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Mauro Barberis

Lo scetticismo immaginario.
Nove obiezioni agli scettici à la génoise

Pur essendoci care entrambe le cose, gli amici e la


verità, è dovere morale preferire la verità

(Aristotele, Etica Nicomachea)

1. Teorie dell’interpretazione e scetticismo à la génoise

Un sospetto visita sempre più spesso i teorici dell’interpretazione: esiste


ancora lo scetticismo interpretativo? ‘Scetticismo interpretativo’ designa ancora
posizioni realmente sostenute? Il dubbio, per la verità, potrebbe farsi risalire alla
stessa distinzione fra formalismo, scetticismo e teoria mista, avanzata da Herbert
Hart alla fine degli anni Cinquanta 1: distinzione già sospettabile, come vedremo
fra poco, di usare ‘formalismo’ e ‘scetticismo’ per bersagli di comodo. Oggi,
quarant’anni dopo, la situazione sembra la seguente: il formalismo, nonostante
Ronald Dworkin, pare definitivamente screditato, la teoria mista appare sempre
più maggioritaria, mentre lo scetticismo sembra abbastanza in difficoltà da far
sospettare, come pure vedremo, che le sue versioni sostenibili siano in realtà
mere varianti della teoria mista. L’effettiva diffusione di questo sospetto
andrebbe verificata con una rassegna sistematica della letteratura in argomento;
qui, peraltro, ci si dovrà accontentare di tre esempi.
Primo esempio. In un bel libro sulla certezza del diritto, Enrico Diciotti
sostiene che nessuno difende più posizioni scettiche estreme, e che lo stesso
scetticismo moderato, al quale dichiara di aderire, si distinguerebbe dalla teoria
mista solo per il fatto di negare che si diano casi giudiziali chiari 2: casi peraltro
ammessi da molti scettici, come ancora vedremo. Secondo esempio. In un
notevole lavoro su interpretazione e legislazione, Claudio Luzzati ammette la
possibilità dello scetticismo semiotico – per il quale il discorso non sarebbe retto

1 Cfr. H. L. A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals (1958), ora in
Id., Essays in Jurisprudence and Philosophy, Clarendon, Oxford, 1983, pp. 62-72; Id.,
The Concept of Law (1961), ed. by P. A. Bullock e J. Raz, Clarendon, Oxford, 1993, pp.
123-154.
2 Cfr. E. Diciotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Giappichelli,
Torino, 1999, pp. 81 (e n. 29) e 111.

Analisi e diritto 2000, a cura di P. Comanducci e R.


Guastini
2

da regole e/o da convenzioni linguistiche – ma afferma che “molto spesso […]


gli scettici sul significato sono scettici più immaginari che reali: credono di
essere scettici, ma non lo sono davvero” 3. Terzo e più significativo esempio. In
un importante saggio sull’indeterminatezza interpretativa, Timothy Endicott
conclude che, a ben vedere, tutte le posizioni scettiche realmente sostenute si
rivelano altrettante varianti della teoria mista 4.
La portata di queste osservazioni, ovviamente, non va sopravvalutata: concetti
(meta)teorici come quelli di formalismo, scetticismo e teoria mista sono sempre
suscettibili di ridefinizioni o definizioni stipulative tali da farne delle classi vuote,
che non indicano più alcuna posizione realmente sostenuta. Il problema è, peraltro,
che anche una mera definizione lessicale di ‘formalismo’, ‘scetticismo’ e ‘teoria
mista’ – una definizione che si limiti a registrare gli impieghi effettivi di questi
termini da Hart in poi – riesce solo ad aggravare i sospetti; anche una prima e
parziale analisi degli impieghi di tali termini, in effetti, porta a dubitare che
‘formalismo’ e ‘scetticismo’ designino più, o abbiano mai designato, posizioni
teoriche realmente sostenute, o addirittura astrattamente sostenibili. Si considerino
le seguenti cinque versioni della distinzione fra formalismo, scetticismo e teoria
mista: versioni elencate in ordine di crescente plausibilità.
In base a una prima versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria per cui le norme esistono (o vincolano
i giudici), ‘scetticismo’ nel senso di teoria per cui le norme non esistono (o non
vincolano i giudici), ‘teoria mista’ nel senso di teoria per cui le norme talvolta
esistono (o vincolano i giudici), talaltra non esistono (o non vincolano i giudici).
Ora, tutta la concezione hartiana dello scetticismo sembra effettivamente esemplata
sulla tesi dello scetticismo delle norme (rule-scepticism), caratteristica del
giusrealismo americano: le norme non esisterebbero (o non vincolerebbero i
giudici) 5. Senonché, oggi più nessuno sostiene questa tesi, almeno nella stessa
forma 6: né totalmente, come dovrebbero fare gli scettici, né parzialmente, come
dovrebbe fare la teoria mista. Per assurdo, quindi, adottando questa versione della
distinzione tutte le posizioni realmente sostenute dovrebbero considerarsi
formaliste.

3 Così C. Luzzati, L’interprete e il legislatore. Saggio sulla certezza del diritto,


Giuffrè, Milano, 1999, rispettivamente pp. 143 e 139.
4 Cfr. T. Endicott, Linguistic Indeterminacy, in “Oxford Journal of Legal Studies”,
1996, p. 670: “there are no radical indeterminacy theorists, […] everyone basically agrees
with Hart’s view”.
5 Cfr. ancora H. L. A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals, cit., e
Id., The Concept of Law, cit., specie p. 139.
6 La tesi può però venire sostenuta in una forma diversa, cioè in termini di
indeterminatezza delle norme: indeterminatezza che, se totale, equivale all’inesistenza
delle norme, come sostiene in modo convincente C. Redondo, Teorías del derecho y
indeterminación normativa, in “Doxa”, 20, 1997, p. 192.
3

In base a una seconda versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria che impiega ‘interpretazione’ in senso
latissimo, ‘scetticismo’ nel senso di teoria che impiega ‘interpretazione’ in senso
lato, ‘teoria mista’ nel senso di teoria che impiega ‘interpretazione’ in senso stretto:
dove ‘latissimo’, ‘lato’ e ‘stretto’ rinviano alla nota tripartizione di Jerzy
Wróblewski 7. Questa versione della distinzione – quasi irreperibile in Hart,
nonostante un recente tentativo di generalizzare usi di ‘interpretazione’ in senso
stretto affioranti in The Concept of Law (1961) 8 – viene in realtà impiegata, al più,
per distinguere fra scetticismo, che userebbe ‘interpretazione’ in senso lato, e teoria
mista e/o (neo)formalismo, che lo userebbe(ro) in senso stretto. Il difetto di questa
versione della distinzione, come ha mostrato Paolo Comanducci, è però che le due
(o tre) teorie così ridefinite non si contraddicono più, diventando anzi
perfettamente compatibili 9.
In base a una terza versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria per cui l’interprete scopre il
significato, ‘scetticismo’ nel senso di teoria per cui l’interprete crea il significato,
‘teoria mista’ nel senso di teoria per cui l’interprete talvolta scopre, talaltra crea
il significato. Questa versione della distinzione, spesso attribuita a Hart, non
compare in realtà né in Positivism and the Separation of Law and Morals (1958)
né in The Concept of Law; essa affiora piuttosto in American Jurisprudence
through English Eyes (1977) e, soprattutto, in Genaro Carrió 10. Impiegare
‘formalismo’, ‘scetticismo’ e ‘teoria mista’ nei sensi suddetti, d’altra parte,
sarebbe inopportuno, perché – come si vedrà anche sub 2.6. – l’interprete fa
sempre qualcosa di più che scoprire significati, e sempre qualcosa di meno che
crearli 11: sicché tutt’e tre le teorie, così formulate, suonano immediatamente
false, o piuttosto implausibili.
7 Cfr. ad esempio J. Wróblewski, The Judicial Application of Law, ed. by Z.
Bankowski e N. MacCormick, Kluwer, Dordrecht, 1992, pp. 87-88. Nella forma riportata
nel testo, a conoscenza di chi scrive, questa versione della distinzione si trova solo in M.
Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione storica, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 198.
8 Cfr. A. Marmor, Interpretation and Legal Theory, Clarendon, Oxford, 1992, pp.
124-154 e H. L. A. Hart, The Concept of Law, cit., p. 126.
9 Cfr. P. Comanducci, L’interpretazione delle norme giuridiche. La problematica
attuale, in M. Bessone (a cura di), Interpretazione e diritto giudiziale, vol. I., Regole,
metodi, modelli, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 9-10: che in effetti dichiara di aderire a una
posizione eclettica, già in questo distinguendosi da quello che vedremo essere lo scetticismo
à la génoise.
10 Cfr. H. L. A. Hart, American Jurisprudence through English Eyes: the Nightmare
and the Noble Dream (1977), ora in Id., Essays in Jurisprudence and Philosophy, cit., specie
p. 144 (dove l’autore si esprime nei termini dell’opposizione fra trovare, finding, e creare,
making, il diritto), nonché, e soprattutto, G. R. Carrió, Sobre la interpretación en el derecho
(1965), trad. it. Sull’interpretazione giuridica in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di),
L’analisi del ragionamento giuridico, Giappichelli, Torino, vol. II, 1989, specie p. 135.
4

In base a una quarta versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono
determinati (hanno una e una sola soluzione), ‘scetticismo’ nel senso di teoria per
cui tutti i casi giudiziali sono indeterminati (hanno infinite soluzioni), ‘teoria
mista’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono sottodeterminati
(hanno una o più, ma non infinite soluzioni). Anche se Hart si esprime raramente
in termini di (in)determinatezza 12, questa quarta versione della distinzione, opera
di Lawrence Solum 13, potrebbe considerarsi una più plausibile riformulazione
della terza, se non presentasse problemi analoghi: non solo formalismo e
scetticismo appaiono immediatamente indifendibili, ma, proprio come sospettato
da Endicott, molti scettici sostengono in realtà varianti della teoria mista, sicché
‘scetticismo’ finisce per designare una classe vuota, se non una testa di turco.
In base a una quinta versione della distinzione, Hart e/o i suoi epigoni
userebbero ‘formalismo’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono
chiari o facili, ‘scetticismo’ nel senso di teoria per cui tutti i casi giudiziali sono
oscuri o difficili, ‘teoria mista’ nel senso di teoria per cui alcuni casi giudiziali
sono chiari o facili, altri oscuri o difficili. Ora, questa è certamente la versione
della distinzione più facilmente reperibile in Hart 14, e fors’anche nel dibattito
successivo: anch’essa, però, rende problematica l’esistenza (del formalismo, e)
dello scetticismo interpretativo. Infatti, se la differenza fra scetticismo e teoria
mista viene fatta consistere nell’ammissione di casi chiari – alla maniera di
Diciotti, e come si vedrà diffusamente in questo lavoro (cfr. 2.7. e 2.8.) – allora
andrebbero considerati sostenitori della teoria mista anche tutti quei teorici
dell’interpretazione che, benché dichiaratamente scettici, ammettono comunque
l’esistenza di casi chiari.
Come si vede, le cinque versioni più diffuse della distinzione sollevano
tutte dei problemi: e problemi ancora ulteriori sollevano tutti quei tentativi di
riformularla in termini semiotici, o di teoria del significato, o di filosofia del
linguaggio, ai quali allude Luzzati e dei quali si fornirà un esempio sub 2.3.
L’analisi già compiuta, comunque, basta a ritenere non manifestamente
infondati i sospetti sull’esistenza dello scetticismo: sospetti abbastanza
inquietanti, non foss’altro perché portano a dubitare del senso di quarant’anni
di discussioni e di polemiche sull’interpretazione giuridica. Se la discussione,
dopo aver perso l’interlocutore formalista, perdesse anche l’interlocutore
scettico – riducendosi a un dibattito interno alla teoria mista circa le maggiori o
11 Cfr. paradigmaticamente R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard U.P.,
Cambridge (Mass.), 1985, p. 162: “interpretation is something different of both”.
12 Cfr. ad esempio H. L. A. Hart, The Concept of Law, cit., pp. 127 e 134.
13 Cfr. L. Solum, Indeterminacy, in D. Patterson (ed.), A Companion to Philosophy of
Law and Legal Theory, Blackwell, Oxford, 1996, p. 490: dove peraltro la distinzione è
formulata in modo lievemente diverso, e non viene espressamente presentata come
distinzione fra formalismo, scetticismo e teoria mista.
14 Cfr. H. L. A. Hart, The Concept of Law, cit., pp. 126-127.
5

minori percentuali di determinatezza delle norme, come paventa Endicott 15 –


allora la teoria dell’interpretazione rischierebbe davvero di diventare molto
meno interessante.
Anche al fine di scongiurare quest’esito, il lavoro che segue tenterà di produrre
un controesempio alla tesi dell’inesistenza dello scetticismo interpretativo: il
controesempio rappresentato dallo scetticismo à la génoise. Con questa
denominazione s’indicherà la teoria dell’interpretazione avanzata da Giovanni
Tarello e oggi difesa da suoi allievi diretti e indiretti, come Pierluigi Chiassoni,
Riccardo Guastini e Tecla Mazzarese 16: teoria che è una delle più agguerrite fra
quante siano mai state qualificate scettiche, e che è oggetto di dibattito sia interno
sia esterno alla scuola “genovese”. Perché la denominazione di ‘scetticismo à la
génoise’? In base a questa analogia: come il condimento noto quale “pesto alla
genovese” pare sia reperibile solo nel genovesato, unico luogo al mondo ove ne
crescono gli ingredienti, così, altrettanto misteriosamente, lo scetticismo
interpretativo sembra prosperare solo nel clima del Dipartimento Giovanni Tarello
di Genova.
Più seriamente: se vi è un gruppo di studiosi cui ancora convenga l’etichetta
di ‘scetticismo interpretativo’, e che non produca soprattutto vociferazioni, come
Critical Legal Studies e simili 17, ma tesi teoriche, meritevoli di esser prese sul
serio, questo è proprio lo scetticismo à la génoise. Proprio in ragione di tale
qualità, questa teoria verrà sottoposta al seguente test: contro di essa, o meglio
contro alcune delle sue tesi più caratteristiche, verranno lanciate nove possibili
obiezioni, spesso imparentate con le critiche più comuni, altre volte
relativamente nuove. Lo scopo di questa “prova di resistenza” è ovvio: se lo
15 Cfr. ancora T. Endicott, Linguistic Indeterminacy, cit., p. 696: “all this makes it
hard to grasp the real debate about indeterminacy: if the debate is about how much
indeterminacy there is, it concerns a quantity that cannot be quantified. If the debate is
about how important indeterminacy is, it turns on criteria of importance which would
presumably be controversial, but which no one has ever articulated”. Cfr. anche M.
Barberis, Il diritto come discorso e come comportamento, Giappichelli, Torino, 1990, p.
264.
16 Non, invece, dal già menzionato Comanducci, che adotta una posizione eclettica
già in Id., Assaggi di metaetica, Giappichelli, Torino, 1992, p. 15, nonché in Assaggi di
metaetica due, Giappichelli, Torino, 1998, pp. 92-93.
17 A proposito dei quali si può utilmente consultare G. Minda, Postmodern Legal
Movements. Law and Jurisprudence at Century’s End, New York U.P., New York, 1995.
Per una proposta “decostruzionista” insolitamente perspicua, cfr. da ultimo M. Rosenfeld,
Just Interpretations. Law between Ethics and Politics (1998), trad. it. Interpretazioni. Il
diritto fra etica e politica, Il Mulino, Bologna, 2000; per un esempio dei guasti che
possono produrre tali proposte, cfr. invece P. G. Monateri, “Correct Our Watches by the
Public Clocks”. L’assenza di fondamento dell’interpretazione del diritto, in J. Derrida, G.
Vattimo (a cura di), Diritto, giustizia, interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 189-
206.
6

