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Lo scetticismo immaginario.
Nove obiezioni agli scettici à la génoise
1 Cfr. H. L. A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals (1958), ora in
Id., Essays in Jurisprudence and Philosophy, Clarendon, Oxford, 1983, pp. 62-72; Id.,
The Concept of Law (1961), ed. by P. A. Bullock e J. Raz, Clarendon, Oxford, 1993, pp.
123-154.
2 Cfr. E. Diciotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Giappichelli,
Torino, 1999, pp. 81 (e n. 29) e 111.
In base a una seconda versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria che impiega ‘interpretazione’ in senso
latissimo, ‘scetticismo’ nel senso di teoria che impiega ‘interpretazione’ in senso
lato, ‘teoria mista’ nel senso di teoria che impiega ‘interpretazione’ in senso stretto:
dove ‘latissimo’, ‘lato’ e ‘stretto’ rinviano alla nota tripartizione di Jerzy
Wróblewski 7. Questa versione della distinzione – quasi irreperibile in Hart,
nonostante un recente tentativo di generalizzare usi di ‘interpretazione’ in senso
stretto affioranti in The Concept of Law (1961) 8 – viene in realtà impiegata, al più,
per distinguere fra scetticismo, che userebbe ‘interpretazione’ in senso lato, e teoria
mista e/o (neo)formalismo, che lo userebbe(ro) in senso stretto. Il difetto di questa
versione della distinzione, come ha mostrato Paolo Comanducci, è però che le due
(o tre) teorie così ridefinite non si contraddicono più, diventando anzi
perfettamente compatibili 9.
In base a una terza versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria per cui l’interprete scopre il
significato, ‘scetticismo’ nel senso di teoria per cui l’interprete crea il significato,
‘teoria mista’ nel senso di teoria per cui l’interprete talvolta scopre, talaltra crea
il significato. Questa versione della distinzione, spesso attribuita a Hart, non
compare in realtà né in Positivism and the Separation of Law and Morals (1958)
né in The Concept of Law; essa affiora piuttosto in American Jurisprudence
through English Eyes (1977) e, soprattutto, in Genaro Carrió 10. Impiegare
‘formalismo’, ‘scetticismo’ e ‘teoria mista’ nei sensi suddetti, d’altra parte,
sarebbe inopportuno, perché – come si vedrà anche sub 2.6. – l’interprete fa
sempre qualcosa di più che scoprire significati, e sempre qualcosa di meno che
crearli 11: sicché tutt’e tre le teorie, così formulate, suonano immediatamente
false, o piuttosto implausibili.
7 Cfr. ad esempio J. Wróblewski, The Judicial Application of Law, ed. by Z.
Bankowski e N. MacCormick, Kluwer, Dordrecht, 1992, pp. 87-88. Nella forma riportata
nel testo, a conoscenza di chi scrive, questa versione della distinzione si trova solo in M.
Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione storica, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 198.
8 Cfr. A. Marmor, Interpretation and Legal Theory, Clarendon, Oxford, 1992, pp.
124-154 e H. L. A. Hart, The Concept of Law, cit., p. 126.
9 Cfr. P. Comanducci, L’interpretazione delle norme giuridiche. La problematica
attuale, in M. Bessone (a cura di), Interpretazione e diritto giudiziale, vol. I., Regole,
metodi, modelli, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 9-10: che in effetti dichiara di aderire a una
posizione eclettica, già in questo distinguendosi da quello che vedremo essere lo scetticismo
à la génoise.
10 Cfr. H. L. A. Hart, American Jurisprudence through English Eyes: the Nightmare
and the Noble Dream (1977), ora in Id., Essays in Jurisprudence and Philosophy, cit., specie
p. 144 (dove l’autore si esprime nei termini dell’opposizione fra trovare, finding, e creare,
making, il diritto), nonché, e soprattutto, G. R. Carrió, Sobre la interpretación en el derecho
(1965), trad. it. Sull’interpretazione giuridica in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di),
L’analisi del ragionamento giuridico, Giappichelli, Torino, vol. II, 1989, specie p. 135.
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In base a una quarta versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono
determinati (hanno una e una sola soluzione), ‘scetticismo’ nel senso di teoria per
cui tutti i casi giudiziali sono indeterminati (hanno infinite soluzioni), ‘teoria
mista’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono sottodeterminati
(hanno una o più, ma non infinite soluzioni). Anche se Hart si esprime raramente
in termini di (in)determinatezza 12, questa quarta versione della distinzione, opera
di Lawrence Solum 13, potrebbe considerarsi una più plausibile riformulazione
della terza, se non presentasse problemi analoghi: non solo formalismo e
scetticismo appaiono immediatamente indifendibili, ma, proprio come sospettato
da Endicott, molti scettici sostengono in realtà varianti della teoria mista, sicché
‘scetticismo’ finisce per designare una classe vuota, se non una testa di turco.
In base a una quinta versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono
chiari o facili, ‘scetticismo’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono
oscuri o difficili, ‘teoria mista’ nel senso di teoria per cui alcuni casi giudiziali
sono chiari o facili, altri oscuri o difficili. Ora, questa è certamente la versione
della distinzione più facilmente reperibile in Hart 14, e fors’anche nel dibattito
successivo: anch’essa, però, rende problematica l’esistenza (del formalismo, e)
dello scetticismo interpretativo. Infatti, se la differenza fra scetticismo e teoria
mista viene fatta consistere nell’ammissione di casi chiari – alla maniera di
Diciotti, e come si vedrà diffusamente in questo lavoro (cfr. 2.7. e 2.8.) – allora
andrebbero considerati sostenitori della teoria mista anche tutti quei teorici
dell’interpretazione che, benché dichiaratamente scettici, ammettono comunque
l’esistenza di casi chiari.
