelle prodotte nell’ambito
del rock.16 Diversamente da un Lied di Schubert o da una Sinfonia di Bee-
thoven — che per esistere richiedono una partitura — questi tipi di opere, la
cui particolarità consiste nel fatto d’implicare una concezione del suono fin

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dalle prime fasi della costruzione,17 dipendono dalla registrazione. In questo
senso riducono drasticamente quell’eccedenza di essere che l’interpretazione
porta alle opere scritte: si dimostrano ontologicamente più spesse, al punto
da essere definite talvolta come «sature», nel senso che «sono definitive e
stabili, in alcun modo aperte a modificazioni e arrangiamenti»18. Il perno
di questa descrizione è un problema divenuto centrale in ontologia dell’ar-
te: quello dell’identità degli oggetti presi in esame. Le proprietà estetiche di
un’opera dei Pink Floyd non consistono soltanto nelle proprietà della struttu-
ra musicale (nei suoi tratti ritmici, armonici e melodici) sulla quale è fondata,
ma sulla specifica «immagine sonora» che il gruppo ha determinato con la
produzione dell’album in studio. È la registrazione, quindi, che costituisce
l’opera,19 destinata ad essere riprodotta meccanicamente, piuttosto che ad es-
sere eseguita.
Se pensiamo alla musica come arte della traccia, possiamo affermare che
la registrazione in studio ha determinato un autentico cambio di paradig-
ma. Abbandonando lo statuto di arte allografica,20 la musica ha acquisito,
in buona parte almeno, quello di arte autografica: in un certo senso, come la
pittura, un’arte in un solo tempo. Per accedere all’opera dei Pink Floyd, non
abbiamo più bisogno della mediazione di un’interprete: ci basta ascoltare
il disco. Anzi, ascoltare il disco è il modo più corretto per fare esperienza di
quell’opera: perché ciò che ascoltiamo, quando ascoltiamo The Wall (1979),
è un risultato che non potremmo ritrovare in tutta la sua interezza in nessuna
esecuzione dal vivo: né quelle prodotte da loro stessi né, a maggior ragione,
da altri (questa possibilità esiste, certo, ma è intesa come un esercizio diverso,
corrispondente a criteri di giudizio e di ricezione autonomi).21 Con la regi-
strazione in studio viene messo in moto un nuovo apparato di produzione
e di ricezione delle opere. Va precisato che l’esistenza di opere fonografiche
non esclude né ostacola la produzione di opere scritte, come mostra in larga
misura quella che viene chiamata (in modo ormai sistematicamente provvi-
sorio) la musica «contemporanea», spesso ancora prevalentemente fondata
sull’utilizzo di strumenti acustici.
Un ulteriore cambiamento si determina, negli anni Ottanta, con il pas-
saggio dai sistemi analogici a quelli digitali. Esso investe dapprima gli studi di
registrazione, per imporsi poi come standard di diffusione in supporti come
il CD e il DVD. I vantaggi consistono nell’aumento della qualità sonora, in

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particolare con la soppressione del rumore di fondo, nelle maggiori possi-
bilità di trattamento del suono e nella praticità del supporto.22 Il CD rende
inoltre possibile la riproduzione in un numero illimitato di esemplari (nella
copia la qualità originaria non si perde), che occupano meno spazio, costano
meno e sono (a prima vista almeno) più resistenti all’usura. Al contempo, la
creazione del protocollo MIDI e la digitalizzazione delle fonti analogiche
condizionano fortemente i sistemi di produzione delle tracce nei generi mu-
sicali che avevano già vocazione a costruire opere fonografiche,23 favorendo
l’auto-produzione, con software e hardware alla portata di un numero sem-
pre maggiore di utenti. Con l’inizio degli anni Novanta, infine, il digitale
rivela un’ulteriore possibilità: grazie alla decodifica in tracce numeriche, le
opere musicali si rendono disponibili a quello che si sarebbe rivelato come il
loro più potente mezzo di diffusione: il web.

3. La musica in rete: una rapida cronistoria


Importante premessa a questa migrazione è la messa a punto dei forma-
ti di compressione dei dati. Realizzato da ricercatori europei all’inizio degli
anni Novanta, l’MP3 (cioè «Motion Picture Experts Group I, Layer 3»,
un protocollo nato nell’ambito dell’industria del film) diventa standard
internazionale nel 1995. Ai numerosi vantaggi pratici che tale soluzione
sembra offrire (essenzialmente la possibilità d’immagazzinare una grande
quantità di musica nelle memorie locali, all’epoca non così capienti come
oggi), si oppone la constatazione di un abbassamento della qualità sonora.
L’inconveniente non è irrilevante, ma, come è legittimo supporre, tempora-
neo.24 Per diversi anni, in ogni caso, questo standard (assieme ad altri forma-
ti compressi, che tuttavia hanno meno incidenza) fa registrare il tramonto
dell’era dell’audiofilo,25 ovvero il passaggio a quella che è stata definita l’era
«post-fidelity»: un’era nella quale, a conti fatti, la convenienza prevale sulla
qualità.26 Sempre nel 1995 vengono diffusi Windows Media Player, per ese-
guire files audio (Quick Time per Mac esisteva dal 1991), e RealAudio, il più
noto software per lo streaming. Il procedimento è fondato sull’utilizzo della
memoria buffer e consiste nella riproduzione di un file audio (o video) prima
che sia stato completamente scaricato. Il CD esisteva da una decina d’anni
e aveva appena rivitalizzato il mercato del disco, le sue vendite non facevano
che crescere. Difficile immaginare che nel giro di una decina d’anni l’MP3