scetticismo à la génoise regge all’attacco, allora si dovrà riconoscere che,


dopotutto, lo (uno) scetticismo interpretativo esiste; se poi per avventura esso
non reggesse, si avrebbero comunque degli esempi concreti – teorici, e non
puramente metateorici – delle difficoltà effettivamente incontrate dalla posizione
scettica.
Prima di cominciare, peraltro, occorre ancora una precisazione. Nella
discussione, o peggio nella polemica, càpita spesso che si reinterpretino le
proprie tesi – ma non quelle altrui – facendo uso del principio di carità
interpretativa: assumendole, cioè, nella loro formulazione migliore, o più
difendibile, o meno esposta alla critica 18. Qui di seguito lo scetticismo à la
génoise godrà di varie applicazioni di tale principio, ma con un limite: l’esigenza
di attribuirgli tesi che abbiano comunque qualche titolo a dirsi scettiche, in
almeno uno dei cinque sensi di ‘scetticismo’ relativi alle cinque versioni di cui
sopra. La sincerità dello sforzo di interpretare caritatevolmente le tesi
“genovesi”, in compenso, sarà assicurato da un’altra circostanza: il fatto che,
come allievo di Tarello, il sottoscritto le ha sostenute tutte, in tempi non troppo
remoti, sicché gli seccherebbe alquanto, oggi, dover ammettere di aver difeso
tesi indifendibili.

2. Nove obiezioni allo scetticismo à la génoise

Quando si parla di posizioni teoriche s’impiegano di norma concetti


combinatoriamente vaghi, privi di un nucleo connotativo comune 19: ciò che già
spiega le difficoltà incontrate a definire univocamente ‘scetticismo
interpretativo’. Quando poi si parla di studiosi in carne e ossa, e anzi assai attivi,
le difficoltà sono ancora maggiori: non si fa in tempo ad attribuire loro una tesi
che questi possono subito smentire di sostenerla ancora, o di averla mai
sostenuta. Quando infine si parla di una “Scuola genovese”, il cui stesso
fondatore era allergico alle scuole 20, e i cui componenti hanno raramente una
posizione comune, le difficoltà sembrerebbero diventare insormontabili. Almeno
limitatamente alla teoria dell’interpretazione, d’altra parte, sembra difficile
18 Per una definizione e un’analisi di varie versioni del principle of charity, cfr. F.
Longato, Interpretazione, comunicazione, verità. Saggio sul “principio di carità” nella
filosofia contemporanea, La Città del Sole, Napoli, 1999; per un esempio paradigmatico
di applicazione di tale principio allo scetticismo à la génoise, cfr. P. Chiassoni, L’inelut-
tabile scetticismo della “scuola genovese”, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di),
Analisi e diritto 1998, Giappichelli, Torino, 1998, specie p. 47.
19 Cfr. P. Alston, Philosophy of Language (1964), trad. it. Filosofia del linguaggio, Il
Mulino, Bologna, 1971, pp. 139-143.
20 Cfr. P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese”, cit., pp. 21-
22, e lo stesso G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 5, che
riluttava a parlare di una Scuola analitica.
7

negare che possa parlarsi di uno scetticismo à la génoise sostenuto all’interno


della “Scuola genovese” 21: come sembrano riconoscere, sia pure obtorto collo,
gli stessi interessati.
In un saggio che verrà richiamato più volte, e che è (autoironicamente)
intitolato L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese” (1998), Chiassoni
presume infatti – almeno per amor di discussione – che lo scetticismo à la
génoise esista, e che gli si possano attribuire non meno di quattro tesi: 1)
l’assimilabilità degli enunciati interpretativi a definizioni (non lessicali, ma)
stipulative; 2) il carattere (non conoscitivo, ma) prescrittivo dell’attività
interpretativa; 3) la riluttanza a teorizzare sul significato, o piuttosto la
preferenza per una sorta di sociologia descrittiva dell’interpretazione; 4)
l’influenza del neustico prescrittivo degli enunciati giuridici sull’interpretazione
della loro parte frastica 22. Di queste quattro tesi – difese da Chiassoni soprattutto
reinterpretandole caritatevolmente – verranno qui sfiorate la prima e la seconda,
e toccata la terza; quanto alla quarta, non vi si farà cenno, ritenendola
parzialmente difendibile su altre basi 23.

2.1. Obiezione dell’attacco a un bersaglio superato

Storicamente, lo scetticismo interpretativo nasce come critica del formalismo,


e in particolare come critica delle teorie generali otto-novecentesche in tema di
completezza del diritto: salvo appuntarsi in seguito sulla questione – l’unica che
verrà considerata interpretativa in questa sede – dell’attribuzione di significato a
testi giuridici 24. Anche su quest’ultimo tema, peraltro, accade che lo scetticismo

21 ‘Scuola genovese’ e ‘scetticismo à la génoise’ hanno manifestamente diverse


estensioni: la prima locuzione indica anche studiosi cui, per varie ragioni, non può
attribuirsi la posizione indicata dalla seconda. Si è già accennato a Comanducci, e più
avanti si accennerà a Paolo Becchi; qui bisogna ricordare almeno Silvana Castignone – la
cui recente Introduzione alla filosofia del diritto (Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 35-40)
sfiora appena il tema dell’interpretazione, presentando una posizione assai equilibrata –
nonché M. Barberis, Il diritto come discorso e come comportamento, cit., specie pp. 278-
281.
22 Cfr. P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese”, cit., pp. 21-
22.
23 In particolare: la tesi può essere difesa adottando la più sofisticata versione della
teoria di Richard Hare che a frastico (frastic) e neustico (neustic) aggiunge il tropico
(tropic: cfr. R. M. Hare, Practical Inferences, MacMillan, London, 1971, specie pp. 89-
93), e ammettendo, con lo stesso G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, cit., p. 261, che la
determinazione del tropico (o, come quest’ultimo la chiama), “della forza di una
enunciazione precede l’interpretazione dell’enunciato” e la influenza.
24 Cfr. R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Giuffrè, Milano, 1993, pp.
422 e ss., per la constatazione che il problema della completezza presuppone il problema
8

continui ad assumere come bersaglio privilegiato o addirittura unico il


formalismo: quasi che la teoria mista fosse semplicemente una sorta di
formalismo più “moderato”. Il problema è però che, mentre gli argomenti usati
dagli scettici paiono quasi irrefutabili, se comparati con gli argomenti dei
formalisti, non altrettanto avviene se li si confronta con gli argomenti utilizzati
dalla teoria mista: come vediamo brevemente nel caso dello scetticismo à la
génoise.
Anche lo scetticismo “genovese”, in effetti, nasce come critica del
formalismo: in particolare, come critica dell’uso generico fatto – sia dai giuristi
positivi, sia, in qualche misura, dagli stessi teorici analitici italiani – del termine
‘norma’. È contro quest’uso generico, e virtualmente formalistico, che Tarello
adotta la distinzione fra enunciato e significato: distinzione che nel caso del
linguaggio giuridico risulta quasi immediatamente traducibile nella distinzione
fra disposizione e norma 25. Tarello, e in seguito soprattutto Guastini, hanno
insistito in particolare sul carattere non biunivoco della relazione fra disposizione
e norma: una stessa disposizione può esprimere diverse norme (in caso di
ambiguità) – come nel frattempo veniva in qualche modo confermato dalla prassi
interpretativa della Corte costituzionale italiana – mentre una stessa norma può
venire espressa da diverse disposizioni (in caso di ridondanza) 26.
È evidente che l’insistenza sulla non biunivocità della distinzione fra
enunciato e significato serve a battere in breccia la pretesa formalista che le
disposizioni esprimano una e una sola norma: se fra disposizione e norma vi
fosse una relazione biunivoca, in effetti, la stessa distinzione fra enunciato e
significato risulterebbe quasi oziosa, o potrebbe essere sospettata di moltiplicare
gli enti praeter necessitatem. Il punto è, però, che questa stessa distinzione, la
quale rende effettivamente implausibile la tipica pretesa formalista che le
disposizioni abbiano uno e un solo significato, di per sé – ovvero astraendo da
tesi ulteriori con cui la si trova combinata, e che saranno esaminate sub 2.2. e
2.3. – non costituisce un’obiezione alla teoria mista: per la quale, in ragione della
trama aperta (open texture) dei concetti, in alcuni casi (facili, o chiari) il
significato sarebbe determinato, mentre in altri (difficili, od oscuri) sarebbe
indeterminato.
La distinzione fra enunciato e significato, per fare solo un esempio, compare
in Alf Ross – probabilmente il teorico dell’interpretazione dal quale Tarello ha
imparato di più – nella stessa pagina di On Law and Justice (1952; 1958) nella
quale si sottoscrive un’idea molto simile a quella hartiana di trama aperta: dopo
aver adottato la definizione di ‘enunciato’ adottata anche da Tarello (“per
enunciato intendo la più piccola unità linguistica portatrice di un significato in sé
dell’interpretazione, ma non si identifica con esso.
25 Cfr. ancora G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, cit., pp. 167-214 e 267-209.
26 Cfr. ad esempio R. Guastini, Dalle fonti alle norme, Giappichelli, Torino, 1990,
pp. 25-27, che, come del resto Tarello, sembra muoversi sulla scia di A. Ross, On Law
and Justice (1952, 1958), trad. it. Diritto e giustizia, Einaudi, Torino, 1965, p. 8.
9

completo”), Ross afferma infatti che “il riferimento semantico della parola
presenta, per così dire, una densa zona centrale in cui la sua applicazione è
prevalente e certa, e un nebuloso anello di incertezza in cui l’applicazione è
meno usuale, divenendo sempre più dubbio se la parola possa o no essere
usata” 27. Questo è solo un esempio del fatto che la distinzione fra enunciato e
significato può perfettamente convivere con l’idea di trama aperta, e comunque
non comporta necessariamente conseguenze scettiche.
Oggi, questa stessa distinzione è divenuta uno degli strumenti più comuni
della teoria analitica del diritto; Manuel Atienza e Juan Ruiz Manero, per fare un
solo esempio, hanno sostenuto un’intera teoria degli enunciati giuridici come
piezas del derecho 28: ma ciò non ha impedito alla teoria mista di diventare la
teoria dell’interpretazione maggioritaria fra gli analisti. È il caso di insistere,
allora, che di per sé – ovvero astraendo da tesi ulteriori – né la distinzione fra
enunciato e significato, né la tesi della non biunivocità della loro relazione,
costituiscono obiezioni alla teoria mista: si può sempre ritenere che nei casi
chiari la disposizione esprima una sola norma, mentre nei casi oscuri ne esprima
molte. Ciò conferisce qualche plausibilità alla prima obiezione qui avanzata: lo
strumentario concettuale dello scetticismo à la génoise, elaborato ai fini della
critica del formalismo, appare spuntato nei confronti della teoria mista.
In realtà, mentre la teoria mista sembra sfuggita alla critica di Tarello 29, ha
attirato spesso l’attenzione di Guastini: che peraltro solo nei lavori più antichi ha
formulato le proprie obiezioni nei termini della distinzione enunciato/significato.
Ciò avviene, almeno a conoscenza di chi scrive, solo in un lavoro del 1989 sulla
teoria dell’interpretazione di Genaro Carrió, poi ripreso in Dalle fonti alle norme
(1990); qui la teoria mista viene letta soprattutto in relazione al problema della
fondazione della scienza giuridica, e criticata per il fatto di esprimersi – non in
termini di enunciati da interpretare, bensì – in termini di norme precostituite
all’interpretazione. Stando così le cose, la conclusione di Guastini – “le
cosiddette “norme” non sono un possibile oggetto di conoscenza scientifica. La
scienza giuridica può solo consistere nella descrizione delle decisioni
interpretative e applicative dei giudici” 30 – non interessa in questa sede.
Di fatto, gli argomenti usati più spesso da Guastini contro la teoria mista sono
altri, ed essenzialmente due: in lavori più risalenti, l’argomento dell’indeter-

27 A. Ross, On Law and Justice, cit., p. 108.


28 Cfr. M. Atienza, J. Ruiz Manero, Las piezas del derecho. Teoría de los enunciados
jurídicos, Ariel, Barcelona, 1996; che il fulcro dell’opera sia una teoria degli enunciati
appare ancor più chiaro dal titolo della traduzione inglese, che suona A Theory of Legal
Sentences (Kluwer, Dordrecht, 1998).
29 Cfr. ancora G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, cit., pp. 101-121, che recensendo
The Concept of Law sembra ignorarne la teoria dell’interpretazione.
30 Cfr. R. Guastini, Genaro Carrió e la trama aperta del diritto, in P. Comanducci, R.
Guastini (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico, cit., specie p. 154, e Id., Dalle
fonti alle norme, cit., specie pp. 78-79.
10

minatezza della stessa distinzione fra casi giudiziali chiari e oscuri; in un lavoro
recentissimo, l’argomento della distinzione fra interpretazione e applicazione.
Quanto all’indeterminatezza della distinzione fra casi giuridici chiari e oscuri,
l’argomento consiste nel constatare che in ultima istanza i giudici possono
sempre trasformare in oscuro un caso chiaro: ciò che induce Guastini a dubitare
dell’esistenza stessa di casi chiari 31. Torneremo più volte su questo argomento
(cfr. in particolare 2.8.); qui basti anticipare come la più recente versione “prag-
matica” della teoria mista ammetta che i casi chiari, essendo pragmaticamente
relativi (anche) all’interprete, possano diventare oscuri 32: ciò peraltro non esclude
affatto – come anche l’ultimo Guastini sembra ammettere (cfr. 2.5. e 2.6.) – che
possano darsi casi chiari.
Quanto alla distinzione fra interpretazione e applicazione, compiuta
ridefinendo ‘interpretazione’ come eliminazione dell’ambiguità degli enunciati,
‘applicazione’ come eliminazione della vaghezza dei significati 33, qui si
solleveranno solo tre dubbi. 1) La distinzione si basa su un’analogia –
l’applicazione presuppone l’interpretazione come l’eliminazione della vaghezza
presuppone l’eliminazione dell’ambiguità – che è peraltro insufficiente a
giustificare l’assimilazione, rispettivamente, dei due concetti che presuppongono
e dei due concetti che sono presupposti. 2) L’argomento oppone troppo
nettamente interpretazione e applicazione, come se la seconda non “retroagisse”
pesantemente sulla prima. 3) L’argomento sembrerebbe concedere la plausibilità
della teoria mista – come teoria dell’open texture, a sua volta assimilata alla
vaghezza – limitatamente all’applicazione giudiziale: come se proprio
quest’ultima non fosse l’oggetto tradizionale dello scetticismo interpretativo.

