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94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione.

1
Prof. Renato De Zan.

Corso di Critica Testuale

Introduzione Generale
ed
Avvio al Programma

E’ uno dei corsi più importanti, nell’ambito dell’iter formativo offerto dal PIL. Qual è
l’obiettivo di questo corso? E’ preparare lo studente a fare un’edizione semicritica di un
testo liturgico. Non si parla di edizione critica, perché in Liturgia non si può farla, dal
momento che rientra in competenze specifiche di settori come ad esempio, il ramo biblico.
Per essere più espliciti, se si analizza il Vangelo di Luca, formato da tanti codici: di esso
bisogna studiare un versetto che, leggendolo nei papiri e nelle pergamene, porta con sé
molte varianti. Qual è l’obiettivo di questa ricerca? E’ vedere quale di queste varianti
rispecchia il testo uscito dalle mani dell’ultimo redattore del Vangelo di Luca. Tutte le altre
varianti sono errori. In questo caso, quando si cerca il testo originale, si fa un’edizione
critica.
Un altro esempio profano è il seguente: il Padre della Lingua Italiana (almeno è così
considerato) è Dante Alighieri, autore della famosa Divina Commedia. Di quest’opera ci
sono molti manoscritti, dei quali si sta analizzando una terzina (tre versi della Divina
Commedia), per la quale vengono alla luce diverse varianti di copiatura. Quali sono i
versetti usciti realmente dalle mani di Dante? In questo ambito si devono analizzare tutte le
varianti, perché una sola di queste, o forse nessuna (in questo caso la si deve ricostruire
facendo altre ricerche) è il testo uscito dalle mani dell’autore. Anche in questo caso si parla
di un’Edizione Critica vera e propria.
Nell’ambito liturgico, invece, se si è chiamati ad analizzare un Inno del Tempo di Pasqua
dei Vespri, il primo elemento che appare è quello contestuale. Ad esempio, in questo Inno si
legge:
Tu Signore
ti sei risvegliato dal sepolcro
insieme al risveglio primaverile della natura.

Tale testo fu portato nel XVI secolo a Buenos Aires in Argentina, dai Francescani, dove
non c’è la Primavera a Pasqua, ma si è in pieno Autunno, quando la natura si sta per
addormentare. Allora, nasce l’esigenza di costituire un testo diverso dal precedente,
tagliando il versetto sulla Primavera e mettendone uno nuovo adeguato alla stagione che sta
per iniziare. Dopo quattro secoli, il risultato sarà che si avrà un Inno dell’Emisfero Nord ed
un Inno dell’Emisfero Sud. Si tratta dello stesso Inno? Si, ma in quello dell’Emisfero Sud si
trova una variante che, in questo caso non va corretta, perché non si tratta semplicemente di
trovare fra le diverse varianti, quella originale, ma si tratta di capire la variante stessa che è
stata applicata all’Inno dell’Emisfero Nord. Da questo ragionamento si può dedurre che ci
troviamo dinanzi ad un testo nuovo: così il testo dell’Emisfero Nord rimane il testo n° 1,
mentre quello del Sud diventa il testo n° 2.
Dunque, in Liturgia si trova una difficoltà in più perché le varianti che si trovano nei
manoscritti di una stessa formula, non sono errori, tanto che non possono essere cancellate.
Se ci sono state delle varianti e si riesce a dimostrare che quest’ultime sono volute, ogni
variante crea un testo nuovo. Allora, non si potrà mai fare un’edizione critica di una formula
liturgica perché non la riporteremo mai da un archetipo, ma semplicemente si riporta la
formula nel suo splendore originale dentro a quel preciso manoscritto. In questo caso non ci
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dobbiamo porre il quesito di chi abbaia composto questa formula, perché nell’ambito del
nostro lavoro, tale formula – proprio perché è stata scritta – assume una sua valenza.
Ora, la formula comprende l’antifona d’introito, l’inno, la Colletta, la Super Oblata, la
Post-Communio e l’antifona di comunione, che insieme formano il cosiddetto formulario.
Con tutte le varianti che sono state applicate, quel preciso testo liturgico è stato usato in
diverse circostanze ed epoche, nonché in diversi luoghi, di proposito – come testo cambiato.
Ciò costituisce il nocciolo della Critica Testuale per la quale si può fare un’edizione critica
di un Sacramentario, di un Lezionario, ma non l’edizione critica della singola formula. In
riferimento all’esempio dell’inno, sopra riportato, ed osservando il contenuto di quello usato
a Buenos Aires, si deve accertare che in quel medesimo inno esca la parola primavera
accostata al tema della Risurrezione di Cristo. Tale regola è determinata da un preciso
contesto, cioè la stagione in atto in quel Paese.
Da tutto questo si può intuire che si possono fare soltanto edizioni semi-critiche delle
formule, mentre si possono fare delle edizioni critiche di opere intere, perché queste ultime
sono equivalenti a ciò che negli studi profani si chiama edizione del testo unico (di un’opera
si ha solo un esemplare). Quindi, per ogni opera – a livello liturgico – normalmente si fa
questo lavoro.
L’edizione semi-critica può essere anche indicata con il nome di “edizione diplomatica”
che indica il valore di un’edizione critica in Liturgia, senz’altro differente da quello di
un’edizione biblica o di un testo profano.

Fatta questa premessa, il corso seguirà un’impostazione il più possibile semplificata.


Partiamo dall’esempio del ritrovamento di un antico manoscritto liturgico. Cosa si fa? La
prima cosa che si deve fare è dare il nome al testo trovato: si tratta della segnatura. Ogni
manoscritto deve avere questa segnatura, ma ci possono essere manoscritti contenenti più
segnature. Qual è la ragione?
Quando Napoleone scese in Italia, portò via con sé parecchi manoscritti, dei quali molti
sono andati perduti. In questo modo, per esempio, il manoscritto, che si trovava nella
Biblioteca Marciana di Venezia con una precisa segnatura (ad es., Lectionarius Latinus
1427) ed ora si trova a Parigi, ha dovuto prendere un’altra segnatura (ad es., CC 420), che
normalmente si trova nella copertina del manoscritto oppure nella parte interna (ribalta)
della copertina medesima. Ciò fa comprendere l’importanza della verifica se il manoscritto
ha un suo nome e cognome.
Come è composta la segnatura? Quali sono gli elementi che compongono il nome ed il
cognome del manoscritto? Generalmente ci sono tre elementi:
- una prima parte,
parte è costituita dal nome vero e proprio  Reginensis Latinus
- una seconda parte,
parte è costituita da un numero  316
- una terza parte,
parte è costituita dall’indicazione della Biblioteca  Vaticana.

Si tratta del Gelasiano antico [GeV]. Alle volte non si ha il nome, ma soltanto la sigla: ad
esempio, “L” (sta per Lezionario), oppure “A” (sta per Antifonario). Il numero c’è sempre,
ma non sempre si trova il nome della Biblioteca: ad esempio, se si va alla ricerca del
Gregoriano Paduense, nel frontespizio del testo, c’è solo la sigla ed il numero, ma non è
specificata la “Biblioteca Capitolare di Padova”. Quando si scrive un articolo o si pubblica
uno studio, la prima cosa che bisogna fare è quella di dare o scoprire la segnatura del
Manoscritto.

Come seconda operazione, è importante dare un numero ad ogni formula. Quando in


Critica Testuale, si parla di “formula”, si intendono i testi ecologici, i testi rubricali ed anche
i testi musicali. Se in un Antifonario si trovano non due pentagrammi, ma due tetragrammi,
senza nessuna parola, con l’indicazione sola di alcune note musicali, anch’essi sono da
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considerarsi formula, per cui è d’obbligo dargli un numero. Se c’è una piccola rubrica,
anche ad essa si deve dare un numero. Lo stesso avviene per la Colletta. Dunque, ogni
elemento va numerato, compresi il titolo ed il sottotitolo.
Culbert Johnson e Anton Wart, hanno pubblicato in edizione economica le parti
eucologiche del Messale di Paolo VI ed hanno dato un numero solo alle parti eucologiche,
saltando tutti i testi rubricali. La conseguenza più grave sta nel fatto che quando si cita una
formula del Messale di Paolo VI, poiché nell’Editio Typica non si trova alcun numero, si
penserà di dare il numero o i numeri dell’edizione di Johnson e Wart. In effetti, i numeri
ufficiali non corrisponderanno con l’edizione sopra accennata.
Come avviene la numerazione? Nel caso in cui viene inserito un testo rubricale tra due
testi ecologici, con la conseguenza di dividere in due il testo complessivo, si procede con
l’indicazione di una lettera che ha il compito di indicare l’ordine della numerazione. A tale
proposito si può fare un esempio:
2 A - TESTO EUCOLOGICO.

3 - TESTO RUBRICALE. SE SI TRATTA DI UNA FORMULA UNICA.

2 B - TESTO EUCOLOGICO. Un esempio concreto sono le benedizioni.

Qui di seguito viene riportato un esempio concreto, preso dalla preghiera eucaristica I (o
Canone Romano):

2A- Padre Clementissimo,


noi ti supplichiamo e ti chiediamo
per Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore,
di accettare questi doni,

3- A questo punto il sacerdote benedice le offerte

2 B - di benedire  queste offerte,


questo santo e immacolato sacrificio.

C’è da dire che anche i brani scritturistici che si possono trovare, ad esempio, in un
Sacramentario, vanno numerati, perché in Critica Testuale nessun elemento può essere
trascurato. Ogni testo deve essere immediatamente riconoscibile.

Nel nostro ambito, diventa persino importante la cosiddetta probatio pennae: gli
amanuensi, prima di iniziare a scrivere, facevano due o tre tratti (/ / / ) sul bordo del foglio.
Anche questa probatio pennae è importante perché, in primo luogo è da considerarsi testo ed
in secondo luogo indica un fatto importante: normalmente dove si trova la probatio pennae,
c’è l’inizio della copiatura, quando l’amanuense iniziava la sua giornata. Ciò vuol dire che
sarà difficile trovare degli errori del testo all’inizio ed il tratto della penna è leggero. Alla
fine della giornata, però, in coincidenza con la fine della copiatura di un testo o di una parte
del testo, il tratto della penna risulterà più spesso, a motivo dello sdoppiamento della punta
della penna stessa e a motivo della stanchezza dell’amanuense. La conseguenza sarà che
verso la fine della copiatura si troveranno molti più errori, rispetto all’inizio. Questo fatto
richiede una maggiore attenzione.
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Un’altra regola della Critica Testuale è che non esistono le pagine, ma soltanto i fogli.
Ciò lo si nota soprattutto nella terza fase o operazione, quando le operazioni della
segnatura e della numerazione sono state completate. Dunque, si passa all’esame
codicologico. Come si deve procedere? La prima cosa che si fa è quella di toccare e di
guardare attentamente il testo per distinguere il lato carne (c) dal lato pelo (p).
Anche in questo caso è bene fare una piccola premessa: per scrivere il Codice Corideti,
sono state ammazzate ben cinquecento pecore. Come procedeva il pastore? Uccideva la
pecora, gli tagliava la testa e gli staccava la pelle dalla carne (scuoiamento). Tale pelle ha
due lati: uno lato carne (c) ed uno lato pelo. Successivamente il lato pelo veniva pulito
grossolanamente con un coltello e tutta la pelle veniva immersa nella calce viva. Liberata da
ogni scoria e pulita integralmente, la pelle veniva affissa ad un telaio per essere essiccata. In
un fase successiva, il pastore prendeva la pelle e la passava con la pietra pomice per renderla
liscia, ma – malgrado questo trattamento – si può comunque notare la differenza tra i due
lati in quanto, il lato carne (c) risulta più scuro e più ruvido rispetto a quello del lato pelo,
perché al tatto si avverte la presenza di puntini dei peli.
Nella fase conclusiva i diversi fogli di pergamena venivano cuciti tra loro, come appare
da questo schema, che riprende l’esempio di un binion, costituito da quattro fogli (due
bifogli o due pelli piegate in folio):
BIFOGLIO (formato da due fogli).

1 2 Ci troviamo dinanzi ad un binion, che in Liturgia – nel


campo dei manoscritti – non si trova. Esso si trova in opere di
c p p c altro genere.
Generalmente si trovano il quaternion (formato da 8 fogli), il
quinion (formato da 10 fogli), il senion (da 12 fogli), il septe-
nion (formato da 14 fogli), l’octonion (formato da 16 fogli).
Successivamente si dirà che il fascicolo è composto da nove
bifogli (corrisponde a 18 fogli), di dieci bifogli (corrisponde a 20 fogli), ecc.
Qui di seguito è riportato l’esempio di quaternion formato da 8 fogli, cioè da quattro pelli
(o bifogli):
BIFOGLIO (formato da due fogli).
1 2 3 4
c p p c c p p c Esiste anche il ternion costituito da 3 bifogli (o 6 fogli).

Ritornando allo schema del binion, eccone una rappresentazione a 4 fogli separati:

1 2 3 4 FOGLIO SEPARATO (4 fogli).


c p p c c p p c

Guardando al binion, esso è composto da quattro fogli, cioè da due bifogli disposti nel
modo seguente: il lato pelo del primo foglio (1) veniva cucito con il lato pelo del quarto
foglio (4), mentre il lato carne del secondo foglio (2) veniva cucito con il lato carne del
terzo foglio (3). In questo modo è stata scoperta la regola del “faccia a faccia” da un certo
Renatus Gregory, dal quale poi ha preso il nome. Tutti i manoscritti, nessuno escluso è stato
scritto con questa regola. Qualora si trovi un manoscritto che non risponde ai canoni di
questa regola, vuol dire che è mancante di un foglio, come lo fa notare il seguente schema:
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BIFOGLIO (formato da due fogli).


1 T 2 3 In questo caso, il secondo foglio (2) è stato rubato. Di
c p p c c p p c conseguenza, cambia la numerazione: il terzo (3) di-
venta il secondo (2) ed il quarto diventa il terzo (3).
Anche se l’operazione di stacco del secondo foglio dal
primo è stata perfetta, si può comunque notare il Tallone (T) che è un prolungamento del
foglio mancante. Dunque, il quaternion non è più completo.
Questo particolare, nell’ambito della Critica testuale è molto importante, dal momento
che l’obiettivo primario rimane proprio quello di ricostruire o di ripristinare il testo
all’origine. Ora, nel caso sopra scritto, se si riesce ad avere dei codici gemelli che
contengono la stessa opera, si può procedere ad una ricostruzione ipotetica del testo non
completo e mancante di quel foglio. Questo spiega che ogni esemplare è un unicum.
A seguito di quanto è stato detto, la Regola di Gregory si può formularla nel seguente
modo: tutti i manoscritti antichi, pergamenacei, latini, sono stati costruiti secondo
il criterio del “faccia a faccia”. Questo spiega anche il perché nella Critica Testuale
esistano soltanto i fogli e non le pagine.

Un altro elemento molto importante da tener presente è che nell’ambito di un’unione di


due fogli, si hanno il recto ed il verso, secondo questo schema:

R 1 2 3 4 5 6 R In questo esempio, abbiamo lo schema di un


r v r v r v r v r v r v ternion composto da 6 fogli (o 3 bifogli) e vi-
sto secondo la cucitura. Come si può notare, il
il recto (r) ha sempre la cucitura a sinistra; il
verso ha sempre la cucitura a destra (v), come
può vedere anche da questo ulteriore disegno:

FOGLIO (non bifoglio).


