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Tecla Mazzarese

Permesso forte e permesso debole: note a margine *

0. Introduzione

Sono due i lavori in cui von Wright, per primo, formula, seppure in termini
non totalmente coincidenti, la distinzione fra permesso forte e permesso debole:
The Logic of Negation del 1959, e Norm and Action del 1963.
La formulazione della distinzione è dettata anche (ma non esclusivamente)
dall’esigenza di un apparato categoriale della logica deontica più attento, di quel-
lo elaborato nei primi calcoli formali degli inizi degli anni cinquanta, alle
peculiarità delle norme giuridiche e alla complessità del fenomeno giuridico.
Due, in particolare, gli interrogativi di manifesta matrice giuridica cui la
distinzione rinvia.
Il primo interrogativo concerne la plausibilità della caratterizzazione della
nozione di ‘permesso’ come categoria normativa autonoma.
Il secondo interrogativo, strettamente connesso con il primo, concerne, invece,
la problematicità di caratterizzare la nozione di ‘lacuna’ e/o la nozione di
‘completezza di un ordinamento giuridico’ facendo ricorso alla nozione di
‘permesso’, se ed in quanto si assuma che questa configuri una categoria normativa
autonoma.
Nonostante l’esplicito richiamo ad interrogativi dichiaratamente giuridici, il
dibattito sulla portata euristica della distinzione è rimasto circoscritto quasi
esclusivamente alla letteratura di logica deontica, trovando scarsa eco nella
letteratura di teoria del diritto.
La scarsa fortuna di questa distinzione ha, probabilmente, una duplice ragion
d’essere: per quanto suggestiva, la distinzione fra permesso forte e permesso
debole, si rivela, infatti, se indagata con attenzione, dubbia e problematica ad un
tempo. Più precisamente, la distinzione si rivela dubbia sotto un profilo logico-
formale e problematica sotto un profilo concettuale.
La prima parte di questo lavoro è dedicata alla genesi della distinzione e ad
alcune critiche e/o riformulazioni di cui la distinzione è stata oggetto nella
letteratura di logica deontica.

* Ringrazio Riccardo Guastini, Pierluigi Chiassoni, e José Juan Moreso per l’attenta
lettura di una prima stesura di questo lavoro, per i loro rilievi puntuali e i loro
suggerimenti sempre stimolanti.

Analisi e diritto 2000, a cura di P. Comanducci e R.


Guastini
2

La seconda parte di questo lavoro, invece, avrà ad oggetto la disamina di


alcune delle ragioni che, in sede di teoria del diritto, giustificano le perplessità
sul potere euristico della distinzione.

1. Permesso debole e permesso forte: una distinzione dubbia sotto il profilo


formale
È dubbio quale sia lo status normativo del permesso nei sistemi standard di
logica deontica (così come nei calcoli che, agli inizi degli anni cinquanta, von
Wright, Kalinowski, Becker, e García Máynez elaborano l’uno indipendentemente
dagli altri) 1.
La ragione del dubbio sullo status normativo del permesso in questi calcoli
risiede nella interdefinibilità degli operatori deontici (obbligo, divieto, permesso
positivo e negativo), interdefinibilità che trova espressione nel quadrato d’oppo-
sizione dei modi deontici (quadrato che, com’è noto, ripete le relazioni logiche
che Aristotele aveva già individuato e definito sia in relazione ai modi aletici, sia
in relazione ai quantificatori). E precisamente, che il permesso positivo sia per
definizione equivalente alla ‘negazione’ di un divieto (così come,
simmetricamente, che il permesso negativo sia per definizione equivalente alla
‘negazione’ di un obbligo) solleva il dubbio se il permesso (positivo o negativo)
abbia un carattere normativo autonomo, o, invece, così come sembra suggerire
l’interdefinibilità degli operatori deontici, consista nella mera assenza di un
corrispondente divieto, o, rispettivamente, di un corrispondente obbligo.
Questi, in estrema sintesi e con non poche semplificazioni, i termini in cui
nella letteratura di logica deontica si è discusso dell’opportunità di una
distinzione fra permesso forte e permesso debole; fra il permesso, cioè, inteso
come categoria normativa non autonoma che consiste e si esaurisce nella mera
assenza di un divieto (è questa la nozione di permesso debole); e il permesso
inteso, invece, come categoria normativa autonoma che consiste non nella mera
assenza di un divieto, ma nell’espressione di ciò che è esplicitamente statuito da
una norma (è questa la nozione di permesso forte).
Nella letteratura di logica deontica, la distinzione proposta da von Wright è
stata oggetto sia di critiche, costruttive, che ne hanno sostenuto la necessità di
una più attenta riformulazione, sia di critiche, radicali, che ne hanno decretato,
invece, l’inutilità sulla base di considerazioni formali e/o concettuali.

1.1. Formulazione della distinzione in von Wright


I primi due lavori in cui von Wright propone la distinzione fra permesso forte e
permesso debole, fra “weak permission” e “strong permission” sono, come ho già

1 Per indicazioni bibliografiche sia sugli esordi della moderna logica deontica, sia
sulle sue principali anticipazioni e/o prefigurazioni (remote e non), cfr. T. Mazzarese
[1989, pp. 3-4, n. 2].
3

ricordato all’inizio, The Logic of Negation del 1959, e Norm and Action del 1963.

(i) Nel primo dei due lavori, The Logic of Negation del 1959 la distinzione
sembra dettata, non tanto dall’esigenza di arricchire l’apparato categoriale della
logica deontica con strumenti che ne consentano un’interpretazione più vicina alla
complessità della realtà giuridica, quanto piuttosto da problemi stricto sensu
formali, da problemi, più precisamente, legati all’esplorazione dell’isomorfismo fra
il comportamento logico dei quantificatori e quello dei modi deontici e da problemi
dettati dall’elaborazione di quella che lo stesso von Wright, nel 1980, avrebbe
denominato teoria generale della modalità, “general theory of modality” 2.
La distinzione fra permesso forte e permesso debole, così come,
correlativamente, quella fra proibizione debole (“weak prohibition”) e
proibizione forte (“strong prohibition”), infatti, è tracciata da von Wright a
conclusione di una complessa analisi incentrata sulla distinzione fra due tipi di
negazione, negazione debole (“weak negation”) e negazione forte (“strong
negation”) 3, e sulla caratterizzazione del loro diverso comportamento logico sia
nel caso dell’elaborazione di calcoli di logica proposizionale, sia nel caso
dell’elaborazione di calcoli di logica dei predicati con quantificazione monadica
(calcoli, gli uni e gli altri, di cui von Wright indaga anche le possibili letture
modali e deontiche).
Ora, è tesi di von Wright, nel 1959, che il calcolo di quantificazione
monadica, elaborato utilizzando i due diversi tipi di negazione, consenta di