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sarebbe diventato il suo più pericoloso rivale.
E forse non lo sarebbe diventato, se, nel giro di pochi anni, un’ulteriore
invenzione non ne avesse mostrato i vantaggi: il protocollo peer to peer (P2P).
Il principio è semplice: la creazione, in alternativa al tradizionale modello nel
quale le informazioni viaggiano da un server centrale verso l’utente, di una
rete di scambio nella quale ogni utente può accedere ai files condivisi pre-
senti nella memoria dei computer degli altri utenti (a condizione che siano
in linea). È il sito Napster, sviluppato da due studenti americani nel 1999, a
rendere popolare questa soluzione: trasformate e ricompattate, le tracce mu-
sicali circolano liberamente fra gli utenti iscritti al sito (in breve tempo quasi
10 milioni), creando non poco danno all’industria musicale.
A dire il vero Napster non si fondava interamente sul protocollo P2P, per-
ché centralizzava l’indicizzazione dei files. Questo gli sarebbe costato, nell’au-
tunno del 1999, pesanti battaglie legali. La sua chiusura non avrebbe arrestato
l’espansione del fenomeno, con siti (come Gnutella) che, per aggirare il pro-
blema, avrebbero interamente decentralizzato la condivisione dei files. L’alter-
nativa immaginata dall’industria consiste, in un primo tempo, nella creazione
di server centrali con la possibilità di scaricare tracce MP3 a pagamento (come
iTunes di Apple). È il momento del grande successo dell’iPod, un lettore parti-
colarmente potente e versatile, con un’interfaccia che assicura una ricerca intu-
itiva dei brani e rende sempre più nomade l’ascolto musicale.27 La rapida e ap-
parentemente inarrestabile caduta delle vendite del CD, negli anni successivi,
conferma il successo di questo nuovo standard di diffusione, senza riuscire ad
arrestare la pubblicazione illegale. Il fenomeno si espande, molti siti commer-
ciali (come Amazon), portali, motori di ricerca (come Google) propongono
soluzioni simili, altri (come “Sound Cloud” o la radio on-line “Last.fm”) offro-
no brani di artisti indipendenti, remix di brani famosi, podcast e altre produ-
zioni distribuite sotto licenza Creative Commons (cioè utilizzabili liberamente
in progetti personali non commerciali), altri ancora funzionano come potenti
motori di ricerca per il download gratuito (“Bee MP3”, “Mp3juices”, ecc.).
Nell’ultimo decennio la musica in formato MP3 dilaga, non senza ge-
nerare conseguenze inedite sul piano giuridico. Diversamente dai dischi e
dai CD, infatti, il file musicale digitale appartiene a una classe di beni che in
economia vengono definiti «risorse non rivali»:28 quei beni, cioè, il cui con-
sumo da parte di qualcuno (diversamente da quello degli oggetti fisici) non

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ne limita l’uso da parte di qualcun altro. Se mangio mezza torta, agli altri ne
resta soltanto metà, mentre se ascolto un file MP3 non limito in alcun modo
il loro desiderio di ascoltarlo (anche perché ascoltandolo non produco alcu-
na usura, come poteva capitare con le cassette o i dischi). In questo senso, la
traccia di una canzone degli U2 è più vicina alla realtà delle idee che a quella
degli oggetti fisici:29 se possiamo riconoscerne la paternità, il suo impiego
non ne compromette l’esistenza e la potenziale utilizzabilità.
Che cosa comporta questa differenza? Se la cessione di un disco si può
concepire come il passaggio di proprietà di un oggetto materiale, lo stesso
principio non sembra applicarsi alle tracce informatiche. Il caso forse più
noto a questo proposito è quello dell’attore Bruce Willis, al quale Apple iTu-
nes ha notificato che non potrà lasciare in eredità la sua collezione di MP3
e MP4 (regolarmente acquistata sul sito) ai figli. La giurisdizione di molti
paesi considera infatti che le opere e le interpretazioni musicali sono fissate e
trasmesse in files che non vengono alienati o venduti come un bene fisico ma,
per così dire, noleggiati a lungo termine.
Negli ultimi anni, al download gratuito o a pagamento si è affiancata sem-
pre di più, in siti che ormai fanno legione, la possibilità di ascoltare le tracce in
streaming. Questa soluzione sembra prendere il sopravvento con la creazione
di siti (come Spotify o Deezer) che, nel rispetto delle leggi in vigore, offrono
la possibilità di ascoltare un repertorio sempre più vasto. Due tipi di contratti
sono generalmente offerti all’utente: uno gratuito — compensato dalla dif-
fusione di messaggi pubblicitari — e uno a pagamento, in genere una quota
forfettaria mensile, che assicura l’ascolto senza interruzioni. Il fenomeno ha as-
sunto proporzioni importanti: i cataloghi si arricchiscono di giorno in giorno,
anche se non tutti gli artisti si prestano ad entrare in questo circuito di diffusio-
ne, spesso delusi da quelli che considerano come compensi troppo magri. Ma,
malgrado tutto, l’opzione sembra costituire un buon compromesso fra la do-
manda dei consumatori e quella dell’industria musicale. Di fatto, lo streaming
ha oggi il vento in poppa: i numeri parlano chiaro, nel 2014 Spotify poteva
contare su 30 milioni di utenti al mese, Deezer su oltre 16, un quarto dei quali
a pagamento;30 da allora la crescita appare inarrestabile: le statistiche dei primi
sei mesi del 2015 indicavano che un terzo dei guadagni dell’industria musicale
provengono dalla musica in linea (contro il 26 % dell’anno precedente), un
ricavato che sembra in parte compensare la caduta libera del CD (regolarmente

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monitorata dalla Recording Industry Association of America).
Questo modo di fruire la musica finirà per sostituirsi completamente a
quello più tradizionale, che passava attraverso l’idea del procurarsi supporti e
tracce e formare una collezione depositata in un luogo o un apparecchio per-
sonale? Si può prevederlo, anche se una sostituzione completa non è ancora
immaginabile: considerato che l’accesso a Internet non è garantito in qua-
lunque luogo, è improbabile che il fruitore medio abbandoni ogni desiderio
di scaricare le tracce sulla memoria locale (uno degli aspetti più attraenti delle
formule “premium” dei siti è costituito precisamente, di là dalla soppressione
della pubblicità, dalla possibilità di riascoltare le tracce senza essere connessi).
L’espansione e il potenziamento della rete fanno presumere tuttavia che pre-
sto o tardi questa situazione cambierà di segno. Oltre al rapido aumento delle
possibilità di accedere alla rete, un altro processo potrebbe favorire la genera-
lizzazione dello streaming, vale a dire la sempre più rapida obsolescenza degli
apparecchi tecnologici, oltre che dei formati per i quali sono stati concepiti.
Il discorso vale per tutta la tecnologia che popola la nostra vita quotidiana e
quindi certamente anche per registratori, lettori di dischi e relativi supporti
come cassette, vinili e forse presto anche CD: beni in nostro possesso che si
usurano e diventano col tempo sempre meno servibili, finendo nel campo di
quelli che sono stati denominati «residual media».31 Proprio mentre assi-
stiamo a questo fenomeno, l’accesso in rete alle tracce che avevamo pensato
di mettere al sicuro su quei supporti diventa ogni giorno più agevole: perché
ostinarsi a far funzionare una vecchia cassetta se il suo contenuto ci è restitui-
to in modo più nitido e completo da un semplice accesso a YouTube?