Per rendere chiaro l’esempio, si è tornati alla raffigurazione in prospettiva di un binion
composto da due bifogli [(1) e (2)], cioè quattro fogli o pelli.

In sostanza, guardando al primo schema del ternion, ed applicando la regola di Gregory,


si nota come il lato carne del foglio 1v tocchi il lato pelo del foglio r2: R c1p p2c c3p | p4c
c5p p6c. Naturalmente la sigla R indica il rinforzo di cucitura (R…R). La sigla principale
che indica un ternion è III, mentre quella di un quaternion è IV, e così via. Questa sigla è
seguita dalle sigle r1v r2v r3v….. La cucitura è indicata dal simbolo ( | ). La sigla “T”
indica il tallone del foglio perso: in questo caso c’è anche la sigla “TP” (Tallone Perso). Qui
sotto è riportato un disegno indicante la descrizione di un intero fascicolo:
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Il fascicolo può essere descritto con formula


codicologica. In questo esempio è la
seguente:
p1c c2p p3c c4p | p5c c6p p7c c8p

Invece con la formula critica si ha la seguente


descrizione:
r1v r2v r3v r4v | r5v r6v r7v r8v.

_______Note Personali di Studio______________________________________________


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STUDIO DELLO SPECCHIO DEL MANOSCRITTO


CALCOLO E RILIEVO DELLA FORMULA
DELLO SPECCHIO DI SCRITTURA

Dopo aver compiuto l’esame codicologico, secondo la Regola di Gregory, si compie un


ulteriore passo importante che consiste nel rilevare e calcolare lo specchio di scrittura del
manoscritto. Qui sotto è riportato uno schema completo di un manoscritto intatto, che non è
stato danneggiato nel tempo e che riporta lo specchio intero.

  
1/3
5
 1/3

1/3

 3

 1

1 2 3 4

4/9 5/9

A questo schema segue una formula matematica che permette di calcolare lo specchio di
scrittura:
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4/9 + (5/9 + 2 unità + 1 unità) + 1 x 2/3 (1/3 + 3 unità) + 1 unità.

Ora, come si può vedere, il foglio di un manoscritto orizzontalmente (base) è diviso in


quattro parti uguali, mentre verticalmente (altezza) è diviso in cinque parti uguali. Nella
parte orizzontale, il primo segmento (1) è diviso in 9 parti, mentre nella parte verticale il
segmento (5) è diviso in tre parti (1/3 – 1/3 – 1/3). I primi 2/3, in alto delimitano la parte
superiore dello specchio, mentre la parte inferiore – sempre dello specchio – è delimitata
dalla linea in corrispondenza del primo segmento (1), per quanto riguarda la linea verticale,
e dalla linea in corrispondenza del quarto segmento (4), per quanto riguarda la linea
orizzontale, dove viene a situarsi il margine destro. Invece, il margine sinistro si trova in
corrispondenza della linea tra i 4/9 ed i 5/9 della prima unità orizzontale (1). C’è da dire che
le unità indicano le parti uguali, sia in senso orizzontale, sia in quello verticale, che
suddividono il foglio del manoscritto.
Come si può notare, sempre dallo schema, i 4/9 partono dalla cucitura del foglio, dando
poco spazio al margine sinistro, mentre è molto più ampio quello destro: ciò avveniva sia
dal lato verso, sia da quello recto. La ragione sta nel fatto che l’amanuense,
intenzionalmente ha voluto che il margine destro fosse più largo per permettere agli studiosi
e ai teologi del tempo di scrivere accanto allo specchio delle glosse. Si tratta di una legge
generale per i Libri Liturgici, perché i manoscritti relativi ai testi biblici sono diversi,
secondo lo schema che segue:

GLOSSA GLOSSA

SPECCHIO DI SCRITTURA

In questo caso rimaneva difficile per gli studiosi apporre altre glosse, dal momento che
rimaneva poco spazio per scrivere. In effetti, si tratta di manoscritti Biblici Medioevali,
mentre, in riferimento al primo schema, ci troviamo dinanzi ad un modello tipico di
manoscritti Liturgici Medioevali, per i quali la codicologia ha scoperto anche i criteri di
lineatura che hanno subito – nel tempo – diversi cambiamenti. La lineatura, infatti, poteva
essere fatta seguendo altre proporzioni matematiche, diverse da quelle indicate nel
Parisinus 11884. Le regole generali (v. i rapporti 4/5; 0,618/1 – sezione aurea; 3/4
rettangolo di Pitagora; 5/8 – proporzioni di Leonardo Fibonacci) non sono quasi mai state
rispettate alla lettera, tanto che rimane difficile trovare un codice con lineatura “perfetta”.
Anche la lineatura, come la composizione di un fascicolo, si esprime con una formula,
mentre le stesse misure della lineatura medesima, sono sempre fatte in millimetri.
Ritornando al primo schema, che è quello che ci interessa di più, i numeri    
  , presenti nello schema, indicano le linee che corrispondono ai “+” della formula
sopra riportata, nel modo seguente:

4/9 + (5/9 + 2 + 1) + 1
= Senso Orizzontale (Base).
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  

2/3 + (1/3 + 3) + 1
= Senso Verticale (Altezza).

  

Da queste indicazioni si può applicare la formula, secondo questo esempio pratico:

Si supponga che un manoscritto abbia come unità orizzontale 130 mm (13 cm), uguale a
quella verticale si ha la seguente applicazione:

(4/9 : 1) + [(5/9 : 1) + 2 x ( 1 ) + 1] X (2/3 : 1) + [(1/3 : 1) + 3] + 1 =

(4/9 x 13) + [(5/9 x 13) + 2 x 13 + 13] X (2/3 x 13) + [(1/3 x 13) + 3 x 13] + 13 =

[(5,78) + (7,2 + 26 + 13)] X [(8,7) +(4,3 + 39) + 13] = 519,8 mm x 650 mm.

Da tale operazione si conoscono le dimensioni del foglio del manoscritto secondo quanto
segue:

5,78 cm (57,8 mm) = indica i mm. dal margine sinistro fino alla prima riga verticale.
+ = è la prima riga verticale che delimita a sinistra la linea di scrittura.
46,2 cm (462 mm) = indica i mm. di larghezza delle linee di scrittura.
+ = è la seconda riga verticale che delimita a destra la linea di scrittura.
13,0 cm (130 mm) = sono i mm. che separano la linea verticale di destra dal margine sx.

x = indica il passaggio dalla misura orizzontale a quella verticale.


8,7 cm (87 mm) = indica i mm. dal margine superiore alla prima linea di scrittura1.
+ = indica la prima linea di scrittura.
43,3 cm (433 mm) = è lo spazio totale in mm. misurato in verticale2.
+ = indica l’ultima linea di scrittura.
13,0 cm (130 mm) = sono i mm. tra l’ultima linea di scrittura ed il margine inferiore del
foglio o supporto di scrittura.

Da questo esito, si conoscono – dunque – le misure dello specchio di scrittura,


corrispondenti ai numeri  e  del primo schema sopra riportato, vale a dire:
462 mm x 433 mm.

1
Su questa linea non si scrive, ma delimita soltanto la parte superiore dello specchio di scrittura.
2
Si tratta delle linee di scrittura.
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Andando avanti, nella Critica Testuale, si contemplano anche i casi in cui i manoscritti
non sono rimasti intatti. In tal caso ci si domanda: qual è può essere la misura dello specchio
e quante righe si trovano nello specchio di scrittura?
Interviene una formula relativa all’Unità di Riga (U.R.) che è la seguente:
[U. R.: n * y] (* sta per il segno « x » “per”). n = spazio tra riga e riga.
y = numero di righe.
La formula effettiva è la seguente: [U.R.: n; y]
Questa formula deve corrispondere alla parte della formula: [(1/3 + 3) + 1]. Come
funziona? Nel nostro caso, ipotizzando uno spazio interlinea, per esempio, di 20 mm, si
deve ricavare il numero di righe del manoscritto, comprese quelle che non ci sono più
perché sono state danneggiate gravemente, a causa dell’umidità o dei topi. Se si conosce il
valore effettivo della larghezza dello specchio, che corrisponde al numero  , cioè 462 mm,
si è in grado di conoscere il numero delle righe del manoscritto, che formano lo specchio di
scrittura secondo la seguente operazione:

462 mm.
_________ = 23,1 righe.

20mm.

Secondo questo esempio, ecco uno schema di manoscritto danneggiato, dove si può
ancora conoscere la misura effettiva della linea verticale dello specchio di scrittura (v.
figura A), ma può esserci anche un manoscritto del quale è stato danneggiato lo specchio di
scrittura (v. figura B) nella parte inferiore, dove non c’è più l’incontro tra la linea
orizzontale (base dello specchio) e la linea verticale (altezza dello specchio):

Figura A Figura B

Nell’ultimo caso, il problema si fa più serio, per il quale ci si chiede quale soluzione
adottare. La soluzione parte dalla conoscenza della misura dell’unità, mediante la quale si
riescono a stabilire le dimensioni orizzontale e verticale del foglio, in base alla formula
generale sopra scritta. Conoscendo anche la spaziatura tra i piani delle righe (non le righe di
scrittura) rimaste intatte si può addirittura stabilire il numero delle righe, secondo il calcolo
sopra riportato con la differenza tra risultato della formula [U.R. n * y] ed il numero delle
righe ancora intatte. Questa possibilità fa comprendere che gli amanuensi seguivano un
certo standard, attraverso il quale, prendevano le pelli più piccole tagliavano la base, sempre
divisa in quattro unità, e formavano il foglio del manoscritto. Il taglio, naturalmente,
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dipendeva dal tipo di pelle e dalla sua dimensione, per cui la stessa unità, uguale sia in
orizzontale, sia in verticale, subiva una certa variazione.
Certamente, conoscere lo specchio di scrittura è un fatto molto importante perché
normalmente nei codici integri non fa nessun problema, ma in quelli rovinati, come nei casi
sopra riportati, costituisce elemento di grave preoccupazione per i codicologi.

Un ultimo caso da vedere riguarda uno specchio di scrittura diviso in due colonne,
secondo lo schema sotto riportato:

unità unità unità

Tra queste due colonne, ci può


essere un diverso tipo di scrit-
tura, determinato dalla diversa
distanza tra le righe, oppure dalla
distanza tra lettera e lettera. Però,
il dato più interessante rimane
l’applica-zione della formula
generale, sopra vista, nella prima
parte.
In questo caso, occorre cono-
4/9 scere la distanza tra le due
5/9 colonne, oltre la loro larghez-za.
La somma tra la larghezza delle
due colonne e la distanza tra di
esse, deve corrispondere alla
prima parte della formula, cioè:
(5/9+2).

Ad esempio, se le colonne avessero una medesima larghezza di 16,1 cm (161 mm.) ed


una distanza di 1 cm (10 mm.), oltre l’unità di 13 cm (130 mm.) si procede nel seguente
modo:

[5/9 + (4 – 5/9)] + (1) + (4) = [7,2 + (16,1 – 7,2)] + (1) + (16,1) = 33,2 cm (332 mm.).

verifica: 5/9 + 2 unità = 5/9 + 2 * 13 = 7,2 + 26 = 33,2 cm (332 mm).

DATAZIONE DEI MANOSCRITTI

ED IDENTIFICAZIONE DELLA SCRITTURA


DI UN MANOSCRITTO
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E’, indubbiamente, uno degli argomenti più difficili di Critica Testuale. In questo ambito,
è essenziale considerare i modelli di fondo, secondo questo schema, diviso per epoche
storiche e secondo il carattere della scrittura che distingue ogni manoscritto:

Luoghi di copiatura schema genealogico


I CAPITALE LIBRARIA – rustica.
II centri - elegante
III di minuscola primitiva
IV cultura romana
V
VI min. cors semionc. onciale
VII grandi monasteri benev.
VIII insulare precaroline merov.
IX carolina visig.
X
XI
XII
XIII grandi gotica
XIV Università
XV umanistica

Come si può notare, la colonna in numeri romani indica il susseguirsi dei secoli. Le linee
indicano il tempo in cui i luoghi di copiatura erano i centri di cultura romani, le grandi
abbazie e le grandi università. L’albero genealogico schematizza l’evoluzione della scrittura.
Un’altra indicazione importante è che dopo il XV secolo, non è più possibile fare
un’edizione critica, perché da quel momento in poi inizia l’era della stampa. D’altra parte,
non è possibile alcuna edizione critica di un testo liturgico che sia precedente al V-VI
secolo, perché non ci sono testi liturgici occidentali che precedano questo periodo. In effetti,
si tratta di codici liturgici. Un altro aspetto riguarda frammenti liturgici nei Padri della
Chiesa: in questo caso non si può più parlare di un’edizione critica, né si può più entrare
all’interno del problema della Critica Testuale Liturgica.
Le linee poste a fianco dei secoli indicano gli scriptoria: fino all’VIII secolo, vi erano gli
scriptoria dei centri di cultura romana. Si tratta di centri laici, perché erano al servizio degli
uomini dell’amministrazione romana o romano-barbarica. La seconda linea, che inizia
all’incirca verso il VI secolo e si conclude nel XII secolo, quando saranno i monaci – come
amanuensi – a produrre i manoscritti. In tale ambito, è bene tenere presente che gli
scriptoria più importanti sono quelli monastici, in tutto il primo Medioevo, sino all’epoca
post-ottuniana (dopo la dinastia degli Ottoni). Quindi, è molto difficile avere un manoscritto
che venga fuori da uno scriptorium episcopalis, perché questi centri di copiatura costavano
moltissimo, per cui si facevano i manoscritti per devozione (v. il mondo monastico), oppure
grossi centri si trovano nelle grandi Diocesi come, ad esempio, Milano, Venezia,
Benevento3, Roma. Invece, altri scriptoria si trovano con molta frequenza quasi in tutti i
centri monastici, dei quali la stragrande maggioranza erano benedettini, mentre erano in
minoranza assoluta quei monasteri di diversa spiritualità.

3
Questo centro è uno dei più importanti perché a Benevento si sviluppò una nuova Liturgia che prese il suo
nome.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 13
Prof. Renato De Zan.