Come si vede, le cinque versioni più diffuse della distinzione sollevano
tutte dei problemi: e problemi ancora ulteriori sollevano tutti quei tentativi di
riformularla in termini semiotici, o di teoria del significato, o di filosofia del
linguaggio, ai quali allude Luzzati e dei quali si fornirà un esempio sub 2.3.
L’analisi già compiuta, comunque, basta a ritenere non manifestamente
infondati i sospetti sull’esistenza dello scetticismo: sospetti abbastanza
inquietanti, non foss’altro perché portano a dubitare del senso di quarant’anni
di discussioni e di polemiche sull’interpretazione giuridica. Se la discussione,
dopo aver perso l’interlocutore formalista, perdesse anche l’interlocutore
scettico – riducendosi a un dibattito interno alla teoria mista circa le maggiori o
11 Cfr. paradigmaticamente R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard U.P.,
Cambridge (Mass.), 1985, p. 162: “interpretation is something different of both”.
12 Cfr. ad esempio H. L. A. Hart, The Concept of Law, cit., pp. 127 e 134.
13 Cfr. L. Solum, Indeterminacy, in D. Patterson (ed.), A Companion to Philosophy of
Law and Legal Theory, Blackwell, Oxford, 1996, p. 490: dove peraltro la distinzione è
formulata in modo lievemente diverso, e non viene espressamente presentata come
distinzione fra formalismo, scetticismo e teoria mista.
14 Cfr. H. L. A. Hart, The Concept of Law, cit., pp. 126-127.
5
completo”), Ross afferma infatti che “il riferimento semantico della parola
presenta, per così dire, una densa zona centrale in cui la sua applicazione è
prevalente e certa, e un nebuloso anello di incertezza in cui l’applicazione è
meno usuale, divenendo sempre più dubbio se la parola possa o no essere
usata” 27. Questo è solo un esempio del fatto che la distinzione fra enunciato e
significato può perfettamente convivere con l’idea di trama aperta, e comunque
non comporta necessariamente conseguenze scettiche.
Oggi, questa stessa distinzione è divenuta uno degli strumenti più comuni
della teoria analitica del diritto; Manuel Atienza e Juan Ruiz Manero, per fare un
solo esempio, hanno sostenuto un’intera teoria degli enunciati giuridici come
piezas del derecho 28: ma ciò non ha impedito alla teoria mista di diventare la
teoria dell’interpretazione maggioritaria fra gli analisti. È il caso di insistere,
allora, che di per sé – ovvero astraendo da tesi ulteriori – né la distinzione fra
enunciato e significato, né la tesi della non biunivocità della loro relazione,
costituiscono obiezioni alla teoria mista: si può sempre ritenere che nei casi
chiari la disposizione esprima una sola norma, mentre nei casi oscuri ne esprima
molte. Ciò conferisce qualche plausibilità alla prima obiezione qui avanzata: lo
strumentario concettuale dello scetticismo à la génoise, elaborato ai fini della
critica del formalismo, appare spuntato nei confronti della teoria mista.
In realtà, mentre la teoria mista sembra sfuggita alla critica di Tarello 29, ha
attirato spesso l’attenzione di Guastini: che peraltro solo nei lavori più antichi ha
formulato le proprie obiezioni nei termini della distinzione enunciato/significato.
Ciò avviene, almeno a conoscenza di chi scrive, solo in un lavoro del 1989 sulla
teoria dell’interpretazione di Genaro Carrió, poi ripreso in Dalle fonti alle norme
(1990); qui la teoria mista viene letta soprattutto in relazione al problema della
fondazione della scienza giuridica, e criticata per il fatto di esprimersi – non in
termini di enunciati da interpretare, bensì – in termini di norme precostituite
all’interpretazione. Stando così le cose, la conclusione di Guastini – “le
cosiddette “norme” non sono un possibile oggetto di conoscenza scientifica. La
scienza giuridica può solo consistere nella descrizione delle decisioni
interpretative e applicative dei giudici” 30 – non interessa in questa sede.
Di fatto, gli argomenti usati più spesso da Guastini contro la teoria mista sono
altri, ed essenzialmente due: in lavori più risalenti, l’argomento dell’indeter-
minatezza della stessa distinzione fra casi giudiziali chiari e oscuri; in un lavoro
recentissimo, l’argomento della distinzione fra interpretazione e applicazione.
Quanto all’indeterminatezza della distinzione fra casi giuridici chiari e oscuri,
l’argomento consiste nel constatare che in ultima istanza i giudici possono
sempre trasformare in oscuro un caso chiaro: ciò che induce Guastini a dubitare
dell’esistenza stessa di casi chiari 31. Torneremo più volte su questo argomento
(cfr. in particolare 2.8.); qui basti anticipare come la più recente versione “prag-
matica” della teoria mista ammetta che i casi chiari, essendo pragmaticamente
relativi (anche) all’interprete, possano diventare oscuri 32: ciò peraltro non esclude
affatto – come anche l’ultimo Guastini sembra ammettere (cfr. 2.5. e 2.6.) – che
possano darsi casi chiari.
Quanto alla distinzione fra interpretazione e applicazione, compiuta
ridefinendo ‘interpretazione’ come eliminazione dell’ambiguità degli enunciati,
‘applicazione’ come eliminazione della vaghezza dei significati 33, qui si
solleveranno solo tre dubbi. 1) La distinzione si basa su un’analogia –
l’applicazione presuppone l’interpretazione come l’eliminazione della vaghezza
presuppone l’eliminazione dell’ambiguità – che è peraltro insufficiente a
giustificare l’assimilazione, rispettivamente, dei due concetti che presuppongono
e dei due concetti che sono presupposti. 2) L’argomento oppone troppo
nettamente interpretazione e applicazione, come se la seconda non “retroagisse”
pesantemente sulla prima. 3) L’argomento sembrerebbe concedere la plausibilità
della teoria mista – come teoria dell’open texture, a sua volta assimilata alla
vaghezza – limitatamente all’applicazione giudiziale: come se proprio
quest’ultima non fosse l’oggetto tradizionale dello scetticismo interpretativo.