4. Conseguenze ontologiche
Nell’esaminare alcune conseguenze di questi processi sul modo di essere
delle opere musicali, partiremo dal presupposto secondo il quale la natura di
quest’ultime coincide con quella degli oggetti sociali. La particolarità può es-
sere riassunta nel modo seguente: pur non essendo di natura soggettiva (come
le idee, le impressioni, le credenze, ecc.), tali oggetti dipendono dai soggetti,32
nel senso che richiedono specifiche disposizioni per poter essere corretta-
mente identificati. Ora, fra queste disposizioni, il riconoscimento (spesso
ottenuto cognitivamente per il tramite di etichette e d’iscrizioni esterne)33
dell’origine intenzionale dell’artefatto in un contesto di produzione artisti-

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ca si presenta come una delle più importanti. Quando infatti recepiamo un
brano musicale senza possedere alcuna conoscenza che ci permetta un sia pur
minimo posizionamento storico, rischiamo di non riuscire a identificarlo
correttamente in quanto opera (attribuendogli, per esempio, dei tratti o delle
qualità che si devono piuttosto all’attività dell’artista che l’ha eseguito, alla
sua riproduzione o ad altri fattori più esteriori e contingenti). Nell’era dei
media, la decontestualizzazione sembra costituire lo scoglio maggiore: come
ha osservato Davies, i mezzi di comunicazione hanno largamente contribuito
a sradicare le opere, a frammentarle e a rendere disponibili in tutte le forme i
loro contenuti, al punto da mettere a repentaglio la loro stessa esistenza, mi-
nacciata da un processo di conversione che sfocia nel sottofondo indistinto
della muzak.34
Che ruolo ha assunto il web rispetto a tale fenomeno? Su larga scala si po-
trebbe ipotizzare che, in linea con i media più tradizionali, Internet espone le
opere a un fenomeno di decontestualizzazione, appiattendole sulla superficie
di uno stesso schermo o trasformandole in una sorta di sottofondo sonoro
incapace di andare oltre la sollecitazione di effimere scosse emotive. Questa
preoccupazione si fonda però su una lettura troppo sommaria. Va rilevata una
differenza importante: alla facilità e alla rapidità di accesso alle opere corri-
sponde la facilità di accesso all’informazione che ci permette di conoscere le
forme di vita che ne hanno accompagnato (o ne accompagnano) la produzio-
ne. Non che vent’anni fa l’informazione mancasse; ma il percorso necessario
per raggiungerla era indubbiamente meno semplice e comunque riservato a
meno persone. Per riconoscere una canzone della quale ignoravamo il titolo,
dovevamo farla sentire agli amici, sperando che qualcuno la riconoscesse: oggi
esistono comunissime applicazioni come Shazam, o SoundHound, TrackID,
MusixMatch, Mobion music o Google Sound Search. Se eravamo curiosi di
sapere cos’è e come funziona una difonia mongola, dovevamo come minimo
recarci in una biblioteca — e probabilmente nemmeno una biblioteca troppo
generica: lo spazio che occupa l’articolo «canto difonico» o «canto armo-
nico» sulla (a suo tempo) rinomata Encyclopedia Universalis è decisamente
poco se paragonato a quello che possiamo sapere per il tramite di tre o quattro
click, a cominciare da dove, chi e come lo produce, quali sono le sue particola-
rità, il tutto corredato da ampi campioni ed esempi sonori.
Si dirà che l’informazione non è garanzia di autentica conoscenza, anche

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perché non è sempre affidabile né proporzionata: si sa molto di più di un can-
tante divenuto celebre da quattro o cinque giorni a causa di una gag virale che
di fenomeni e opere storicamente rilevanti. Come è stato spesso rilevato, il web
richiede uno sguardo critico che troppo spesso fa difetto agli utenti; e solleva
quindi un’importante questione di educazione o di formazione. In un senso
generale, però, le opportunità sono a portata di mano, e come non lo sono mai
state. La rete si presenta come uno strumento che, più che indebolire, a medio
o a lungo termine potrebbe contribuire a salvaguardare le disposizioni neces-
sarie a riconoscere e ad apprezzare le opere musicali — cioè a fare in modo che
non si trasformino nell’uniforme, indistinto flusso della muzak.
In quanto strumento di diffusione della musica, lo streaming può essere
considerato come l’ultima tappa di un fenomeno nato con la fonografia e del
quale, fin dagli anni Venti, aveva preso coscienza Paul Valéry:35 l’incremento
dell’ubiquità e della disponibilità delle opere, il fatto che la loro attivazione
obbedisce a una semplice chiamata — oggi diremo a un semplice click del
mouse. Proporre la musica in streaming significa, di fatto, rendere disponibile
in qualunque luogo e in qualunque momento un catalogo così vasto che le
memorie locali degli utenti, per quanto straordinariamente capienti, non po-
trebbero contenere. Alle collezioni di dischi e, in un secondo tempo, di MP3,
si sostituisce la nozione più flessibile di playlist: una collezione di brani che
l’utente è libero di creare, modificare, condividere e cancellare a piacere in
ogni momento. Il cambiamento investe i modi di organizzarsi della ricezione
della musica registrata e, in misura forse meno visibile e nondimeno rilevan-
te, quelli della musica dal vivo. Mentre alla radio o alla televisione occorre-
va seguire l’evento o eventualmente programmare la sua registrazione, ora è
come se tutto fosse automaticamente registrato, vi possiamo accedere in qua-
lunque momento. Quanto allo streaming degli eventi dal vivo, il suo raggio di
azione ha finito per mettere in crisi il monopolio dell’industria radiofonica:
essendo istantaneamente accessibile di là dalle frontiere, a tutte le latitudini e
fusi orari, un live in rete può assumere proporzioni planetarie.
L’aspetto sul quale si è maggiormente insistito è costituito probabilmente
dalla perdita di materialità: dopo che per un secolo le registrazioni musicali
si erano fissate su supporti fisici (vinili, nastri magnetici, CD), la musica si
trova ad aleggiare, come ogni sorta di documento, sulla nuvola. Si arricchisce
al contempo di contenuti multimediali e finisce per espandersi dappertutto,