Come si svolgeva la vita in questi scriptoria? Normalmente, subito dopo le preghiere del
mattino, verso le sette o alle otto al massimo, i monaci entravano negli scriptoria che – di
solito – erano degli ambienti molto illuminati, perché dopo dieci anni il monaco, che
svolgeva la mansione di copiatore, perdeva la vista. Questo spiega il perché il monaco
cercasse di avere il massimo di luce naturale. La prima cosa che il monaco faceva era quella
di tirare fuori un coltello, che normalmente era a serra manico: si tratta di un coltellino da
scriptorium. Questo strumento serviva a tagliare la punta della penna nella parte bassa.
Coloro che erano apprendisti si preoccupavano di tirare un po’ di penne dalle oche, per poi
passarle ai monaci amanuensi che tagliavano trasversalmente la punta della penna, in modo
da fargli prendere la forma simile alla punta delle penne stilografiche attuali, secondo questo
piccolo disegno:
SEZIONE LONGITUDINALE

SEZIONE FRONTALE

Successivamente, una volta che la penna era pronta, il monaco faceva la probatio pennae
ai margini della pergamena. Di solito sono dei trattini, due o tre, uno dietro l’altro (///): in
questo modo si verificava se la punta della penna era sufficientemente appuntita, se era
grossa o fine, in modo che lo spessore del tratto della penna fosse uguale a quello del giorno
precedente. Naturalmente, scrivendo, la punta della penna si allargava progressivamente, per
cui era necessario, dopo un certo tempo, rifare la punta. Quindi se si osserva bene un
manoscritto, si può vedere quante volte l’amanuense ha rifatto la punta alla penna, nell’arco
della giornata. In genere, però, ciò avveniva due volte al mattino e due volte alla sera.
Questo fatto fa comprendere il perché la maggior parte degli errori si trovano nella seconda
punta del mattino. Anche nel pomeriggio era più facile che si verificassero gli errori più
grossolani nella fase di copiatura, a motivo della stanchezza. I monaci avevano come
gomma il temperino: quando scrivevano e si accorgevano di aver fatto un errore,
cancellavano la lettera o la parola, raschiando leggermente la pelle. In questo modo ci si può
rendere conto dove l’amanuense ha sbagliato, perché si nota una piccola cancellatura che
tecnicamente si chiama rasura. Un buon manoscritto non dovrebbe avere alcuna rasatura.
Se, per esempio, si andasse a vedere l’edizione del Möhlberg sul Gelasiano Antico, si trova
continuamente scritto “rasur”: ciò vuol dire che il manoscritto è di qualità pessima. Infatti,
questo tipo di manoscritto era destinato ai preti, mentre il Gregoriano, che veniva usato dai
vescovi, era di qualità molto superiore, dal momento che il monaco, conoscendo il
destinatario, prestava la massima attenzione nella fase di copiatura.
Questa differenza è notabile soprattutto nel confronto tra i diversi manoscritti: se si tratta
di un manoscritto importante, destinato ad una Abbazia, o a un vescovo o ai canonici, è
difficile trovare in esso un numero alto di rasature. Invece, un manoscritto con un numero
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 14
Prof. Renato De Zan.

alto di rasature, il più delle volte, è parrocchiale, oppure è destinato alla dependance di un
monastero.
Queste sono piccole nozioni che vanno comunque tenute presente. Ora se in un
manoscritto ci sono poche rasure, di solito è curato nella grafia ed ha, molto spesso, le
lettere capitali secondo questo esempio4:

Auro reipublicae sanctum Dei


oneras et vel...
Questo esempio riportato è a caso per rendere l’idea di quei manoscritti curati nei
particolari, nei quali addirittura si trovavano dei festoni. Un esempio molto bello è un
epistolario, posseduto da Ezzeghino da Romano, un nobile tiranno di Padova del secolo XI.
Questo epistolario è costituito da fogli su fondo oro, sul quale il monaco scriveva la
copiatura. In questo caso, il monaco prima stendeva una patina d’oro sulla pergamena, poi
disegnava a colori tutti gli arabeschi ed infine iniziava la scrittura, nello specchio di
scrittura.
Vi erano anche i fratelli conversi che preparavano la pergamena, secondo la procedura di
trattamento delle pelli ed erano responsabili nella fase di lineatura per la scrittura. Il loro
lavoro, però, era di natura secondaria, rispetto a quello che dovevano svolgere gli
amanuensi.
Ritornando allo schema iniziale, dove sono indicate le diverse epoche, l’ultima linea –
che inizia al XII secolo e finisce al XV secolo, ci sono gli scriptoria dell’Università. I
manoscritti di questo tipo sono i peggiori perché lo studente, dopo aver ottenuto una pecia
(si tratta di un fascicolo) dell’argomento desiderato, si recava allo scriptoria dell’Università
per commissionare all’amanuense una copia della pecia presa in prestito, mentre l’altra la
prendeva lui per copiarla. Il giorno dopo, oltre alla copia da lui composta, andava
dall’amanuense a ritirare l’altra e, poi, si recava all’Università per restituire la pecia, presa il
giorno prima. A quel tempo era proibito rubare le pecie. La cosa simpatica che si può notare
in questo tipo di manoscritti, soprattutto quelli di San Gallo (in modo particolare quelli di
tipo monastico), è la presenza nei festoni di parolacce. Nelle foglie che si ritorcono su sé
stesse, molto spesso nel costone della costola, sembra che ci siano delle piccole linee di
abbellimento. In realtà, sono delle parole scritte in modo tale che senza le grandi lenti non si
possono vedere. Si tratta delle microscritture. Nella parte finale del manoscritto, nel
colofone, veniva messa la data di inizio della copiatura, chi era il monaco che aveva fatto la
copiatura, il numero dei fascicoli da lui copiati, chi ha ripreso il lavoro svolto in precedenza.

4
Queste parole sono state tratte da un frammento di uno scritto di Sant'Ilario. Ci troviamo dinanzi ad un testo
di grande valore paleografico, perché la sua datazione è certa, tale come si legge alla fine dello stesso Libro II
(In Constantium Imperatorem, fol. 288): «Contuli in nomine domini Iesu Christi aput Karalis constitutus
anno quarto decimo Transamund regis» (496-523), cioè l'anno 509-510. Trasamondo era re dei Vandali, ariani
di professione religiosa, i quali provenivano dalla Pannonia e, attraversando la Gallia, si erano stabiliti in
Hispania verso l'anno 409. Poi, passarono all'Africa Nord-occidentale, dove il re Genserico (428-477) aveva
fondato un grande regno, ed aveva intrapreso una lotta per cancellare ogni traccia della dominazione romana
nelle terre nord africane. Vittorio de Vita (484) ha descritto la persecuzione contro i cattolici di quel regno.
L'imperatore Giustiniano, infine, per mezzo del generale Belisario, travolse quel regno dei Vandali. Ai tempi di
Trasamondo (496-523) furono condannati all'esilio in Sardegna ben 60 vescovi, fra i quali si trovava Fulgenzio
da Ruspe. Il termine «Káralis» era di solito interpretato dagli autori, nell'opinione di P. Rabikauskas, come
equivalente all'odierno «Cagliari». Questo codice, comunque, fu scritto poco prima di quella data. Oggidì si
conserva nella Biblioteca Vaticana, sotto il nome di Basilicanus D 182. Prima, forse, è appartenuto al
cardinale Giordano Orsini (+ 1438).
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 15
Prof. Renato De Zan.

Il motivo della bassa qualità degli scritti universitari sta nel fatto che c’era l’esigenza di
produrre in poco tempo un gran numero di manoscritti.
Ritornando brevemente ai manoscritti di tipo monastico, in essi si annotava la quantità di
lavoro svolto dal primo monaco e la quantità di lavoro svolto dal secondo monaco.
Quest’ultima indicazione serviva per stabilire il compenso economico per il primo e per il
secondo, in base alla qualità di scrittura e, quindi, alla capacità di ciascuno di produrre dei
manoscritti di buona qualità. Allora un monaco di prima qualità veniva pagato di più,
mentre un monaco di qualità inferiore veniva pagato di meno.

Un altro aspetto importante della Critica Testuale, osservando la parte destra dello
schema iniziale, riguarda il tipo di scrittura: a tale riguardo si possono trovare codici di
diverso tipo, anche se, per esempio, sono molto rari quelli di scrittura minuscola-corsiva.
Invece, per quanto riguarda la semi-onciale e la onciale, questi codici sono i più conosciuti.
Un esempio concreto di scrittura semi-onciale è il codice, già accennato in nota, cioè il
Basilicanus D 182, prima del 510 d.C. (v. Bibl. Ap. Vat., cod., fol. 245 v. S. Hylarius, In
Constantium Imperatorem, Lib. II, cap. 10-11. Cfr. F. Ehrle - P. Liebaert, Specimina, tav.
6a,7, Cfr. CLA,I, 1). Qui sotto è riportata l’immagine reale di questo codice. Un altro
esempio molto bello è il Messale di Bobbio che si può ritenere uno dei massimi esemplari di
scrittura Insulare. Per trovarlo è sufficiente andare lungo la Valle del Rodano, in Francia e
nella zona lungo gli Appennini, che si
affaccia sulla Pianura Padana in Italia.
Questo manoscritto è di difficile decifrazio-
ne perché è una scrittura tutta particolare.
Se si va nel Sud d’Italia, si trova la
scrittura beneventana, molto bella. Se si
riesce a trovare un manoscritto di questo
genere, ci si può ritenere già fortunati,
perché è il rimasuglio di una Liturgia che
non conosciamo molto bene. Di essa non si
conoscono elementi che ci illustrino l’intero
Anno Liturgico, le diverse varianti in alcuni
luoghi geografici, vicini a Benevento.
Se, invece, si va in Francia, si trova,
intorno all’VIII secolo, la scrittura merovin-
gia o merovingica. Non è molto difficile,
mentre rimane più impegnativa la scrittura
visigotica in Spagna. C’è da dire che sia la
beneventana, sia la merovingia, sia la
visigotica, appartengono alla scrittura
precarolina. Tra la insulare, la beneventana,
la merovingia e la visigotica, la prima è la
più difficile, mentre la beneventana è la più
semplice. Con il secolo IX queste scritture
scomparvero e prese posto, in maniera
assoluta, la scrittura carolina, che è la
scrittura medioevale per eccellenza. Bisogna, dunque, tenere presente che i testi liturgici non
sono scritti in carolina, ma sono composti in altre scritture. Quando, allora, ci si trova
dinanzi ad una scrittura carolina, si è in grado di datare il testo perché non è più antico del
IX secolo.
Questa carolina restò indisturbata sino al XIII secolo, quando iniziò – venendo giù dal
Nord – la scrittura visigotica che rimane forse la più difficile da decifrare, perché l’occhio
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non è abituato a leggerla. Di questo tipo di scrittura c’è la gotica italiana che è molto bella
da vedere: essa ha la qualità di avere delle lettere più basse e larghe, rispetto alla gotica
tedesca che le ha, invece, più alte e più strette. In merito alla scrittura gotica, qui sotto è
riportata un’altra immagine reale:

L’Illustrazione riporta il frammento di un codice pergamenaceo (17,5 x 25 cm.) che


contiene omelie per diverse occasioni, in scrittura gotica testuale formata, del secolo XIV. In
questo caso, si propone un modello di predicazione, «in lingua romana», da fare da parte del
vescovo all’inizio della visita di una chiesa parrocchiale. «Visita vineam istam [...] Verba
praeposita dirigit propheta David cuicumque prelato ecclesiastico cui ecclesiae cura in toto
vel in parte est comissa. Et tangit propheta tria in eisdem verbis. Nam primo hortatur
prelatum seu rectorem ecclesiasticum ad ecclesiae sibi comissae diligentem
circumspexionem [...] Secundo monet eundem prelatum seu rectorem ad regiminis....»
Archivio P.U.G., Sez. Paleografia. Foto F. de Lasala, S.I.
Ritornando al discorso della Critica Testuale, per decifrare un manoscritto occorre fare
quattro operazioni:
1. stabilire le lettere identificative;
2. sciogliere le legature;
3. le abbreviazioni;
4. gli scambi.

Per quanto riguarda la prima operazione, ogni scrittura ha alcune lettere che sono
particolarissime, mediante le quali si riesce a capire il tipo di scrittura. A tale riguardo ci
sono due Manuali molto buoni che ci aiutano a fare questo tipo di lavoro: la Peleografia
latina del Battelli e quella del Bischoff. L’opera del Battelli, giunta nel 1949 alla sua terza
edizione e nel 1991 alla sua undicesima ristampa, è nata dalla scuola per la scuola.
Contiene, purtroppo, diverse imprecisioni, tanto che ultimamente (1993-1994) è stata
corretta, rivista e riedita. L’altra opera, quella del Bischoff, che ha avuto la sua seconda
edizione nel 1986, è nata dalla ricerca ed è primariamente destinata agli studiosi e poi alla
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scuola. Sulla seconda edizione tedesca i curatori italiani dell’Università di Padova hanno
pubblicato la traduzione in italiano nel 1992. In merito alle lettere identificative, qui sotto
sono riportati alcuni esempi:

[A] , [D] , [E] , [M] , [Q] , [H] (scrittura onciale)

Possiamo anche aggiungere la [G] , e la [U] .

b d h l f g p q

(scrittura semi-onciale)

Un altro esempio lo si può trarre dalla minuscola corsiva, secondo quanto segue:

Si tratta delle lettere “a” (le prime tre) e della “b” (le ultime quattro).

Si tratta della lettera “c” (le prime due) e della lettera “d” (le ultime due).

Si tratta della lettera “e” (le prime sette) e della lettera “f” (le ultime tre).

Si tratta della lettera “g”.


In merito alla seconda operazione, c’è da dire che ogni lettera è separata dall’altra, pur
formando una medesima parola. Nel nostro contesto, quando si guarda alla scrittura corsiva,
il più delle volte si nota che da parola a parola non c’è alcuna separazione (ad esempio una
firma). Nell’ambito dei manoscritti ci sono diverse legature, cioè delle lettere che sono unite
tra loro. Nelle scritture medioevali le legature erano molto più gravi e frequenti, tanto che
sono state la causa principale delle difficoltà di decifrazione.
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Un esempio concreto è per esempio la lettera “li” che compare in “populi”:

Altri esempi sono i seguenti:

E’ interessante notare la minuscola corsiva, che rispetto all’esempio precedente, può


variare nel presentare le lettere come in questo caso:

In questo tipo di scrittura ci possono essere le seguenti legature:

E’ interessante vedere le legature nella scrittura nella visigotica, che sono tra le più
difficili da decifrare, come in questo esempio:

Per quanto riguarda la terza operazione, ci possono essere diversi tipi di abbreviazione
per ogni scrittura:
1. qnm = quoniam; eps = episcopus; pbr = presbiter (semi-onciale);
2. d/ = dixit; d// = dixerunt; u/ = vir; h/ = honestus (minuscola corsiva);
3. scdm = secundum; pptr = propter; sct = sicut; nsr = noster; aum = autem (gotica).

In quest’ultimo caso, le abbreviazioni risentono della lingua araba e delle lingue


semitiche che scrivono solo le consonanti.