31 Cfr. R. Guastini, Genaro Carrió, cit., p. 156, e Id., Dalle fonti alle norme, cit., p.
80: “si può convenire agevolmente sull’idea della penombra in quanto teoria del
significato, ma di qui a sostenere che vi sono casi (“chiari”) nei quali i giudici non
esercitano alcuna discrezionalità interpretativa ci corre”. Il dubbio non ritorna nella
ulteriore riformulazione della stessa critica compiuta in Id., Le fonti del diritto e
l’interpretazione, cit., p. 339.
32 Cfr. M. Dascal, J. Wróblewski, Transparency and Doubt: Understanding and
Interpretation in Pragmatics and in Law, in “Law and Philosophy”, 7, 1988, pp. 203-224.
33 Nel capitolo intitolato “L’interpretazione dei testi normativi” di un manuale di
filosofia del diritto, provvisoriamente intitolato Il linguaggio del diritto, di prossima
pubblicazione per i tipi di Giappichelli, e di cui il sottoscritto deve la conoscenza alla
cortesia di Guastini.
11
39 R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., p. 86; si noti però che nel testo la tesi è
formulata in negativo, come critica dell’opinione contraria, e che il riferimento, in nota, alle
vecchie tesi di Glanville Williams in tema di definizione del diritto rivela il bersaglio di
questa critica: ancora e sempre, il formalismo interpretativo. Come vediamo sub 2.6.,
Guastini sembra prendere le distanze dalla tesi che le leggi “non hanno altro significato se
non quello che attribuiscono loro gli interpreti” in Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p. 103.
40 Cfr. R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., p. 32. Le norme giuridiche sono
assimilate alle leggi o prescrizioni, com’è noto, anche nella tipologia delle norme di G. H.
von Wright, Norm and Action (1963), trad. it. Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 37-54.
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non esiste un significato proprio delle parole: quel significato di cui parla, fra gli
altri, l’articolo 12 delle Preleggi al Codice civile italiano. Nel suo volume Le
fonti del diritto e l’interpretazione (1993), in particolare, Guastini scrive appunto
che il ricorso del legislatore all’espressione ‘significato proprio delle parole’
rinvia “a quella teoria del significato – al tempo stesso ingenua e fallace –
secondo cui ogni parola incorpora un significato intrinseco, che dipende dalla
sua stabile relazione col mondo (con la realtà extralinguistica), e non dai
mutevoli usi linguistici dei parlanti e degli interpreti: “nomina sunt consequentia
rerum”” 41.
Qui troviamo un’ulteriore critica del formalismo, assunto nella sua (meno
caritatevole) versione di realismo, o essenzialismo o naturalismo linguistico:
assunzione nient’affatto peregrina, se si ammette, come ha sostenuto pure il
sottoscritto, che le tre teorie dell’interpretazione – formalismo, scetticismo e
teoria mista – dipendono anche da tre diverse concezioni del linguaggio, che
potrebbero chiamarsi, rispettivamente, ‘naturalismo linguistico’ (in sostituzione
dei più ambigui ‘realismo’ o ‘essenzialismo’), convenzionalismo linguistico
estremo (o fors’anche contrattualismo linguistico) e convenzionalismo
linguistico moderato (o forse convenzionalismo linguistico senz’altra
qualificazione) 42. Prendersela di nuovo con il formalismo, come fa qui Guastini,
sembra peraltro poco interessante: almeno ove si accetti la prima obiezione
avanzata in questo lavoro, secondo cui lo scetticismo deve piuttosto fare i conti
con la teoria mista.
Consideriamo allora un’altra liquidazione della nozione di significato proprio
delle parole, compiuta da Tecla Mazzarese in un recente saggio sull’interpreta-
zione letterale: saggio che ha almeno il pregio di conferire alla nozione in
questione un qualche ruolo teorico. Proprio intorno alla nozione di significato
proprio delle parole, infatti, viene a ruotare la bipartizione fra due teorie
dell’interpretazione che Mazzarese sostituisce alla tripartizione tradizionale: la
bipartizione fra “concezione tradizionale dell’interpretazione”, che avrebbe “il
proprio fondamento nell’assunto linguistico secondo il quale le parole hanno un
significato proprio”, e “concezione non ortodossa dell’interpretazione”, la quale
“nega che le parole abbiano un significato proprio”, affermando al contrario che
“il significato di qualsiasi espressione (non importa quanto chiaro in apparenza)
è sempre il risultato di un processo interpretativo” 43.
Questa bipartizione permette poi a Mazzarese di demolire le varie teorie del-
l’interpretazione letterale, mostrando che quanto ne resta, eliminati tutti i non
41 R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., p. 393.
42 Sul punto si deve rinviare a M. Barberis, Seguire norme giuridiche, ovvero:
cos’avrà mai a che fare Wittgenstein con la teoria dell’interpretazione giuridica?,
relazione al IV Congresso della S.I.F.A. (Siena, 3-7 ottobre 2000).
43 T. Mazzarese, Interpretazione letterale; giuristi e linguisti a confronto, in V.
Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Giappichelli, Torino,
2000, pp. 122-123.
14
La maggior parte dei teorici analitici del diritto, in effetti, sostiene una semiotica
più o meno orientata al sistema, spesso di matrice wittgensteiniana, come quella
di Hart 56.