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come un ectoplasma che è in certo modo «lo spettro della nostra epoca».36
La novità ridefinisce globalmente la differenza tra la musica istantanea (o dal
vivo) e permanente (dischi e registrazioni),37 determinando l’obsolescenza
dei grandi archivi e delle grandi collezioni private, e contestualmente anche
la fine di quella che era stata battezzata l’era della copia (corrispondente a una
prima fase di diffusione della musica in Internet, nella quale, come è stato
scritto, copiare «significa in qualche modo affermare la propria esistenza,
definire la propria identità»).38
Se la smaterializzazione dei supporti ha avuto importanti conseguenze
sul piano giuridico e antropologico, non così evidente è il suo significato
sul piano ontologico. Anzitutto va osservato che la sparizione dei supporti
(locali) non comporta una reale smaterializzazione, né dei supporti né delle
tracce: queste sono presenti in quanto cariche elettriche nei semicondutto-
ri dei server (centrali). Il fatto che non abbiamo più bisogno di pensare la
registrazione come associata a un supporto fisico in nostro possesso porta
invece alla luce una condizione generale del modo in cui sono costituite le
opere (non solo musicali): l’elemento essenziale è la traccia, non il suppor-
to (anche se, evidentemente, in quanto modificazione di una superficie nel
mondo esterno, la traccia richiede una possibilità d’iscrizione e quindi un
elemento fisico).39
Come abbiamo già ricordato, la traccia che determina l’esistenza di
un’opera musicale può fissarsi in diversi modi: nello schema di un’esecuzio-
ne modello se l’opera è orale,40 in una partitura se è scritta, in un audiogram-
ma (o eventualmente un videogramma) se è fonografica.41 Le modificazioni
degli ultimi vent’anni sono state considerevoli; in termini essenziali, però,
questa tipologia non è cambiata e si è anzi stabilizzata: che il supporto sia di
tipo fisico o elettromagnetico, che la traccia sia analogica o digitale, l’opera è
concepita e pensata prevalentemente — sia da parte di chi la produce che da
parte di chi l’ascolta — in base a queste tre opzioni: come una struttura so-
nora «sottile», adattabile in funzione delle circostanze; come una struttura
sonora che corrisponde a una partitura in un sistema notazionale; come una
traccia sonora completa, fissata una volta per tutte in una registrazione. Il che
non significa evidentemente che i formati numerici non abbiano condiziona-
to i modi di presentarsi del suono e degli oggetti sonori che costituiscono le
opere musicali: hanno anzi introdotto importanti novità, facendo venire alla

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luce realtà musicali che il mondo analogico non aveva conosciuto. Ma tali
novità riguardano, per così dire, solo la materia, non la sostanza delle opere.
In relazione alla summenzionata tipologia, la traccia che possiamo riprodur-
re su un computer o un lettore MP3, sicuramente più mobile e invasiva delle
tracce impresse sui vinili o sui nastri elettromagnetici, può essere intesa in
questi modi: come il documento di una esecuzione/interpretazione dell’ope-
ra; come il documento di un’improvvisazione o, in alternativa, come l’opera
stessa, costituita da un audiogramma che raccoglie tutte le particolarità di
quella che si può chiamare la sua «immagine sonora».42 La differenza è ca-
tegoriale, ma proprio in quanto tale manifesta importanti ripercussioni sul
piano estetico.43
In senso generale, quindi, la progressiva sparizione (che in realtà è una ri-
duzione e centralizzazione) dei supporti non andrebbe scambiata con la pro-
va di un cambiamento ontologico. Si assiste invece a una sorta di rivelazione:
se con l’MP3 si è avuta l’impressione di trovarsi di fronte all’ultima tappa
di un processo di smaterializzazione, con lo streaming l’attenzione cade sul
significato dell’opera in termini d’uso. Viene così nuovamente all’evidenza
una condizione relativa alla costituzione e alla diffusione di tutti i prodotti
artistici: l’opera non coincide con l’oggetto fisico che può essere acquistato, e
quindi ceduto o alienato ad altri. Il che vale sicuramente anche per i dischi: se
compero (o comperavo) un CD di Zucchero, malgrado le apparenze, i miei
diritti sull’opera restano in realtà circoscritti: posso ascoltarla in privato,
posso cedere il disco ad altri (trasmettendogli questa possibilità di ascolto);
non posso però riprodurla in un contesto pubblico, diffonderla o utilizzarla a
scopi commerciali. E naturalmente non posso, una volta che l’ho acquistata,
presentarla come una “mia” opera. Queste limitazioni sono rese ancora più
chiare dal permesso di utilizzazione associato al download di un file MP3 o
al suo semplice ascolto in streaming (non mi è permesso riprodurlo in una
discoteca, in un cinema o in una piazza, perlomeno senza versare dei diritti).
La digitalizzazione e il web, avendo avuto importanti conseguenze sui
sistemi di produzione delle opere di tipo fonografico (favorendo largamen-
te, per esempio, l’auto-produzione e ridimensionando di fatto il potere delle
case discografiche), non sono rimasti tuttavia senza incidenza sul loro modo
di presentarsi. In senso generale sembra confermarsi e probabilmente accen-
tuarsi quel fenomeno di feedback che già Benjamin aveva individuato come