2.2. Obiezione dell’enunciato senza significato

Si è appena visto come la distinzione enunciato/significato, esiziale per il


formalismo, sia innocua per la teoria mista: beninteso, innocua di per sé, ovvero
astraendo da tesi ulteriori con cui la si trova combinata nella teoria “genovese”, e
che devono ancora essere esaminate. Orbene, la (falsa) impressione che la

31 Cfr. R. Guastini, Genaro Carrió, cit., p. 156, e Id., Dalle fonti alle norme, cit., p.
80: “si può convenire agevolmente sull’idea della penombra in quanto teoria del
significato, ma di qui a sostenere che vi sono casi (“chiari”) nei quali i giudici non
esercitano alcuna discrezionalità interpretativa ci corre”. Il dubbio non ritorna nella
ulteriore riformulazione della stessa critica compiuta in Id., Le fonti del diritto e
l’interpretazione, cit., p. 339.
32 Cfr. M. Dascal, J. Wróblewski, Transparency and Doubt: Understanding and
Interpretation in Pragmatics and in Law, in “Law and Philosophy”, 7, 1988, pp. 203-224.
33 Nel capitolo intitolato “L’interpretazione dei testi normativi” di un manuale di
filosofia del diritto, provvisoriamente intitolato Il linguaggio del diritto, di prossima
pubblicazione per i tipi di Giappichelli, e di cui il sottoscritto deve la conoscenza alla
cortesia di Guastini.
11

distinzione enunciato/significato comporti necessariamente esiti scettici dipende


da affermazioni poco sorvegliate, già di Tarello, poi di Guastini, che sembrano
ridurre il significato dell’enunciato a prodotto esclusivo dell’interpretazione:
quest’ultima sarebbe sempre creativa, o produttiva, o ascrittiva di significati.
Affermazioni siffatte suscitano anche l’impressione che per i “genovesi” gli
enunciati non abbiano alcun significato in quanto tali, ma si limitino a riceverlo
dall’interpretazione: quasi si trattasse di schermi bianchi, sui quali l’interprete
può proiettare qualsiasi significato 34.
In Diritto, enunciati, usi (1974), in realtà, Tarello parla anche di un
significato enunciativo o letterale, proprio dell’enunciato in quanto tale: tesi che
peraltro sembra restare lettera morta nella sua teoria 35. Quando, ne
L’interpretazione della legge (1980), Tarello afferma che “prima dell’attività
dell’interprete, del documento oggetto dell’interpretazione si sa solo che esprime
una o più norme, non quale questa norma sia o quali queste norme siano”, in
effetti, egli sembra ignorare il significato enunciativo e pensare l’enunciato come
a-significante: benché il co-testo suggerisca poi che egli stia semplicemente
contestando la tesi formalista che “il significato [sia] precostituito all’attività
dell’interprete” 36, invece di esserne condizionato. E si potrebbe aggiungere
“come al solito”: perché anche in questo caso l’adozione del formalismo come
bersaglio privilegiato porta forse lo scetticismo à la génoise a dire più di quanto
intendesse.
Qualcosa del genere avviene anche in Guastini, che per un certo periodo si è
limitato a riprendere le tesi di Tarello sistematizzandole e radicalizzandole: in
Dalle fonti alle norme, per esempio, egli caratterizza come enunciato non solo
l’oggetto ma anche il prodotto dell’interpretazione, caratterizzazione poi
apparentemente abbandonata in Teoria e dogmatica delle fonti (1998) 37. Sempre
in Dalle fonti alle norme, Guastini afferma in particolare che “interpretare è
produrre una norma. Per definizione le norme sono prodotte dagli interpreti” 38; in
un passo dello stesso libro su cui si tornerà sub 2.3, inoltre, egli sostiene anzi che
“le parole hanno solo il significato che viene loro attribuito da chi le usa e/o da
chi le interpreta”: “sono gli uomini a “dare” a [ogni parola] un significato (di

34 Cfr. almeno M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria generale del diritto,


Giappichelli, Torino, 1988, p. 208, e soprattutto C. Luzzati, L’interprete e il legislatore,
cit., pp. 100-105, che riprende opportunamente le osservazioni wittgensteiniane sui limiti
dell’interpretazione.
35 Lo nota anche C. Luzzati, L’interprete e il legislatore, cit. p. 141 n. 103, il quale
giunge poi a considerare la ripresa di questo aspetto della teoria tarelliana da parte di
Chiassoni come “una vera e propria abiura dello scetticismo semiotico”.
36 G. Tarello, L’interpretazione della legge, Giuffrè, Milano, 1980, pp. 63-64.
37 Cfr. R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffrè, Milano, 1998, specie pp.
15-20.
38 R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., p. 87.
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volta in volta uno a preferenza di altri)” 39. Queste affermazioni suonano


ambigue: in particolare, sembrano passibili di un senso ovvio e di uno opinabile.
Il senso ovvio consiste nella constatazione che le parole ricevono il loro
significato dall’uso dei parlanti: e da cos’altro potrebbero riceverlo? Il senso
opinabile consiste nella pretesa – cui fa pensare l’espressione “di volta in volta uno
a preferenza di altri” – che il significato sia conferito dai parlanti en détail, e non
dai parlanti en masse: che termini o enunciati, cioè, abbiano solo il significato che
ogni singolo interprete, ogni volta che interpreta, attribuisce loro. Qui risulta
difficile fornire una qualche riformulazione caritatevole di questa tesi: anche
perché essa spiega come Guastini possa poi affermare che “interpretare è produrre
una norma. Per definizione le norme sono prodotte dagli interpreti”. Se il
significato fosse tutto qui, in effetti, allora davvero, by definition, interpretare
sarebbe produrre un significato che l’enunciato non ha prima dell’interpretazione;
l’enunciato sarebbe davvero uno schermo bianco, su cui l’interprete può proiettare
qualsiasi significato.
Torneremo sub 2.3. sui varî problemi sollevati da un teoria del significato
siffatta; qui occorre appena segnalare le sue relazioni con il dogma analitico-
giuspositivistico della language-dependance di norme. La drammatizzazione
“genovese” della distinzione enunciato/significato – che porta il Guastini di
Dalle fonti alle norme a caratterizzare le norme come enunciati prodotti (non dal
legislatore, ma) dall’interprete – sembra cioè discendere dalla concezione
analitico-giuspositivistica delle norme come leggi (laws) o prescrizioni
(prescriptions), prodotte da un atto di linguaggio del legislatore 40: concezione
estesa dagli scettici à la génoise all’interpretazione, concepita come legislazione
del caso singolo. Tale estensione solleva però almeno un problema: il legislatore
propriamente detto legifererebbe invano, se la legislazione da lui prodotta avesse
poi solo il significato attribuitole da ogni singolo interprete, in ogni singolo caso.

2.3. Obiezione del significato proprio delle parole

In ragione del suo originario orientamento alla critica del formalismo, e a


causa della drammatizzazione della distinzione fra enunciato e significato appena
considerata, lo scetticismo à la génoise sostiene, abbastanza sbrigativamente, che

39 R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., p. 86; si noti però che nel testo la tesi è
formulata in negativo, come critica dell’opinione contraria, e che il riferimento, in nota, alle
vecchie tesi di Glanville Williams in tema di definizione del diritto rivela il bersaglio di
questa critica: ancora e sempre, il formalismo interpretativo. Come vediamo sub 2.6.,
Guastini sembra prendere le distanze dalla tesi che le leggi “non hanno altro significato se
non quello che attribuiscono loro gli interpreti” in Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p. 103.
40 Cfr. R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., p. 32. Le norme giuridiche sono
assimilate alle leggi o prescrizioni, com’è noto, anche nella tipologia delle norme di G. H.
von Wright, Norm and Action (1963), trad. it. Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 37-54.
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non esiste un significato proprio delle parole: quel significato di cui parla, fra gli
altri, l’articolo 12 delle Preleggi al Codice civile italiano. Nel suo volume Le
fonti del diritto e l’interpretazione (1993), in particolare, Guastini scrive appunto
che il ricorso del legislatore all’espressione ‘significato proprio delle parole’
rinvia “a quella teoria del significato – al tempo stesso ingenua e fallace –
secondo cui ogni parola incorpora un significato intrinseco, che dipende dalla
sua stabile relazione col mondo (con la realtà extralinguistica), e non dai
mutevoli usi linguistici dei parlanti e degli interpreti: “nomina sunt consequentia
rerum”” 41.
Qui troviamo un’ulteriore critica del formalismo, assunto nella sua (meno
caritatevole) versione di realismo, o essenzialismo o naturalismo linguistico:
assunzione nient’affatto peregrina, se si ammette, come ha sostenuto pure il
sottoscritto, che le tre teorie dell’interpretazione – formalismo, scetticismo e
teoria mista – dipendono anche da tre diverse concezioni del linguaggio, che
potrebbero chiamarsi, rispettivamente, ‘naturalismo linguistico’ (in sostituzione
dei più ambigui ‘realismo’ o ‘essenzialismo’), convenzionalismo linguistico
estremo (o fors’anche contrattualismo linguistico) e convenzionalismo
linguistico moderato (o forse convenzionalismo linguistico senz’altra
qualificazione) 42. Prendersela di nuovo con il formalismo, come fa qui Guastini,
sembra peraltro poco interessante: almeno ove si accetti la prima obiezione
avanzata in questo lavoro, secondo cui lo scetticismo deve piuttosto fare i conti
con la teoria mista.
Consideriamo allora un’altra liquidazione della nozione di significato proprio
delle parole, compiuta da Tecla Mazzarese in un recente saggio sull’interpreta-
zione letterale: saggio che ha almeno il pregio di conferire alla nozione in
questione un qualche ruolo teorico. Proprio intorno alla nozione di significato
proprio delle parole, infatti, viene a ruotare la bipartizione fra due teorie
dell’interpretazione che Mazzarese sostituisce alla tripartizione tradizionale: la
bipartizione fra “concezione tradizionale dell’interpretazione”, che avrebbe “il
proprio fondamento nell’assunto linguistico secondo il quale le parole hanno un
significato proprio”, e “concezione non ortodossa dell’interpretazione”, la quale
“nega che le parole abbiano un significato proprio”, affermando al contrario che
“il significato di qualsiasi espressione (non importa quanto chiaro in apparenza)
è sempre il risultato di un processo interpretativo” 43.
Questa bipartizione permette poi a Mazzarese di demolire le varie teorie del-
l’interpretazione letterale, mostrando che quanto ne resta, eliminati tutti i non
41 R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., p. 393.
42 Sul punto si deve rinviare a M. Barberis, Seguire norme giuridiche, ovvero:
cos’avrà mai a che fare Wittgenstein con la teoria dell’interpretazione giuridica?,
relazione al IV Congresso della S.I.F.A. (Siena, 3-7 ottobre 2000).
43 T. Mazzarese, Interpretazione letterale; giuristi e linguisti a confronto, in V.
Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Giappichelli, Torino,
2000, pp. 122-123.
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sensi e le contraddizioni, è la tesi che il processo interpretativo giuridico possa


muovere dall’interpretazione letterale, qualsiasi cosa ciò significhi, ma non
debba certo arrestarsi ad essa 44. Come Guastini, peraltro, neppure Mazzarese
prende abbastanza sul serio la nozione di significato proprio delle parole da
tentarne una critica, ritenuta evidentemente inutile dato il discredito che la
circonda: l’unica spiegazione addotta del persistente impiego della nozione in
àmbito giuridico è la deferenza al valore della certezza del diritto 45. La cosa
appare tanto più sorprendente se si pensa che su tale nozione, secondo
Mazzarese, si baserebbe la “concezione tradizionale”: che è poi l’unica
alternativa allo scetticismo interpretativo (“concezione non ortodossa”) da lei
considerata.
La concezione “tradizionale”, teoria mista compresa, avrebbe dunque un
fondamento così dubbio? Lo scetticismo interpretativo resterebbe così
trionfalmente padrone del campo? La sensazione è invece che le liquidazioni
operate da Guastini e da Mazzarese si fondino su un equivoco, determinato
dall’ambiguità dell’espressione ‘significato proprio delle parole’ e segnatamente
dell’aggettivo ‘proprio’. In un senso – ancora una volta, nel senso in cui la
nozione è impiegata dal formalismo interpretativo – è del tutto ovvio che non vi
è un significato proprio delle parole: nessun simbolo incorpora magicamente il
proprio significato, ma lo riceve dall’uso dei parlanti. Ma in un altro senso è
altrettanto ovvio che vi è un significato proprio delle parole: il significato che
esse ricevono dall’uso dei parlanti e dalle regole che lo reggono, significato che
può dirsi ‘proprio’ non nel senso della consustanzialità, ma in quello della
proprietà linguistica 46.
Le parole hanno un significato proprio, in primo luogo, almeno nel senso che,
per essere considerate parole, cioè simboli linguistici – e non meri suoni o puri
grafi – l’uso deve averne già dettato le regole o convenzioni d’impiego: per la
stessa ragione, dunque, per la quale neppure l’enunciato, per dirsi tale, può
essere concepito facendo totalmente astrazione dal suo significato (cfr. 2.2.) 47. Le
parole hanno un significato proprio, in secondo luogo, almeno nel senso che per
esservi significato devono darsi regole d’uso, che discriminano fra un modo
giusto (‘proprio’, o ‘corretto’) e uno sbagliato (‘improprio’ o ‘scorretto’) di
impiegare e anche di interpretare le parole; che poi tale significato linguistico
‘corretto’, nell’interpretazione specificamente giuridica, possa spesso risultare
irrilevante – come Guastini e Mazzarese sostengono plausibilmente altrove (cfr.
anche 2.4.) – non è una buona ragione per avanzare tesi opinabili sul significato.
44 Ivi, p. 124.
45 Ivi, p. 125.
46 Per spunti in questa direzione, cfr. M. Black, The Analysis of Rules (1958), ora in
Id., Models and Metaphors. Studies in Language and Philosophy, Cornell U.P., Ithaca,
1962, p. 136, e P. Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi d’interpretazione e tecniche
argomentative, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 501-502.
47 Come ricorda opportunamente E. Diciotti, Verità e certezza, cit., p. 116.
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La maggioranza degli analisti e anche dei giusanalisti, in effetti, condivide