2 La locuzione è usata da G.H. von Wright [1980, p. 399]. Locuzione, in relazione


alla quale, lo stesso von Wright osserva: “It was the vision of such a General Theory that
inspired my first and major contribution to modal logic, An Essay in Modal Logic [...],
1951” (p. 421, nota 2).
3 Per introdurre la distinzione fra negazione debole e negazione forte di una
proposizione della forma soggetto-predicato, von Wright [1959], si richiama ad Aristotele:
“Aristotle [...] makes a distinction between the proposition “is not the case that x is P” and
“it is the case that x is not-P”. But the two propositions, though distinct, are not unrelated.
[...] The proposition “it is the case that x is not-P” is logically stronger than, or entails, the
proposition “it is not the case that x is P”. If we call the two propositions in question
negations or negative propositions, we may distinguish between strong and weak
negation. Strong negation is an affirmation as well as a denial. We can call it a negative
affirmation or a minus-affirmation. In the case of subject-predicate propositions we may
also speak of affirming a negative predicate (property) of the subject. –Weak negation is
“merely” a denial” (pp. 3-4, corsivo dell’autore). Discostandosi poi dall’analisi
aristotelica, von Wright precisa che la propria distinzione fra negazione debole e forte
mira a render conto della differenza fra falsità (“falsehood”) e non-verità (“not-truth”):
“Falsehood [...] is a stronger notion than not-truth. If a proposition is false, it is also not
true. But not any proposition which is not true is ipso facto also false. A proposition can
be “merely” not true, without being “positively” false” (pp. 5-6).
4

“make a distinction between weak and strong permission, and similarly between
weak and strong prohibition. The weak norms consist in the mere absence of the
contrary norms. The strong norms “positively” state rules of action. These
distinctions between the two kinds of permission and prohibition can be expressed
in a deontic logic which makes use of two kinds of negation” 4.
Diversamente, sempre secondo von Wright
“It is characteristic of the deontic logic which is an interpretation of the “classical”
logic of monadic quantification that in it the notions of obligation, permission, and
prohibition are interdefinable (with the aid of weak negation). A permission is
then regarded as the absence of a certain prohibition, and a prohibition as the
absence of a certain permission” 5.
Del perché l’interpretazione deontica del calcolo classico della quantificazione
monadica sia (e/o possa essere) insoddisfacente, von Wright, nel 1959, scrive soltanto
che
“[The] view of mutual relation of the basic deontic concepts or categories of norm
may, however, be challenged. One may argue that “mere” absence of a prohibition
does not yet amount to a permission. And also that “mere” absence of permission
does not yet constitute prohibition” 6.
(ii) È nel 1963 con Norm and Action che von Wright dà alla distinzione fra
permesso forte e permesso debole una dichiarata valenza di carattere giuridico.
Innanzitutto, infatti, von Wright dichiara esplicitamente la rilevanza per la
filosofia del diritto e per la filosofia politica (ma non anche per la filosofia morale)
del quesito sull’indipendenza dello status delle norme che esprimono un
permesso 7.
In secondo luogo, interrogandosi sul modo più appropriato di rispondere al
quesito, von Wright prende in considerazione tre temi di chiara matrice giuridica:
(a) l’eventuale interesse dell’autorità normativa di proibire o, invece, permettere

4 G.H. von Wright [1959, p. 26] (corsivo dell’autore).


5 G.H. von Wright [1959, p. 26].
6 G.H. von Wright [1959, p. 26].
7 G.H. von Wright [1963, p. 85]: “The problems in this region are, it seems, more
urgent to a theory of prescriptions than to a theory of other types of norm. Therefore these
problems are also more relevant to legal and political philosophy than to moral
philosophy”. Analogamente, così, ad esempio, anche in [1968, p. 82], [1980, p. 413], e
[1991, p. 279].
5

“nuovi tipi di azione” non ancora disciplinati 8; (b) il problema delle lacune 9; e (c)
il problema delle norme di competenza (“competence norms”), norme
caratterizzate come “higher-order permissions” (permessi di ordine o di grado
superiore) 10.
Ora, le considerazioni svolte in relazione a ciascuno di tali temi portano von
Wright a ritenere necessaria l’elaborazione di un calcolo di logica deontica in cui il
permesso venga trattato come categoria normativa autonoma e non soltanto come
mera assenza di un divieto; di un calcolo, cioè, in cui sia possibile distinguere fra
permesso forte e permesso debole. Nella definizione propostane da von Wright:
“An act will be said to be permitted in the weak sense if it is not forbidden; and it
will be said to be permitted in the strong sense if it is not forbidden but subject to
norm. [...] Weak permission is not an independent norm-character. Weak
permissions are not prescriptions or norms at all. Strong permission only is a
norm-character” 11.
Per quanto fuorviante da un punto di vista gius-teoretico, nondimeno la
caratterizzazione proposta da von Wright delle norme di competenza come
higher-order permissions rende palese la ragione di teorizzare una nozione di
permesso forte (di permesso, cioè, esplicitamente statuito da una norma), distinta
ed autonoma rispetto alla nozione di permesso debole (di permesso, cioè, nel

8 G.H. von Wright [1963, p. 86] scrive: “One cannot make an inventory of all
conceivable (generic) acts. New kinds of act come into existence as the skills of man develop
the institutions and ways of life change. A man could not get drunk before it had been
discovered how to distil alcohol. In a promiscuous society there is no such thing as
committing adultery. As new kinds of act originate, the authorities of norms may feel a need
for considering whether to order or to permit or to prohibit them to subjects” (corsivo
dell’autore). Dei tre temi cui von Wright rinvia, è questo quello meno convincente e, forse,
anche meno rilevante per decidere della plausibilità di caratterizzare il permesso come
categoria normativa autonoma.
9 Problema, questo, in relazione al quale von Wright rinvia sia a H. Kelsen [1945], sia
ad A.G. Conte [1962].
10 In particolare, mentre del tema delle lacune von Wright parla contestualmente
all’enunciazione del quesito sull’indipendenza dello status delle norme che esprimono un
permesso (pp. 87-88) di “competence norms” e di “higher-order permissions” von Wright
parla, invece, successivamente, nell’àmbito dell’analisi di quelle che egli denomina
“norms of higher order”. E precisamente, scrive von Wright: “It is probably right to say
that among norms of the first order commands and prohibitions hold the most prominent
position. Among norms of higher order the relative prominence of the various types of
norm appears to be different. It is probably right to say that higher-order permissions are
of peculiar interest and importance. A higher-order permission is to the effect that a
certain authority may issue norms of a certain content. It is, we could say, a norm
concerning the competence of a certain authority of norms. I shall call permissive norms
of higher order competence norms” (p. 192, corsivo dell’autore).
11 G.H. von Wright [1963, p. 86].
6