160 Le cadeau du village. Musiche e Studi per Amalia Collisani


relativo all’avvento della riproducibilità tecnica: «l’opera d’arte riprodotta
diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte pre-
disposta alla riproducibilità».44 Non si tratta soltanto di riconoscere le con-
seguenze della standardizzazione di ciò che, all’origine, si presentava come
unico (e suscettibile perciò di circondarsi di un alone auratico), ma d’insiste-
re sul fatto che nella concezione dell’opera è inclusa la sua riproducibilità e
fruibilità su larga scala, come hanno portato a piena evidenza i blockbusters e
l’arte di massa, forieri di una importante novità ontologica.45
Il passaggio al digitale e la diffusione dello streaming hanno in qualche
modo modificato questo fenomeno? Da un lato si direbbe che hanno con-
tribuito a generalizzarlo: le opere sono concepite sempre di più in funzio-
ne di una ricezione che, se non è necessariamente mondiale, si estende ge-
neralmente di là da una dimensione locale o regionale. Ma d’altra parte si
può osservare che, con la generalizzazione del web assistiamo, da più di una
decina d’anni ormai, a una singolare perdita di significato della nozione di
“massa”: per quanto possano ancora registrarsi le grandi produzioni o i gran-
di eventi mediatici fatti per un largo pubblico, quest’ultimo appare sempre
meno come un insieme uniforme che può essere condizionato o orientato
verso un certo prodotto, dal momento che ha molte più possibilità (e forse
anche molto più desiderio) di scegliere che nel passato. Certo, un’opera che
si rivolga a molti dovrà in qualche modo sottostare alla condizione di esse-
re tecnicamente riproducibile e di facile accesso. Ma questa “facilità” appare
meno evidente che nel passato, rapportandosi a gusti, tendenze, conoscenze
che, di fatto, si presentano come delle micro-culture associate a fenomeni di
«tribalizzazione».46
A fronte di questi nuovi scenari, un dato interessante è costituito dalla
tendenza alla produzione di unità in termini modulari: le opere — perlome-
no quelle prodotte in quello che, in senso lato, è l’ambito della pop music — si
compongono di parti indipendenti che possono essere sostituite o montate
in un ordine che dipende dall’utente, come mostra il caso di Biophilia del-
la cantautrice islandese Björk:47 un’opera che può essere acquistata come un
normale album, ma che si presenta al contempo come “app album”: un insie-
me di dieci applicazioni per iPad, tenute insieme da un’applicazione madre.
È interessante osservare che le applicazioni, ciascuna corrispondente a una
canzone, cambieranno di aspetto nel corso del tempo. Siamo di fronte a una

Parte prima. Idee, affetti, percezioni 161


sorta di work in progress, che passa da dieci tracce nella versione standard, a
tredici nella versione deluxe, a quattordici in Giappone, in attesa di aggiun-
gere nuove tracce live.
Questo modo di concepire l’opera sembra mimare un processo più generale
che caratterizza la ricezione della musica nei siti di streaming (come già in P2P),
dove il principio di organizzazione è costituito dalla playlist, una sorta di album
ad hominem, cioè componibile (e decomponibile) a piacere dall’ascoltatore.
Siamo forse alla capitolazione del concept album come unità estetica (un’uni-
tà nata a suo tempo, vale la pena ricordarlo, grazie all’invenzione del vinile)
all’insegna di un principio di flessibilità divenuto ormai simbolo dell’era ci-
bernetica? È presto per dirlo, anche perché in realtà molti artisti continuano a
sfornare album più tradizionali. Con le possibilità che la tecnologia digitale e la
diffusione sul web hanno dato agli utenti di selezionare e manipolare le tracce,
nuove opportunità creative sono comunque in campo.48
Ulteriori problematiche di tipo ontologico si possono individuare nella
conversione e nella compressione di tracce prodotte in contesti analogici (o
comunque in vista di una riproduzione con mezzi analogici): se un’opera rock
(o più generalmente un’opera fonografica) è costituita da una registrazione
nella quale un ascoltatore esperto riconosce una specifica immagine sonora
che «consiste in un’atmosfera o un ambiente sonoro e costituisce l’identità
estetica dell’opera»,49 fino a che punto la sua versione digitale (con una rima-
sterizzazione analogica, AAD o digitale, ADD) o la sua versione MP3 (che
comporta, come è noto, una perdita di dati e una semplificazione/riduzione
del segnale) può essere considerata la stessa opera? Si dirà che il problema ha
l’aria di essere un po’ capzioso: la conversione non permette forse di salva-
guardare i dati essenziali per identificare l’opera? Ma resta comunque aperto
il problema di assicurare una tale identità nei casi in cui la variazione dovuta
alla digitalizzazione risulta più accentuata e intenzionale. Per esempio, nel
caso del restauro, con tutte le diverse tipologie di ri-mediazione dei docu-
menti sonori;50 o anche del remix, considerato come un’attività d’interesse
artistico e divenuto corrente con la generalizzazione dei formati digitali e la
diffusione delle opere in Internet, dove ha dato luogo all’emergenza di nuove
pratiche creative più o meno minimaliste.51
Per mostrare il senso di queste problematiche prendiamo come esempio
una canzone del cantautore italiano Fabrizio De André: Fiume Sand Creek,