l’idea che il significato sia retto da regole o convenzioni linguistiche, che sia cioè
prescrittivo o normativo 48: idea da cui almeno Guastini senza dubbio discorda,
benché quasi del tutto implicitamente. A conoscenza di chi scrive, infatti, il più
esplicito rigetto da parte di Guastini di questo autentico caposaldo della teoria
analitica del significato si trova in una nota del primo capitolo del trattato Teoria
e dogmatica delle fonti, nella quale, parlando del “modo di vedere” per cui le
definizioni lessicali descriverebbero “regole d’uso di un termine o sintagma”,
Guastini afferma testualmente: “chi scrive ritiene che questo modo di vedere
[secondo cui le definizioni lessicali descriverebbero regole] non distingua
nettamente tra regole (ossia enunciati prescrittivi) e regolarità (ossia sequenze di
comportamenti), e che le definizioni lessicali descrivano, appunto, regolarità e
non regole” 49.
Dunque, le regole del linguaggio non esistono: come ironizza David Lewis,
per criticare una posizione simile, “la nuda verità è che il nostro uso del
linguaggio è conforme a regolarità: e questo è tutto” 50. I problemi, qui, sono
peraltro almeno due. Anzitutto, se davvero non si dessero regole non formulate,
ma solo regolarità – secondo quel modo paralegislativo di concepire le regole
che qui riaffiora (cfr. 2.2.) – allora le regole del linguaggio condividerebbero la
loro inesistenza con tutte quelle regole sociali – morali, di galateo,
consuetudinarie e simili … – che sono qualcosa di più di mere regolarità e
qualcosa di meno di enunciati prescrittivi formulati da un qualche legislatore. Ma
poi, e soprattutto: quando si sostiene la tesi, minoritaria e controintuitiva, che il
significato non sia normativo 51 – perché in questo si risolve l’affermazione di
Guastini che nel linguaggio si diano mere regolarità – non si dovrebbe
argomentarla maggiormente?

2.4. Obiezione dell’irrilevanza della teoria del significato

48 Per la distinzione fra regole, convenzioni e regolarità linguistiche, nonché per la


tesi che si danno regole costitutive del linguaggio e convenzioni della lingua, non mere
regolarità, cfr. almeno J. Searle, Speech Acts: an Essay in the Philosophy of Language
(1969), trad. it. Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Bollati Boringhieri,
Torino, 1976, specie pp. 68-71. Sono in particolare (non le regole costitutive del
linguaggio, ma) le convenzioni della lingua – richiamate in Italia dal primo comma
dell’art. 12 delle Preleggi, e comunque dal carattere “sacralizzato”, “canonico” o meglio
autoritativo del testo delle leggi – a essere normative, a non poter essere violate
dall’interprete.
49 R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p. 5, n. 11.
50 Cfr. D. Lewis, Convention. A Philosophical Study, Harvard U.P., Cambridge
(Mass.), 1968, p. 2, che critica le posizioni di Quine e di Morton White.
51 Sulla normatività del significato insiste persino S. Kripke, Wittgenstein on Rules
and Private Language, Harvard U.P., Cambridge (Mass.), 1982, p. 37: “the relation of
meaning and intention to future action is normative, not descriptive”.
16

Come conseguenza di tutte le difficoltà sollevate dalla teoria del significato


esplicitamente o più spesso implicitamente adottata dagli scettici à la génoise, vi
è stata molto spesso la tendenza, in particolare da parte di Guastini e di
Chiassoni, a considerare la teoria del significato come pressoché irrilevante per
una teoria dell’interpretazione specificamente giuridica 52. Per la verità, come ha
ipotizzato spiritosamente Chiassoni, la tesi dell’irrilevanza della teoria del
significato talvolta rimproverata ai “genovesi” sembra far parte della dottrina
orale o esoterica della Scuola: oltre a non essere mai stata sostenuta
esplicitamente neppure da Guastini – se non in qualche estemporanea battuta
polemica – essa sembra infatti confliggere con tutte le affermazioni in termini di
‘significato’ che costellano i lavori “genovesi” sull’interpretazione, da Tarello in
poi 53.
Come stanno in realtà le cose? Forse così. Vistisi attaccati sul piano della teoria
del significato, gli scettici à la génoise hanno reagito minimizzandone il rilievo per
una teoria dell’interpretazione specificamente giuridica: minimizzazione per la
quale disponevano di almeno due buone ragioni. La prima ragione è la seguente: la
teoria del significato, che attualmente monopolizza l’attenzione di molti filosofi
analitici o postanalitici di lingua inglese, è ormai diventata una disciplina soi disant
scientifica, e comunque talmente tecnica da richiedere un grado di aggiornamento
e/o di sofisticazione analitica quasi eroico per un giurista 54. Si tratta peraltro di
argomento facilmente controvertibile: in effetti, nessuno richiede agli scettici à la
génoise di trasformarsi in teorici del significato, ma semplicemente di tornare a
confrontarsi – trent’anni dopo Tarello – con i problemi sollevati dalla stessa teoria
del significato già da loro implicitamente adottata (cfr. 2.5.).
Ad esempio: quando Guastini, come abbiamo visto sub 2.3., afferma che il
significato si risolve nell’attribuzione di senso all’enunciato da parte del singolo
interprete in ogni particolare istanza di interpretazione – ciò che fra l’altro rende
analitica l’affermazione secondo cui l’interpretazione crea il significato (cfr.
ancora 2.5.) – sta implicitamente adottando quella che Mario Jori, forse
pensando proprio allo scetticismo à la génoise, chiama semiotica orientata
all’atto, contrapponendola alla semiotica orientata al sistema linguistico 55. Lo
stesso Jori, peraltro, osserva che gran parte delle semiotiche effettivamente
sostenute sono intermedie rispetto a questi due poli: nessuno, cioè, sostiene una
semiotica meramente orientata all’atto, quale quella che fa capolino in Guastini.
52 Cfr. anche S. Pozzolo, Congetture sulla giurisprudenza come fonte: relazione
inedita presentata al Quarto convegno italo-spagnolo di teoria del diritto (Trapani, 22-25
settembre 2000).
53 Cfr. P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese”, cit., p. 46.
54 Che la teoria del significato nella tradizione wittgensteiniano-hartiana, peraltro,
non accampi pretese del genere è ricordato da A. Marmor, Interpretation and Legal
Theory, cit., p. 131.
55 Cfr. M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 260.
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La maggior parte dei teorici analitici del diritto, in effetti, sostiene una semiotica
più o meno orientata al sistema, spesso di matrice wittgensteiniana, come quella
di Hart 56.
Per costoro, è ovvio che il significato non è fissato da ogni singolo parlante
o interprete ogni volta che parla o che interpreta – altrimenti, la comunicazione
linguistica potrebbe davvero considerarsi un miracolo – bensì solo dalla
comunità linguistica e nel corso del tempo. Secondo una spiegazione
rigorosamente conforme ai princìpi dell’individualismo metodologico, ogni
parlante concorre inintenzionalmente con tutti gli altri a formare regole e/o
convenzioni linguistiche: non si producono significati intenzionalmente,
almeno da soli. Questa teoria convenzionalistico-moderata del significato,
d’altra parte, non è vangelo; vi sono analisti statunitensi, da Willard Quine a
Donald Davidson, i quali rifiutano l’idea stessa che il linguaggio sia retto da
regole, opinando che queste pretese regole si risolvano in mere regolarità (non
normative) 57: che è poi proprio l’opinione di Guastini, solo più diffusamente
argomentata.
Se per gli scettici à la génoise semiotiche siffatte sono più adeguate all’a-
nalisi del discorso giuridico, non hanno che da dirlo: così esplicitando una teoria
del significato che altrimenti rischia di sottrarsi al controllo e alla critica. Né a
ciò si oppone la seconda ragione, più importante, da essi addotta: il fatto che
negli enunciati giuridici il significato linguistico coincida con il significato
giuridico solo nei – rari – casi chiari o isomorfici (cfr. 2.8.). Come già Fuller
aveva obbiettato a Hart alla fine degli anni Cinquanta 58, in effetti, è del tutto
plausibile che il giurista attribuisca agli enunciati giuridici significati anche assai
distanti dal significato strettamente linguistico: per citare l’ennesima variazione
sul tema del divieto d’ingresso di veicoli nel parco, si troverà sempre un giurista
disposto ad ammettere che, benché un’auto della polizia rientri indiscutibilmente
nel significato di ‘veicolo’, non si tratta affatto di veicolo ai fini giuridici
dell’applicazione del divieto 59.
La seconda ragione è solo apparentemente migliore della precedente, e
finisce per suonare anch’essa come un alibi: in effetti che (la teoria de) il
significato giuridico non possa ridursi a (la teoria de) il significato linguistico,
56 Sul punto si deve dissentire da C. Luzzati, L’interprete e il legislatore, cit., pp.
149-150, che considera orientata all’atto la semiotica wittgesteiniana, salvo ammettere che
essa è non puramente orientata all’atto.
57 Per una critica di queste posizioni, e in particolare per la tesi che le stesse
convenzioni linguistiche siano normative, cfr. ancora D. L. Lewis, Convention, cit., specie
pp. 97-100.
58 Cfr. L. Fuller, Positivism and Fidelity to Law. A Reply to Professor Hart, in
“Harvard Law Review”, 71, 1958, specie pp. 661-669.
59 L’esempio è desunto da F. Schauer, Rules and Rule-Following Argument, in D.
Patterson (ed.), Wittgenstein and Legal Theory, Westview Press, Boulder (Col.), 1992, pp.
226.
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non è una buona ragione per ignorare e l’una e l’altra. Se il significato


linguistico, o enunciativo, o letterale non è certo l’ultima parola per il giurista,
come correttamente afferma Mazzarese (cfr. 2.3.), è però la prima parola: almeno
nel senso che, sinché non si ha almeno una vaga idea dei meccanismi della
significazione in generale, si può dire ben poco della significazione giuridica e
delle sue specificità. Detto ancora altrimenti: è ovvio che nell’interpretazione
giuridica rilevino, oltre alle regole linguistiche, le regole interpretative
specificamente giuridiche (cfr. 2.5. e 2.8.); ma, non foss’altro per poter avanzare
questa tesi, non si dovrebbe prima chiarire il senso di termini come ‘regola’,
‘interpretazione’ e ‘significato’?

2.5. Obiezione della sociologia descrittiva (e della critica dell’ideologia)

Come conseguenza dell’atteggiamento in tema di teoria del significato che ci


si è appena sforzati di illustrare, gli scettici à la génoise tendono a configurare la
teoria dell’interpretazione in termini sociologizzanti: come una teoria empirica,
descrittiva e avalutativa dell’interpretazione giuridica. È stato soprattutto
Chiassoni, nell’apologia dello scetticismo à la génoise citata all’inizio di questa
seconda sezione, a percorrere questa via: sostenendo in particolare che la tesi
dell’irrilevanza della teoria del significato, tanto spesso rimproverata alla scuola,
dovrebbe venire più caritatevolmente riformulata come il principio metodologico
per il quale le teorie del significato vanno considerate (non fini, ma) mezzi di una
teoria dell’interpretazione programmaticamente basata sull’osservazione del
comportamento dei giuristi 60.
Dopo aver opportunamente precisato che una “sociologia” siffatta “include
altresì un lavoro di ricostruzione concettuale dei fenomeni interpretativi, al fine
di elaborarne un modello rappresentativo perspicuo” 61 – altrimenti, come
vedremo, rimarrebbe fuori dal programma la maggior parte di ciò che gli scettici
à la génoise hanno fatto sinora – Chiassoni muove all’attacco della teoria
hartiana del significato, da lui ritenuta, non “uno strumento, fra gli altri, per
indagini empiriche sui discorsi interpretativi dei giudici, dei giuristi degli
avvocati”, ma una sorta di ideologia, utile a contrabbandare “come […] attività
puramente tecnica, conoscitiva, non ideologicamente o politicamente
compromessa” anzitutto la cosiddetta interpretazione letterale o conforme al
significato proprio delle parole, e poi una critica delle interpretazioni difformi da
quella letterale condotta assumendo la possibilità di “distinguere in modo
oggettivo fra soluzioni corrette e soluzioni errate” 62.
La mossa di Chiassoni è tipicamente “genovese”: corrisponde a un modo di
fare teoria – restringendone al minimo lo spazio, e allargando al massimo il
60 Cfr. P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese”, cit., pp. 46-
55.
61 Ivi, p. 48.
62 Ivi, pp. 48-49.
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terreno della critica dell’ideologia – che è direttamente riconducibile all’insegna-


mento di Tarello e che anche il sottoscritto ha lungamente condiviso, tentando
poi di riformularlo nei termini della concezione “terapeutica” wittgensteiniana
della filosofia 63. Di fatto, la (quinta) obiezione qui avanzata non contesta la
legittimità della “caccia alle ideologie”: che pure costituisce in generale una
strategia di immunizzazione dalle obiezioni teoriche, e in questo caso un altro
tipico modo “genovese” per non fare i conti con la (propria) teoria del
significato 64. La quinta obiezione, piuttosto, contesta che possa darsi una teoria
(puramente, o anche prevalentemente) empirica dell’interpretazione e che
comunque la teoria dell’interpretazione “genovese” possa considerarsi tale.
L’obiezione, si badi, non contesta agli scettici à la génoise di predicare bene e
razzolare male: se l’obiezione fosse questa, il recente e impressionante trattato
dello stesso Chiassoni, intitolato La giurisprudenza civile (1999), costituirebbe
già una contro-obiezione sufficiente. La sesta obiezione, piuttosto, si articola in
tre punti. 1) Lo stesso Chiassoni riconosce che una teoria dell’interpretazione
puramente empirica, senza previe definizioni dei termini teorici impiegati, è
semplicemente impossibile. 2) La teoria dell’interpretazione, come hanno
sostenuto Wróblewski e Comanducci, non è neppure prevalentemente empirica,
nel senso di indotta dall’esperienza: si tratta piuttosto di un modello – termine
usato anche da Chiassoni – ossia di un anàlogon dell’esperienza insuscettibile di
falsificazione empirica 65. 3) Lo stesso scetticismo à la génoise è solo un modello
dell’interpretazione giuridica, costruito su (ri)definizioni o stipulazioni come tali
infalsificabili.
La pretesa che una teoria dell’interpretazione sia empirica, va detto, non è
certo patrimonio esclusivo degli scettici: anche sostenitori della teoria mista si
lasciano spesso andare ad affermazioni del tipo “empiricamente, la maggior parte
dei casi decisi dai tribunali è chiara”, come se la discussione non vertesse proprio
sul senso della locuzione ‘casi chiari’ 66. Eppure, come riconosce una tradizione
di filosofia della scienza risalente almeno alla critica humiana dell’induzione,
l’osservazione empirica può solo (sotto)determinare le stesse teorie (empiriche);
nel caso della teoria dell’interpretazione giuridica, poi, siamo di fronte (non a
teorie, ma) a modelli, costruiti a partire dalle definizioni dei termini impiegati.
La stessa teoria dell’interpretazione di Guastini, come si è già notato (cfr. 2.2.),
63 Cfr. M. Barberis, Tarello, l’ideologia e lo spazio della teoria, in “Materiali per una
storia della cultura giuridica”, 1987, pp. 317-355.
64 Qui si concorda quasi completamente con C. Luzzati, L’interprete e il legislatore,
cit., p. 146, là dove contesta agli scettici (“genovesi”?) di considerare la stessa semiotica
“come una raffinata ideologia che, secondo i casi, serve a celare o a giustificare le scelte
assiologiche compiute dagli studiosi e dai pratici”.
65 Cfr. J. Wróblewski, The Judicial Application of Law, cit., specie pp. 23-29, e P.
Comanducci, L’interpretazione delle norme giuridiche, cit., specie pp. 6-8.
66 Cfr., per fare un solo esempio, K. Greenawalt, Law and Objectivity, Oxford U.P.,
Oxford, 1992, pp. 37-39.
20