senso di meramente non proibito) 12. Non solo le norme di competenza


richiedono, infatti, un’esplicita formulazione, ma, inoltre, come sottolinea lo
stesso von Wright, per tali norme sembra valere non il principio secondo il quale
tutto ciò che non è vietato è permesso, ma, al contrario, il principio secondo il
quale tutto ciò che non è permesso è vietato. Scrive von Wright:
“As far as norms of higher order, i.e. norms regulating normative activity, are
concerned, it appears much more natural to think that ‘whatever is not permitted is
forbidden’ than to think that ‘whatever is not forbidden is permitted’” 13.
Non meno esplicita, in von Wright, la ragione che giustifica la distinzione fra
permesso forte e permesso debole se si voglia rendere conto della possibilità che
in un ordinamento si diano lacune: l’interdefinibilità di permesso e divieto, e, di
conseguenza, il principio secondo cui tutto ciò che non è vietato è permesso
esclude la possibilità di lacune in un ordinamento, trasformando il principio
nullum crimen sine lege da principio giuridico (la cui validità è contingente e
relativa a quegli ordinamenti che esplicitamente lo sanciscano) a principio logico
la cui validità è necessaria e assoluta. Scrive von Wright:
“A nullum crimen rule permitting all not forbidden acts and forbearances may or
may not occur within a normative order. If it occurs within a normative order,
then, relative to this order, all human acts are subject to norm” 14.
In ragione degli argomenti relativi sia al problema delle lacune sia al tema
delle norme di competenza, il calcolo di logica deontica elaborato da von Wright
in Norm and Action non assume l’interdefinibilità di permesso e vietato, ma
assume il permesso come carattere normativo indipendente.

1.2. Ross: critica e negazione della distinzione

In esplicito contrasto con la tesi sostenuta da von Wright in Norm and Action,
in Directives and Norms del 1968, Ross afferma:
“we have need, in a formalized language, of only one, irreducible, symbol for the
directive element of norms, and [...] it is most natural to let this symbol stand for
obligation” 15.
Prescindendo per il momento dalle critiche di carattere più specificamente
concettuale (critiche che ruotano prevalentemente intorno alla caratterizzazione
ingenua e fuorviante ad un tempo che von Wright offre della nozione di
permesso forte), è innegabilmente condivisibile la critica di carattere stricto
sensu formale che Ross muove alla distinzione di von Wright:
12 Innegabilmente fuorviante, ma non per questo isolata, la caratterizzazione delle
norme di competenza (e/o, secondo scelte terminologiche diverse, delle norme che
conferiscono poteri) come permessi (o, ancora, come obblighi indirettamente formulati).
Sul tema cfr. E. Bulygin [1991], M. Atienza / J. Ruiz Manero [1994], [1996, pp. 45-76], e
T. Mazzarese [1996, pp. 141-143].
13 G.H. von Wright [1963, p. 194].
14 G.H. von Wright [1963, p. 87].
15 A. Ross [1968, p. 120].
7

“Von Wright’s fundamental view, that ‘permission’ is an independent normative


modality not translatable in terms of obligation (commands and prohibitions), seems
to me incomprehensible, in view of the way he interprets the term ‘permission’ in a
subsequent section of his book [...]. After a lengthy discussion, permission to do C is
said to be identical with the negation of an obligation to omit C” 16.
La critica di Ross colpisce nel segno: non è sufficiente escludere, dal
vocabolario di un calcolo di logica deontica, l’interdefinibilità degli operatori
deontici e assumere come indipendente il carattere normativo del permesso,
quando, nel calcolo, l’interdefinibilità degli operatori è ancora derivabile come
tesi a partire dagli assiomi e dalle regole di deduzione 17. Lo stesso von Wright,
consapevole di questa difficoltà formale, in lavori successivi tenterà forme
diverse da quella sperimentata in Norm and Action per rendere conto delle
peculiarità del comportamento logico di norme che né sono assimilabili a ordini
o divieti, né sono riducibili alla semplice assenza di obblighi o divieti 18.

1.3. Alchourrón e Bulygin: critica e riformulazione della distinzione

Anche Alchourrón e Bulygin e Bulygin che la distinzione fra permesso forte


e permesso debole sia una distinzione non fra caratteri di norme (“characters of

16 A. Ross [1968, p. 124]. Il passo cui Ross fa riferimento è G.H. von Wright [1963,
p. 139]: “On our suggestion the negation of a positive command is thus a negative
permission and conversely, and the negation of a negative command is a positive
permission and conversely. In still other words: a command to do and a permission to
forbear are related to one another as negations, and so are a command to forbear and a
permission to do”. Questa critica di carattere stricto sensu formale è inoppugnabile e non
può certo essere ignorata o elusa, così come in R. Moore [1973, pp. 332-339], limitandosi
a vagliare la maggiore o minore plausibilità delle critiche di carattere gius-teoretico mosse
da Ross agli argomenti che, nell’analisi di von Wright, fondano e giustificano la
distinzione fra permesso forte e debole.
17 Diversa la posizione di chi, come U. Scarpelli [1963, 21982, pp. 235-237, p. 241],
K. Opalek /J. Wolenski [1973] e [1991] o D.T. Echave / M.E. Urquijo / R.A. Guibourg
[1980, pp. 153-158], nega la possibilità della distinzione fra permesso forte e permesso
debole non, come Ross, sulla base di considerazioni di carattere logico-formale, ma sulla
base di una concezione imperativista che, pregiudizialmente, esclude che il permesso
possa considerarsi una categoria normativa autonoma.
18 Così, ad esempio, in G.H. von Wright [1968] e [1969], la strada sperimentata è
quella dell’elaborazione di un calcolo formale in cui siano compresenti più tipi di obbligo
cui corrispondono altrettanti tipi di permesso differenti. Pluralità di nozioni di obbligo e di
permesso tali che, come scrive von Wright [1968, p. 86]: “When prohibition and
permission are “corresponding”, the inference from the lack of prohibition to the presence
of a permission is legitimate and logically equivalent with the inference from the absence
of a permission to the presence of a prohibition. When the prohibition and permission do
not “correspond” the inferences are invalid”.
8