Per costoro, è ovvio che il significato non è fissato da ogni singolo parlante
o interprete ogni volta che parla o che interpreta – altrimenti, la comunicazione
linguistica potrebbe davvero considerarsi un miracolo – bensì solo dalla
comunità linguistica e nel corso del tempo. Secondo una spiegazione
rigorosamente conforme ai princìpi dell’individualismo metodologico, ogni
parlante concorre inintenzionalmente con tutti gli altri a formare regole e/o
convenzioni linguistiche: non si producono significati intenzionalmente,
almeno da soli. Questa teoria convenzionalistico-moderata del significato,
d’altra parte, non è vangelo; vi sono analisti statunitensi, da Willard Quine a
Donald Davidson, i quali rifiutano l’idea stessa che il linguaggio sia retto da
regole, opinando che queste pretese regole si risolvano in mere regolarità (non
normative) 57: che è poi proprio l’opinione di Guastini, solo più diffusamente
argomentata.
Se per gli scettici à la génoise semiotiche siffatte sono più adeguate all’a-
nalisi del discorso giuridico, non hanno che da dirlo: così esplicitando una teoria
del significato che altrimenti rischia di sottrarsi al controllo e alla critica. Né a
ciò si oppone la seconda ragione, più importante, da essi addotta: il fatto che
negli enunciati giuridici il significato linguistico coincida con il significato
giuridico solo nei – rari – casi chiari o isomorfici (cfr. 2.8.). Come già Fuller
aveva obbiettato a Hart alla fine degli anni Cinquanta 58, in effetti, è del tutto
plausibile che il giurista attribuisca agli enunciati giuridici significati anche assai
distanti dal significato strettamente linguistico: per citare l’ennesima variazione
sul tema del divieto d’ingresso di veicoli nel parco, si troverà sempre un giurista
disposto ad ammettere che, benché un’auto della polizia rientri indiscutibilmente
nel significato di ‘veicolo’, non si tratta affatto di veicolo ai fini giuridici
dell’applicazione del divieto 59.
La seconda ragione è solo apparentemente migliore della precedente, e
finisce per suonare anch’essa come un alibi: in effetti che (la teoria de) il
significato giuridico non possa ridursi a (la teoria de) il significato linguistico,
56 Sul punto si deve dissentire da C. Luzzati, L’interprete e il legislatore, cit., pp.
149-150, che considera orientata all’atto la semiotica wittgesteiniana, salvo ammettere che
essa è non puramente orientata all’atto.
57 Per una critica di queste posizioni, e in particolare per la tesi che le stesse
convenzioni linguistiche siano normative, cfr. ancora D. L. Lewis, Convention, cit., specie
pp. 97-100.
58 Cfr. L. Fuller, Positivism and Fidelity to Law. A Reply to Professor Hart, in
“Harvard Law Review”, 71, 1958, specie pp. 661-669.
59 L’esempio è desunto da F. Schauer, Rules and Rule-Following Argument, in D.
Patterson (ed.), Wittgenstein and Legal Theory, Westview Press, Boulder (Col.), 1992, pp.
226.
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71 Ciò non esclude che possano sorgere altri problemi relativi alla descrizione di
norme in genere, e alle proposizioni normative in specie: cfr. T. Mazzarese, Proposizione
normativa. Interrogativi epistemologici e semantici, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura
di), Analisi e diritto 1991, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 193-243.
72 Nei termini della nota “demarcazione” fra scienza e metafisica sostenuta sin dal
1955 in K. Popper, Conjectures and Refutations (1969), trad. it. Congetture e
confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 431-498.
22
73 Così R. Dworkin, Law’s Empire (1985) trad. it., L’impero del diritto, Il Saggiatore,
Milano, 1989, p. 215.
74 Cfr. G. Zaccaria, F. Viola, Diritto e interpretazione. Lineamenti di una teoria
ermeneutica del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1999, specie pp. 114, 260, 454.
75 P. Chiassoni, ¿Quién salvó a la Constitución?, cit., pp. 274-275.
76 R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., pp. 333-338, e Id., Teoria e
dogmatica delle fonti, cit., pp. 6-7.
77 Cfr. P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese”, cit., p. 41.
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dalla produzione di diritto compiuta dal legislatore, e anche dal giudice in sede di
integrazione. In Dalle fonti alle norme, ad esempio, Guastini negava l’esistenza
di norme implicite – in ossequio alla solita, rigidissima teoria della language-
dependance di norme (cfr. 2.2. in fine) – assumendo che esse siano “frutto di
produzione (o integrazione) del diritto. […] la distinzione fra disposizione e nor-
ma si presta anche a questo uso: tracciare una linea di demarcazione tra interpre-
tazione di documenti normativi e integrazione del diritto” 78. Se però “interpretare
è produrre una norma. Per definizione, le norme sono prodotte dagli interpreti”,
come pure Guastini sosteneva, tracciare tale linea di demarcazione diventa
problematico: sia ‘interpretazione’ sia ‘integrazione’, infatti, significano
creazione di norme.
Peraltro, come si è detto, Guastini ha poi riformulato la distinzione fra
interpretazione e integrazione in termini, rispettivamente, di decisione o
proposta e di vera e propria creazione di norme: ammettendo che l’integrazione è
“assimilabile più alla legislazione […] che all’interpretazione propriamente
detta”, e che quest’ultima non è creazione 79. In Teoria e dogmatica delle fonti, da
ultimo, Guastini riconosce che “altro è “produrre una norma” nel senso di
interpretare – cioè decidere il significato di – un testo normativo preesistente,
altro è “produrre una norma” nel senso di formulare un testo normativo ex novo”.