dipende quasi esclusivamente da stipulazioni relative al significato di


‘interpretazione’; e la teoria proposta da Chiassoni non fa certo eccezione.
Prima di passare all’obiezione successiva, peraltro, consideriamo ancora un
attimo le pretese di avalutatività della (auspicata) sociologia dell’interpretazione
“genovese”. Neppure qui la critica è di predicare bene e razzolare male 67; al
contrario, come pure vedremo sub 2.8., i “genovesi” razzolano sin troppo bene,
ma forse per le ragioni sbagliate: per un teorico che non crede alla normatività
del significato, come Guastini, essere avalutativo è sin troppo facile (che altro si
può fare, dinanzi a semplici regolarità linguistiche?). I problemi cominciano
quando si dice di credere, come fa Chiassoni, nell’esistenza di regole
(interpretative, e anche linguistiche) 68: credenza la quale può appunto indurre a
temere che la normatività del significato costringa a valutare un’interpretazione
corretta o scorretta nel modo che egli rimprovera alla teoria mista 69, rendendo
così impossibile una teoria avalutativa dell’interpretazione.
Il punto è però che l’esistenza di regole linguistiche, e la normatività del
significato, non costringono affatto a rinunciare alle pretese di avalutatività della
teoria dell’interpretazione: come ricorda Hart, una descrizione non perde il
proprio carattere descrittivo per il fatto di vertere su qualcosa di non descrittivo 70.
Una teoria dell’interpretazione può sempre descrivere avalutativamente il fatto
che un’auto della polizia rientra nel significato di ‘veicolo’ in base alle regole
dell’italiano, ma che può non rientrarvi in base a regole dell’interpretazione
giuridica le quali eventualmente impongano di privilegiare lo scopo della norma
e/o del legislatore. Qui ci troviamo di fronte a una descrizione del significato che
in linea di principio non costringe affatto a un atteggiamento committed da parte

67 Come pretende, contro Guastini, P. Becchi, Enunciati, significati, norme.


Argomenti per una critica dell’ideologia neoscettica, in P. Comanducci, R. Guastini (a
cura di), Analisi e diritto 1999, cit., pp. 12-13.
68 Cfr. P. Chiassoni, Interpretive Games: Statutory Construction Through Gricean
Eyes, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999, cit., specie pp. 86 e
ss., dove si teorizza appunto che l’attività interpretativa sia retta da regole: salvo
caratterizzare “semantic” e “grammatical rules” come “stipulations” ed esprimersi,
parlando delle “methodological rules”, in termini di “semantic regularities, or semantic
uses”. Per Chiassoni, dunque, resta il dubbio che per Guastini è una certezza: ovvero che
le regole linguistiche, propriamente parlando, non esistano, strette come sono fra mere
regularities e vere e proprie stipulations.
69 Cfr. ancora P. Chiassoni, ¿Quién salvó a la Constitución?, in P. Comanducci, R.
Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999, cit., p. 294: “sostenere che esiste una risposta
corretta, sebbene nei soli “casi chiari”, ritengo sia un giudizio di valore”.
70 Cfr. H. L. A. Hart, Postscript a The Concept of Law, cit., p. 244. Questa
osservazione, del resto, è stata suggerita al sottoscritto dallo stesso Chiassoni durante una
conversazione telefonica.
21

del teorico dell’interpretazione: né nei confronti delle regole linguistiche, né nei


confronti delle norme giuridiche 71.

2.6. Obiezione della creazione del significato

Si è già osservato come per lo scetticismo à la génoise l’interpretazione fosse


originariamente creazione, o produzione, o ascrizione di significati: tesi dall’in-
certo statuto logico, come potrebbe dirsi per molte delle affermazioni correnti in
teoria dell’interpretazione. Sotto alcuni profili, infatti, parrebbe trattarsi di
proposizione analitica: una ridefinizione o forse una definizione stipulativa di
‘interpretazione’, parzialmente o totalmente infalsificabile dall’osservazione
empirica. Sotto altri profili, invece, parrebbe trattarsi di proposizione empirica,
cioè di generalizzazione induttiva falsificabile producendo esempi contrarî:
possibilità non del tutto esclusa dall’ammissione, compiuta sub 2.5., che le
cosiddette “teorie” dell’interpretazione sono in realtà semplici modelli. Modelli
del genere, in effetti, non possono essere costituiti solo da definizioni
(analitiche), ma devono contenere anche proposizioni (empiriche).
Di fatto, la tesi secondo cui ‘interpretazione’ designa creazione o produzione
o ascrizione di significati nasce, nell’opera di Tarello, come generalizzazione di
esperienze comuni ai giuristi italiani degli anni Settanta: anche se in Guastini
questa stessa tesi pare ormai irreversibilmente trasformata in una definizione di
‘interpretazione’, non più soggetta a falsificazione empirica. Come vedremo
anche sub 2.8., anzi, proprio questa circostanza rende difficile accettare la tesi di
Chiassoni che la teoria “genovese” dell’interpretazione sia, o possa, o debba
essere empirica: se si accettasse questa tesi, in effetti, allora la palese dipendenza
dello scetticismo à la génoise da stipulazioni come la definizione di
‘interpretazione’ di Guastini porterebbe a concludere che si tratta di teoria
dell’interpretazione (non scientifica, ma) metafisica, nel senso di Karl Popper, in
quanto l’accettazione di stipulazioni siffatte la renderebbe palesemente
infalsificabile 72.
Qui, peraltro, si è ammesso che la cosiddetta teoria dell’interpretazione può
considerarsi, al più, un modello dei fenomeni relativi: ovvero la costruzione di
un anàlogon dell’esperienza giuridica, la cui plausibilità o attendibilità rispetto
ad altri modelli dipende da parametri – coerenza interna, esplicatività,
produttività euristica, relativa impermeabilità a ideologie politiche e simili –

71 Ciò non esclude che possano sorgere altri problemi relativi alla descrizione di
norme in genere, e alle proposizioni normative in specie: cfr. T. Mazzarese, Proposizione
normativa. Interrogativi epistemologici e semantici, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura
di), Analisi e diritto 1991, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 193-243.
72 Nei termini della nota “demarcazione” fra scienza e metafisica sostenuta sin dal
1955 in K. Popper, Conjectures and Refutations (1969), trad. it. Congetture e
confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 431-498.
22

comunque diversi dalla falsificabilità empirica. Se dunque non si può obbiettare


allo scetticismo à la génoise la sua infalsificabilità, sembra però possibile
avanzare un’altra obiezione, la sesta della serie: l’obiezione – cui già si alludeva
parlando della terza versione della distinzione hartiana fra formalismo,
scetticismo e teoria mista (cfr. 1.) – che dicotomie del tipo scoperta/creazione
sono troppo rozze per parlare d’interpretazione e, più specificamente, non
permettono di distinguere fra interpretazione e integrazione del diritto.
Che la “falsa dicotomia fra scoprire o inventare il diritto” 73 costringa il
concetto di interpretazione in un letto di Procuste è osservazione sempre più
diffusa: e non solo fra gli ermeneuti, che parlano oscuramente
dell’interpretazione come di un mix di scoperta e creazione 74. Fra gli scettici à la
génoise, anche Chiassoni ha criticato l’adozione “della dicotomia
scoperta/creazione (e simili)” 75: salvo rimproverarla ai soli sostenitori della teoria
mista, quando invece dicotomie del genere si trovano più facilmente in Guastini
che in Hart. Per esempio, Guastini assimila da anni l’interpretazione a
definizione, opponendo un’interpretazione-accertamento, assimilata a
definizione lessicale, a un’interpretazione-decisione, assimilata a definizione
stipulativa 76: quando poi ‘interpretazione-accertamento’ indica in realtà (non
interpretazioni, ma) rilevazioni di interpretazioni altrui, mentre di ‘definizione
stipulativa’ si dirà fra un attimo.
La caratterizzazione guastiniana dell’interpretazione(-decisione) come
creazione, in effetti, è stata caritatevolmente indebolita da Chiassoni
qualificandola “una forzatura “pour épater les juristes”” 77; ammesso e non
concesso che l’interpretazione possa assimilarsi a definizione, in effetti, essa può
assimilare (non a definizione stipulativa, ma semmai) a ridefinizione: quindi
(non a creazione di significati, bensì) a scelta fra un numero finito di significati.
Questa ri-caratterizzazione dell’interpretazione operata da Chiassoni si ritrova in
effetti anche nell’ultimo libro di Guastini Teoria e dogmatica delle fonti, come
vediamo fra un attimo; prima, però, osserviamo come la concezione “creativa”
dell’interpretazione precedentemente sostenuta da Guastini non consenta di
distinguere fra interpretazione strettamente intesa e cosiddetta integrazione del
diritto: distinzione che egli invece accetta e anzi reitera in più sedi.
Chi sostiene che l’interpretazione “crea” il significato, in effetti, deve poi
chiarire in cosa questa “creazione” differisca dalla creazione vera e propria: cioè

73 Così R. Dworkin, Law’s Empire (1985) trad. it., L’impero del diritto, Il Saggiatore,
Milano, 1989, p. 215.
74 Cfr. G. Zaccaria, F. Viola, Diritto e interpretazione. Lineamenti di una teoria
ermeneutica del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1999, specie pp. 114, 260, 454.
75 P. Chiassoni, ¿Quién salvó a la Constitución?, cit., pp. 274-275.
76 R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., pp. 333-338, e Id., Teoria e
dogmatica delle fonti, cit., pp. 6-7.
77 Cfr. P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese”, cit., p. 41.
23

dalla produzione di diritto compiuta dal legislatore, e anche dal giudice in sede di
integrazione. In Dalle fonti alle norme, ad esempio, Guastini negava l’esistenza
di norme implicite – in ossequio alla solita, rigidissima teoria della language-
dependance di norme (cfr. 2.2. in fine) – assumendo che esse siano “frutto di
produzione (o integrazione) del diritto. […] la distinzione fra disposizione e nor-
ma si presta anche a questo uso: tracciare una linea di demarcazione tra interpre-
tazione di documenti normativi e integrazione del diritto” 78. Se però “interpretare
è produrre una norma. Per definizione, le norme sono prodotte dagli interpreti”,
come pure Guastini sosteneva, tracciare tale linea di demarcazione diventa
problematico: sia ‘interpretazione’ sia ‘integrazione’, infatti, significano
creazione di norme.
Peraltro, come si è detto, Guastini ha poi riformulato la distinzione fra
interpretazione e integrazione in termini, rispettivamente, di decisione o
proposta e di vera e propria creazione di norme: ammettendo che l’integrazione è
“assimilabile più alla legislazione […] che all’interpretazione propriamente
detta”, e che quest’ultima non è creazione 79. In Teoria e dogmatica delle fonti, da
ultimo, Guastini riconosce che “altro è “produrre una norma” nel senso di
interpretare – cioè decidere il significato di – un testo normativo preesistente,
altro è “produrre una norma” nel senso di formulare un testo normativo ex novo”.
Pur considerando la distinzione meramente quantitativa, fra diversi gradi di
discrezionalità, Guastini ammette finalmente che è “di fatto impossibile per un
giudice attribuire a un testo – letteralmente – “qualsiasi significato”, a suo
piacimento” 80: dove va sottolineato il ‘di fatto’, coerente con l’idea che il
linguaggio sia retto da mere regolarità.
Nel suo ultimo contributo sistematico, dunque, Guastini ammette la
fondatezza della sesta obiezione – che può quindi rivolgersi solo ai suoi lavori
precedenti – e riconosce che la “creazione” del significato è in realtà una scelta
entro un novero di significati dati. Che i giudici creino diritto – come il legislatore
– è dunque solo una metafora pour épater les juristes (et les citoyens aussi): salvo
i casi di integrazione del diritto, infatti, la pretesa “creazione” si riduce alla scelta
fra un numero finito di opzioni. Tale conclusione potrebbe essere salutata con
sollievo: se non segnasse l’abbandono dello scetticismo, e l’accettazione della
teoria mista. Il punto, in effetti, è proprio questo: che rispetto a varie versioni della
distinzione fra (formalismo,) scetticismo e teoria mista, e in particolare rispetto
alla quarta versione – indeterminatezza vs. sottodeterminatezza (cfr. 1.) – la
posizione di Guastini (e di Chiassoni) comporta l’accettazione della teoria mista.
La cosa diventa più chiara, forse, considerando la sostanziale adesione di
Guastini (e di Chiassoni) alla teoria dell’interpretazione “ufficiale” di Kelsen:
78 R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., p. 33.
79 R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Giappichelli,
Torino, 1996, p. 171 (corsivo aggiunto: dunque, dopotutto vi è un significato proprio delle
parole).
80 R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p. 103.
24