In ultima analisi, gli scambi, come ultima operazione, nelle scritture furono frequenti
perché erano dovuti alla pronuncia. Un esempio concreto è il “Kod” che, in realtà,
corrisponde alla parola latina “quod”. A tale riguardo si possono riportare due tabelle
relative alla scrittura beneventana e alla scrittura visigotica:

b invece di p = scribsi invece di scripsi


ch ” “ h = michi invece di mihi
d “ “ t = velud invece di velut
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 19
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g “ “ c = iugundius invece di iucundius (scrittura beneventana)


g “ “ i = magestas invece di maiestas
i “ “ g = iesta invece di gesta
p “ “ b = puplica invece di publica
t “ “ d = aput invece di apud

b invece di v = bocaberunt invece di vocaverunt


c “ “h = mici invece di mihi
c “ “ h = nicil invece di nihil
c “ “ q = cod invece di quod (scrittura visigotica)
e “ “ i = baselica invece di basilica
g “ “ c = eglesiis invece di ecclesiis
i “ “ e = inormis invece di enormis

Negli scriptoria, vi era anche la figura del dictator, che interveniva quando si doveva fare
un certo numero di copie di manoscritti di valore non pregiato. Come egli dettava e
pronunciava le parole, gli amanuensi scrivevano il testo. In questo caso si verificavano
errori di lettura ed errori legati alla pronuncia. Non tutti i monaci erano giovani, per cui
qualche volta c’era la fatica dell’udire. Dunque, un testo composto per dettatura comportava
molti errori, come si può notare dalle tabelle sopra esposte. Gli scambi segnalati nelle due
tabelle, sono quelli più frequenti.
Una volta compiute queste operazioni, si è pronti a decifrare il testo, per il quale è bene
tenere in considerazione alcuni elementi:
1) maiuscolo e minuscolo di un codice non servono a gran che – è il critico che
stabilisce come usare il maiuscolo e dove situarlo. Se il Codice è ben fatto il
maiuscolo ed il minuscolo possono avere un senso, mentre se il codice stesso non è
stato fatto bene, c’è la possibilità di non sapere il motivo della presenza di un
maiuscolo (forse indica una pausa);
2) non bisogna guardare alla punteggiatura – dal momento che ha un significato
diverso dal nostro. Nella maggior parte dei casi essa serviva per la cantilenazione
del testo e non per l’aspetto letterario del testo. Era più di carattere musicale che
letterale o didattico-grammaticale.

LE VARIANTI E LA STEMMATICA

Nell’antichità l’edizione e la conservazione dei testi era affidata alla copiatura a mano.
Fino all’avvento della stampa i testi liturgici vennero tramandati come tutti gli altri testi
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antichi. Subivano, come tutti i gli altri testi, il processo di copiatura per diversi motivi che
vedremo nell’ambito di questa lezione.
Non sempre gli amanuensi erano diligenti e preparati: tra le loro file vi erano anche quelli
che erano ignoranti. In più si aggiungeva la stanchezza dopo una giornata di lavoro, per cui
– si può comprendere – l’infinità di errori che oggi troviamo nei diversi manoscritti.
Dunque, bisogna tener presente due cose:
a) non tutte le varianti sono degli errori;
b) le varianti derivano dagli errori.

A tale riguardo è importante classificare le varianti come correzioni o come errori. Sono
correzioni quando il testo prende un altro significato con la variante che l’amanuense
introduce. Bisogna dimostrare che si tratta di una variante voluta. Se in un codice un
determinato verbo viene normalmente sostituito con un altro verbo, costituisce la miglior
prova che quella variante non è un errore, ma è una correzione.
L’errore, invece, è dovuto a diversi elementi che si trovano dentro al processo di dettatura
o dentro al processo mentale dell’amanuense. Ciò fa comprendere il perché ci sono molti
errori di dettatura causati da una cattiva vista, nella fase di copiatura. E’ il fenomeno di
omeoarctia o omoarctia (dal greco “omo” = lo stesso arché = inizio), che consiste in due
parole (o espressioni o frasi o pericopi) successive che iniziano con le stesse lettere (o parole
o espressioni o frasi).
Il fenomeno simile al precedente prende il nome di omoteleutia o omeoteleutia:
l’amanuense legge le parole finali che si trovano in una pagina, ma non le copia. In sostanza
consta di due parole successive che finiscono con le stesse lettere.
Quando, invece, si trova il “salto” di una parola o di “raddoppiamento” di una parola, il
fenomeno si chiama semplicemente diplosi o aplosi. Nel primo caso è quando si ripete due
volte una stessa lettera o sillaba o la stessa parola; invece, il secondo caso riguarda
unicamente il salto di una parola.
Ad esempio: anziché scrivere Pater noster qui es in coelis scrive Pater qui es in
coelis. Siamo dinanzi ad un caso di aplosi, perché manca una parola. Se, invece,
l’amanuense avesse scritto Pater noster noster qui es in coelis, ci troviamo dinanzi
ad una diplosi.
Questo fenomeno può avvenire sia per le parole, sia per le sillabe, secondo questi due
esempi: Pater noter qui es…; Pater noteter qui es…; il primo caso è un’aplosi, mentre il
secondo caso è una diplosi. Questo tipo di errori sono i più facili da individuare, mentre
quelli più difficili riguardano gli errori grammaticali e sintattici.
Questo genere di errori è stato visto nel Corso di Ermeneutica, dove – all’effetto pratico –
la mancanza di una parola può causare l’alterazione del testo stesso. Gli errori più terribili,
quelli di grammatica e di sintassi, derivano soprattutto dal fatto che l’amanuense scriveva ad
orecchio, secondo questo facile esempio:
qui nobis donas tante gratiae copiam

In questo caso si vede subito che l’errore grammaticale sta nel “tante” che deve, invece
essere scritto con “tantae”, dal momento che deve concordare con “gratiae”. Il pericolo è
quello di interpretare un aggettivo come avverbio. E’ importante, in tal caso, vedere l’uso
scribendi del codice preso in esame.
Ci sono anche errori di sintassi, come ad esempio “ut” con l’indicativo, anziché con il
congiuntivo (v. le frasi finali). In questo contesto non possono essere considerate le
abbreviazioni perché quest’ultime non sono errori. Semmai, il grosso problema delle
abbreviature è che – molto spesso – l’amanuense non usa quelle ufficiali, ma ne inventa di
nuove. In questo caso diventa più difficile decifrarle: ogni amanuense, però, quando inizia
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ad abbreviare una parola, continua sempre con la stessa abbreviazione, per cui sarà più
facile capire quella abbreviazione.
Oltre agli errori di grammatica e a quelli di sintassi se ne trovano anche di natura
teologica. Ecco un esempio concreto:
Verbo tuo induisti nos – Codice “X”
Verbo tuo inbuisti nos – Codice “Gemello”.
In questo caso, quale delle due versioni è la più vicina al testo originale. Certamente, sul
piano della tradizione si dovrebbe dire: Tu hai nutrito noi con la tua parola. Dunque, quali
di questi due è il testo giusto? In effetti, non esista alcuna tradizione liturgica che vesta il
fedele con la parola, mentre se si va al testo di Ezechiele si trova l’espressione “mangiare la
parola” (Ez 3,1-3). Questo fa comprendere che si tratta di un concetto biblico-liturgico che
viene da lontano: anche se tra le due forme “imbusti” è molto dura, si capisce che la si può
giustificare con una linea teologica ben precisa. E’ vero che bisogna far scattare il principio
della lectio difficilior, ma non il principio della lettura deficiente. Se c’ è una variante
difficile, ma logica, va bene; se, invece, c’è una variante senza alcuna logica, vuol dire che
ci troviamo dinanzi ad un errore teologico.
Questo genere di errori lo si può soprattutto notare nei testi liturgici destinati ai preti,
mentre in quelli destinati ai vescovi, è molto più difficile trovare degli errori. Un esempio
concreto è il confronto tra il Gregoriano ed il Gelasiano. In quest’ultimo, a volte non si
riesce a capire il testo perché ci sono errori sia grammaticali, sia di natura teologica.
Ci sono poi gli errori tecnici che derivano soprattutto dalla fase di scrittura. Questi ultimi
sono molto frequenti.
Gli errori dei manoscritti sono molto importanti perché ci permettono di radunare questi
manoscritti secondo le linee di copiatura. A tale riguardo, uno studioso di nome Maas, di
nazionalità tedesca, per cercare di aiutare i critici dei testi, inventò un processo di
catalogazione dei manoscritti, che prese il nome di stemmatica che si sviluppa secondo
alcune regole:
1) il cosiddetto archetipo – il manoscritto ultimo che si riesce a costruire –
non necessariamente è il manoscritto “olografo” (quello che ha scritto
l’autore);
2) il testo olografo o detto olografo si segna con una “X”;
3) successivamente si segnano i secoli sul lato sinistro del foglio,
corrispondenti al periodo dei manoscritti;
4) si mettono in alfabeto maiuscolo [“A”, “B”, “C”, ecc.] i Codici conosciuti
e consultabili (si dicono anche reali);
5) si mettono in alfabeto minuscolo greco [a, b, g, d, ecc.] i codici
ipotizzabili, cioè quei codici che non sono consultabili. Si tratta, in
effetti, di copie derivate;
6) tutti questi codici, comunque, hanno origine dall’archetipo.

Per arrivare alla stemmatica, il critico procede, in primo luogo, alla raccolta di più
manoscritti o di più edizioni che siano uguali, simili o comunque vicini al manoscritto su cui
intende praticare la critica testuale. Dopo la raccolta si procede ad un confronto degli errori
e delle correzioni, che comporterà successivamente l’applicazione delle regole sopra
accennate.
Nella pagina successiva viene sviluppato uno schema rappresentativo:

secoli stemmatica
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VI
X

VII A a

C B D E
VIII

b H
IX
F G
X

XII

Secondo questo schema, si ha un archetipo “X” dal quale derivano gli altri codici
“A”,”B”, “C”, “D”, “E”, “F”, “G” ed “H” (sono i codici conosciuti e consultabili), nonché
“a” e “b” (sono i codici non consultabili, detti anche “ipotetici”). Rispetto alla linea di
sinistra, dove sono segnati i secoli, si può vedere in modo chiaro che l’archetipo è da situarsi
approssimativamente tra il VI ed il VII secolo, mentre “A” ed “a” risalgono al VII secolo;
“C”, “B”, “D” ed “E” appartengono alla stessa epoca, cioè il periodo tra il VII e l’VIII
secolo; invece “b” ed “H” sono del IX secolo; infine “F” e “G” sono del periodo tra il IX ed
il X secolo.
Un altro aspetto importante è legato alle diverse fasi di copiatura: “A” ed “a”
rappresentano il primo passaggio di copiatura, mentre gli altri costituiscono passaggi
successivi: ad esempio “C”, rispetto all’archetipo “X” si trova al secondo passaggio di
copiatura, mentre “F” o “G” si trovano al quarto passaggio rispetto ad “a” e al quinto
passaggio di copiatura rispetto ad “X”. Invece, “H” si trova terzo passaggio rispetto ad “X”.
Ci possono, però essere casi in cui un manoscritto più recente si trovi ad un numero di
passaggi minore, rispetto ad un codice più antico, come si può vedere bene da questo
schema esemplificativo: Il testimone A è dell’VII sec., insieme ad
sec. VI X E, mentre B è testimone dell’VIII sec. C e
D sono testimoni rispettiva-mente del IX e
VII A E del X sec. Invece, il manoscritto F, che è il
| più recente, è testimone del secolo XII.
VIII B Per quanto riguarda la fase di copiatura, C
| è distante dall’archetipo di due passaggi di
IX C copiatura, costituendo il terzo passaggio,
| mentre F si trova al secondo passaggio di
copiatura rispetto a X. In questo caso F è
X D
più attendibile di C, perché risponde al
principio, recentiores non deteriores.
XI Dunque, ogni testimone vale in rapporto
alla tappa di copiatura. Ciò che è impor-
XII F tante non è solo l’età del manoscritto, ma
anche la sua trasmissione.
Ritornando al primo schema, dall’esame stemmatico, si può fare la classificazione
mediante i diversi tipi di errori presenti nei manoscritti sopra segnalati, nel modo seguente:
1. tutti i manoscritti hanno in comune l’errore “o” (questo spiega la loro provenienza
da un unico archetipo);
2. il manoscritto “C” si distingue da “A” e da “B” per l’errore “”, mentre “B” si
distingue da “C” e da “A” per l’errore “x”;
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3. i manoscritti “A”, “B” e “C” hanno in comune l’errore “”


4. il manoscritto “a” si distingue dall’archetipo per l’errore “˜ ”, che si troverà anche in
“D”, “E”, “b”, “F”, “G” ed “H”;
5. il manoscritto “D” si distingue da “a” per l’errore “”, che si troverà anche in “b”,
“F” e “G”;
6. il manoscritto “b” si distingue da “a” e da “D” per l’errore “”, che si troverà
anche in “F” ed “G”;
7. il manoscritto “F” si distingue da “G” per l’errore “”, mentre “G” si distingue da
“F” e da tutti gli altri manoscritti per l’errore “”
8. il manoscritto “E” si distingue da “a” e da “D” per l’errore “+”, che si trova anche
in “H”, mentre quest’ultimo si differenzia da “E” per l’errore “”.

Da questo quadro si possono rilevare gli errori che principalmente li dobbiamo


classificare in due tipi:
a) congiuntivi;
b) disgiuntivi.
Nel nostro caso, l’errore “o” è congiuntivo a tutti i manoscritti, i quali derivano da un
unico archetipo, ma ci sono altri errori che distinguono i manoscritti tra loro e prendono il
nome di disgiuntivi. Per comprendere meglio la loro funzione, è bene produrre un secondo
schema generale, in base a quello che è stato detto sopra, circa l’illustrazione del primo
schema generale:
A C B
“o” e “” = “o” e “” = “o” e “” = errori congiuntivi tra “A”, “B” e “C”.
 “”  “x” = errori disgiuntivi tra “C” e “B”.

a D E b F G
“˜ ”= “˜ ” = “˜ ” = “˜ ” = “˜ ” = “˜ ” = errori congiuntivi tra questi codici.
“o” = “o” = “o” = “o” = “o” = “o” = errori congiuntivi tra questi codici e A,B,C.

D b F G
“” = “” = “” = “” = errori congiuntivi tra questi codici
= errori disgiuntivi rispetto ad “a”.

b F G
“” = “” = “” = errori congiuntivi tra questi codici.
= errori disgiuntivi rispetto a “D”.

F G
“”  “” = errori disgiuntivi tra “F” e “G”, ma anche rispetto a “b”.

E H
“+”  “” = errori disgiuntivi tra “E” ed “H”, ma anche rispetto ad “a”.

Questo fa comprendere che catalogare gli errori diventa un’operazione molto importante:
da essi, infatti, si può arrivare a ricostruire il testo o i testi originali. Certamente la
Stemmatica è un problema molto delicato per due motivi principali:
a) un’amanuense intelligente ha corretto tutti gli errori, tanto che non c’è
più la possibilità di risalire all’archetipo;
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 24
Prof. Renato De Zan.

b) la contaminazione o contaminatio.
In merito alla “contaminatio”, essa avviene quando l’amanuense, mentre copia il testo da
un esemplare non sia soddisfatto della lettura. Prende dalla Biblioteca un altro esemplare e
introduce nella sua copia il testo di questo secondo esemplare. Poi prosegue nel suo lavoro
di copiatura del primo esemplare. Alla fine la sua copia sarà “quasi” identica al primo
esemplare, tranne che quel testo che, invece, è stato copiato dal secondo esemplare. La
copia sarà una “copia contaminata”, a motivo della quale non si può dire con sicurezza la
derivazione diretta di un manoscritto da un altro, fino a creare tutto l’albero genealogico di
un manoscritto. La conseguenza è semplice: l’editore costruisce il segmento stemmatico di
un manoscritto più che una vera e propria stemmatica completa. Molto spesso gli editori si
accontentano di lavorare con il concetto di “famiglia” (gruppo di appartenenza di un
manoscritto) piuttosto che con il concetto di stemma.