162 Le cadeau du village. Musiche e Studi per Amalia Collisani


registrata all’origine nell’album noto con il titolo L’indiano (uscito nel 1981)
e ripresa nella raccolta postuma In direzione ostinata e contraria (2005). Se
ascoltiamo queste due versioni, ci accorgeremo che il sound cambia sensibil-
mente: in quella più recente, le tastiere sono presenti con un suono più avvol-
gente, fortemente atmosferico; la voce è lievemente distanziata e riverberata;
gli equilibri strumentali, soprattutto nelle percussioni, cambiano. Niente di
male, si dirà: il risultato del lavoro realizzato nello studio Nautilus di Milano
da Antonio Baglio e Claudio Bozano è eccellente — e del resto ognuno è
libero di apprezzare la versione che più gli piace. Ma viene da chiedersi: quale
versione, con le sue specifiche qualità estetiche, identifica e costituisce pro-
priamente l’opera di De André?
In effetti nel caso dei cantautori, così come in quello del rock, l’oggetto
verso il quale si dirige la nostra attenzione è la registrazione, comprensiva
della presa del suono, del montaggio e del mixaggio, vale a dire di tutte
le specifiche qualità timbriche e performative che l’artista ha realizzato in
studio. Se nell’identità completa dell’opera includiamo anche un certo
equilibrio sonoro, la differenza fra le versioni genera un (tipico) problema
d’identificazione ontologica. In senso stretto, la versione di questa raccolta
sarebbe una nuova versione fondata sulla precedente, che dovremmo con-
siderare come più autentica; in un altro, però, può essere intesa — come
argomentato nel booklet da Antonio Baglio in merito al lavoro tecnico ef-
fettuato sui brani di questa raccolta per ritrovare le tracce originali — come
un tentativo di restituire in modo più fedele l’arte di De André, mettendo
in valore l’espressività della sua dizione e l’intimità della sua voce in rap-
porto ai nuovi mezzi di riproduzione. Se c’è adattamento, questo non com-
promette ma, in un certo senso, rende più visibile l’opera nella sua identità.
Ma evidentemente possiamo trovarci in disaccordo con questa soluzione, e
sottolineare la novità del risultato. In questo caso, il remix potrebbe consi-
derarsi, più che come una nuova versione, come un nuovo oggetto musica-
le: un artefatto la cui originalità si manifesta nell’arte fonografica, a mezza
strada fra le tecniche del design sonoro proprie alla cultura digitale e, in
misura certamente contenuta ma comunque significativa, i modi di appro-
priazione tipici della popular music,52 non esenti dal modificare gli standard
di ascolto e dal generare conflitti concettuali in merito all’originalità del
prodotto artistico.53

Parte prima. Idee, affetti, percezioni 163


5. Conseguenze estetiche
Altrettanto numerose e rilevanti sono le problematiche che la tecnologia
digitale ha generato se si considerano i modi di ascolto negli ultimi decenni.
Nuove forme di controllo, di costruzione e di modellamento del suono han-
no allargato il campo del musicale e affinato ulteriormente le nostre capacità
di analisi.54 Su una scala forse più ridotta e tuttavia significativa si può rileva-
re un processo di modificazione della percezione analogo a quello che Benja-
min aveva rilevato con l’avvento delle tecniche di ripresa cinematografica:55
riusciamo a cogliere nuove strutture della materia o nuovi strati del reale;
distinguiamo tratti e dettagli di un’immagine sonora che fino ad ora ci erano
sfuggiti (per esempio, le manipolazioni elettroniche di un suono acustico o
di una voce); riconosciamo in una sonorità un campione sonoro prelevato da
un disco del passato.
Con i CD e gli MP3 aumentano in modo sensibile le capacità di analisi
della traccia: si può puntare l’attenzione su un momento specifico, riascol-
tarlo, confrontarlo, ecc. A sua volta, l’iPod ha reso la musica più nomade,
generalizzando l’uso di cuffie e auricolari: strumenti che sembravano appar-
tenere al mondo degli audiofili di ieri e che oggi invece sono divenute di uso
corrente, corrispondendo a nuovi rituali e forme di vita. Va rilevato il rilancio
su larga scala della possibilità, messa in atto dal walkman fin dagli anni Ot-
tanta, d’isolarsi solipsisticamente dall’ambiente esterno,56 o d’immergersi in
un flusso sonoro che lo colora dinamicamente ed emotivamente.57 La possi-
bilità di ascoltare le tracce senza che queste siano fissate sulle memorie locali
non sembra cambiare il quadro, ma ne accentua i tratti. Al contempo, si ha
l’impressione di una sorta di ritorno a una situazione in cui la musica non è
tanto un bene da collezionare, quanto un flusso di eventi che entrano nella
nostra vita grazie ad apparecchi diffusori come la radio o la televisione.
Anche qui va osservato però che solo all’apparenza lo streaming riabilita
un’esperienza di ascolto simile a quella proposta dai media tradizionali. Da
un lato è vero che questo modo di diffusione sembra sancire la fine dell’era
della copia: dopo aver riempito gli scaffali di cassette e di CD, dopo aver im-
bottito i lettori di gigabit, eccoci tornati, in un certo senso, al punto zero:58
ad ascoltare, cioè, quello che ci viene proposto dalle reti telematiche, accom-
pagnato da pubblicità più o meno invadenti a seconda di quanto vogliamo
spendere. E tuttavia, sappiamo che tutto è registrato, depositato in un archi-

164 Le cadeau du village. Musiche e Studi per Amalia Collisani


vio universale, nel quale è divenuto straordinariamente facile trovare quello
che desideriamo. La coscienza di questa disponibilità non va trascurata, essa
accompagna come un’ombra i nostri ascolti, segnati da una condizione di
quasi totale reversibilità temporale. C’è poi un altro fatto nuovo: che ciò che
ascoltiamo, i nostri stessi ascolti, a nostra insaputa (o quasi) vengono regi-
strati, schedati, valutati da algoritmi che producono informazione. È così che
in siti come YouTube, Pandora o Last.fm l’interfaccia che abbiamo utilizza-
to per cercare la musica che ci interessa ci propone subito, in base ai nostri
ascolti, alle parole chiave delle nostre ricerche o ai nostri “like” e “dislike”, una
scelta fondata su criteri di somiglianza stilistica, di appartenenza a un genere
o anche semplicemente di affinità tematica: predispone la vetrina in base ai
nostri gusti. L’invito può sembrare discreto, non manifesta quell’invadenza
che caratterizza l’interattività dei social networks; ma in realtà costituisce la
spia di un importante cambiamento in atto. Mentre crediamo di trarre infor-
mazione dalla rete, questa trae informazione da noi: conosce sempre meglio
le nostre preferenze, le anticipa, le orienta e ne trae, bene o male, vantaggio.
Nello stesso tempo si può riconoscere che, nella fruizione di un’opera
musicale sul web, l’ascoltatore è (potenzialmente almeno) più attivo rispetto
alla fruizione attraverso i media tradizionali. Come è stato spesso osserva-
to dai mediologi, la radio e la televisione erano fatte da professionisti, nella
maggioranza dei casi l’ascoltatore/spettatore era costretto ad adeguarsi, dete-
nendo il solo potere di cambiare canale (lo zapping reso possibile dal teleco-
mando è l’attività che connota nel modo più caratteristico lo spettatore tele-
visivo). Ora ci è consentito scegliere quello che vogliamo ascoltare e quando
vogliamo ascoltarlo: abbiamo la possibilità, per esempio, di visualizzare il
testo di una canzone (Deezer) e qualche volta anche la sua traduzione; pos-
siamo accedere con facilità alle note biografiche sull’artista; possiamo udirlo
in successione con altri brani, creare delle playlist e condividerle con altri. In
certi casi, ci è possibile dialogare con l’artista, o notificare le nostre reazioni
all’organizzazione o all’individuo che ha pubblicato l’opera sul sito. Altret-
tante prove del fatto che, in senso generale, l’interazione si presenta come
uno dei tratti emergenti del fenomeno digitale, strettamente associato a quei
sostituti o «intermediari fenomenotecnici»59 che sono le interfacce. In un
ambiente digitale, ogni azione è registrata e capace d’indurre una reazione: il
più semplice accesso alle tracce produce nuove tracce che portano la nostra