teoria per la quale il giudice sceglie la norma individuale entro la “cornice” dei
significati della norma generale (benché poi la norma individuale sia valida,
almeno sinché non annullata da un giudice superiore, anche se scelta al di fuori
di tale cornice) 81. Il sottoscritto, per la verità, ha sempre dubitato che possa
parlarsi di una teoria kelseniana dell’interpretazione, nel senso di attribuzione di
significato a testi: ciò che interessa a Kelsen, in realtà, è la produzione-
applicazione di diritto, e l’interpretazione gli interessa solo nella misura in cui
comporti produzione-applicazione. Ma ammettiamo che la tesi della cornice
comporti una teoria dell’interpretazione: orbene, questa sarebbe una teoria (non
dell’indeterminatezza, ma) della sottodeterminatezza dell’interpretazione, come
tale ascrivibile alla teoria mista.
Come Guastini teorizza in Distinguendo (1996), recuperando chiaramente la
teoria kelseniana della cornice, potrebbero in effetti darsi due tipi di decisioni
interpretative: le prime operate entro la cornice, le seconde fuori. Nel primo caso
(decisioni entro la cornice), l’interprete si limita effettivamente a scegliere fra i
significati attribuibili all’enunciato: e attribuibili all’enunciato, si potrebbe
aggiungere, in base alle regole linguistiche e/o interpretative comunemente accettate
dagli interpreti. Nel secondo caso (decisioni fuori dalla cornice) l’interprete non
sceglie ma crea il significato da attribuire all’enunciato: ciò che – salvo si versi in
un caso d’integrazione di lacune – equivale a ignorare o violare, si potrebbe pure
aggiungere, le regole di cui sopra. Orbene, non solo Guastini ammette che nel primo
caso l’interprete si limita a scegliere, e non a creare, ma giunge a dubitare che nel
secondo caso – il caso della creazione – si possa ancora parlare propriamente di
interpretazione 82.
In realtà, vi è almeno un aspetto della teoria della cornice, e della stessa
posizione di Guastini (e Chiassoni), che potrebbe ancora considerarsi scettico:
benché una cornice vi sia – ciò che, a parere del sottoscritto, presuppone regole
linguistiche o interpretative che la fissino – il giudice può sempre ignorarla, e
produrre norme almeno provvisoriamente valide anche al di fuori di essa. Come
vedremo specificamente sub 2.8., discutendo una tesi analoga di Chiassoni, tutta
la questione è relativa al senso di quel ‘può’; ma qui si deve senz’altro
ammettere che questo aspetto della teoria della cornice getta più di un’ombra
sull’accettazione della teoria mista da parte degli scettici à la génoise. In
particolare, l’adesione di Guastini e Chiassoni alla teoria mista appare dubbia
almeno rispetto a una delle versioni della distinzione fra (formalismo,)

81 Il riferimento è a H. Kelsen, Reine Rechtslehre (1960), trad. it., Dottrina pura del
diritto, Einaudi, Torino, 1966, pp. 386-388: il quale da un lato ammette che il giudice
debba scegliere entro una cornice di significati, salvo osservare che di fatto nulla gli
impedisce di scegliere al di fuori della cornice, e quindi di “creare” in senso proprio.
82 Cfr. R. Guastini, Distinguendo, cit., p. 70, in particolare l’inciso “ammesso che sia
ancora il caso di usare il vocabolo ‘interpretazione’ in questo contesto” (il contesto, cioè
della creazione di nuovi significati).
25

scetticismo e teoria mista considerate sub 1.: la quinta, relativa all’ammissione


dell’esistenza di casi chiari.
Se il giudice, un ultima istanza potesse sempre violare le regole linguistiche e
interpretative che fissano la cornice, infatti, ogni caso chiaro potrebbe diventare o-
scuro, e tornerebbe problematico parlare di casi chiari. È anche vero, però, che se i
“genovesi” accettassero inequivocamente l’esistenza di casi chiari, la loro posizione
diverrebbe solo una versione radicale della teoria mista; la differenza fra le due
teorie, in particolare, decadrebbe a meramente quantitativa: semplicemente, la
maggior parte dei casi sarebbe difficile per gli scettici à la génoise, facile per gli
hartiani 83. Resta però questo dubbio sui casi chiari, che verrà considerato dalle
prossime due obiezioni; anche se in questa sede si può già azzardare un’ipotesi.
Sinché le tesi dello scetticismo à la génoise restano inequivocamente scettiche, esse
finiscono per apparire insostenibili agli stessi “genovesi”; quando vengono corrette
per renderle più sostenibili, invece, esse divengono una mera variante della teoria
mista.

2.7. Obiezione dell’ammissione dei casi chiari, e della negazione della loro
rilevanza

Non percependo che solo l’ammissione di casi chiari, ormai, separa lo


scetticismo à la génoise dalla teoria mista, gli scettici “genovesi” tendono ad
ammettere l’esistenza di casi chiari – eccetto quanto vedremo sostenuto da
Chiassoni sub 2.8. – salvo minimizzarne la rilevanza: ci saranno ben dei casi
chiari, essi affermano, ma in fondo che importa, tutti i casi interessanti sono
oscuri 84. Ad esempio, Guastini, in Teoria e dogmatica delle fonti, ragiona proprio
così: “Per amore di discussione, si può anche ammettere la possibilità che un
giudice si imbatta in un enunciato legislativo né vago né ambiguo, tale da
esprimere un significato univoco, cosicché egli non abbia alcun potere
discrezionale nel dare ad esso applicazione. Ma ciò non fa alcuna differenza: lo
statuto logico dell’enunciato interpretativo del giudice non cambia”, trattandosi
sempre di decisione e/o di scelta (cfr. 2.8.) 85.
Questo duplice atteggiamento nei confronti dei casi chiari – ammissione da
un lato, dichiarazione d’irrilevanza dall’altro – si presta a molte obiezioni. Un’o-
83 Anche qui, peraltro, il dissenso non sarebbe insormontabile: le due teorie
potrebbero concordare, per esempio, che a essere oscura è solo la maggior parte dei casi
di applicazione giudiziale.
84 Cfr. R. Guastini, Genaro Carrió cit., pp. 155-158; Id., Le fonti del diritto e l’interpre-
tazione, cit., p. 339. Cfr. anche D. Kairys, Legal Reasoning, in Id. (ed.), The Politics of Law:
a Progressive Critique, Panteheon Books, New York, 1982, specie pp. 13-17, e M. Tushnet,
Following the Rules Laid Down: a Critique of Interpretivism and Neutral Principles, in
“Harvard Law Review”, 1983, specie p. 819, nonché L. Solum, Indeterminacy, cit., p. 499,
per l’obiezione che molte forme di quest’argomento sono circolari.
85 R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., pp. 7-8.
26

biezione già considerata riguarda l’indifferenza per la teoria del significato: l’e-
sistenza di casi chiari o paradigmatici, come vedremo ancora fra poco, è infatti
un autentico postulato della teoria del significato che da Hart rimonta a
Wittgenstein 86, e ignorare questo suo ruolo si giustifica, se si giustifica, solo in
quanto una teoria del significato linguistico non è ancora una teoria del
significato giuridico (cfr. 2.4.). Un’altra obiezione potrebbe consistere nel
rilevare il carattere controintuitivo dell’affermazione che il giudice decide o
sceglie anche quando, in realtà, non potrebbe o dovrebbe far altro che accettare,
adottare o aderire a l’unico significato ammissibile: ma che questa affermazione
possa essere accettabile, e comunque dipenda dal modello “genovese”
dell’interpretazione, lo si vedrà sub 2.8.
L’obiezione (la settima) mossa in questa sede, invece, si limita a osservare
che Guastini, da un lato, ammette troppo facilmente l’esistenza di casi chiari,
dall’altro sottovaluta la rilevanza di tale concessione per l’esistenza dello
scetticismo à la génoise. Cominciando dalla troppo facile concessione
dell’esistenza di casi chiari, va detto che in almeno un senso si può davvero dire
che tutti i casi siano oscuri: nel senso, cioè, di potenzialmente oscuri; come
afferma una tesi che potrebbe chiamarsi dell’oscurità potenziale del diritto,
infatti, testi giuridici chiarissimi possono sempre diventare oscuri nella loro
applicazione al caso concreto. Per questa tesi militano almeno tre argomenti: 1)
l’argomento della open texture (nel senso originario di vaghezza potenziale); 2)
l’argomento della dissociazione, come lo ha chiamato lo stesso Guastini; 3)
l’argomento della defettibilità (defeasibility), oggi largamente discusso specie fra
i teorici di lingua castigliana.
Per l’argomento della open texture, anzitutto, qualsiasi concetto non
attualmente vago può sempre diventarlo rispetto a qualche caso particolare di
applicazione 87: dunque, e a maggior ragione, anche un concetto giuridico
nient’affatto vago può sempre diventarlo in qualche caso d’applicazione
imprevedibile a priori. Per l’argomento della dissociazione, poi, è sempre possibile
per il giurista creare lacune (assiologiche) sostenendo che il legislatore non ha
considerato proprietà del caso che avrebbe invece dovuto considerare: sicché il
giudice, in particolare, può sempre aggirare la prescrizione della norma 88. Per
l’argomento della defeasibility, infine, (tutte) le norme giuridiche (e non solo i
86 Sul punto, insiste tutto il neo-hartismo contemporaneo: cfr. in particolare B. Bix,
Law, Language and Legal Determinacy, Clarendon, Oxford, 1993, e A. Marmor,
Interpretation and Legal Theory, cit., nonché ancora M. Barberis, Seguire norme
giuridiche, cit.
87 Cfr. F. Waissman, Verificability (1945), trad. it. in Id., Analisi linguistica e
filosofia, Ubaldini, Roma, 1970, pp. 77-43. Fra i teorici del diritto che hanno conservato
l’accezione originaria di ‘open texture’, bisogna ricordare almeno Carlos Nino: cfr. Id.,
Introducción al análisis del derecho (1973-1975; 1980), trad. it. Introduzione all’analisi
del diritto, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 235-237 e Id., Derecho, moral y política,
(1994), trad. it. Diritto come morale applicata, Giuffrè, Milano, 1999, p. 78.
27

princìpi) vanno considerate condizionali (non materiali, ma) defettibili, sottoposti a


condizioni implicite non previste dal legislatore 89: sicché il giudice, in particolare,
può sempre allegare il verificarsi di una condizione implicita al fine di eludere la
prescrizione della norma.
Questi tre argomenti in favore della tesi dell’oscurità potenziale, cui si dovrà
accennare anche in seguito (cfr. 2.8.), costituiscono probabilmente le ragioni
migliori a favore dello scetticismo interpretativo: benché poi si rivelino
insufficienti a fondarlo. Infatti, la tesi che tutti i testi, nella loro applicazione ai casi,
siano potenzialmente oscuri – tesi sostanzialmente riprodotta da tutt’e tre gli
argomenti – presuppone che attualmente si diano casi chiari: come tutti i casi
possono diventare oscuri, infatti, così possono restare chiari, ammesso che lo
fossero originariamente. Certo, i giuristi, e in particolare i giudici 90, possono
sempre rendere oscuro un caso chiaro: ma ciò presuppone appunto che il caso,
prima, fosse chiaro 91. È vero, chiarezza od oscurità di un testo, e del caso relativo,
sono funzione (anche) dell’interprete, come riconoscono le versioni “pragmatiche”
della teoria mista (cfr. 2.1): ma ciò non costituisce una ragione per negare che
possano darsi casi chiari.
Consideriamo ora la rilevanza dell’ammissione di casi chiari. Non c’è forse
bisogno di argomentare ulteriormente che gli scettici à la génoise minimizzano
l’importanza dei casi chiari: Guastini concede tanto facilmente che si diano casi
chiari, forse, non perché sia davvero convinto della loro esistenza, ma perché
pensa che essa sia irrilevante per la teoria dell’interpretazione. Il problema,
peraltro, non è solo che casi chiari esistono, e che anzi i migliori argomenti
addotti o adducibili dallo scetticismo interpretativo ne presuppongono
l’esistenza; il problema è che ammetterli, come si è visto, equivale ad accettare la
teoria mista. Come se non bastasse, gli scettici à la génoise sembrano non
accorgersi che, già in Hart, l’esistenza di casi chiari e l’insostenibilità dello
scetticismo interpretativo derivano da un principio generalissimo, formulato
occasionalmente da Wittgenstein in uno di quegli “aforismi” sui quali essi
occasionalmente ironizzano 92.
88 Cfr. in particolare R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., pp. 374-
377.
89 Cfr. in particolare il recente dibattito su “Derrotabilitad de las normas y
conocimiento del derecho”, svoltosi su “Isonomía”, 13, 2000, pp. 5-117, a cura di Pablo
Navarro e con concontributi di Carlos Alchourrón, Cristina Redondo, Eugenio Bulygin,
Pablo Navarro, Jorge Rodríguez e Juan Carlos Bayón.
90 Come insiste S. Pozzolo, Appunti su un “nobile sogno”, una “veglia” e il suo
“incubo”, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999, cit., p. 288, contro
la tendenza dei sostenitori della teoria mista a privilegiare casi diversi da quelli di
applicazione giudiziale.
91 Per quest’argomento, cfr. ancora L. L. Solum, Indeterminacy, cit., p. 493.
92 Cfr. ancora P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della “scuola genovese”, cit.,
p. 38.
28

Si tratta del principio – formulato dall’ultimissimo Wittgenstein contro lo


scetticismo in generale – per cui si può di volta in volta dubitare di ogni cosa,
singolarmente presa, ma non si può dubitare di tutto tutt’insieme 93. Anche lo
scetticismo interpretativo, in effetti, sembra ignorare che, per poter discordare su
qualcosa, bisogna prima concordare su qualcos’altro: che perché si diano giochi
linguistici come quelli dell’interpretazione e del dubbio, devono (non possono non)
esservi delle regole che li reggono, e quindi qualcosa soggetto né a interpretazione
né a dubbio. Peraltro, approfondire questo principio, e più in generale la tematica
semiotica dei limiti dell’interpretazione, ci porterebbe troppo lontano; qui
accontentiamoci di aver mostrato che gli scettici à la génoise minimizzano la
rilevanza dei casi chiari, esponendosi così a un rischio: il rischio di finire per
accettare il nucleo della teoria mista credendo di rendere solo più difendibile il loro
scetticismo.