Alcuni esercizi di Stemmatica

1° Esercizio.
Ci sono quattro manoscritti – A, B, C e D. tutti questi manoscritti hanno “o” come errore
in comune, mentre A e B si differenziano dall’archetipo con l’errore “+”. Poi A si differenzia
da B per l’errore “I”. Invece, C e D si differenziano da A e B per l’errore “x”. Inoltre, C
contiene l’errore “z” rispetto a D, mentre D contiene l’errore “z 1” rispetto a C. Infine, il
primo manoscritto è della merovingia; il secondo è della beneventana, il terzo ed il quarto
sono della Carolina. In riferimento a questi dati, costruire la stemmatica, con l’indicazione
dei secoli, sulla parte sinistra dello stemma:

a Errori congiuntivi:
Sec. VII B “o” rispetto ad a, A, B, C e D.
“+” tra A e B.
VIII A “x” tra C e D.

IX C Errori disgiuntivi:
| “+” rispetto ad a, C e D.
IX D “x” rispetto ad a, A e B.
“I” errore di A rispetto a B.
“z” errore di C rispetto a D.
“z1” errore di D rispetto a C.

Gli errori “I”, “z” e “z1” sono


disgiuntivi anche rispetto ad a.

2° Esercizio.
Ci sono tre manoscritti, A, B e C. Il primo appartiene alla scrittura insulare; il secondo
appartiene alla minuscola corsiva, mentre il terzo riporta la scrittura gotica. Tra l’altro A e B
contengono in comune l’errore “o”, mentre B ha l’errore “Q” rispetto ad A. Quest’ultimo ha
l’errore “+” rispetto a B. Invece, C, non solo non contiene l’errore “o”, ma, rispetto ad A e a
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 25
Prof. Renato De Zan.

B riporta l’errore “”. Costruire la stemmatica, con l’indicazione dei secoli, nella parte
sinistra dello schema:

a Errori congiuntivi:
b “o” rispetto ad A, B e b.

Sec. VI B Errori disgiuntivi:


“+” errore di A rispetto a B, b e a.
IX A “Q” errore di B rispetto a A, b e a.
“” errore di C rispetto ad A, B, b e a.
XIII C
Precisazioni:
a è l’archetipo comune tra b e C, men-tre,
a sua volta, b è l’archetipo di A e B, dal
momento che riporta l’errore “o”.

N.B. Per i testi liturgici non è previsto il grosso lavoro dell’archetipo, per cui i liturgisti
mettono sempre il codice ignoto che funge da archetipo, come si può notare dalla soluzione
dell’esercizio sopra esposto. Ciò spiega che in ambito liturgico non abbiamo archetipi veri e
propri, per cui A e B risultano varianti di b, mentre C è variante di a.

________________Note Personali di Studio_____________________________________

Il Maas5, secondo le indicazioni del Prof. De Zan, nell’ambito di questa lezione propone
uno stemma che poi commenta ampiamente. Tale stemma è solo un modello teorico che
riassume in sé tutti i modelli stemmatici elementari, secondo questo schema generale:

b g K

A B C D
E d

F e

J G H

CLASSIFICAZIONE DEL MANOSCRITTO


IL CALENDARIO ED IL CURSUS

5
P. MAAS, Textkritik, Leipzig 19573. C’è anche una traduzione italiana di N. MARTINELLI sulla seconda
edizione con la presentazione di G. PASQUALI: MAAS P., Critica del testo, Firenze 1972.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 26
Prof. Renato De Zan.

Una volta decifrato il testo del manoscritto, ci si deve rendere conto di altri aspetti
importanti relativi alla classificazione del testo liturgico antico, tra i quali si può ricordare la
classificazione dei libri liturgici (che vedremo in seguito), il calendario ed il cursus.

Il Calendario.
Il Calendario si sviluppa ponendo il suo inizio secondo queste date, poste nel seguente
ordine:
1° GENNAIO. Stile spagnolo o della Circoncisione.

1° MARZO. Anno secondo lo stile veneto.

25 MARZO. Anno secondo lo stile dell’Incarnazione.

PASQUA. Stile francese o della Resurrezione.

1 SETTEMBRE
8 – 24 SETTEMBRE Anno secondo lo stile bizantino.

25 DICEMBRE Anno secondo lo stile della Natività .

1° GENNAIO.
Negli antichi Lezionari, la compilazione dell’Anno (l’inizio della continuazione delle
pericopi) segue degli stili particolari, che noi oggi non abbiamo più. I manoscritti, dunque,
seguono un calendario chiamato stile della … E’ uno dei tanti stili che avevano nel
Medioevo per iniziare l’Anno. In Europa si chiamava stile spagnolo che prende il nome
dall’evento storico della conquista della Spagna da parte di Augusto, nel 38 a.C. Gli anni
vennero computati a partire dal 1° gennaio del 38 a.C., secondo il calendario giuliano. In
Spagna si fece coincidere l’inizio dell’anno con l’inizio di gennaio. La datazione secondo lo
stile spagnolo venne usata nella penisola iberica e nelle province visigotiche (meridionali)
della Francia.
In alcuni altri luoghi dell’Europa viene chiamato stile della circoncisione: al riguardo ci
sono dei documenti liturgici, sia formulari o comes, che incominciano a scrivere con il 1° di
gennaio.

1° MARZO – 25 MARZO.
Al riguardo non ci sono documenti liturgici che inizino con lo stile veneto, che
corrisponde con il 1° di Marzo. Infatti, nella Repubblica veneta iniziava con questa data. Ci
sono, però, alcuni documenti liturgici che iniziano il 25 Marzo e prendono il nome
dell’Incarnazione, dal momento che ci si trova nel giorno in cui inizia la Primavera
(solstizio di primavera). Si ha, dunque, un tipo di calendario che inizia il 25 di marzo e si
conclude il 24 marzo.

PASQUA.
Ci sono testi liturgici che iniziano l’anno con la Pasqua: ciò spiega il perché lo stile
adottato venga chiamato anche stile della risurrezione. Tale stile fu usato soprattutto in
Francia, fino al 1564.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 27
Prof. Renato De Zan.

1° SETTEMBRE / 8 – 24 SETTEMBRE.
Lo stile bizantino non viene quasi mai usato, almeno nella Liturgia Occidentale. Per
quanto riguarda l’Occidente, ci sono diversi documenti, come ad esempio nell’Archivio
della Biblioteca Marciana di Venezia, dove l’anno dovrebbe iniziare il primo di settembre.
C’è anche da dire che, per quanto riguarda il primo o l’8 settembre o il 24 settembre, vi
erano delle zone di confine, tra il dominio tedesco ed i regni slavi, che vengono chiamate
stile della indizione. Cosa vuol dire? Esso rientra nella tradizione romana, per quanto
riguarda la numerazione degli anni. Nel mondo romano vi erano due modi di contare il
numero degli anni:
1) ab urbe condita veniva adoperato dai grandi storici;
2) per i documenti quotidiani e per orientarsi al giorno indicato, si usava il
criterio del nome delle calende e l’anno dell’Imperatore che si trovava al
trono.
I Romani non avevano una datazione assoluta: morto Augusto nel 14 a.C., si iniziava la
numerazione dell’anno da zero. Morto Tiberio, quando salirà al trono Claudio, ci sarà una
nuova datazione, iniziando nuovamente da capo, e così via. Si tratta dello stile
dell’indizione che consiste nel modo di contare il tempo con blocchi di 15 anni. Un altro
particolare che bisogna notare in questo criterio di numerazione è il fatto che non viene
specificato il numero delle indizioni: ad esempio, se si dicesse che siamo nel settimo anno
dell’indizione, vuol dire che ci troviamo nel settimo anno di un blocco di 15 anni; se,
invece, si parla del dodicesimo anno dell’indizione, non si sa precisamente in quale
indizione ci troviamo, perché non viene specificato se si tratta della prima, o della seconda,
e così via. Questo criterio, tra l’altro, serviva – in genere – per i militari, dal momento che il
servizio militare durava circa cinque anni, in ambito bizantino. Chi faceva la firma se la
faceva per tre mandati (5 anni per ognuno), firmava per un periodo corrispondente a 15
anni. Si tratta di un’ipotesi storica che non trova molti elementi di testimonianza. C’è da dire
anche che questo modo di procedere nella numerazione degli anni non aveva una cronologia
assoluta. Probabilmente, questo modo tipico del commercio e del mondo militare non è stato
ben accettato in Occidente, per cui ci sarà il cosiddetto stile dell’indizione in pochissime
isole territoriali, vicine al mondo tedesco e slavo e, qualche volta, sotto l’influenza
bizantina. Al riguardo, però, non compare alcun documento liturgico che sia stato
incorporato in questo sistema di numerazione.

In ambito liturgico, si trovano documenti antichi che rispecchiano il criterio o stile della
natività – il 25 dicembre -, il criterio o stile della Pasqua o della Risurrezione, lo stile
spagnolo e quello dell’incarnazione. I libri liturgici, per la celebrazione della Parola di Dio,
di rito romano, hanno lo stile del Natale (Messa di Vigilia della notte di Natale). Essi non
iniziano con la Prima Domenica di Avvento, dal momento che i primissimi testimoni
compaiono quando ancora l’Avvento era un’opinione. Quindi si avranno sei domeniche in
ambito ispanico-gallicano, mentre in ambito romano non si sa di preciso quante domeniche
dovevano essere. Dunque, questi libri liturgici vanno verso la fine con le cosiddette letture
escatologiche, che si trovano anche a ridosso del Natale stesso. Questo fatto dimostra che il
tempo di Avvento è sempre stato ambiguo, perché costituiva una riflessione biblico-liturgica
dei fatti della fine del mondo che, dalla fine dell’Anno, entravano all’inizio dell’Anno
Liturgico, non specificando l’inizio del medesimo anno. Anche in questo caso si può dire
che non ci troviamo in ambito strettamente liturgico, ma in un contesto tipicamente
cronologico che rispecchia il tempo ed il luogo nei quali si stabiliva l’inizio dell’Anno
Liturgico, come ad esempio la Pasqua come inizio di un nuovo anno.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 28
Prof. Renato De Zan.

Lo stesso criterio di far iniziare l’anno con il primo di gennaio è abbastanza recente,
perché dal momento in cui è stato applicato, non sono trascorsi più di 300 anni. Infatti, sia il
popolo americano, sia quello indo-europeo, hanno convenuto di festeggiare il 1° gennaio
con una convenzione, che non è stata subito accettata. Questo ci aiuta a non meravigliarci
più di tanto quando troviamo dei manoscritti liturgici antichi che presentino un incipit
strano, lontano sia dal criterio del nostro anno liturgico, sia dal criterio dell’anno solare.

Il Cursus.
Fino al III secolo nella prosa latina prevalse l’uso di far terminare il periodo con una serie
di clausole che riecheggiano la cadenza quantitativa (basata sulla lunghezza delle sillabe e,
quindi, sul metro) della poesia. Dopo il III secolo si iniziò a perdere il senso della quantità
delle sillabe e con un processo simile alla poesia, dove si era passati dal criterio quantitativo
a quello accentuativo, si optò anche nella prosa in favore della sententiae clausola, relativa a
ciascun periodo, abbandonando il criterio delle sillabe lunghe o brevi e per assumere il
criterio delle sillabe toniche o atone. Si passò, così, dalla clausola classica al cursus
medioevale. Qui di seguito viene sviluppato uno schema generale del cursus:

/ /
_ _ _ _ _ _ _ Planus (P)

/ /
_ _ _ _ _ _ _ Trispondaicus (Tr)

/ /
_ _ _ _ _ _ _ Velox (V)

/ /
_ _ _ _ _ _ _ Tardus (T)

7 6 5 4 3 2 1

Da questo schema si può comprendere il criterio dell’accentazione. Naturalmente bisogna


partire da un elemento semplice: il Komma. Cosa è? Si tratta di un ritmo accentuativo della
clausola grossolana di una frase o di uno stico. Un altro suggerimento parte dall’idea di
differenza tra uno stico biblico ed una riga di un testo liturgico. In effetti, mentre lo stico
biblico obbedisce a leggi ferree che riguardano, in parte gli accenti, ed in parte il
parallelismo, gli stinchi liturgici sono molto liberi, ma normalmente e stranamente lo stico
liturgico si misura su due elementi che sono di difficile gestione: il respiro ed il concetto. Se
si prende un testo latino, si può avere una divisione che dipende, però, da come si calcola il
respiro, si stabilisce la dicitura e da come si legge il testo stesso a livello concettuale.
Dunque, questo testo latino può essere messo in commata o stichi. In Liturgia non si
trova una legge assoluta, ma una guida la si può avere dallo schema sopra riportato, dove è
indicata la posizione degli accenti per il Planus, il Trispondaicus, il Velox ed il Tardus. La
riga si chiude naturalmente con una parola, seguita – poi – da un’altra parola. In questo
senso è difficile trovare uno stico composto soltanto da due parole: per la legge del respiro
ce ne sono almeno tre, con le quali viene a formarsi un’unità concettuale, a meno che non si
tratti di un’invocazione (O Domine!).
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 29
Prof. Renato De Zan.

Per sapere se la divisione è stata fatta in modo corretto, è bene iniziare dall’ultima parola,
ponendo gli accenti nella posizione giusta. Una verifica la si può fare anche con il
Vocabolario. Sui testi antichi come il Gelasiano o il Veronese si trovano una di queste
quattro accentuazioni. Ogni linea corrisponde ad una sillaba: si contano le sillabe, partendo
dall’ultima, per cui il cursus Planus ha l’accento sulla penultima e sulla quintultima, mentre
il cursus Trispondaicus ha l’accento sulla penultima e sulla sestultima; il cursus Velox ha
l’accento sulla penultima e sulla settultima, mentre il cursus Tardus ha l’accento sulla
terzultima e sulla sestultima.
Questo elemento descritto, ci dà la possibilità se il testo è originale: se è un testo
antichissimo ed è stato lasciato con la stessa fisionomia dell’archetipo, di solito rimane
inalterato il suo cursus originale. Se ci sono state delle sostituzioni di parole, da parte di un
teologo o di un letterato, probabilmente c’è la possibilità di notare un cursus inalterato;
invece, se il testo è stato manipolato da persone poco esperte, il cursus è stato rotto. In
questo caso ci si accorge subito che il testo è stato manipolato, mentre rimane davvero
difficile stabilirlo nel caso in cui sono intervenute mani esperte a modificare il testo.
Nei testi liturgici post-ottoniani (dopo il 1000), si noterà che difficilmente si trovano dei
liturgisti attenti al cursus, dal momento che lavorano già con testi manomessi. Il cursus
rimane, dunque, un indizio storico importante che si può applicare a qualunque testo
liturgico, ricordando che i Libri liturgici sono nati come testi poetici.
I testi più antichi che noi conosciamo, di per sé, non sarebbero i testi dei libelli romani
raccolti nel Sacramentario Veronese, ma sarebbero sette messe scoperte da uno studioso
tedesco di nome Mone (sono le Messe di Mone). Ognuna di queste è un esametro, cioè è
poesia pura latina. Dunque, i testi più antichi che conosciamo, erano curati come se fossero
testi poetici. Questo tipo di cura, con il tempo è andata sempre più diminuendo sino ad avere
delle “mostruosità” che sono impronunciabili, dove non si trova più il ritmo latino e viene a
mancare il respiro. Questo spiega che il testo liturgico è stato pensato per la “lingua detta” e
non per la “lingua pensata”: in altre parole è stato concepito per essere proclamato ad alta
voce. Ciò richiede un certo ritmo. Un esempio molto bello dell’antichità romana sono gli
Inni liturgici latini.