norms”), ma fra caratteri di azioni qualificate da norme sono critici nei confronti
dei termini in cui la distinzione fra permesso forte e permesso debole è delineata
da von Wright in Norm and Action.
A differenza di Ross, però, Alchourrón e Bulygin, ritengono che la
distinzione vada non abbandonata, ma riformulata. Secondo Alchourrón e
Bulygin, infatti, per quanto infelice nella formulazione, la distinzione,
adeguatamente riformulata, consente di render conto, come nelle intenzioni di
von Wright, della possibilità di lacune in un ordinamento giuridico.
Più precisamente, è tesi di Alchourrón (“characters of actions which are
qualified by norms”) 19, sia, cioè, una distinzione che riguarda non norme, ma
proposizioni descrittive di norme (“normative propositions”). Alchourrón e
Bulygin distinguono così tra uso prescrittivo e uso descrittivo degli operatori
deontici. Nel loro uso prescrittivo permesso e vietato sono interdefinibili; nel
loro uso descrittivo, sostengono invece Alchourrón e Bulygin, permesso e vietato
non sono interdefinibili perché non sono né in rapporto di contraddittorietà, né in
rapporto di contrarietà.
Per designare l’uso descrittivo di permesso e vietato, Alchourrón e Bulygin
introducono le locuzioni ‘permesso forte’, e, rispettivamente, ‘divieto forte’. Ora,
proprio perché proposizioni descrittive di norme (proposizioni, cioè, descrittive
dell’appartenenza di norme ad un ordinamento), sia una proposizione normativa
che affermi il permesso forte di un’azione, sia la proposizione che affermi il
divieto forte della stessa azione potrebbero essere entrambe false se ed in quanto
(come in caso di lacuna) all’ordinamento non appartenessero né una norma che
permetta, né una norma che proibisca l’azione in questione. Analogamente,
segnalano Alchourrón e Bulygin, le due proposizioni normative potrebbero
essere entrambe vere, come in caso di antinomia, se ed in quanto all’ordinamento
appartenessero sia una norma che permetta, sia una norma che vieti l’azione in
questione. Con le loro parole:
““Permitted” and “prohibited” as characters of norms are contradictory; “per-
mitted” means the same as “not prohibited” and “prohibited” means “not
permitted”. But when the expressions refers to characters of actions (meaning
strong permission and strong prohibition), they are not contradictory and not even
contrary. It is perfectly possible that neither the permission nor the prohibition of
p is a consequence of ∂: this is the case when ∂ does not contain any norm
permitting p or prohibiting p. The sentences “The norm that permits p is a
consequence of ∂” and “The norm that prohibits p is a consequence of ∂” may
both be false. Moreover, both of them may be true: a system may contain a norm
that permits p and a norm that prohibits p. In this case, p is at the same time
strongly permitted and strongly prohibited by the same system. This is surely not
an impossibility. It only implies that the system in question is inconsistent,
because the norms “Permitted p” and “Prohibited p” are, of course,
contradictory” 20.

19 C. Alchourrón / E. Bulygin [1971, p. 122].


9

In altri termini, è tesi di Alchourrón e Bulygin che, nonostante l’interdefinibilità


di permesso e divieto come caratteri normativi, sia sempre possibile rendere conto
di una lacuna se ed in quanto e la proposizione normativa che affermi il permesso
forte di una azione, e la proposizione normativa che affermi il divieto forte di
un’azione siano entrambe false, se ed in quanto, cioè, dell’ordinamento non
facciano parte né una norma che permetta, né una norma che vieti l’azione in
questione.
Indubbiamente suggestiva e apparentemente convincente, la proposta di
Alchourrón e Bulygin, però, non diversamente da quella di von Wright, non
persuade del tutto.
Accanto all’uso prescrittivo di permesso e all’uso descrittivo di permesso for-
te nel senso di permesso appartenente all’ordinamento, Alchourrón e Bulygin
definiscono, infatti, anche un uso di permesso debole, anch’esso descrittivo; un
uso di ‘permesso’, cioè, per indicare l’assenza dall’ordinamento di un
corrispondente divieto 21.
Ora, tenendo conto anche di questa nozione di permesso debole, diventa
dubbio se, come sostengono Alchourrón e Bulygin, si possa rendere conto di una
lacuna dell’ordinamento, semplicemente a condizione che siano entrambe false
le proposizioni che affermino, l’una, il permesso forte di un’azione, e, l’altra, il
divieto forte della stessa azione. Diventa dubbio perché dalla falsità della
proposizione normativa che afferma l’appartenenza di un divieto
all’ordinamento, discende, ex definitione, la verità della proposizione che della
stessa azione afferma il permesso debole.
Detto altrimenti, la possibilità di affermare il permesso debole di un’azione nel
caso in cui questa non sia esplicitamente vietata (nel caso, cioè, sia falsa la
proposizione che ne affermi il divieto forte) non elude, ma, piuttosto, sembra
riproporre la difficoltà con la quale si era già scontrata, come denunciato da Ross nel
1968, l’analisi di von Wright in Norm ad Action. E precisamente: la difficoltà di
render conto, se ed in quanto si accolga l’interdefinibilità (dell’uso prescrittivo) di
permesso e vietato, dei criterî che consentano di individuare le (eventuali) lacune di
un ordinamento; di render conto, cioè, di quali siano gli eventuali tratti distintivi di
ciò che non è disciplinato perché giuridicamente irrilevante (di ciò che è permesso
se ed in quanto non vietato) e ciò, invece, la cui mancata disciplina costituisce una
lacuna.
È infatti decisamente poco convincente, se non addirittura controintuitivo, il
suggerimento di Alchourrón e Bulygin secondo il quale

20 C. Alchourrón / E. Bulygin [1971, p. 123], nel brano citato, “∂” sta per
ordinamento normativo.
21 La distinzione di questi tre sensi di ‘permesso’, uno prescrittivo e due descrittivi
(permesso forte e permesso debole) è riproposta, ad esempio, anche in C. Alchourrón / E.
Bulygin [1984], e [1989, pp. 681-682].
10

“a gap is a case in which there is an action p such that is weakly permitted (and is
not strongly permitted) by the system” 22.
Solo una visione orwelliana da 1984 potrebbe, infatti, considerare lacune di
un ordinamento l’assenza di espliciti permessi di azioni quotidiane (la stragrande
maggioranza) quali bere latte a colazione o chiacchierare al telefono con un’ami-
ca. La definizione proposta da Alchourrón e Bulygin, infatti, sembra assimilare
permesso debole (nel caso di assenza di un ulteriore permesso forte) e lacuna, e
non consentire, come essi invece sostengono, di mostrare
“that weak permission is not only compatible with the existence of a gap, but is
even entailed by it, though not vice versa. (That is to say, the existence of a gap
logically implies that the case is weakly permitted; but weak permission does not
imply that there is a gap)” 23.