2.8. Obiezione del caso isomorfico e della sua descrizione avalutativa

Ai punti precedenti si è visto come, dopo le ammissioni di Guastini e


Chiassoni, lo scetticismo à la génoise e la teoria mista siano separati solo
dall’accettazione – pure compiuta da Guastini – dell’esistenza di casi chiari.
Come si è accennato, d’altra parte, Guastini ribadisce il carattere decisionale
della stessa interpretazione compiuta in un caso chiaro: ovvero in quel caso
d’isomorfia (isomorphy), in cui significato linguistico e significato giuridico
dell’enunciato coincidono in un unico significato 94. Chiassoni riformula questa
stessa tesi, nel suo volume su La giurisprudenza civile, in termini di nomopoiesi
e nomotesi: nel caso isomorfico, cioè, il giudice non produrrebbe diritto “nuovo”
(nomopoiesi), ma imporrebbe pur sempre una soluzione (nomotesi), che non
potrebbe comunque considerarsi vera come invece vedremo ritenere taluni
sostenitori della teoria mista 95.
Questa tesi degli scettici à la génoise è accettabile: e sia pure su basi
parzialmente diverse. Come sembra aver intuito Comanducci, quando afferma che
interpretazione in senso ampio e in senso stretto sono compatibili (cfr. 1.), e
quando ridenomina i tre sensi di ‘interpretazione’ di Wróblewski come
ermeneutico, semantico e giuridico 96, in tutti i casi d’interpretazione, compresi
93 Cfr. L. Wittgestein, Über Gewißheit. On Certainty (1969), trad. it. Della certezza,
Einaudi, Torino, 1978, p. 38 (§ 232): “Potremmo mettere in dubbio ciascuno di questi
singoli fatti, ma metterli in dubbio tutti non possiamo”.
94 Cfr. ancora M. Dascal, J. Wróblewski, Transparency and Doubt, cit., p.215: “the
text fits the case under consideration directly and unproblematically […] i. e. with no need
to look for a meaning other than its semantically computed utterance meaning”.
95 Cfr. P. Chiassoni, La giurisprudenza civile, cit., p. 265, e M. Dascal, J.
Wróblewski, Transparency and Doubt, cit., p. 214, per i quali ultimi qui vi è solo
adozione (endorsement) di un significato già dato.
96 Cfr. ancora P. Comanducci, Interpretazione delle norme giuridiche, cit., pp. 2-4.
29

quelli isomorfici, si da, e non può non darsi, interpretazione in tutt’e tre i sensi:
anzitutto, l’enunciato va riconosciuto come oggetto culturale (interpretazione in
senso latissimo o ermeneutica); poi, l’enunciato va compreso in base a regole
linguistiche (interpretazione in senso lato, o semantica); infine, l’enunciato va
interpretato in base a regole interpretative specificamente giuridiche
(interpretazione in senso stretto, o giuridica), attribuendogli un significato
giuridico che solo nel caso isomorfico deve necessariamente coincidere, per
definizione, con il significato linguistico.
Torniamo all’esempio dell’applicazione del divieto d’ingresso di veicoli a
un’auto della polizia (cfr. 2.4.): per applicare tale divieto occorre interpretarlo
(attribuire un significato all’enunciato che lo esprime) in tutti e tre i significati di
‘interpretazione’ di Wróblewski. Anzitutto, occorre interpretare la formulazione
del divieto come oggetto culturale, e non come insieme di grafi senza senso; poi,
occorre interpretarlo in base alle regole o convenzioni linguistiche dell’italiano,
per le quali ‘veicolo’ si estende pacificamente alle automobili e anche alle auto
della polizia; infine, occorre interpretarlo in base alle regole interpretative
specificamente giuridiche, per le quali, se scopo del divieto è escludere dal parco
solo i veicoli che ne turbano la quiete – e quindi senza dubbio le automobili
private (caso isomorfico) – allora l’auto della polizia non deve considerarsi un
veicolo, beninteso ai fini giuridici dell’applicazione del divieto.
La tesi di Guastini e Chiassoni è dunque accettabile nel senso che anche in un
caso isomorfico si dà pur sempre un atto di decisione (Guastini), o di nomotesi
(Chiassoni) o di interpretazione giuridica (Comanducci); in particolare, anche in
un caso isomorfico – come, nell’esempio appena addotto, il caso dell’automobile
privata – l’interprete compirà sempre qualcosa di più che un semplice atto di
scoperta. Per stabilire l’isomorficità del caso, infatti, l’interprete dovrà sempre
consultare sia le regole linguistiche sia le regole interpretative giuridiche: e la
soluzione conforme ad entrambe, anche in un caso d’isomorfia, non potrà mai
dirsi semplicemente vera (corrispondente a qualche realtà), ma al massimo
corretta (conforme a regole). Il punto su cui verte l’ottava obiezione, peraltro, è
che gli scettici à la génoise sembrano respingere la possibilità di parlare, oltreché
di un’interpretazione vera, anche solo di un’interpretazione corretta.
Come mostra una recente discussione fra Chiassoni e José Juan Moreso,
persino di fronte a un caso isomorfico, che per definizione ha un’unica
soluzione, gli scettici à la génoise rifiutano di qualificare scorrette soluzioni
diverse: così tornando a revocare in dubbio l’esistenza di casi chiari, e
compiendo quello che può considerarsi un estremo tentativo di sottrarre lo
scetticismo à la génoise all’abbraccio mortale della teoria mista. Moreso,
autorevole esponente del neo-hartismo, aveva criticato lo scetticismo
interpretativo, nel suo libro La indeterminación del derecho y la interpretación
de la constitución (1997), producendo appunto un esempio di caso isomorfico:
una decisione del Tribunal Constitucional spagnolo in tema di delitto flagrante,
nella quale la Corte, di fronte alla convergenza dell’intera dottrina sul significato
30

da attribuire alla disposizione costituzionale in materia, le aveva senz’altro


attribuito tale unico significato 97.
Secondo Moreso, qui, il giudice produrrebbe addirittura un’interpretazione
vera: come se un’interpretazione potesse corrispondere alla realtà, e non, più mo-
destamente, a regole (linguistiche e interpretative). Chiassoni, invece, si sforza di
mostrare che quello addotto da Moreso non è un autentico caso isomorfico,
producendo molti argomenti in tal senso 98: argomenti che peraltro è qui possibile
ignorare – come del resto quelli addotti da Moreso nella successiva replica 99 –
perché il punto non è interpretativo (se si tratti o no di caso isomorfico) ma
teorico, ed è il seguente. Ammettiamo per ipotesi – come anche gli scettici à la
génoise in qualche modo ammettono – che possa darsi un autentico caso
isomorfico, astraendo dal problema se il caso addotto da Moreso possa
considerarsi tale: orbene, Chiassoni sarebbe disposto a riconoscere che tale caso
ha un’unica soluzione corretta, come fa la teoria mista, oppure insisterebbe che il
giudice può sempre decidere diversamente?
A giudicare da quanto Chiassoni scrive sia a proposito del caso addotto da
Moreso, sia nel libro sulla Giurisprudenza civile, non vi è alcun dubbio: ‘caso
isomorfico’, per lui, designa solo un caso giuridico che sinora è stato risolto
uniformemente in un certo modo, ma che potrebbe sempre risolversi in un modo
diverso. Nella discussione con Moreso, in particolare, Chiassoni osserva che ove
il giudice attribuisca all’enunciato l’unico significato che gli è stato sinora
attribuito, manifesterebbe nient’altro che “conformismo interpretativo”: ovvero
“una scelta” uguale e contraria alla scelta (“anticonformista”?) di decidere
altrimenti 100. Nel libro sulla Giurisprudenza civile, analogamente, egli osserva
che “la pedissequa applicazione di una regola formulata in un precedente
provvedimento documenta […] non già l’assenza di scelte e la “meccanicità” del
sentenziare, bensì la scelta di non innovare” 101.
Messi di fronte a un autentico caso isomorfico, in altri termini, Chiassoni e
gli altri scettici à la génoise reagirebbero come di fronte a qualsiasi altro caso
(non-isomorfico): il giudice deve decidere in un modo, ma può anche decidere
altrimenti. Se poi il giudice decide davvero altrimenti, ignorando la convergenza
delle regole linguistiche e interpretative su un unico significato, il teorico dell’in-
terpretazione non batterà ciglio, a pena di venir meno al dovere di avalutatività.
Mentre nel modello “misto” le due interpretazioni del giudice possono
97 Cfr. J. J. Moreso, La indeterminación del derecho y la interpretación de la
constitución (1997), trad. ingl. Legal Indeterminacy and Constitutional Interpretation,
Kluwer, Dordrecht, 1998, pp. 156-160.
98 Cfr. P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della scuola genovese”, cit. e Id.,
¿Quién salvó a la Constitución, cit.
99 Cfr. J. J. Moreso, De nuevo sobre la Vigilia. A modo de réplica a mis críticos, in P.
Comaducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999, cit., specie pp. 319-322.
100 P. Chiassoni, ¿Quién salvó a la Constitución, cit., p. 275.
101 P. Chiassoni, La giurisprudenza civile, cit., p. 265.
31

descriversi – se non come vera e falsa, almeno – come corretta o scorretta, nel
modello “genovese” vi è spazio solo per la registrazione delle scelte
dell’interprete, distinguibili esclusivamente come più o meno “conformistiche” o
“anticonformistiche” (cfr. 2.5.). Per gli scettici à la génoise, insomma, un caso
isomorfico va descritto come un caso non isomorfico: anche per questo
l’esistenza del primo può essere ammessa a cuor leggero.
Il punto è abbastanza sottile, nonché decisivo per l’autonomia dello scetticismo
à la génoise dalla teoria mista, da indurre a chiedersi in che senso, per Chiassoni e
più in generale per gli scettici à la génoise, l’interprete può sempre decidere
altrimenti: tesi già emersa considerando l’accettazione “genovese” della teoria
della cornice (cfr. 2.6.). Per lo scetticismo à la génoise, proprio come per Kelsen,
la scelta interpretativa avviene di regola entro un novero di significati dati, ma può
anche avvenire al di fuori di essi; in un caso isomorfico, in particolare, la scelta
interpretativa dovrebbe sì restringersi a un unico significato, ma potrebbe poi
allargarsi a significati diversi. Orbene, si può ipotizzare che per gli scettici à la
génoise l’interprete possa sempre scegliere altrimenti, anche in un caso isomorfico,
in un senso del verbo ‘potere’ che oscilla fra i tre seguenti: un senso meramente
descrittivo, un senso meramente prescrittivo, oppure un senso descrittivo di
prescrizioni.
Nel primo senso di ‘potere’, meramente descrittivo, l’interprete può sempre
attribuire a un enunciato un significato diverso dall’unico ammissibile, visto che
niente e nessuno lo costringe fisicamente. In questo senso, peraltro, la tesi “ge-
novese” diviene tanto ovvia quanto irrilevante: certo che l’interprete può sempre
interpretare a suo libito, ma ciò rileva per la teoria dell’interpretazione solo a
condizione di ammettere, con Guastini, che non esistano regole, ma solo
regolarità linguistiche (cfr. 2.3.); ammesso questo, tutto ciò che resterebbe da
fare sarebbe registrare come si è interpretato in passato e tentare di prevedere
come si interpreterà in futuro 102. Orbene, quando Chiassoni mette sullo stesso
piano le due soluzioni opposte del caso isomorfico, sembra ricadere in una
posizione del genere; non si può neppure dimenticare, peraltro, che altrove egli
sembra ammettere, sia pure non del tutto inequivocamente, l’esistenza di regole
linguistiche e interpretative.
Nel secondo senso di ‘potere’, meramente prescrittivo, l’interprete può
sempre attribuire a un enunciato un significato diverso dall’unico ammissibile
perché è sempre autorizzato a far così… dalla stessa teoria dell’interpretazione.
In questo senso, peraltro, la tesi “genovese” diverrebbe una prescrizione agli
interpreti: prescrizione che non solo violerebbe il postulato dell’avalutatività
della teoria dell’interpretazione, tanto caro agli scettici à la génoise, ma che ben
potrebbe essere accusata di aderire all’ideologia giusliberistica estrema per la
quale i giudici sono sempre autorizzati a creare diritto. Infatti, in questa seconda
102 Si riconoscerà di nuovo, qui, una posizione simile a quella dell’Alf Ross di On
Law and Justice, che conferma così di aver giocato un ruolo importante nella formazione
dello scetticismo à la génoise.
32

interpretazione della tesi di Chiassoni – complessivamente poco plausibile, per


tutto ciò che si è detto sinora, e con la sola parziale eccezione di quanto si dirà
sub 2.9. – essa prescriverebbe ai giudici di creare diritto (non solo in casi di
lacuna, non solo in casi già regolati dal diritto, ma) in casi per ipotesi già regolati
univocamente.
Nel terzo senso di ‘potere’, descrittivo di prescrizioni, l’interprete può sempre
decidere altrimenti in quanto autorizzato dalle stesse regole interpretative
giuridiche, che consentirebbero sempre la trasformazione di un caso chiaro in
oscuro. In questa terza e apparentemente più caritatevole interpretazione,
Chiassoni farebbe poco più che richiamare la tesi qui chiamata dell’oscurità
potenziale (cfr. 2.7.): tesi che presuppone l’esistenza di casi chiari, ma ammette
la loro trasformazione in casi oscuri. Anche in questa interpretazione, peraltro,
resterebbero molti problemi. Che cosa distingue, allora, un caso chiaro o
isomorfico da uno che non lo è? Una teoria dell’interpretazione che pretende di
descrivere quello “che fanno effettivamente i giuristi” non dovrebbe poter
distinguere fra interpretazioni corrette e non corrette? A che serve una teoria
dell’interpretazione per la quale, alla fine, (quasi) tutte le interpretazioni sono
corrette?
Va sottolineato, in conclusione, che anche l’obiezione del caso isomorfico,
come le precedenti, non è certo tale da falsificare lo scetticismo à la génoise,
come semplice modello dell’interpretazione (cfr. 2.5.).Tale obiezione sembra
peraltro confermare l’ipotesi già avanzata sub 2.6. in fine: il modello
“genovese” sembra plausibile sinché corrisponde al modello “misto” – sinché
ammette, cioè, che l’interpretazione sceglie entro una cornice di significati –
mentre diviene problematico quando va oltre. Il modello “genovese” diviene
problematico, in particolare, quando sostiene che la cornice può sempre essere
messa da parte – non solo di fatto, ma anche di diritto – e che comunque una
teoria avalutativa dell’interpretazione non possa discriminare fra
interpretazioni corrette e scorrette. Quest’ultimo aspetto del modello
“genovese” – forse l’unico che ancora lo distingua dal modello “misto” –
solleva peraltro un’ulteriore obiezione: la nona.