Parte prima. Idee, affetti, percezioni 165


firma, rivelando i nostri gusti a un pubblico ben più vasto dei quattro o dieci
amici con i quali scambiavamo dischi e cassette. Si conferma così il fatto che,
con il web, la distinzione fra mezzo di comunicazione e mezzo di registrazio-
ne viene a cadere, con un conseguente aumento del numero d’interazioni.60
Nel considerare i modi di fare esperienza delle opere musicali all’era del
web, uno dei dati più macroscopici è costituito probabilmente, oltre che
dall’aumento dell’interattività, dalla coscienza del continuo ed esponenziale
incremento della loro disponibilità. Tutto è raggiungibile in qualsiasi mo-
mento e in qualsiasi luogo (a condizione di essere connessi). Un’improvvisa-
zione di xöömej, l’ultima interpretazione di Misha Maisky e l’ultimo successo
di Kendji Girac, ma anche una vecchia (e un tempo introvabile) interpreta-
zione di Fritz Kreisler, un concerto leggendario di Bob Marley o degli Abba:
tutto a portata di mano. Nel bene e nel male, il web realizza quello che era
stato il sogno, oltre che degli audiofili, degli etnomusicologi del secolo scor-
so: «mettendo a disposizione la musica in ogni momento e per tutti, realizza
l’utopia temeraria di una cultura sempre presente, sempre disponibile, per
sempre reperibile».61
Ora il significato di questa disponibilità può oscillare, dal punto di vista di
un ascoltatore abituato ai media più tradizionali, fra l’idea di una risorsa stra-
ordinaria e quella di una situazione destinata a impoverire il valore intrinseco
della sua esperienza. Sapere che potenzialmente c’è tutto può facilmente rove-
sciarsi nella constatazione, secondo la quale non c’è nulla che valga ancora la
pena di essere scoperto. L’impressione che tale sovrabbondanza possa indebo-
lire la capacità dell’ascoltatore di lasciarsi trasportare dalla musica ha generato
così alcune reazioni tipiche dei modi di espressione della società globale, come
le pratiche ascetiche del «No Music Day», il revival della cassetta e del vinile
(divenuto una vera e propria nicchia per musicofili) o il dubstep.62
In modo meno drastico si può osservare che la ricezione in streaming e nei
siti in P2P ha favorito il single listening.63 Siamo ancora sulla linea di quella
tendenza alla frammentazione o all’atomizzazione dell’ascolto che Adorno64
aveva denunciato come tipica della ricezione delle opere musicali nell’era dei
mass media? Considerato il modo in cui le interfacce hanno ridotto la fine-
stra della nostra attenzione e al contempo accelerato la nostra capacità di cap-
tare e immagazzinare l’informazione, c’è da aspettarselo. Come abbiamo già
osservato, tuttavia, le opportunità aumentano: se nell’era della radio e della

166 Le cadeau du village. Musiche e Studi per Amalia Collisani


televisione l’ascoltatore poteva venire fortemente condizionato e orientato
verso un determinato prodotto, ora ha una maggiore libertà di scelta. Se le
opzioni suggerite dagli algoritmi non lo sottraggono a forme di conformi-
smo che possono essere ampiamente sfruttate a livello commerciale, possono
anche contribuire ad aprire le sue abitudini di ascolto a orizzonti inaspettati.
L’accesso a siti che diffondono la musica in streaming favorisce quello che è
stato chiamato l’«approccio divergente» nella scoperta della musica, fonda-
to su una «benefica mancanza di discriminazione musicale».65 Per valutare
tale beneficio ci vorrà forse ancora tempo; ma si può comunque riconoscere
che la disponibilità favorisce il confronto: nell’ascolto delle interpretazioni
di opere di riferimento, possiamo scegliere e affinare l’orecchio, apprezzare
meglio le differenze. Si determina indirettamente un aumento dell’informa-
zione, anche se la sua ricezione potrebbe risultare mediamente più distratta.
Un ulteriore aspetto che vale la pena segnalare è la tendenza ad associare
l’ascolto a un elemento visivo, previsto dall’interfaccia di numerosi siti. Il video
musicale, nato prima del web, s’integra a nuovi contenuti multimediali interat-
tivi (possiamo disporre del testo della canzone, delle immagini della copertina
del disco originale, di finestre di commento o di forum con altri utenti) e trova
nella rete un’ideale cassa di risonanza, dal momento che la maggior parte dei
terminali è ormai dotata di uno schermo (un telefono che non lo possiede ci
sembra ormai la preistoria). La facilità di reperire registrazioni video sembra
presentarsi come un’emergenza significativa, soprattutto se si considera che
potrebbe avere un impatto sui modi più comuni di fare esperienza della musica
registrata, modificando il modello di ascolto acusmatico ancora prevalente nel
secolo scorso (perlomeno nell’ambito delle musiques savantes).66

6. Conclusioni
Dall’avvento del digitale a quello dello streaming sono numerosi i cambia-
menti che hanno investito i modi in cui la musica viene concepita, prodotta e
recepita. Se il suono registrato si presenta come una delle grandi novità che ci
ha lasciato in eredità il XX secolo, la sua diffusione nello spazio cibernetico
è un marchio distintivo del secolo in corso. La progressiva riduzione e sop-
pressione dei supporti e delle memorie locali corrisponde a una forma di rive-
lazione della natura sociale delle opere. Presentandosi come uno strumento
di diffusione delle stesse, lo streaming ne modifica i connotati: mettendo in

Parte prima. Idee, affetti, percezioni 167


crisi l’unità estetica dell’album, favorisce il formarsi di unità più aperte, ten-
denzialmente modulabili. Il web ha inoltre condizionato lo sviluppo delle
tecniche di ripresa, di remix e di rimasterizzazione, generando nuovi pro-
blemi in merito all’identità ontologica delle opere e favorendo la creazione
di nuovi oggetti musicali. Se da un lato realizza quello che i media avevano
annunciato, apre di fatto nuovi orizzonti al nostro modo di fare esperienza
della musica: scompaginando la distinzione fra mezzo di comunicazione e
mezzo di registrazione, favorisce il formarsi di nuove disposizioni cognitive
e sollecita forme di ascolto più flessibili e interattive, globalmente diverse da
quelle implicate dall’era del disco.