____________Note Personali di Studio_________________________________________


In merito agli Inni Liturgici Latini qui sotto sono riportati alcuni aspetti importanti:
1) verso una caratteristica generale;
2) alcuni aspetti fondamentali della metrica;
3) le epoche generali.

0.1.Verso una caratteristica generale


Ci troviamo nel campo vastissimo degli inni cristiani della tradizione latina. La liturgia
romana di oggi contiene quasi tre inni, di cui la maggior parte si trova nella Liturgia
Horarum. L’edizione tipica del Messale Romano contiene soltanto due inni, cioè un inno
processionale della Domenica della Palme (Gloria, lauda et onor sit…: è un inno dedicato al
Figlio di David, cioè a Cristo Re) e l’inno che si richiama al tema della Carità (Ubi caritas
est deus ibi est: del Giovedì Santo. E’ ricordato anche come Ubi caritas et amor. Fu
composto da Rufino di Aquileia).
A questi due inni però si possono aggiungere le sequenze che tuttavia non sono stampate
nel Messale latino: si tratta della sequenza di Pasqua (Victime pascali) e quella di Pentecoste
(Veni Sancte Spiritus). Ambedue sono obbligatorie. Invece, come sequenze facoltative si
trova quella di Corpus Christi lauda Sion salvatorem e quella dedicata ai dolori di Maria
Santissima del 15 settembre (Stabat Mater dolorosa del XIII secolo). Per quanto riguarda
un’altra sequenza (la quinta), già presente nel Messale precedente, cioè quella per il
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 30
Prof. Renato De Zan.

suffragio dei defunti (il Dies Irae), non si trova una direttiva esplicita nel Messale attuale,
almeno nell’edizione tipica. Di questa sequenza si può dire poco o niente.
Per quanto riguarda gli Inni, ci troviamo intorno al numero di 300, attualmente praticati
nella Liturgia Romana: ciò ci dà l’occasione di affrontare questo tema relativo alla loro
introduzione.
Dunque, gli inni latini appartengono ad una tradizione che ha il suo inizio con
Sant’Ambrogio di Milano. Fino ad oggi la tradizione degli inni latini non è terminata perché
anche nei nostri tempi vengono composti nuovi inni che vengono accolti poi nella Liturgia
attuale. Il periodo più importante per la tradizione degli Inni latini non è tanto l’Antichità
cristiana, né il tempo moderno, ma il periodo intermedio, cioè il Medioevo. Per una
comprensione storica degli inni non è sufficiente l’esposizione e la conoscenza dei singoli
inni, bensì è necessaria una presentazione organica di tutta la storia degli Inni.
Dunque, è importante individuare un filo rosso che rappresenta il percorso di tutta la
storia: tale obiettivo è l’elemento principale di questo corso. La storia degli Inni, d’altra
parte, viene scritta e formata dai medesimi testi latini di questi inni, per cui ci sarà la
conoscenza dei diversi autori, oltre, ad un buon numero di testi originali. Tuttavia di questo
stesso corso non si è ancora in grado di formulare un quadro generale ed organico, dal
momento che è la prima volta che questo corso viene svolto sotto queste specificità sopra
indicate.
Di questi inni latini, si osserveranno le diverse traduzioni, anche se non ci si può
accontentare della semplice traduzione, poiché ci troviamo dinanzi a dei testi di poesia
latina, che si possono apprezzare soltanto nella Lingua originaria. Per questa ragione, il
metodo che si seguirà in questo corso sarà un po’ complesso.
Presentando gli aspetti principali della grande Tradizione degli Inni latini, si darà
preferenza a quelli che sono in uso nella Liturgia attuale, anche se non è possibile usare gli
inni attualmente usati, perché alcuni stadi di sviluppo dell’innologia, sono determinati
proprio da inni che non sono più in uso, o sono marginalmente presenti.
C’è da dire che la Liturgia attuale dà preferenza agli Inni di natura poetica ma non rimata,
dando spazio alla metrica ed escludendo la poesia rimata e ritmica. La poesia delle
sequenze, che è di grandissimo valore nell’innologia, tuttavia, si mostra molto ridotta non
solo nella Liturgia attuale, ma anche in quella tridentina. Tra le grandi tappe dello sviluppo
storico, ci sono anche dei fenomeni intermediari che non sono presenti più nella Liturgia,
ma sono altrettanto importanti per la comprensione di questo percorso che faremo. D’altra
parte, l’intenzione secondaria di questo corso è quella di presentare qualche esempio di una
tradizione molto ricca. In questo si può contribuire alla costituzione di un’immagine ancora
più completa della tradizione innologica, che è così ricca, tanto che – alla fine del XIX
secolo – il Gesuita tedesco Guido Maria Treves ha tentato di pubblicare tutti o quasi, quelli
conosciuti, nell’insieme di 50 volumi: si tratta degli Analecta Hymnica. Questi volumi
contengono un tesoro di 17.000 testi, ma questa Collezione non è ancora completa e non
corrisponde in pieno alle diverse esigenze scientifiche per una pubblicazione di un’edizione
critica. Tuttavia, ciò non sminuisce il suo valore, perché fino ad oggi è la Collezione di Inni
più che grande.
Certamente non è possibile considerare ogni singolo aspetto della Tradizione, ma è
necessario limitarsi, nel senso che non si tratteranno testi provenienti dalle tradizioni
mozarabica, irlandese, scandinava, che interessano le aree europee piuttosto marginali. Si
lascerà da parte anche la tradizione ambrosiana, posteriore a Sant’Ambrogio.
Il centro dell’interesse del nostro studio è la Liturgia romana. In effetti, la sistemazione
storica può apparire più semplice ed immediata attraverso autori conosciuti, per cui si
lascerà da parte il vasto campo di inni, dei quali non si conosce l’autore. Si arriverà, dunque,
a parlare di inni più importanti, anche se rimane difficile la distinzione tra gli inni liturgici e
quelli di carattere profano.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 31
Prof. Renato De Zan.

Questi limiti della innologia medioevale non sono chiari: ci sono inni con una
determinata funzione liturgica, composti proprio per i libri liturgici, ma ci sono anche delle
preghiere private che furono composte in forma poetica. Alcune di esse sono entrate più
tardi nella Liturgia. Un esempio concreto è il Stabat Mater che, all’inizio della sua
composizione, è stata una preghiera privata e non una sequenza propriamente detta.

L’inno latino è una creazione che si può difficilmente definire, a causa delle sue forme.
Nella storia si mostrano molti cambiamenti sia nella forma poetica che nei contenuti. Si
osserva sempre un certa sintesi tra osservanza delle forme delle poetiche tradizionali e la
libertà concreta del poeta. L’inno è stato pensato soprattutto come canto religioso che serve
soprattutto per le esigenze concrete di un’assemblea liturgica, per cui riflette, nella propria
natura, i sentimenti, i gusti, i pensieri, le gioie e le sfide di una cultura. Quindi, gli inni sono
da ritenersi testimoni di una storia, che richiama ad alcune caratteristiche generali della
tradizione innologica, per la quale, naturalmente, si può partire dai seguenti punti:
a) ispirazione biblica;
b) allusioni biografiche e leggendarie;
c) menzione di eventi storici/luoghi/personaggi ecc.;
d) suppliche motivate dalla storia.

In merito al primo punto, i contenuti biblici vengono spesso interpretati in maniera


tipologica o simbolica. Un esempio concreto è il seguente Inno:
“Sumens illud ‘Ave’ “L’Ave del messo celeste
Gabrielis ore reca, l’annunzio di Dio
funda nos in pace, muta la sorte di Eva,
mutans Evae nomen.” dona al mondo la pace” (Liturgia delle ore).
Le prime due righe sono prese dal Vangelo di Luca. Nella terza riga segue una supplica
spiritualmente fortificata da quello che si legge nella quarta riga (mutans Evae nomen). C’è
qui il gioco con le parole “Ave” ed “Eva”: l’angelo ha salutato Maria con l’Ave che –
letterariamente – è il contrario di “Eva”, ma non si tratta di un semplice gioco con le lettere,
dal momento che c’è in atto una tipologia teologica. In effetti, la Madre di Dio è la seconda
Eva, cioè Colei che cambia il senso della storia, iniziata male, a causa del peccato di Eva.
Come Cristo è ritenuto il secondo Adamo, così Maria è ritenuta la seconda Eva.
Molti inni, in base al secondo punto, soprattutto quelli dedicati ai Santi contengono
parecchie allusioni biografiche anche di un contenuto leggendario. Un esempio
concreto lo abbiamo con il seguente inno, dedicato ai tre Re Magi:
“A Thoma baptismate “Rinati nel battesimo [ricevuto] da[ll’ Apostolo]
Spiritu renati Toma, diventano grati assistenti del popolo [di
Adiutores dogmate Dio] nella dottrina.”
Plebi fiunt grati.”
Ci troviamo, qui, dinanzi ad una tradizione leggendaria, che non si trova nel Vangelo, ma
si tratta di un contenuto leggendario che ha un rapporto stretto con la tradizione innologica.
Certamente, però, non ci sono soltanto elementi leggendari, ma ci sono elementi
storici (terzo punto), come lascia intuire la seguente sequenza, dedicata alla Corona di
Spine:
“Sertum, quod Byzantium “La corona che Bizanzio
Miserat Venetiae, aveva donata a Venezia,
Post argenti pretium ha ricevuto, dopo un prezzo d’argento,
Recipit rex Franciae.” il re della Francia.”
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 32
Prof. Renato De Zan.

Nel Medioevo, tale sequenza veniva normalmente cantata: essa è di profondo contenuto
teologico ed indica un certo percorso storico che questa Corona di spine ha compiuto da
Bisanzio alla Francia.
Non mancavano neppure delle intenzioni concrete, come il quarto punto lascia
intendere, secondo questa supplica sotto riportata che fa riferimento all’offerta dei
martiri Stefano e Lorenzo, in favore dell’unità della Chiesa. Non manca qui il
riferimento a questo forte desiderio di unità tra la Chiesa Orientale e quella
Occidentale, che richiama al Concilio di Firenze:
“Stephane et o Laurenti, “O Stefano, o Lorenzo,
Procuretis congaudenti gradite con gioia
Graecae et Romanae genti al popolo di Grecia e di Roma
Omni etiam viventi e ad ogni essere vivente
Unitatis vinculum.” il vincolo dell’unità.”

C’è anche da dire che negli Inni latini non mancano le reminiscenze della cultura classica
antica, ad esempio, quando si parla di Maria con delle immagini pagane (v. le allegorie, i
simbolismi, le rappresentazioni con animali e pietre). Ciò riguarda soprattutto gli Inni del
tardo Medioevo, nei quali sono presenti le allusioni o addirittura le citazioni, di inni
precedenti. Molti inni dipendono letteralmente da altri inni. Un esempio concreto è il Pange
Lingua gloriosi corporis mysterium di San Venanzio che riprende dal famoso Tantum ergo
sacramentum, composto probabilmente da San Tommaso d’Aquino.

0.2. Alcuni aspetti fondamentali della metrica


Prima di iniziare con il percorso storico, è bene fare una piccola introduzione negli
aspetti più importanti della metrica, tanto da essere resi capaci di un’analisi più puntuale
della struttura poetica formale di ogni inno. Il primo passo da compiere è il spiegare le due
maniere fondamentali di ottenere un ritmo nella lingua. La prima si chiama metrica, mentre
la seconda prende il nome di ritmica. In riferimento al principio metrico, nelle lingue
moderne si è abituati ad accentuare una parola mediante l’accento naturale. Nell’antichità
classica, soprattutto in quella greca e latina, si rispettavano non soltanto gli accenti naturali,
ma anche le sillabe. Non importa soltanto che una sillaba sia accentuata, ma soprattutto se
sia lunga o corta. Allora, quando una sillaba latina è lunga, ci sono tre regole:
1) la lunghezza più fondamentale di una sillaba latina è quella naturale (deriva dalla
natura stessa e propria della singola parola: es., amicus);
2) c’è anche una lunghezza di posizione ( riguarda le parole con vocale breve le quali
sono seguite da due o più consonanti come il termine “clemĕnter”. Dopo la vocale
“e” seguono le consonanti “n” e “t”).
3) Nella regola della lunghezza di posizione, c’è però un’eccezione: se nella
combinazione di una muta con una liquida si ha la coppia tra “b” [o “p”], “d” [o
“t”]; “g” [o “c”], come prima componente, e la “l” [o “r”], come seconda
componente, si ha la regola di una combinazione di una muta con liquida che
comporta una vocale breve o lunga).

Passiamo adesso al principio ritmico che è molto più semplice: esso semplicemente
non rispetta quello metrico, nel senso che se in quest’ultimo una sillaba corta non può
essere accentuata, invece, in quello ritmico è più importante. A tale riguardo, qui sotto,
è riportato un esempio, in merito alla differenza tra il principio metrico e quello
ritmico:
Adoro te devote latens Deitas Barnabae clarum colimus tropaeum,
quae sub his figuris vere latitas, quo micat celsus merita corona,
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 33
Prof. Renato De Zan.

tibi se cor meum totum subicit, multa pro Christi vehementer usque
quia te contemplans totum deficit. passus honore.

Il primo è stato composto, probabilmente, da San Tommaso d’Aquino: è un inno ritmico,


dove tutte le vocali accentuate naturalmente sono state sottolineate. Il secondo inno,
dedicato a Barnaba, è metrico: non rispetta l’accento naturale della parola, ma è osservata la
lunghezza di posizione, cioè la quantità delle sillabe (lunghezza di quantità). Ma, il mettere
l’accento sulle vocali lunghe, anche se non c’è, è un fatto estetico? E’ uno tra i problemi
principali dal momento che ogni autore, non ha sempre rispettato la metrica (v. il canto
gregoriano).
Sia nella maniera ritmica che in quella metrica si possono creare diversi piedi, composti
da un certo numero di sillabe, secondo questo piccolo schema di riferimento:
+ piedi: trocaico, (due sillabe: la 1a è accentata);
+ piedi: giambico (due sillabe; la 2a è accentata);
+ piedi: dattilo o dattilico (tre sillabe: la 1a porta l’accento, mentre le altre due no);
+ piedi: anapesto (tre sillabe di cui l’ultima è accentata);
+ piedi: spondeo (le due sillabe corte possono essere sostituite da una lunga, ma non
accentata) esso sostituisce il dattilo o l’anapesto;
Come per le sillabe si compongono i piedi, così per i piedi si compongono i metri: ma
qual è la differenza tra il piede e la sillaba. Un piede può essere formato da due o più sillabe.
Ciò, però, dipende dalla natura del piede. Ecco uno schema sintetico:
+ metri: 2 piedi 1 metro: trocheo, giambo, anapesto; 1 piede 1 metro: dattilo.
Il tipo di versetto non si determina dal numero dei piedi, ma dal numero dei metri. Così si
parla di monometro, dimetro, trimetro, tetrametro, pentametro, esametro (v. il dimetro
giambico, il dimetro trocaico). Ad es., due trochei fanno un metro, due giambi fanno un
metro, due anapesti fanno un metro, mentre un dattilo fa un metro. Se l’ultimo piede di un
versetto è incompleto, il versetto si chiama catalettico; se è completo si chiama acatalettico:
questa regola si riferisce ai piedi in quanto questi ultimi possono essere tre piedi ed uno
incompleto. Essa non si riferisce al metro. Per quanto riguarda l’esametro, esso è composto
da sei piedi dattilici, di cui l’ultimo è uno spondeo; invece il pentametro è composto da sei
piedi, ma il terzo ed il sesto sono tronchi. Il pentametro non si usa mai da solo, ma si trova
sempre con l’esametro (pentametro/esametro). La loro combinazione dà luogo al distico:
esso si differenzia dallo stico.
Naturalmente viene spontanea la domanda: lo stico è uno a se stante? Un esametro può
stare da solo? Si, ma non costituisce lo stico. In effetti, i distici sono composti da questi
versetti pentametrici ed esametrici, ma non tutti gli inni latini sono composti da distici. Per
rendere più chiaro il concetto, si può riportare il seguente esempio:

1° 2° 3° 4° 5° 6°
Salve festa dies toto venerabilis qevo ESAMETRO.
ˉ ˉ ˉ ˘ ˘ ˉˉ ˉ ˉ ˘ ˘ ˉ ˘ ˘ ˉ ˉ Si tratta di un distico.
qua deus infernum vicit et astra tenet. PENTAMETRO.
ˉ ˘˘ ˉ ˉ ˉ ˘ ˘ ˉ ˘ ˘ ˉ
1° 2° 3° 4° 5°
Da questo esempio si nota la differenza tra un versetto catalettico e un versetto
acatalettico, dal momento che il termine tenet indica un piede tronco, rispetto ad un piede
intero. Infernum è uno spondeo. Si tratta dell’inizio di un poema pasquale composto da
Venanzio Fortunato.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 34
Prof. Renato De Zan.