2.9. Obiezione dell’ideologicità

Se la sesta obiezione aveva suggerito che quando lo scetticismo à la génoise


si riavvicina alla teoria mista diventa più plausibile, l’ottava obiezione sembra
aver confermato che, quando si sforza di restare scettico, esso torna a risultare
implausibile. Poiché peraltro Chiassoni e gli altri “genovesi” hanno ancora un
ottimo argomento da spendere – e cioè che, nonostante tutti i suoi difetti, lo scet-
ticismo à la génoise resta comunque un modello teorico complessivamente utile
alla conoscenza dell’interpretazione giuridica effettiva – prima di saltare subito
alle conclusioni consideriamo un’ultima obiezione. Si tratta dell’obiezione
33

secondo cui anche lo scetticismo à la génoise sarebbe affètto da un’ideologia u-


guale e contraria a quella del formalismo; mentre il formalismo, cioè, avrebbe un
atteggiamento oggettivamente anti-giudiziale, la teoria “genovese” avrebbe un
atteggiamento oggettivamente filo-giudiziale.
Nelle sue forme meno sofisticate, questa obiezione è certamente infondata:
come mostra la strenua difesa da parte di Chiassoni del principio di avalutatività,
lo scetticismo à la génoise è sospettabile di indulgenze filo-giudiziarie solo alle
origini, quando ha effettivamente cavalcato la tigre dell’“uso alternativo del
diritto”, ma non certo nelle sue versioni più mature, dal tarelliano
L’interpretazione della legge sino ai più volte citati libri di Guastini e dello stesso
Chiassoni 103. Al contrario, l’enfasi sulla creazione di diritto da parte dei giudici,
già in Tarello e poi nei suoi allievi, è sempre più venuta ad assumere forza di
monito contro i pericoli di una discrezionalità giudiziale tanto più incontrollata
quanto meno riconosciuta; e comunque, già il fatto che lo scetticismo à la génoise
si presti tanto a usi filo-giudiziali quanto a usi anti-giudiziali costituisce un
bell’indizio del suo carattere neutrale rispetto agli impieghi politici che possono
farsene.
Più in generale, il pregio che lo scetticismo à la génoise può effettivamente
vantare, rispetto ad altre teorie dell’interpretazione, consiste proprio nella sua
idoneità a smascherare la discrezionalità giudiziale ovunque si annidi (e magari
anche dove non c’è); persino la raffigurazione del caso isomorfico negli stessi
termini del caso non isomorfico (cfr. 2.8.), in effetti, potrebbe essere difesa
argomentando che questo è il prezzo da pagare per un modello finalizzato allo
smascheramento della nomopoiesi giudiziale. Dovendo scegliere fra un modello
teorico, come quello fornito dalla teoria mista, più indulgente nei confronti dei
modi di esprimersi e di pensare dei giuristi ma proprio per questo suscettibile di
occultarne le operazioni effettive, e un modello “genovese” certo meno
indulgente, ma proprio per questo capace di mostrare anche quanto i giuristi
vorrebbero nascondere, lo scetticismo à la génoise apparirebbe comunque
preferibile.
Vi è almeno una forma, però, in cui l’obiezione dell’ideologicità può essere
riproposta, ed è la seguente. Ogni modello teorico si presta anche a impieghi
pratici o lato sensu politici; ogni tesi dottrinale, in particolare, ha non solo il
significato intenzionalmente attribuitogli dai suoi sostenitori, ma anche il
significato inintenzionale – sorta di effetto perverso della teoria – che assume nei
diversi contesti in cui viene a cadere. Da questo punto di vista, si ha un
bell’insistere che la forza (illocutiva) delle tesi “genovesi” è di denuncia della
discrezionalità giudiziale: ove la denuncia cada in un contesto nel quale di fatto
103 Una critica del genere è stata effettivamente avanzata contro Guastini da P.
Becchi, Enunciati, significati, norme, cit., in termini non condivisi dal sottoscritto, ma che
danno comunque voce a sospetti o pregiudizi che hanno sempre accompagnato lo
scetticismo à la génoise, a partire da quegli anni Settanta nei quali, forse, erano ben più
giustificati.
34

essa può fungere solo da alibi a pratiche giustizialiste, il modello finisce per
assumere oggettivamente valenze filo-giudiziali, al di là delle intenzioni dei suoi
formulatori; specie dove, come si è visto sub 2.8., esso vieti di discriminare fra
interpretazioni giudiziali corrette e scorrette, o addirittura le consideri (quasi)
tutte corrette.
Si dirà: una teoria dell’interpretazione non può mettere nel conto le proprie
“ricadute” pratiche; in particolare, essa non può prevedere i proprî effetti
inintenzionali, imprevedibili per definizione. La replica è: sì e no. Sì, nel senso
che una teoria che mirasse esclusivamente a servire determinati obbiettivi politici
da un lato non sarebbe più una teoria, dall’altro probabilmente finirebbe per
perseguire male i proprî stessi obbiettivi. No, nel senso che una teoria
dell’interpretazione come lo scetticismo à la génoise, nato a ridosso delle
battaglie ideologiche degli anni Settanta, non può non farsi carico della
percezione delle proprie tesi nello stesso contesto in cui viene avanzato: specie
ove diventi consapevole, più di quanto si sia mostrato sinora (cfr. 2.5.), del suo
carattere di modello e/o della sua sottodeterminazione da parte dell’esperienza
empirica, ciò che gli lascia l’intera responsabilità, in senso lato politica, per
quanto sostiene.
Riassumendo. Gli scettici à la génoise supererebbero le nove obiezioni se: 1)
assumessero come avversario teorico (non il formalismo, ma) la teoria mista; 2)
riconoscessero che gli enunciati giuridici sono significanti in virtù di regole
linguistiche e interpretative; 3) ammettessero che esiste un significato proprio
delle parole; 4) adottassero una teoria del significato, anche scheletrica, più
plausibile di quella sinora implicitamente sostenuta; 5) divenissero (più)
consapevoli che la loro teoria è un semplice modello, non più soggetto a
falsificazione di altri; 6) riconoscessero inequivocamente che gli interpreti, uti
singuli, non creano significati; 7) ammettessero altrettanto inequivocamente
l’esistenza di casi chiari o isomorfici; 8) accettassero di distinguere fra
interpretazioni corrette e scorrette; 9) si sottraessero così al sospetto di
ideologicità filo-giudiziale. Ma uno scetticismo à la génoise che facesse tutto
ciò, sarebbe ancora distinto dalla teoria mista?

3. Crisi e trasfigurazione dello scetticismo à la génoise

Questo lungo periplo dello scetticismo à la génoise ci ha ricondotti molto


vicini al punto di partenza: neppure confrontarsi con la teoria “genovese” dell’in-
terpretazione è servito a fugare definitivamente il sospetto che lo scetticismo
interpretativo non esista. Per rendersene conto, e per tirare le fila del discorso,
basterà riprendere le cinque versioni della distinzione fra formalismo,
scetticismo e teoria mista elencate nella prima sezione e applicarle allo
scetticismo à la génoise, com’è andato configurandosi nella seconda sezione; si
vedrà allora che in nessuna versione della distinzione, in cui ‘scetticismo’
35

designa sempre una posizione diversa, lo scetticismo à la génoise può più – e in


qualche caso ha mai potuto – qualificarsi scettico: anche se in nessun caso
l’abbandono dello scetticismo è inequivoco, cioè non soggetto a limitazioni e
riserve.
Anzitutto, gli scettici à la génoise sembrano aver abbandonato lo scetticismo
nella prima versione della distinzione, la meno convincente di tutte: la versione
nella quale ‘scetticismo’ designa una teoria per cui le norme non esistono (o non
vincolano i giudici).Il modello interpretativo “genovese”, in effetti, nasce con
Tarello proprio da una teoria delle norme: e sia pure una teoria ostile all’uso
generico del termine ‘norma’, e che finisce per fare delle norme il mero risultato
dell’interpretazione degli enunciati giuridici (cfr. 2.1.). Neppure qui, peraltro,
l’abbandono della posizione scettica è inequivoco: a vincolare i giudici,
anzitutto, non sono tanto le norme quanto appunto gli enunciati; il significato
degli enunciati, poi, è talmente indeterminato, in Tarello e nel primo Guastini, da
far dubitare che norme (determinate) esistano; infine lo scetticismo sulle norme
giuridiche, nello stesso Guastini, sembra dislocarsi sulle regole linguistiche.
Poi, gli scettici à la génoise sembrano aver abbandonato lo scetticismo nella
seconda versione della distinzione, anch’essa poco convincente: la versione,
nella quale ‘scetticismo’ designa una teoria dell’interpretazione che impiega
‘interpretazione’ in senso lato. Apparentemente, le cose non stanno così: da
Tarello in poi i “genovesi” parrebbero aver continuato a usare ‘interpretazione’ in
senso lato; la (cauta) apertura al senso stretto di ‘interpretazione’ pare recente, ed
è opera di Comanducci, che a rigore non può considerarsi uno scettico. Se si
guarda più da presso agli usi “genovesi” di ‘interpretazione’, peraltro, ci si
accorge che sin dall’inizio essi presentano entrambi i sensi: anzi, contrariamente
a quanto pretende questa versione della distinzione, i “genovesi” potrebbero
considerarsi scettici proprio in quanto sembrano talvolta ritenere che in ogni caso
si dia (non ‘interpretazione’ in senso lato, ma) interpretazione in senso stretto,
essendo ogni caso almeno potenzialmente oscuro.
Quindi, gli scettici à la génoise sembrano aver abbandonato lo scetticismo
nella terza versione della distinzione: la versione nella quale ‘scetticismo’
designa una teoria per cui l’interprete crea il significato. Questa teoria,
precedentemente sostenuta dai “genovesi”, è stata abbandonata da Guastini e
Chiassoni nel corso degli anni Novanta, affermando che l’interprete, lungi dal
creare, sceglie sempre entro una cornice di significati dati; è solo in sede di
integrazione, attività distinta dall’interpretazione, che il giurista o il giudice
creano (cfr. 2.6.). Questo sarebbe il caso più inequivoco di abbandono dello
scetticismo interpretativo da parte dei “genovesi”: se su di esso non si
riflettessero poi le ambiguità della teoria kelseniana della cornice. In particolare:
ove l’interprete scelga i significati fuori della cornice, come Kelsen e i
“genovesi” sembrano ammettere anche per casi diversi dai casi di integrazione,
non si può forse dire che crea i significati?
Ancora, gli scettici à la génoise sembrano aver abbandonato lo scetticismo
nella quarta versione della distinzione: la versione nella quale ‘scetticismo’
36

designa una teoria per cui tutti i casi giudiziali sono indeterminati (hanno infinite
soluzioni).Sostenendo che l’interprete (non crea, ma) sceglie entro una cornice di
significati, infatti, i “genovesi” apparentemente ammettono anche che tutti i casi
giudiziali sono sottodeterminati, hanno cioè soluzioni plurime – tranne forse i
casi isomorfici – ma comunque non infinite. Anche qui, come nel caso
precedente, l’abbandono dello scetticismo sembrerebbe abbastanza inequivoco:
anche qui, peraltro, le ambiguità della teoria kelseniana della cornice nonché –
per riferirsi a problemi più specificamente “genovesi” – la riluttanza ad
ammettere la normatività delle regole linguistiche (cfr. 2.3. e 2.4.) e il rifiuto di
discriminare fra interpretazioni corrette e scorrette (cfr. 2.8.), riaprono le porte al
dubbio.
Infine, gli scettici à la génoise sembrano aver abbandonato lo scetticismo
nella quinta e più importante versione della distinzione: la versione nella quale
‘scetticismo’ designa una teoria per cui tutti i casi giudiziali sono oscuri o
difficili. Anche qui, l’abbandono dello scetticismo interpretativo potrebbe
ritenersi inequivoco, considerando solo l’ammissione di Guastini dell’esistenza
di casi chiari: se poi tale ammissione non fosse revocata in dubbio, non tanto
dalla sua caratterizzazione come teoricamente irrilevante (cfr. 2.7.), quanto, e
soprattutto, dal trattamento cui Chiassoni sottopone la nozione di caso chiaro o
isomorfico (cfr. 2.8.), trattamento che spiega anche perché la sua ammissione
possa apparire irrilevante. Se infatti anche in un caso isomorfico il giudice può
decidere altrimenti, in qualche significato di ‘potere’, che senso resta alla
nozione di caso isomorfico, e anche alle distinzioni basate su di essa?
Lo scetticismo à la génoise, insomma, sembra aver abbandonato, e in qualche
caso non aver mai sostenuto, posizioni scettiche: anche se le riserve e le
limitazioni che abbiamo visto infittirsi si configurano spesso come autentiche e
importanti questioni aperte. L’unica cosa certa è che uno scetticismo “genovese”
è certamente esistito, e ha svolto un’inestimabile funzione critica sinché si è
trattato di criticare il formalismo interpretativo; ma dal momento in cui si è
affermata una teoria mista dell’interpretazione irriducibile al formalismo, le cose
sembrano sensibilmente cambiate. Da quando ha dovuto confrontarsi con la
teoria mista, lo scetticismo à la génoise è stato costretto a rivedere le proprie
posizioni e a fare sempre nuove concessioni, diventando al contempo molto più
plausibile e molto meno scettico; quando poi ha tentato di reagire, la scarsa
plausibilità di alcune delle tesi scettiche originarie ha finito per avere un’altra
controprova.
Si dirà che queste sono considerazioni meramente metateoriche, teoricamente
irrilevanti: se anche le correnti distinzioni metateoriche fra formalismo,
scetticismo e teoria mista – perché superate dal dibattito, o difettose sin
dall’inizio – non riuscissero più a restituire l’effettiva collocazione dello
scetticismo à la génoise, tanto peggio per loro. Si dirà che i teorici “genovesi”
non hanno mai tenuto a qualificarsi scettici, ma piuttosto giusrealisti: e
opportunamente, se, come si è ammesso sin dall’inizio, gran parte delle
definizioni correnti di ‘scetticismo’ sollevano da sempre il sospetto di costruire
37

bersagli di comodo. Si dirà che l’unico problema importante è che una teoria
dell’interpretazione funzioni, e che sotto profili diversi da quelli qui considerati
lo scetticismo à la génoise funziona, e continuerebbe a funzionare anche se non
costituisse più un’autentica alternativa alla teoria mista, accontentandosi, un po’
malinconicamente, del ruolo di “sinistra hartiana”.
I veri problemi, in effetti, sono teorici: sono le questioni sollevate dalle nove
obiezioni allo scetticismo à la génoise. Che si tratti di problemi (non metateorici,
ma) teorici è già suggerito dal fatto che una loro soluzione puramente
metateorica – ad esempio: cambiare la definizione di ‘scetticismo’ al fine di
adattarla al modello “genovese” – sarebbe illusoria, in quanto scoraggerebbe
dall’affinare le posizioni teoriche oggi a torto o a ragione etichettate come
scettiche. Proprio questa, del resto, è la soluzione caldeggiata dal sottoscritto:
non certo un’improbabile conversione degli scettici à la génoise alla teoria mista,
ma l’approfondimento di tutte le questioni teoriche aperte – una per tutte: il
problema dell’oscurità potenziale – sul terreno di confine fra le due teorie. Il
dubbio scettico, dopotutto, è il lievito di ogni teoria, e a maggior ragione della
teoria dell’interpretazione; se davvero oggi lo scetticismo interpretativo non
esistesse, allora bisognerebbe (re)inventarlo.

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