Note

* Université de Strasbourg (alessandro.arbo@gmail.com)


1
Nattiez 2001-2005.
2
Cfr. Rigolli Russo 2007
3
Cfr. Eisenberg 1987, Chanan 1995, Gracyk 1996, Day 2000.
4
Cfr. Dogantan Dack 2008: X, Cottrell 2010: 15.
5
Tournès 2011: 145.
6
Si veda il complesso affresco che emerge da Ayers 2006.
7
Per esempio lo studio sull’iPod di Bull 2007.
8
�����������������������������������������������������������������������������������������
Il presente contributo è il risultato della rielaborazione di discussioni sviluppate dal-
lo scrivente nell’ambito del «Groupe de Recherches Expérimentales sur l’Acte Musical»
(GREAM) dell’Università di Strasbourg.
9
Schaeffer 2015: 308.
10
Bisson 2014.
11
Cfr. Kania 2008, che descrive le registrazioni del jazz come il documento di performance
senza opera.
12
Questa perdurante gerarchia è stata bene descritta da Cook 1998.
13
Davies 2001: 20-21.
14
Molino 2003: 70.
15
Cabanes 2014.
16
Gracyk 1996 e Kania 2006.
17
Fronzi 2013: 50.
18
Pouivet 2010: 63.
19
Pouivet 2014: 167-170.
20
Goodman 1968: 102.
21
�������������������������������������������������������������������������������������
Le riprese del gruppo «Australian Pink Floyd», una «Tribute band» nota per la sua ca-
pacità di replicare il dettaglio sonoro dei dischi originali del gruppo inglese, costituiscono (per

168 Le cadeau du village. Musiche e Studi per Amalia Collisani


il momento almeno) una delle eccezioni che confermano la regola: in genere, nelle riprese del
rock e del pop, gli artisti cercano di mostrare la loro personalità con arrangiamenti che si dis-
costano dalla versione madre. Peraltro, nessun conoscitore dei Pink Floyd, pur apprezzando
e magari anche preferendo queste versioni a quelle del disco originale, cadrebbe nell’errore di
scambiarle per l’originale, il che prova che l’unità estetica dell’opera rock s’identifica chiara-
mente con il disco, più che con la struttura sonora alla quale fa riferimento.
22
Hains 2001: 811-814.
23
Cfr. Fronzi 2013: 22-28.
24
Come osservava già Tournès 2011: 168.
25
Levine 2007.
26
Katz 2010: 217.
27
Bull 2007.
28
Katz 2010: 183.
29
Lessig 2001: 116, citato da Katz 2010: 184.
30
Catania 2014.
31
Acland 2007.
32
Ferraris 2009: 43-44.
33
Cfr. Arbo 2013: 100.
34
Cfr. Davies 2003: 158.
35
Valéry 1928: 1283.
36
Ghosn 2013: 216.
37
Menduni 2007.
38
Assante 2009: 10
39
Come ha spesso sottolineato Ferraris, per esempio in 2009: 315.
40
Davies 2001: 21.
41
Per questa tripartizione cfr. Arbo 2013b.
42
Pouivet 2010.
43
Va
�����������������������������������������������������������������������������������������
segnalato che, nella misura in cui la percezione delle opere musicali è di tipo aspet-
tuale, essa è, almeno in parte, categoriale.
44
Benjamin 1936: 27.
45
Cfr. Carroll 1998 e Pouivet 2003.
46
Molino 2003.
47
Sul quale ha avuto ragione di portare l’attenzione Ghosn 2012: 29-34.
48
Tanzi 2005.
49
Pouivet 2010: 59.
50
Cfr. Orcalli 2006: 23-25.
51
Cfr. Michielse e Partti 2015.
52
Cfr. Bielefeldt Pendzich 2006, Moorefield 2010.
53
Gunkel 2008.
54
Arbo 2015.
55
Benjamin 1937: 58-60.
56
Chanan 1995: 155.
57
Bull 2007.
58
La parabola è stata ritracciata da Buch 2015.
59
Come li definisce Vial 2013: 206.

Parte prima. Idee, affetti, percezioni 169


60
Ferraris 2015: 67.
61
Ghosn 2013: 74.
62
Cfr.
�����������������������������������������������������������������������������������������
Fleischer 2015, che interpreta questi fenomeni come l’espressione di una «sensibil-
ità post-digitale».
63
Katz 2010: 189.
64
Adorno 1938 (ed. it. 1979): 49-50.
65
Katz 2010: 188.
66
Se c’è da supporre che un elemento visivo fosse presente fin dall’antichità nella maggioran-
za delle culture ed espressioni musicali dell’uomo, questo elemento passa in secondo piano con il
modello di ascolto prevalente nell’epoca moderna: ciò che abbiamo in mente, quando pensiamo
alla musica di Beethoven, è privo d’immagine, e può persino essere concepito, come avevano
sottolineato Schopenhauer e Wagner, come origine di ogni immagine: per l’ascoltatore si tratta
di cogliere un discorso, di dipanare una matassa fatta di suoni che sollecitano l’immaginazione.
Nella seconda metà del XX secolo i generi popolari, a cominciare dal rock, hanno riproposto una
spettacolarità nella quale il gesto e la presenza del musicista assumono un ruolo centrale, senza
tuttavia riuscire a mettere in crisi la prevalenza di questo modello (cfr. Cook 1998).

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