2. Permesso debole e permesso forte: una distinzione problematica sotto il


profilo concettuale

I dubbi sotto il profilo formale della distinzione fra permesso forte e


permesso debole hanno la loro principale ragion d’essere in un duplice ordine di
problemi di carattere concettuale.
Un primo ordine di problemi concerne un uso di permesso forte del quale è
difficile trovare un’esemplificazione significativa nel linguaggio giuridico, a
meno di distorcere e ridurre a permessi norme che non esprimono permessi, ma
altre forme di disciplina giuridica.
Un secondo ordine di problemi concerne, invece, la fonte di molte delle
difficoltà che sorgono nell’interpretare i calcoli di logica deontica come calcoli in
grado di render conto del comportamento logico di norme giuridiche: l’etero-
geneità del(l’eventuale) comportamento logico della validità (che si predica delle
norme) rispetto al comportamento logico della verità che informa qualsiasi
calcolo che, come quasi tutti i calcoli di logica deontica, siano un’estensione dei
calcoli di logica classica 24.

22 C. Alchourrón / E. Bulygin [1971, p. 126].


23 C. Alchourrón / E. Bulygin [1971, p. 126].
24 La letteratura sempre più copiosa sulla pluralità di concetti e/o concezioni della
validità (una ricognizione critica ne è offerta in T. Mazzarese [1999]) rende opportuna una
precisazione: il termine ‘validità’ è qui inteso nel senso di validità sistemica (locuzione,
questa, particolarmente felice del lessico sia di Wróblewski, sia di Raz), designa, cioè, la
validità che consiste nella conformità ai criterî di validità che ogni ordinamento (sistema)
predispone per la propria individuazione e per la disciplina delle forme e dei modi del
proprio mutamento. In altri termini, la validità sistemica dipende dal, e si esaurisce nel,
soddisfacimento delle condizioni di validità poste dalle metanorme che, in ogni
ordinamento, dell’ordinamento costituiscono i criterî di individuazione e disciplinano le
forme e i modi mutamento.
11

2.1. Primo ordine di problemi concettuali

La distinzione fra permesso forte e permesso debole è, almeno nella


formulazione che ne propone von Wright a partire dal 1963, una risposta
inadeguata ad un problema di centrale importanza della teoria del diritto: la
varietà tipologica delle norme giuridiche.
Formulato in termini diversi un giudizio simile è espresso da Raz:
“At least some of the philosophers interested in the distinction have been
motivated by the feeling that permissions based on permissive norms are a
different type of permission from ‘weak’ permissions, and in particular that they
have a greater normative force [...] But these philosophers have failed to identify
the way in which a strong permission differs from a weak one in normative force.
In the final analysis strong and weak permission are permissions in precisely the
same sense differing only in their source. Attempts to find the difference in the
law on gaps or in the powers of subordinate authorities are bound to fail since
they turn on the contingent existence of various norms which distinguish between
various permissions” 25.
Ora, è indubbiamente corretta l’intuizione di von Wright che diritti, libertà 26,
competenze non possano essere ridotti a, e definiti in termini di, una nozione di
permesso intesa come mera assenza di un divieto corrispondente.
Nondimeno, è fuorviante (così come si propone la distinzione fra permesso
forte e permesso debole) cercare di ridurre diritti, libertà, e competenze a
permessi esplicitamente enunciati dal legislatore.
In particolare, è fuorviante, da un punto di vista concettuale, perché diritti,
libertà e competenze sono altro da semplici permessi accordati dal legislatore;
diritti, libertà, competenze sono un insieme esso stesso eterogeneo di situazioni
normative che solo a costo di una distorsione concettuale possono essere definiti
in termini di norme che qualifichino come permesso un comportamento dei
consociati e/o degli operatori del diritto 27.
25 J. Raz [1975, 21990, p. 88].
26 Di diritti e libertà come esempî di permesso forte, von Wright [1963] fa menzione
prendendo in esame la possibilità di distinguere “between various kinds of strong
permission-permissions, as it where, of increasing degree of strength” (p. 88). Infatti,
secondo von Wright “Any (strong) permission is at least a toleration, but it may be more
than this. If a permission to do something is combined with a prohibition to hinder or
prevent the holder of the permission from doing the permitted thing, then we shall say that
the subject of the permissive norm has a right relatively to the subjects of the prohibition”
(p. 89, corsivo dell’autore).
27 Difficoltà, questa, di cui G.H. von Wright [1969, p. 97] mostra di essere pienamente
consapevole quando afferma: “Any legal order contains a rich variety of norms which
cannot, without constraint or distortion, be regarded as either obligating or permissive [...].
As examples of such norms one could cite the rules for making contracts; the formalities
which have to be gone through if a marriage is to be legally valid; the rules concerning the
12