Pur considerando la distinzione meramente quantitativa, fra diversi gradi di
discrezionalità, Guastini ammette finalmente che è “di fatto impossibile per un
giudice attribuire a un testo – letteralmente – “qualsiasi significato”, a suo
piacimento” 80: dove va sottolineato il ‘di fatto’, coerente con l’idea che il
linguaggio sia retto da mere regolarità.
Nel suo ultimo contributo sistematico, dunque, Guastini ammette la
fondatezza della sesta obiezione – che può quindi rivolgersi solo ai suoi lavori
precedenti – e riconosce che la “creazione” del significato è in realtà una scelta
entro un novero di significati dati. Che i giudici creino diritto – come il legislatore
– è dunque solo una metafora pour épater les juristes (et les citoyens aussi): salvo
i casi di integrazione del diritto, infatti, la pretesa “creazione” si riduce alla scelta
fra un numero finito di opzioni. Tale conclusione potrebbe essere salutata con
sollievo: se non segnasse l’abbandono dello scetticismo, e l’accettazione della
teoria mista. Il punto, in effetti, è proprio questo: che rispetto a varie versioni della
distinzione fra (formalismo,) scetticismo e teoria mista, e in particolare rispetto
alla quarta versione – indeterminatezza vs. sottodeterminatezza (cfr. 1.) – la
posizione di Guastini (e di Chiassoni) comporta l’accettazione della teoria mista.
La cosa diventa più chiara, forse, considerando la sostanziale adesione di
Guastini (e di Chiassoni) alla teoria dell’interpretazione “ufficiale” di Kelsen:
78 R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., p. 33.
79 R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Giappichelli,
Torino, 1996, p. 171 (corsivo aggiunto: dunque, dopotutto vi è un significato proprio delle
parole).
80 R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p. 103.
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teoria per la quale il giudice sceglie la norma individuale entro la “cornice” dei
significati della norma generale (benché poi la norma individuale sia valida,
almeno sinché non annullata da un giudice superiore, anche se scelta al di fuori
di tale cornice) 81. Il sottoscritto, per la verità, ha sempre dubitato che possa
parlarsi di una teoria kelseniana dell’interpretazione, nel senso di attribuzione di
significato a testi: ciò che interessa a Kelsen, in realtà, è la produzione-
applicazione di diritto, e l’interpretazione gli interessa solo nella misura in cui
comporti produzione-applicazione. Ma ammettiamo che la tesi della cornice
comporti una teoria dell’interpretazione: orbene, questa sarebbe una teoria (non
dell’indeterminatezza, ma) della sottodeterminatezza dell’interpretazione, come
tale ascrivibile alla teoria mista.
Come Guastini teorizza in Distinguendo (1996), recuperando chiaramente la
teoria kelseniana della cornice, potrebbero in effetti darsi due tipi di decisioni
interpretative: le prime operate entro la cornice, le seconde fuori. Nel primo caso
(decisioni entro la cornice), l’interprete si limita effettivamente a scegliere fra i
significati attribuibili all’enunciato: e attribuibili all’enunciato, si potrebbe
aggiungere, in base alle regole linguistiche e/o interpretative comunemente accettate
dagli interpreti. Nel secondo caso (decisioni fuori dalla cornice) l’interprete non
sceglie ma crea il significato da attribuire all’enunciato: ciò che – salvo si versi in
un caso d’integrazione di lacune – equivale a ignorare o violare, si potrebbe pure
aggiungere, le regole di cui sopra. Orbene, non solo Guastini ammette che nel primo
caso l’interprete si limita a scegliere, e non a creare, ma giunge a dubitare che nel
secondo caso – il caso della creazione – si possa ancora parlare propriamente di
interpretazione 82.
In realtà, vi è almeno un aspetto della teoria della cornice, e della stessa
posizione di Guastini (e Chiassoni), che potrebbe ancora considerarsi scettico:
benché una cornice vi sia – ciò che, a parere del sottoscritto, presuppone regole
linguistiche o interpretative che la fissino – il giudice può sempre ignorarla, e
produrre norme almeno provvisoriamente valide anche al di fuori di essa. Come
vedremo specificamente sub 2.8., discutendo una tesi analoga di Chiassoni, tutta
la questione è relativa al senso di quel ‘può’; ma qui si deve senz’altro
ammettere che questo aspetto della teoria della cornice getta più di un’ombra
sull’accettazione della teoria mista da parte degli scettici à la génoise. In
particolare, l’adesione di Guastini e Chiassoni alla teoria mista appare dubbia
almeno rispetto a una delle versioni della distinzione fra (formalismo,)
81 Il riferimento è a H. Kelsen, Reine Rechtslehre (1960), trad. it., Dottrina pura del
diritto, Einaudi, Torino, 1966, pp. 386-388: il quale da un lato ammette che il giudice
debba scegliere entro una cornice di significati, salvo osservare che di fatto nulla gli
impedisce di scegliere al di fuori della cornice, e quindi di “creare” in senso proprio.
82 Cfr. R. Guastini, Distinguendo, cit., p. 70, in particolare l’inciso “ammesso che sia
ancora il caso di usare il vocabolo ‘interpretazione’ in questo contesto” (il contesto, cioè
della creazione di nuovi significati).
25
2.7. Obiezione dell’ammissione dei casi chiari, e della negazione della loro
rilevanza
biezione già considerata riguarda l’indifferenza per la teoria del significato: l’e-
sistenza di casi chiari o paradigmatici, come vedremo ancora fra poco, è infatti
un autentico postulato della teoria del significato che da Hart rimonta a
Wittgenstein 86, e ignorare questo suo ruolo si giustifica, se si giustifica, solo in
quanto una teoria del significato linguistico non è ancora una teoria del
significato giuridico (cfr. 2.4.). Un’altra obiezione potrebbe consistere nel
rilevare il carattere controintuitivo dell’affermazione che il giudice decide o
sceglie anche quando, in realtà, non potrebbe o dovrebbe far altro che accettare,
adottare o aderire a l’unico significato ammissibile: ma che questa affermazione
possa essere accettabile, e comunque dipenda dal modello “genovese”
dell’interpretazione, lo si vedrà sub 2.8.