Andando avanti, non c’è solo l’esametro, ma per il nostro studio è anche importante il
dimetro giambico che è composto da due metri (quattro piedi giambici). Un esempio
concreto è Aetérne rérum cónditór. Il trimetro trocaico è composto da due metri (quattro
piedi trocaici). Un esempio è il famoso tantum ergo sacramentum. Quest’ultimo è ritmico,
non metrico.

Individuati i più importanti tipi di versetti, si può adesso presentare questo schema che si
sviluppa secondo questi punti:
a) la strofa ambrosiana (è la più antica nell’ambito degli inni latini: è composta da 4
versetti, talvolta ritmici. Il tipo è trimetro giambico);
b) la strofa saffica (risale dall’Antichità cristiana, anche se è posteriore a
Sant’Ambrogio: è composta da 4 versetti preferibilmente metrici ma anche, in forma
rara, si trovano in forma ritmica. Le prime tre righe hanno 11 sillabe con quattro
piedi: i primi due sono spondei, il terzo è un dattili ed il quarto è un spondeo o un
trocheo. L’ultimo versetto è più corto e si chiama adoneus. L’esempio sotto riportato
è un inno di Paolo Diacono dedicato a San Giovanni Battista);
c) la strofa della sequenza regolare (è nata nel XII secolo: ogni strofa è composta da tre
versetti rimati. A causa della rima, nel terzo versetto due strofe sono legate insieme. I
versetti sono, senza eccezione, ritmici, mentre la metrica non esiste più. Il metro è
sempre il trimetro trocaico, ma nel terzo versetto è catalettico. v. esempio
sottostante).
Di essi sono riportati qui sotto degli esempi concreti:
+ la strofa ambrosiana:
Aetérne rérum cónditór
noctém diémque quí regís
et témporúm das témporá
ut állevés fastidiúm.

+ la strofa saffica:
Ut queánt laxís resonáre fibris
míra géstorúm famuli tuórum
sólve pólluti labií reátum,
sáncte Ioánnes.

+ la strofa della sequenza regolare:


Stábat máter dólorósa
iúxta crúcem lácrimósa
dúm pendébat filiús.
Cúius ánimám geméntem
cóntristàtam ét fervéntem
pértransívit gládiús.

0.3. Le epoche generali.


Ecco un schema sintetico, secondo i seguenti punti:
* la prima epoca: predominio dell’hymnus.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 35
Prof. Renato De Zan.

* la seconda epoca: predominio della sequenza.


* la terza epoca: predominio della poesia popolare e soggettiva.

Tale suddivisione è stata fatta per una orientazione metodologica. Circa la prima epoca,
essa è caratterizzata dal predominio dell’hymnus, cioè dell’inno in senso più stretto: si tratta
di una poesia scritta ed usata per la Liturgia. Essa è organizzata in strofe, di cui i versetti, in
un primo momento, erano soltanto metrici e successivamente sono divenuti ritmici.
Quest’epoca comprende l’Antichità tardiva, della quale i nomi più importanti sono
Ambrogio, Prudenzio, Sedulio. Quest’epoca comprende anche il primo Medioevo, cioè la
Gallia pre-carolingia, dove Venanzio Fortunato è uno dei primi autori.
La seconda epoca è caratterizzata da un predominio della sequenza con tutte le sue
diverse forme poetiche, ad essa vicine. La prima forma della sequenza si chiama sequenza
irregolare: fiorì soprattutto nella tradizione di San Gallo, nell’XI secolo e poi nel
rinnovamento monastico all’inizio del secondo millennio (v. il monastero di Cluny).
Nel XII e nel XIII secolo ci sarà anche la diffusione della sequenza regolare, promossa
soprattutto dai Padri agostiniani e dalle scuole cattedrali.
Una terza epoca si situa nel tardo Medioevo ed è caratterizzata dal predominio del canto
popolare e non liturgico. Comincia con lo sviluppo della pietà popolare del XIII secolo (v.
gli Ordini Mendicanti: Francescani e Domenicani) e raggiungerà il suo culmine nel XIV
secolo (v. la pietà privata). Nel XV secolo la tradizione innologica medioevale subì una
decadenza sino all’inizio del Rinascimento e dell’Umanesimo.

COSTRUZIONE DELL’APPARATO CRITICO


Quando si fa un apparato biblico bisogna ricordare un po’ di storia: le primissime
edizioni critiche, curate da A. Dold, avevano un apparato critico parallelo al testo. Da una
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 36
Prof. Renato De Zan.

parte c’èra il testo originale, mentre accanto vi erano il testo di critica testuale. Oggi, questo
modello è proibito. Qui sotto è riportato un breve esempio:

In questo apparato si possono notare delle cose che nella critica testuale liturgica non
sono più accettate:
- le abbreviazioni alla linea 18 della formula 31/1 e alla linea 2 della formula 36/2
vanno sciolte (qs dne = quaesumus, domine; dn = domine);
- il giro foglio che viene indicato dopo la linea 21 della formula 36/1 e poco prima
della linea 1 della formula 36/2 oggi verrebbe scritta fra parentesi quadra [];
Dunque, non si fanno più edizioni con apparato critico a fianco, ma si fanno tutte
edizioni con l’apparato critico sotto il testo.
In merito al vocabolario non si può usare l’espressione equivoca “Textus receptus”
perché il problema nasce con Erasmo da Rotterdam il quale aveva pubblicato alcuni
manoscritti greci per pubblicare l’edizione critica del Nuovo Testamento. Ma questi
manoscritti non erano sufficienti: dove il testo greco non c’era nei manoscritti, lui lo
inventava prendendo la Vulgata e facendo la retroversione in Greco. Allora, il testo uscito
dalle mani di Erasmo da Rotterdam, rimase un punto di riferimento principale, per gli studi
biblici, sino alla metà del 1800: il testo greco veniva chiamato “Textus receptus”.
Oggi, i biblisti chiamano “Textus receptus” quel testo che si avvicina al probabile
archetipo. In Liturgia, l’archetipo non c’è. Dunque, è meglio evitare di chiamare un testo
liturgico “textus receptus”. Nella conversazione si può usare tale espressione perché con
essa si ritiene che quel testo è prossimo all’archetipo, cioè lo si stima come testo originale.
Poiché in Liturgia non c’è alcuna pretesa di stabilire un archetipo non si può mai
propriamente parlare di “textus receptus”. Chi usa questa espressione, lo fa per analogia e
non in modo tecnico.
Come si fa la preparazione di un apparato critico: riprendendo il discorso sulla fase
codicologica, bisogna ribadire che ad ogni formula bisogna dare un numero. Quando si
riproduce il manoscritto in alfabeto tipografico, non si deve mai alterare il manoscritto
stesso. Se di per sé il manoscritto porta con se degli errori, bisogna rispettarlo così come è,
tanto che la prima trascrizione deve essere quella che si trova nel manoscritto, ad eccezione
delle abbreviazioni e delle legature. I segni diacritici non sono importanti perché nei
manoscritti alto medioevali, molto spesso, servivano per il canto. Nell’ambito della critica
testuale, tale argomento ha poca rilevanza; semmai rimane importante la paleografia del
testo. Una volta che il testo è stato stabilito e viene criticato, perché si è deciso di ritenerlo
in modo definitivo, in esso non bisogna mettere nulla, tranne alcuni segni, come si può
vedere da questo breve esempio:
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 37
Prof. Renato De Zan.

Un altro esempio lo si può trarre dal fac-simile della benedictio fontis del
Sacramentarium Tridentinum (v. F. DELL’ORO (ed.), Monumenta liturgica ecclesiae
tridentinae speculo XII antiquiora, vol. II/A, Trento 1985, pp. 172-173):
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 38
Prof. Renato De Zan.

Il primo dato che si rileva è la netta separazione tra textus receptus e apparato critico.

 Nel textus receptus vanno collocati:


- il testo della formula che l’editore ritiene corretta;
- il numero di classificazione della formula;
- il numero delle righe della formula;
- il segno del giro-foglio;
- le glosse marginali o interlineari;
- le pittografie;
- le aplografie.

 Nell’apparato critico vanno collocati almeno due registri, quello della Critica testuale e
quello delle citazioni del formulario in esame presente in altri manoscritti editi o non editi.
Nel registro dell’apparato critico vanno indicati essenzialmente:
- il numero della formula;
- la sigla dei manoscritti di collocazione in cui si trova la formula;
- il numero di riga o Komma (o stico);
- la scelta di lettura compiuta dall’editore;
- le varianti negli altri manoscritti di collocazione;
- le sigle dell’elaborazione critica;
- le barre di separazione.
Nel registro delle citazioni del formulario in esame presente in altri manoscritti non di
collazione vanno indicati:
- le sigle dei manoscritti (editi o non editi);
- il numero della formula con cui il testo uguale o simile a quello in esame è
stato identificato in quel manoscritto, la cui sigla precede la cifra.

In merito ai segni particolari dell’edizione liturgica, il testo della formula che l’editore
ritiene corretta è il punto di arrivo di tutta la fatica del critico del testo. Ora si possono
osservare alcune caratteristiche:
1. il testo può essere scritto in modo continuo per tutta la larghezza dello specchio di
scrittura della pergamena;
2. il testo può essere suddiviso in stichi o Kommata;
3. se viene scritto in modo continuo potrebbe riportare il segno dell’ “a capo”, cioè “|”,
dove l’amanuense è andato “a capo” nel manoscritto (ad es., v. il Sacramentario
Veronese);
4. il numero di classificazione della formula si colloca all’inizio della formula sul
margine esterno della pagina. Qualora ci sia una formula lunga, come nel caso della
Benedictio fontis, il numero della formula si ripete ad ogni capoverso significativo con
lettere minuscole progressive dell’alfabeto latino. Il numero della formula va stampato
in grassetto;
5. alle volte si possono trovare non solo le numerazioni identificative sul margine
destro, ma anche delle numerazioni aggiuntive sul margine sinistro. Tale
numerazione, normalmente preceduta dal segno “=” indica lo stesso testo presente con
questo secondo numero in un altro Sacramentario di collazione;
6. il numero delle righe della formula vanno posti, normalmente, nel margine interno
della pagina. Ogni riga, ogni Komma o stico, vanno considerati con il valore di un
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 39
Prof. Renato De Zan.

numero. I numeri si stampano in un carattere tondo piccolo collocando la cifra ogni tre
righe (ad es., 3, 6, 9, 12, ecc.);
7. all’interno del textus receptus va collocato il segno del giro-foglio esattamente nel
punto dove il foglio del manoscritto viene girato. Il lettore, pur non avendo davanti il
manoscritto, deve essere in grado di sapere dove esattamente si trova il singolo testo
che sta esaminando. Il cambiamento del foglio si scrive lungo il textus receptus
esattamente lì dove si gira, anche se ciò comporta l’interruzione di un vocabolo. Ad
esempio, alla linea 12 la parola innovandis viene spezzata in due: inno- [f. 62v] vandalis.
Il giro-foglio è composto da questi elementi: le parentesi quadrate “[]”, la “f.” puntata
che sta per folium, il numero del foglio così come risulta dall’esame codicologico. Segue
la sigla del “r” (= recto) o del v (= verso). Nell’edizione bisogna sempre mettere il
cambiamento di foglio. Nell’esempio sopra riportato, la “[f. 62v]” indica che il testo
successivo a questo segno si trova nel lato “verso” del foglio 62. Invece, alla linea 24 del
medesimo esempio si trova la “[f. 63r]” che indica che il testo successivo si trova nel
lato “recto” del foglio 63.
8. le glosse marginali o interlineari che sono parte integrante del testo eucologico
vanno inserite nel textus receptus attraverso le barrette quadrate non complete “┌ ┐”.
Nel nostro caso sopra la linea 27 il segno “ ┌ + ┐”: la crocetta si trovava scritta o tra una
linea e un’altra di scrittura o nel margine. L’editore l’ha inserita in modo corretto nel
textus receptus.
9. le dittografie (che sono lettere, sillabe o vocaboli o testi superflui perché ripetuti
erroneamente dall’amanuense) vanno inserite nel textus receptus attraverso l’uso
delle parentesi quadrate “[]”6.
10. le aplografie sono, invece, lettere, sillabe, vocaboli o testi omessi erroneamente
dell’amanuense. Vanno aggiunti dall’editore all’interno del textus receptus attraverso le
parentesi acute7.
Per quanto riguarda l’apparato critico vero e proprio, si può notare come a piè di pagina
venga ripetuto il numero della formula di cui si intende ora presentare il risultato della
critica testuale fatta su di essa. Il numero della formula nell’apparato critico è essenziale.
Inoltre si può notare:
1. accanto alla formula si possono collocare le sigle dei manoscritti di collazione in
cui si trova la formula. Queste sigle sono state scelte dall’editore perché
rappresentano i testi che ha studiato e conosciuto. Lo scopo è quello di
raggiungere con sicurezza la lezione scelta per il textus receptus;
2. il primo elemento con cui si inizia a formulare il vero e proprio apparato critico
è il numero della linea o riga o dello stico o del komma del textus receptus, dove
l’editore, consultando i manoscritti di collazione ha riscontrato delle varianti-errori
o delle varianti-correzioni. Il numero generalmente si colloca leggermente in
esponente rispetto alla riga dell’apparato;
3. subito dopo il numero di linea si colloca il vocabolo del textus receptus che è stato
scelto dall’editore come migliore lettura, ma che negli altri manoscritti di
collazione non è presente. Tale vocabolo o espressione è separato dalle varianti
presenti negli altri manoscritti da una sola parentesi quadrata “]”;
4. le varianti negli altri manoscritti di collazione vanno collocati dopo la parentesi
quadrata chiusa “]”, accompagnate dalla sigla dei relativi manoscritti di
collazione. La sigla dei manoscritti di collazione viene normalmente messa in
corsivo o italico;

6
Nel 372 del Sacramentarium Udalricianum l’amanuense ripete l’indicazione Ad completorium. Per questo
motivo nell’edizione si ha [Ad completorium].
7
Nel 841 del Sacramentarium Udalricianum l’amanuense omette «Infirmitatem nostram respice, omnipotens
deus». Per questo motivo nell’edizione si ha <Infirmitatem nostram respice, omnipotens deus,>.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 40
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5. le sigle dell’elaborazione critica sono semplici. Vanno sempre scritte in carattere


italico o corsivo8. Ogni altro commento dell’editore circa le scelte del testo va fatto
sempre in carattere italico o corsivo, preferibilmente in latino.
6. la barretta semplice “|”, indica la conclusione di un problema di critica testuale
di una medesima linea (stico o Komma). La barretta doppia “||”, separa i problemi
di critica testuale della linea (stico o Komma) precedente rispetto a quelli della linea
(stico o Komma) successiva;
7. nel secondo registro vanno collocati i riferimenti (sigle di manoscritti editi e non
editi più il numero di formula) in cui la formula in esame ricorre in maniera
uguale o simile in altri manoscritti che non sono di collazione;
8. ci potrebbe essere anche il terzo registro che contiene le eventuali citazioni o
allusioni bibliche.
Queste caratteristiche generali appena viste sono delle regole che possono essere
accompagnate dalle varianti decise dall’editore in funzione di una lettura migliore del
proprio lavoro. Questa fluttuanza, però, non deve andare oltre i limiti. In tal senso ci sono
apparati critici da non imitare, come quello qui sotto riportato, il cui principale difetto
consiste nell’aver “sporcato” il textus receptus di elementi non pertinenti (ad. Esempio il
numero delle note per l’apparato critico):

In questo apparato critico mancano: 1) il numero della formula; 2) il numero delle righe.
Inoltre, il textus receptus è appesantito dai numeri che richiamano le considerazioni fatte
nell’apparato critico ed il segno “=”, dopo il segno “]” è inutile.