E ancora, la riduzione di diritti, libertà e competenze a permessi


esplicitamente statuiti dal legislatore è fuorviante, da un punto di vista formale,
se ed in quanto, così come nella formulazione di von Wright e nella
riformulazione propostane da Alchourrón e Bulygin, il permesso (forte o debole)
e il divieto continuino, in una qualche forma, ad essere interdefinibili.
La nozione di permesso forte consente di render conto non di diritti, libertà e
competenze, quanto della volontà del legislatore di abrogare o di derogare a un
obbligo o a un divieto già presenti nell’ordinamento. Come scrive Bobbio:
“La differenza fra permesso debole e forte diventa chiara quando si ponga mente
alla funzione delle norme permissive. Le norme permissive sono norme
sussidiarie: sussidiarie in quanto la loro esistenza presuppone l’esistenza di norme
imperative [...] una norma permissiva è necessaria quando si tratta o di abrogare
una norma imperativa precedente oppure di derogarvi, cioè di farne venir meno
una parte (che in questo caso non è detto sia precedente perché la stessa legge può
prevedere un limite alla propria estensione)” 28.
Non diversamente, Ross afferma:
“Telling me what I am permitted to do provides no guide to conduct unless the
permission is taken as an exception to a norm of obligation (which may be the
general maxim that what is not permitted is prohibited). Norms of permission
have the normative function only of indicating, within some system, what are the
exceptions from the norms of the obligation of the system” 29.
Funzione, questa delle norme che esprimono permessi, che consente di
segnalare un ulteriore fraintendimento cui la distinzione fra permesso forte e
permesso debole può indurre, proprio in relazione al tema delle lacune.
La nozione di permesso forte, contrariamente a quanto suggeriscono le
analisi di von Wright e/o di Alchourrón e Bulygin offre uno strumento
concettuale in ragione del quale è possibile non tanto decidere della presenza di

professional qualifications which the holders of offices have to satisfy; many, perhaps most,
rules of civil and criminal procedure; and finally, many rules belonging to constitutional
law”.
28 N. Bobbio [1980, pp. 891-892]. Un’affermazione analoga è già presente in N.
Bobbio [1958, pp. 152-153]: “la funzione delle norme permissive è quella di far venir
meno un imperativo in determinate circostanze o con riferimento a determinate persone
[...] si possono distinguere le norme permissive in base al fatto che facciano venir meno
un imperativo precedente nel tempo, e in questo caso funzionano da norme abroganti,
oppure un imperativo contemporaneo, e in questo caso funzionano generalmente da
norme deroganti” (corsivo dell’autore).
29 A. Ross [1968, p. 120]. E ancora, seppure con formulazione non del tutto
coincidente, anche M. Atienza / J. Ruiz Manero [1994, pp. 827-829], e [1996, pp. 102-
104] sembrano individuare nella funzione abrogativa di e/o derogatoria a obblighi o
divieti già presenti in un ordinamento un argomento che mostra non l’autonomia della
categoria normativa del permesso (e, quindi, la necessità di introdurre una nozione di
permesso forte, altra e distinta da quella di permesso debole), ma la sua sussidiarietà alle
categorie normative dell’obbligo e del divieto.
13

eventuali lacune in un ordinamento, quanto piuttosto sollevare il dubbio (data la


funzione specifica che si è appena ricordata delle norme che esprimono
permessi) che il legislatore voglia, in conformità al principio della lex posterior
derogat priori e al principio della lex specialis derogat generali, abrogare o,
rispettivamente, derogare a un obbligo o a un divieto dell’ordinamento. In altri
termini, la nozione di permesso forte, più che uno strumento in funzione del
quale escludere la presenza di lacune, si rivela, invece, uno strumento in
relazione al quale denunciare possibili antinomie dell’ordinamento e, ancora,
grazie al quale render conto dei loro principî giuridici (si badi bene: non logici)
di risoluzione, dei principî, cioè, offerti dal criterio della lex posterior e da quello
della lex specialis.
Quest’osservazione vale anche nel caso in cui alle norme che esprimono un
permesso si voglia attribuire, così come Bulygin, non solo la funzione di
abrogare e/o derogare a obblighi o divieti già presenti in un ordinamento, ma
anche la funzione di garantire la liceità di dati comportamenti contro la
possibilità di successivi interventi legislativi che vogliano ridurne la portata o
vietarli 30. Scrive Bulygin:
30 Come è già palese dalle osservazioni svolte nel testo su Bobbio, Ross e Bulygin,
non v’è, in letteratura, unanimità su quali e quante siano e/o possano essere le funzioni
delle norme che si ritiene vadano caratterizzate come permessi. Tre, ad esempio, le
funzioni indicate da U. Scarpelli [1963, 21982, p. 244]: “Le norme permissive hanno la
funzione di limitare la portata di norme che pongono doveri, di limitare i procedimenti
estensivi di norme che pongono doveri, di limitare i poteri normativi da cui possono
venire norme che pongono doveri”. Ancora tre, ma non coincidenti con quelle di
Scarpelli, le funzioni segnalate da R. Guastini [1998, p. 29]: “(a) In primo luogo, le norme
permissive svolgono la funzione di statuire eccezioni a norme imperative coeve e
contigue: come si usa dire, “lex specialis derogat legi generali”. (b) In secondo luogo, le
norme permissive svolgono la funzione di abrogare norme imperative preesistenti o di
derogare ad esse: almeno in quegli ordinamenti nei quali viga il principio “ lex posterior
derogat priori”. (c) In terzo luogo, le norme permissive svolgono la funzione di prevenire
–di inibire o precludere– la creazione di norme imperative da parte di fonti del diritto
subordinate: almeno in quegli ordinamenti nei quali viga il principio “lex superior
derogat inferiori””. Non tre, ma quattro le funzioni distinte, invece, da R.A. Guibourg / D.
Mendonca [1995, pp. 280-282]: “(a) Funzione indicativa. Le norme permissive svolgono
la funzione di indicare ai loro destinatari quali sono i comportamenti consentiti
dall’autorità che le ha emanate [...]. (b) Funzione modificativa [che] consiste
fondamentalmente nel sostituire i comandi esistenti nell’ambito di un dato sistema
normativo, o nello stabilire ad essi eccezioni, il che suppone che i permessi cancellino o
abroghino (in tutto o in parte) i comandi preesistenti. [...] (c) Funzione restrittiva [...] se
l’autorità superiore permette espressamente un’azione, ciò impedirà, in qualche misura,
l’emanazione di norme che vietino quella stessa azione da parte di autorità inferiori, a
pena di introdurre una contraddizione nel sistema. [...] (d) Funzione di chiusura. [...]
[F]unzione assegnata ad alcune peculiari norme permissive è la chiusura dei sistemi
14