L’obiezione (la settima) mossa in questa sede, invece, si limita a osservare
che Guastini, da un lato, ammette troppo facilmente l’esistenza di casi chiari,
dall’altro sottovaluta la rilevanza di tale concessione per l’esistenza dello
scetticismo à la génoise. Cominciando dalla troppo facile concessione
dell’esistenza di casi chiari, va detto che in almeno un senso si può davvero dire
che tutti i casi siano oscuri: nel senso, cioè, di potenzialmente oscuri; come
afferma una tesi che potrebbe chiamarsi dell’oscurità potenziale del diritto,
infatti, testi giuridici chiarissimi possono sempre diventare oscuri nella loro
applicazione al caso concreto. Per questa tesi militano almeno tre argomenti: 1)
l’argomento della open texture (nel senso originario di vaghezza potenziale); 2)
l’argomento della dissociazione, come lo ha chiamato lo stesso Guastini; 3)
l’argomento della defettibilità (defeasibility), oggi largamente discusso specie fra
i teorici di lingua castigliana.
Per l’argomento della open texture, anzitutto, qualsiasi concetto non
attualmente vago può sempre diventarlo rispetto a qualche caso particolare di
applicazione 87: dunque, e a maggior ragione, anche un concetto giuridico
nient’affatto vago può sempre diventarlo in qualche caso d’applicazione
imprevedibile a priori. Per l’argomento della dissociazione, poi, è sempre possibile
per il giurista creare lacune (assiologiche) sostenendo che il legislatore non ha
considerato proprietà del caso che avrebbe invece dovuto considerare: sicché il
giudice, in particolare, può sempre aggirare la prescrizione della norma 88. Per
l’argomento della defeasibility, infine, (tutte) le norme giuridiche (e non solo i
86 Sul punto, insiste tutto il neo-hartismo contemporaneo: cfr. in particolare B. Bix,
Law, Language and Legal Determinacy, Clarendon, Oxford, 1993, e A. Marmor,
Interpretation and Legal Theory, cit., nonché ancora M. Barberis, Seguire norme
giuridiche, cit.
87 Cfr. F. Waissman, Verificability (1945), trad. it. in Id., Analisi linguistica e
filosofia, Ubaldini, Roma, 1970, pp. 77-43. Fra i teorici del diritto che hanno conservato
l’accezione originaria di ‘open texture’, bisogna ricordare almeno Carlos Nino: cfr. Id.,
Introducción al análisis del derecho (1973-1975; 1980), trad. it. Introduzione all’analisi
del diritto, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 235-237 e Id., Derecho, moral y política,
(1994), trad. it. Diritto come morale applicata, Giuffrè, Milano, 1999, p. 78.
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quelli isomorfici, si da, e non può non darsi, interpretazione in tutt’e tre i sensi:
anzitutto, l’enunciato va riconosciuto come oggetto culturale (interpretazione in
senso latissimo o ermeneutica); poi, l’enunciato va compreso in base a regole
linguistiche (interpretazione in senso lato, o semantica); infine, l’enunciato va
interpretato in base a regole interpretative specificamente giuridiche
(interpretazione in senso stretto, o giuridica), attribuendogli un significato
giuridico che solo nel caso isomorfico deve necessariamente coincidere, per
definizione, con il significato linguistico.
Torniamo all’esempio dell’applicazione del divieto d’ingresso di veicoli a
un’auto della polizia (cfr. 2.4.): per applicare tale divieto occorre interpretarlo
(attribuire un significato all’enunciato che lo esprime) in tutti e tre i significati di
‘interpretazione’ di Wróblewski. Anzitutto, occorre interpretare la formulazione
del divieto come oggetto culturale, e non come insieme di grafi senza senso; poi,
occorre interpretarlo in base alle regole o convenzioni linguistiche dell’italiano,
per le quali ‘veicolo’ si estende pacificamente alle automobili e anche alle auto
della polizia; infine, occorre interpretarlo in base alle regole interpretative
specificamente giuridiche, per le quali, se scopo del divieto è escludere dal parco
solo i veicoli che ne turbano la quiete – e quindi senza dubbio le automobili
private (caso isomorfico) – allora l’auto della polizia non deve considerarsi un
veicolo, beninteso ai fini giuridici dell’applicazione del divieto.
La tesi di Guastini e Chiassoni è dunque accettabile nel senso che anche in un
caso isomorfico si dà pur sempre un atto di decisione (Guastini), o di nomotesi
(Chiassoni) o di interpretazione giuridica (Comanducci); in particolare, anche in
un caso isomorfico – come, nell’esempio appena addotto, il caso dell’automobile
privata – l’interprete compirà sempre qualcosa di più che un semplice atto di
scoperta. Per stabilire l’isomorficità del caso, infatti, l’interprete dovrà sempre
consultare sia le regole linguistiche sia le regole interpretative giuridiche: e la
soluzione conforme ad entrambe, anche in un caso d’isomorfia, non potrà mai
dirsi semplicemente vera (corrispondente a qualche realtà), ma al massimo
corretta (conforme a regole). Il punto su cui verte l’ottava obiezione, peraltro, è
che gli scettici à la génoise sembrano respingere la possibilità di parlare, oltreché
di un’interpretazione vera, anche solo di un’interpretazione corretta.