8
Queste sigle sono le seguenti:
add. = aggiunta; p. m. = prima mano;
eras. = eraso; ras. = rasatura;
marg. = marginale; s.m. = seconda mano;
om. = omissione; transp. = trasposizione;
ecc. ecc.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 41
Prof. Renato De Zan.

ESERCIZIO SULL’APPARATO CRITICO


Ci sono quattro manoscritti: “A”, “B”, “C” e “D”. Il primo obiettivo è quello di
raccogliere le diverse varianti, stico per stico, dopo di che si dovrebbe essere in grado di
costruire lo stemma. Un ultimo passo è rappresentato dall’apparato critico che avviene nel
confrontare questi quattro Codici Manoscritti:
Manoscritto A
Erige, quaesumus, Domine, potentiam tuam, et veni,
ut, a presentibus peccatorum nostrorum periculis,
te mereamur proteggente eripi,
te liberante salvari.
Qui vivis et regnas.

Manoscritto B
Excita, quaesumus, Domine, potentiam tuam, veni et adiuva nos
ut, ab imminentibus peccatorum nostrorum periculis,
te mereamur proteggente eripi,
te liberante salvari mereamur.
Qui vivis et regnas.

Manoscritto C
Excita, quaesumus, Domine, potentiam tuam, et veni,
ut, ab imminentibus peccatorum nostrorum periculis,
te mereamur proteggente eripi,
te liberante salvari.
Qui vivis et regnas.

Manoscritto D
Erige, quaesumus, Domine, potentiam tuam, et veni,
ut, ab presentibus peccatorum nostroruni periculis,
te mereamur proteggente a demonio eripi,
te liberante salvari.
Qui vivis et regnas.

Come primo passo, si può costruire una tabella di riferimento, mediante la quale stabilire
in verticale il numero degli stichi ed in orizzontale i relativi manoscritti, con lo scopo di
rilevare le diverse varianti, secondo quanto segue:
STICHI/MAN. “A” “B” “C” “D”
1 Erige Excita Excita Erige
et veni veni et adiuva nos et veni et veni
2 a presentibus ab imminentibus ab imminentibus ab presentibus
3 eripi eripi eripi a demonio eripi
4 salvari salvari mereamur salvari salvari
5 - - - -
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Prof. Renato De Zan.

Come si può notare, il quinto stico dei quattro manoscritti non riporta alcuna variante,
mentre per quanto riguarda gli altri stichi, ci sono delle varianti significative che sono di
guida per la costruzione dello Stemma dei Codici manoscritti.
Un primo elemento che si può rilevare è che tutti i quattro i manoscritti hanno un errore
in comune: “proteggente” che in latino si scrive con una “g”, cioè “protegente”. Ciò
significa che questi quattro manoscritti hanno un manoscritto prototipo in comune che si
può denominare con “a”.
Un secondo elemento lo si può ricavare dal fatto che il manoscritto “B” appare più
sviluppato rispetto agli altri manoscritti. Questo può voler dire che ”B” potrebbe essere
considerato come una linea di copiatura autonoma, oppure è l’ultimo manoscritto dello
Stemma. Nel nostro caso, è più facile ammettere che si tratti dell’ultimo manoscritto dello
Stemma perché sono evidenti delle aggiunte9 che non hanno riscontro negli altri manoscritti.
Un terzo elemento lo si evince dal manoscritto “D”: in esso al secondo stico o Komma,
si trova un errore compiuto dall’amanuense. Si tratta dell’espressione latina “ab
presentibus”: dal momento che “presentibus” inizia con una consonante, non può essere
preceduta da “ab”, ma può soltanto essere preceduta dalla preposizione “a”. In tal senso,
con ogni probabilità, anche se si rimane nel campo delle ipotesi, l’amanuense avendo in
mente l’espressione “ab imminentibus” abbia trasferito nel manoscritto “D” la medesima
costruzione, con la differenza che al posto di “imminentibus” si trova il termine
“presentibus”. Si può, dunque, trattare di un errore, oppure di una contaminazione operata
dall’amanuense nel tentativo di una correzione. Ma nel nostro caso, appare chiaro che si
tratta di un errore per la ragione sopra esposta.
Un quarto elemento lo si ha dal terzo stico di “D” che rispetto ai manoscritti “A”, “B” e
“C”, ha l’espressione “a demonio eripi”. Anche in questo caso, potrebbe trattarsi di
un’aggiunta ulteriore costituita dall’espressione “a demonio” che viene ad inserirsi tra
“protegente” e “eripi”.
Da questi elementi si può dedurre che:
- il manoscritto “B” risulta essere l’ultimo tra gli altri manoscritti (l’ipotesi che
si tratti di un manoscritto autonomo, rispetto ad “A”, “C” e “D” è meno
prossima). La ragione sta nel fatto che “B” risulta essere un progresso del
manoscritto “C”;
- il manoscritto “D”, oltre a contenere l’errore “ab presentibus”, che non è
presente in “A” contiene un’aggiunta costituita da “a demonio”. Da ciò si
evince che, rispetto ad “A” e “C”, è posteriore.

Da queste considerazioni si può costruire lo stemma di questi quattro manoscritti, la cui


origine è il manoscritto “a”, considerato come il probabile prototipo:

C A

D
B
In riferimento alla Critica testuale classica, “B” e “D” dovrebbero essere messi da parte
definitivamente, in merito al principio del “Codex Recentior”. In questo caso, si farebbe il
9
Rispetto agli altri manoscritti, B presenta “excita…veni et adiuva nos” e “salvari mereamur”, anziché
“Erige… et veni” (o “Excita… et veni”) e “salvari”.
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 43
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confronto soltanto tra “C” ed “A”. In realtà, in ambito liturgico, non si può compiere questa
operazione perché – in ogni caso – sia “B”, sia “D”, rappresentano dei nuovi testi.
Questo fatto spiega ulteriormente il perché nella Liturgia non si può parlare di edizioni
critiche, ma si può accennare soltanto a quelle semi-critiche. In effetti, in ambito liturgico, il
Codice “B”, come è già stato detto, appare in progresso rispetto ad “a” e rispetto ad “A” e
“C”. Un medesimo discorso lo si può fare con “D”, rispetto ad “A”, “B” e “C”. Rispetto a
“B”, però, il manoscritto “D” appare più antico perché ha soltanto un’aggiunta rispetto alle
due aggiunte di “B”.

Da queste conclusioni si può, ora, procedere alla costruzione dell’apparato critico,


secondo le regole sopra esposte. Per ragioni metodologiche è bene riportare il testo del
manoscritto “C” che è stato numerato con il “5”, mentre agli altri Codici sono stati
numerati con “1” (“A”), “3” (“B”) e “7” (“D”):
Manoscritto C5
Excita, quaesumus, Domine, potentiam tuam, et veni,
ut, ab imminentibus peccatorum nostrorum periculis,
3. te mereamur proteggente eripi,
te liberante salvari.
Qui vivis et regnas.

______________________________
1
5 Excita ] B3; Excita] Erige A1 D7 | et veni,] A1 D7; et om. B3; et adiuva nos add. B3 ||
2
ab imminentibus ] B3; ab imminentibus ] a presentibus A1; ab presentibus err. D7 ||
3
proteggente] err. A1 B3 D7 | a demonio add. D7; eripi ] A1 B3 D7 ||
4
salvari ] A1 B3 D7; mereamur add. B3 ||

N.B. L’abbreviazione “err.” sta per errore.

Se si prendesse come riferimento principale il manoscritto “B” numerato con il “3” e


riportando il testo corrispondente, si ha:
Manoscritto B3
Excita, quaesumus, Domine, potentiam tuam, veni et adiuva nos
ut, ab imminentibus peccatorum nostrorum periculis,
3. te mereamur proteggente eripi,
te liberante salvari mereamur.
Qui vivis et regnas.

_______________________________
1
3 Excita ] C5; Excita ] Erige A1 D7 | et add. A1 C5 D7; veni ] A1 C5 D7; et adiuva nos
om. A1 C5 D7 ||
2
ab imminentibus ] C5; ab imminentibus] a presentibus A1; ab presentibus err. D7 ||
3
proteggente] err. A1 C5 D7 | a demonio add. D7; eripi ] A1 C5 D7 ||
4
salvari ] A1 C5 D7; mereamur om. A1 C5 D7 ||

Esercizi Generali per la preparazione dell’Esame di Critica Testuale.


94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 44
Prof. Renato De Zan.

1° Esercizio.
Decifrare (fare l’analisi di questa formula codicologica) e descriverla, applicando la
regola di Gregory (definire se i “T” fanno parte del fascicolo originale o sono il risultato di
asporto), secondo quanto segue: p1c T p2c c3p | p4c | c5p | c6p p7c T.

Soluzione:

p1c (c)T(p) p2c c3p | p4c c5p | pTc c6p p7c T

r v

Da come si può vedere, i due talloni sono


stati asportati o rubati, in riferimento alla
regola di Gregory. Tra l’altro, un altro
tallone, non indicato in grassetto, indica che
da fascicoletto formato da c5p è stato
probabilmente tagliato in modo da non
essere notato, in corrispondenza del bordo
interno del foglio, in direzione della cucitura
del manoscritto.

2° Esercizio.
Decifrare ed esplicitare la seguente formula testuale, componendo uno schema
esemplificativo:
XIII R TP r1v r2v | TP r3v | r4v r5v | r6v r7v | TP r8v r9v R

Soluzione:

XIII R TP r1v r2v | TP r3v | r4v r5v | r6v r7v | TP r8v r9v R

Nella pagina seguente è riportato il disegno in tridimensionale:

TALLONI PERSI (TP)


94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 45
Prof. Renato De Zan.

RINFORZO (R)

3° Esercizio.
Disegnare la lineatura, secondo i seguenti dati:
44,5 + 255,5 + 100 x 66,6 + 333,4 (U.R.: 20,8375; 16) + 100.

Soluzione: N.B. “U.R” indica l’Unità di riga, dove 16 indica il numero delle linee di
scrittura.

66,6 mm.

333,4 mm.

20,8375

100 mm.

255,5 mm. 100 mm

44,5 cm (445 mm)

4° Esercizio.
Comporre la stemmatica secondo quattro manoscritti “A”, “B”, “C” e “D”. “A” ha gli
stessi errori congiuntivi di “B” e di “C”; “B” ha gli stessi errori congiuntivi di “C” e ne
ha diversi disgiuntivi da “A”; “C” ha gli stessi errori congiuntivi di “B” ed ha altri errori
propri, disgiuntivi da “A” e da “B”; “D” ha gli stessi errori congiuntivi di “A” e ne ha
diversi disgiuntivi da “B” e da “C”. Sapresti costruire un segmento stemmatico che indichi
graficamente i legami tra questi manoscritti?
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 46
Prof. Renato De Zan.

Soluzione:

B C

Come si può notare D non ha alcun legame con “B” e “C”, ma lo ha soltanto con “A”.
Invece, è evidente lo stretto legame tra “B” e “C” che hanno gli stessi errori congiuntivi,
anche se si distinguono per errori propri.

5° Esercizio.
Ricomponi in stichi o kommata, secondo le leggi del cursus, il seguente testo:
Respice, domine, quaesumus, nostram propicius servitutem, ut quod offerimus, sit tibi
manus acceptum, sit nostrae fragilitatis subsidium…

Soluzione:

Respice, domine, quaesumus, tardus.


nostram propicius servitutem, velox.
ut quod offerimus, tardus tardus.
sit tibi manus acceptum, planus.
sit nostrae fragilitatis subsidium… tardus.

6° Esercizio.
Leggere l’apparato critico e attraverso questo ricomponi il testo così come si presenta
nel codice Y, in riferimento alla fotocopia allegata.

Testo Originale:
Deus
qui regnis omnibus aeterno dominaris imperio
94012 – Critica Testuale – Introduzione generale: la segnatura, la numerazione e la codificazione. 47
Prof. Renato De Zan.

inclina ad preces humilitatis nostrae 3


aures misericordiae tuae,
et Romani regni adesto principibus;
ut tranquillitate clementes, 6
tua sint semper virtute rectores.

Soluzione:
Deus
qui regnis omnibus aeterno dominaris imperioi
Inclina ad preces humilitatis nostrae tibi supplicantium 3
aures misericordiae tuae,
et Romani regni adesto principibus;
ut tranquillitate clementer, 6
tua sint semper virtute rectores.

7° Esercizio.
Decifrare, ripristinare ed emendare il testo unico :
DEUSPATERNSRQUIMISISTIHSXPUMADSALVANDASANIMASNSRASDONAN
OBISSPMSCMUTQUODAUDIVIMUSDACIAMUSADMAJORESDEIGLORIAM.

Deus Pater Noster qui misisti(s) Hiesum Cristum ad Salvandas animas nostras, dona nobis
Spiritum Sancti ut quod audivimus faciamus ad majores Dei gloriam.

N.B. La s in parentesi () di misisti è da togliere perché costituisce un errore


grammaticale, mentre le lettere in corsivo sono state aggiunte perché mancanti nelle parole:
noster e nostras.

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