“the role played by permissive norms is not exhausted by derogation of former


prohibition: an act of permitting an action which has not been hitherto prohibited
is not at all pointless as has been suggested by those who deny the importance of
permissive norms 31.
Infatti, secondo Bulygin
It is easy to find examples of such situations in legal contexts. One typical case is
that of constitutional rights and guarantees, which limit the competence of
ordinary legislature: once the freedom of press has been guaranteed by the
constitution, the parliament is no longer competent to suppress or restrict it” 32.
Ora, anche a prescindere dalla problematicità di ridurre a meri permessi
norme quali quelle che enunciano diritti costituzionalmente garantiti 33, la
funzione di tali norme (non diversamente dai permessi che abrogano o derogano
a obblighi e divieti già presenti in un ordinamento) è quella di consentire in
conformità al principio della lex superior derogat inferiori, l’abrogabilità di e/o
la derogabilità a eventuali obblighi o divieti che, nell’ordinamento, dovessero
venire a confliggere e/o interferire con i “permessi” da esse enunciati (rectius:
con i diritti e/o le libertà da esse sanciti).
Due le differenze, strutturali ma non anche funzionali, di tali presunti
permessi rispetto ai permessi che intervengono ad abrogare e/o a derogare divieti
e obblighi già presenti in un ordinamento: (a) la statuizione dei diritti
costituzionalmente garantiti attiene (principalmente anche se non
necessariamente in modo esclusivo) alla statuizione di eventuali obblighi o
divieti che con essi dovessero successivamente venire a confliggere e non (solo)
con obblighi e/o divieti già presenti nell’ordinamento; (b) gli obblighi e i divieti
che i diritti costituzionalmente garantiti consentono di abrogare e/o a cui
consentono di derogare, in virtù del principio lex superior, sono (precipuamente
anche se non necessariamente in modo esclusivo) potenziali ed eventuali, non
già attuali come nel caso degli obblighi o divieti abrogati o ai quali si deroga in
virtù dei principî della lex posterior o della lex specialis.
Anche nel caso dei diritti costituzionalmente garantiti (posto che non ne sia
fuorviante questa caratterizzazione), si sarebbe, quindi, in presenza di “permessi”
che rilevano non al fine di decidere di eventuali lacune di un ordinamento,
quanto, piuttosto, al fine di risolvere, in virtù del principio della lex superior, le

normativi” (corsivo degli autori).


31 E. Bulygin [1985, p. 213].
32 E. Bulygin [1985, p. 214].
33 In proposito, cfr., ad esempio, A. Ross [1968, pp. 123-124] quando, in contrasto
con von Wright, afferma: “The constitutional guarantee of certain freedoms [...] is a
restriction of the power of the legislator, a disability which corresponds to an immunity on
the part of the citizen”. Di questo assunto che, pur con formulazioni e/o sulla base di
argomenti non sempre coincidenti, costituisce uno dei tratti distintivi della pluralità di
forme in cui il (neo)costituzionalismo si è venuto configurando, una lettura critica è
proposta da M. Atienza / J. Ruiz Manero [1994, pp. 818-820], e [1996, pp. 94-95].
15

eventuali antinomie che si dovessero determinare in un ordinamento in seguito


ad interventi legislativi contrari ai diritti che, nell’ordinamento, sono assunti
come inderogabili 34.
E ancora, non è forse inopportuno notare quanto poco “permessi” quali i
diritti costituzionalmente garantiti si prestino a fornire un’esemplificazione
convincente della nozione di permesso forte, di quel tipo di permesso, cioè, che è
indicato come ragione sufficiente per negare che vi sia lacuna in relazione a ciò
su cui il permesso verte. È proprio in nome e in ragione di diritti
costituzionalmente garantiti, infatti, che, di un ordinamento, è possibile
denunciare lacune se ed in quanto i valori di cui tali diritti sono enunciazione non
trovino, nell’ordinamento, effettiva tutela in norme legislative che ne consentano
una piena e compiuta attuazione.
Ora, per quanto possa forse apparire paradossale, proprio in ragione delle
osservazioni che precedono (e non già con esse in contrasto), non si possono non
condividere e non sottoscrivere le affermazioni con le quali Bulygin riassume e
conclude la propria analisi alla quale si è appena fatto riferimento:
“it is only in a dynamic perspective of a hierarchically structured normative
system (with a plurality of norm authorities belonging to different levels) that
changes in the source of time as a result of different normative acts carried out by
norm authorities where the concept of a permissive norm becomes really
fruitful” 35.
Indiscutibilmente corretta, quest’affermazione di Bulygin rivela non tanto
l’opportunità di una distinzione fra permesso forte e debole (anche) al fine di
render conto della possibilità di lacune, quanto la necessità di un’attenta analisi
di quelle metanorme sulla (in)validità di norme e/o di atti normativi che sono il
nucleo ineludibile di qualunque ordinamento dinamico 36.

34 Che i diritti costituzionalmente garantiti non consistano nella mera statuizione di


permessi, ma individuino, invece, criterî di (in)validità (sostanziale) di eventuali norme
con essi confliggenti sembra negato e affermato ad un tempo da R.A. Guibourg / D.
Mendonca [1995]. E precisamente, Guibourg e Mendonca sembrano accettare
l’assimilazione fra diritti costituzionalmente garantiti e permessi (ancorché “forti”)
quando fanno propria la posizione di chi, come Bulygin, propone di “concepire i permessi
forti come annullamenti (rechazos) anticipati di divieti successivi [perché] data la struttura
gerarchica dell’ordinamento giuridico, tali norme permissive rivestono una funzione
rilevante nel fissare certe restrizioni alla emanazione di norme di livello inferiore,
funzione che, certo, non può essere assolta dalla mera assenza di comandi o divieti” (p.
274). Di contro, Guibourg e Mendonca sembrano invece rifiutare una mera assimilazione
fra diritti costituzionalmente garantiti e permessi (ancorché “forti”) quando, dopo aver
sottolineato che “il primo modo di proteggere un permesso è vietare ai delegati di
emanare norme che vietino il comportamento” (p. 291), offrono un’attenta analisi della
nozione, complessa e problematica, di “divieto di secondo grado” (pp. 291-294).
35 E. Bulygin [1985, p. 216].
16

Metanorme sulla (in)validità di norme e/o di atti normativi che


(strutturalmente e funzionalmente differenti da meri permessi e/o da obblighi
indirettamente formulati) consentono di render conto anche delle norme che in
un ordinamento esprimono permessi e delle forme e dei modi in cui, grazie a
principî quali quello della lex posterior e della lex specialis (anch’essi
metanorme sulla (in)validità di norme se non anche sulla (in)validità di atti
normativi) tali norme che esprimono permessi consentono di abrogare e/o di
derogare a obblighi e divieti dell’ordinamento.