Come mostra una recente discussione fra Chiassoni e José Juan Moreso,
persino di fronte a un caso isomorfico, che per definizione ha un’unica
soluzione, gli scettici à la génoise rifiutano di qualificare scorrette soluzioni
diverse: così tornando a revocare in dubbio l’esistenza di casi chiari, e
compiendo quello che può considerarsi un estremo tentativo di sottrarre lo
scetticismo à la génoise all’abbraccio mortale della teoria mista. Moreso,
autorevole esponente del neo-hartismo, aveva criticato lo scetticismo
interpretativo, nel suo libro La indeterminación del derecho y la interpretación
de la constitución (1997), producendo appunto un esempio di caso isomorfico:
una decisione del Tribunal Constitucional spagnolo in tema di delitto flagrante,
nella quale la Corte, di fronte alla convergenza dell’intera dottrina sul significato
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descriversi – se non come vera e falsa, almeno – come corretta o scorretta, nel
modello “genovese” vi è spazio solo per la registrazione delle scelte
dell’interprete, distinguibili esclusivamente come più o meno “conformistiche” o
“anticonformistiche” (cfr. 2.5.). Per gli scettici à la génoise, insomma, un caso
isomorfico va descritto come un caso non isomorfico: anche per questo
l’esistenza del primo può essere ammessa a cuor leggero.
Il punto è abbastanza sottile, nonché decisivo per l’autonomia dello scetticismo
à la génoise dalla teoria mista, da indurre a chiedersi in che senso, per Chiassoni e
più in generale per gli scettici à la génoise, l’interprete può sempre decidere
altrimenti: tesi già emersa considerando l’accettazione “genovese” della teoria
della cornice (cfr. 2.6.). Per lo scetticismo à la génoise, proprio come per Kelsen,
la scelta interpretativa avviene di regola entro un novero di significati dati, ma può
anche avvenire al di fuori di essi; in un caso isomorfico, in particolare, la scelta
interpretativa dovrebbe sì restringersi a un unico significato, ma potrebbe poi
allargarsi a significati diversi. Orbene, si può ipotizzare che per gli scettici à la
génoise l’interprete possa sempre scegliere altrimenti, anche in un caso isomorfico,
in un senso del verbo ‘potere’ che oscilla fra i tre seguenti: un senso meramente
descrittivo, un senso meramente prescrittivo, oppure un senso descrittivo di
prescrizioni.
Nel primo senso di ‘potere’, meramente descrittivo, l’interprete può sempre
attribuire a un enunciato un significato diverso dall’unico ammissibile, visto che
niente e nessuno lo costringe fisicamente. In questo senso, peraltro, la tesi “ge-
novese” diviene tanto ovvia quanto irrilevante: certo che l’interprete può sempre
interpretare a suo libito, ma ciò rileva per la teoria dell’interpretazione solo a
condizione di ammettere, con Guastini, che non esistano regole, ma solo
regolarità linguistiche (cfr. 2.3.); ammesso questo, tutto ciò che resterebbe da
fare sarebbe registrare come si è interpretato in passato e tentare di prevedere
come si interpreterà in futuro 102. Orbene, quando Chiassoni mette sullo stesso
piano le due soluzioni opposte del caso isomorfico, sembra ricadere in una
posizione del genere; non si può neppure dimenticare, peraltro, che altrove egli
sembra ammettere, sia pure non del tutto inequivocamente, l’esistenza di regole
linguistiche e interpretative.
Nel secondo senso di ‘potere’, meramente prescrittivo, l’interprete può
sempre attribuire a un enunciato un significato diverso dall’unico ammissibile
perché è sempre autorizzato a far così… dalla stessa teoria dell’interpretazione.
In questo senso, peraltro, la tesi “genovese” diverrebbe una prescrizione agli
interpreti: prescrizione che non solo violerebbe il postulato dell’avalutatività
della teoria dell’interpretazione, tanto caro agli scettici à la génoise, ma che ben
potrebbe essere accusata di aderire all’ideologia giusliberistica estrema per la
quale i giudici sono sempre autorizzati a creare diritto. Infatti, in questa seconda
102 Si riconoscerà di nuovo, qui, una posizione simile a quella dell’Alf Ross di On
Law and Justice, che conferma così di aver giocato un ruolo importante nella formazione
dello scetticismo à la génoise.
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essa può fungere solo da alibi a pratiche giustizialiste, il modello finisce per
assumere oggettivamente valenze filo-giudiziali, al di là delle intenzioni dei suoi
formulatori; specie dove, come si è visto sub 2.8., esso vieti di discriminare fra
interpretazioni giudiziali corrette e scorrette, o addirittura le consideri (quasi)
tutte corrette.
Si dirà: una teoria dell’interpretazione non può mettere nel conto le proprie
“ricadute” pratiche; in particolare, essa non può prevedere i proprî effetti
inintenzionali, imprevedibili per definizione. La replica è: sì e no. Sì, nel senso
che una teoria che mirasse esclusivamente a servire determinati obbiettivi politici
da un lato non sarebbe più una teoria, dall’altro probabilmente finirebbe per
perseguire male i proprî stessi obbiettivi. No, nel senso che una teoria
dell’interpretazione come lo scetticismo à la génoise, nato a ridosso delle
battaglie ideologiche degli anni Settanta, non può non farsi carico della
percezione delle proprie tesi nello stesso contesto in cui viene avanzato: specie
ove diventi consapevole, più di quanto si sia mostrato sinora (cfr. 2.5.), del suo
carattere di modello e/o della sua sottodeterminazione da parte dell’esperienza
empirica, ciò che gli lascia l’intera responsabilità, in senso lato politica, per
quanto sostiene.
Riassumendo. Gli scettici à la génoise supererebbero le nove obiezioni se: 1)
assumessero come avversario teorico (non il formalismo, ma) la teoria mista; 2)
riconoscessero che gli enunciati giuridici sono significanti in virtù di regole
linguistiche e interpretative; 3) ammettessero che esiste un significato proprio
delle parole; 4) adottassero una teoria del significato, anche scheletrica, più
plausibile di quella sinora implicitamente sostenuta; 5) divenissero (più)
consapevoli che la loro teoria è un semplice modello, non più soggetto a
falsificazione di altri; 6) riconoscessero inequivocamente che gli interpreti, uti
singuli, non creano significati; 7) ammettessero altrettanto inequivocamente
l’esistenza di casi chiari o isomorfici; 8) accettassero di distinguere fra
interpretazioni corrette e scorrette; 9) si sottraessero così al sospetto di
ideologicità filo-giudiziale. Ma uno scetticismo à la génoise che facesse tutto
ciò, sarebbe ancora distinto dalla teoria mista?
designa una teoria per cui tutti i casi giudiziali sono indeterminati (hanno infinite
soluzioni).Sostenendo che l’interprete (non crea, ma) sceglie entro una cornice di
significati, infatti, i “genovesi” apparentemente ammettono anche che tutti i casi
giudiziali sono sottodeterminati, hanno cioè soluzioni plurime – tranne forse i
casi isomorfici – ma comunque non infinite. Anche qui, come nel caso
precedente, l’abbandono dello scetticismo sembrerebbe abbastanza inequivoco:
anche qui, peraltro, le ambiguità della teoria kelseniana della cornice nonché –
per riferirsi a problemi più specificamente “genovesi” – la riluttanza ad
ammettere la normatività delle regole linguistiche (cfr. 2.3. e 2.4.) e il rifiuto di
discriminare fra interpretazioni corrette e scorrette (cfr. 2.8.), riaprono le porte al
dubbio.
Infine, gli scettici à la génoise sembrano aver abbandonato lo scetticismo
nella quinta e più importante versione della distinzione: la versione nella quale
‘scetticismo’ designa una teoria per cui tutti i casi giudiziali sono oscuri o
difficili. Anche qui, l’abbandono dello scetticismo interpretativo potrebbe
ritenersi inequivoco, considerando solo l’ammissione di Guastini dell’esistenza
di casi chiari: se poi tale ammissione non fosse revocata in dubbio, non tanto
dalla sua caratterizzazione come teoricamente irrilevante (cfr. 2.7.), quanto, e
soprattutto, dal trattamento cui Chiassoni sottopone la nozione di caso chiaro o
isomorfico (cfr. 2.8.), trattamento che spiega anche perché la sua ammissione
possa apparire irrilevante. Se infatti anche in un caso isomorfico il giudice può
decidere altrimenti, in qualche significato di ‘potere’, che senso resta alla
nozione di caso isomorfico, e anche alle distinzioni basate su di essa?
Lo scetticismo à la génoise, insomma, sembra aver abbandonato, e in qualche
caso non aver mai sostenuto, posizioni scettiche: anche se le riserve e le
limitazioni che abbiamo visto infittirsi si configurano spesso come autentiche e
importanti questioni aperte. L’unica cosa certa è che uno scetticismo “genovese”
è certamente esistito, e ha svolto un’inestimabile funzione critica sinché si è
trattato di criticare il formalismo interpretativo; ma dal momento in cui si è
affermata una teoria mista dell’interpretazione irriducibile al formalismo, le cose
sembrano sensibilmente cambiate. Da quando ha dovuto confrontarsi con la
teoria mista, lo scetticismo à la génoise è stato costretto a rivedere le proprie
posizioni e a fare sempre nuove concessioni, diventando al contempo molto più
plausibile e molto meno scettico; quando poi ha tentato di reagire, la scarsa
plausibilità di alcune delle tesi scettiche originarie ha finito per avere un’altra
controprova.
Si dirà che queste sono considerazioni meramente metateoriche, teoricamente
irrilevanti: se anche le correnti distinzioni metateoriche fra formalismo,
scetticismo e teoria mista – perché superate dal dibattito, o difettose sin
dall’inizio – non riuscissero più a restituire l’effettiva collocazione dello
scetticismo à la génoise, tanto peggio per loro. Si dirà che i teorici “genovesi”
non hanno mai tenuto a qualificarsi scettici, ma piuttosto giusrealisti: e
opportunamente, se, come si è ammesso sin dall’inizio, gran parte delle
definizioni correnti di ‘scetticismo’ sollevano da sempre il sospetto di costruire
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bersagli di comodo. Si dirà che l’unico problema importante è che una teoria
dell’interpretazione funzioni, e che sotto profili diversi da quelli qui considerati
lo scetticismo à la génoise funziona, e continuerebbe a funzionare anche se non
costituisse più un’autentica alternativa alla teoria mista, accontentandosi, un po’
malinconicamente, del ruolo di “sinistra hartiana”.
I veri problemi, in effetti, sono teorici: sono le questioni sollevate dalle nove
obiezioni allo scetticismo à la génoise. Che si tratti di problemi (non metateorici,
ma) teorici è già suggerito dal fatto che una loro soluzione puramente
metateorica – ad esempio: cambiare la definizione di ‘scetticismo’ al fine di
adattarla al modello “genovese” – sarebbe illusoria, in quanto scoraggerebbe
dall’affinare le posizioni teoriche oggi a torto o a ragione etichettate come
scettiche. Proprio questa, del resto, è la soluzione caldeggiata dal sottoscritto:
non certo un’improbabile conversione degli scettici à la génoise alla teoria mista,
ma l’approfondimento di tutte le questioni teoriche aperte – una per tutte: il
problema dell’oscurità potenziale – sul terreno di confine fra le due teorie. Il
dubbio scettico, dopotutto, è il lievito di ogni teoria, e a maggior ragione della
teoria dell’interpretazione; se davvero oggi lo scetticismo interpretativo non
esistesse, allora bisognerebbe (re)inventarlo.