2.2. Secondo ordine di problemi concettuali

Il secondo ordine di problemi concettuali relativi alla distinzione fra


permesso forte e permesso debole concerne la radicale asimmetria fra l’eventuale
comportamento logico della validità (che si predica di norme giuridiche
organizzate in sistemi dinamici) e il comportamento logico della verità proprio
dei calcoli di logica deontica, se ed in quanto (così come nella quasi totalità dei
casi) estensione dei calcoli di logica classica 37.
Anche sotto questo profilo, così come si è già affermato in relazione al
problema della varietà tipologica delle norme giuridiche, la distinzione fra
permesso forte e permesso debole, almeno nella formulazione che ne propone
von Wright a partire dal 1963, si rivela una risposta inadeguata al problema di
fondo dell’interpretazione dei calcoli di logica deontica come calcoli in grado di
render conto del comportamento logico delle norme giuridiche.
Sono infatti innegabilmente corrette le due affermazioni che von Wright
adduce contro l’idoneità della nozione di permesso (come mera assenza di un

36 Sul concetto di metanorme come norme che sono o pongono condizioni di


(in)validità di norme e/o di atti normativi, cfr. T. Mazzarese [1996]. Un’affermazione
simile (nonostante la diversa formulazione e il diverso apparato categoriale di riferimento)
mi sembra la critica mossa da U. Scarpelli [1963, 21982, p. 232] ad A.G. Conte [1962]
riguardo all’insufficienza e alla non idoneità dei modi deontici delle norme di
comportamento (sei nell’analisi di Conte: permesso, facoltativo, obbligatorio, vietato,
indifferente, e imperativo) per un’esauriente trattazione del tema delle lacune in sistemi
normativi dinamici, quali gli ordinamenti giuridici; insufficienza e non idoneità perché
questi modi deontici non consentono di render conto né di quelle che nel lessico di
Scarpelli sono indicate come norme di struttura (norme che delle norme di
comportamento individuano le condizioni di validità), né del rapporto che intercorre tra
norme di struttura e norme di comportamento. Con le parole di Scarpelli: “Fra le norme di
struttura attributrici di poteri normativi, i comportamenti di esercizio di tali poteri, i
soggetti investiti dei poteri, i comportamenti e i fatti costitutivi delle fattispecie cui da
quelle norme sono collegati i poteri passano relazioni, per designare le quali occorrono
nuovi concetti qualificatori”.
37 Un’analisi più diffusa di questo problema si ha in T. Mazzarese [1989], e [1991].
17

divieto corrispondente) a fornire una categoria concettuale idonea a rendere


conto del problema delle lacune.
È innegabilmente corretto, in primo luogo, che la nozione di permesso (come
mera assenza di un divieto corrispondente) non offra uno strumento concettuale
in funzione del quale escludere la possibilità di lacune.
È innegabilmente corretto, in secondo luogo, che la nozione di permesso
(come mera assenza di un divieto corrispondente) non offra uno strumento
concettuale idoneo a render conto della realtà degli ordinamenti giuridici,
neppure se la si interpreti come l’análogon del principio nullum crimen sine
lege. Con un’argomentazione che sorprendentemente richiama quella formulata
solo un anno prima, nel 1962, da Kelsen in Derogation sull’asimmetria tra il
criterio della lex posterior e il principio di non contraddizione, von Wright
infatti afferma, come si è già accennato, che nullum crimen sine lege è un
principio giuridico, non logico; è un principio che negli ordinamenti giuridici
vale se ed in quanto il legislatore abbia così deciso. Nel 1963, infatti, come si è
già ricordato, von Wright scrive:
“A nullum crimen rule permitting all not-forbidden acts and forbearances may or
may not occur within a given normative order. If it occurs within a normative
order, then, relative to this order, all human acts are subject to norm” 38.
E nel 1991, ancora più nettamente von Wright ribadisce:
“The relation between permission and absence of prohibition is not conceptual but
a normative relation. One may be able to give good reasons why such things
which are not prohibited by the norms of a certain code should be regarded as
permitted by the code in question. But to declare the non-prohibited permitted is a
normative act. One could have a meta-norm to the effect that the not-prohibited is
permitted. The well-known principles Nulla poena sine lege and Nullum crimen
sine lege may be thought of as versions of this meta-norm [...] one may defend an
opinion that a legal or moral order should not contain “gaps”. But one cannot
support this view with arguments from “deontic logic”” 39.
Indubbiamente corrette (e, nel caso del principio nullum crimen, anche
originali), le ragioni di insoddisfazione denunciate da von Wright riguardo
all’interdefinibilità di divieto e permesso e, quindi, riguardo alla
caratterizzazione del permesso come mera assenza di un divieto corrispondente,
non trovano, però, una risposta adeguata nella formulazione della distinzione fra
permesso forte e permesso debole.
Per quanto, infatti, rinvii anche al concetto di norme di competenza, la
nozione di permesso forte è inadeguata, così come si è già sottolineato alla fine
del paragrafo precedente, a rendere conto delle forme e dei modi in cui le
metanorme (come è il caso, anche, ma di certo non esclusivamente, del principio
nullum crimen) determinino le condizioni alle quali una norma possa dirsi valida.
Detto altrimenti, la logica deontica (così come essa è andata configurandosi
in molti dei calcoli elaborati a partire dagli inizi degli anni cinquanta), è stata

38 G.H. von Wright [1963, p. 87] (corsivo mio).


39 G.H. von Wright [1991, pp. 279-280] (corsivo dell’autore).
18

precipuamente concepita come logica di norme di comportamento. Di norme,


cioè, che qualificano deonticamente (obbligatorio, vietato, permesso
positivamente o negativamente) un comportamento. Ora, proprio perché intesa (e
costruita) come logica di norme di comportamento, la logica deontica non è in
grado di render conto di ciò che è peculiare al comportamento logico delle
metanorme. Non è in grado, cioè, di render conto né del comportamento logico
di quelle norme che, nei sistemi normativi dinamici (quali gli ordinamenti
giuridici) individuano le condizioni di (in)validità delle norme se ed in quanto,
nel sistema, sono o pongono condizioni di (in)validità delle norme e/o degli atti
normativi produttivi di norme che lo costituiscono, né dei rapporti logici (nel
caso se ne diano) fra le metanorme e le norme di cui, nel sistema, individuano le
condizioni di (in)validità. I calcoli di logica deontica si rivelano, quindi,
inadeguati a render conto di temi quali (a) quello dell’abrogazione (le norme
sull’abrogazione sono o pongono condizioni di (in)validità di norme, e le norme
abrogative non sono norme deontiche e non vertono su un comportamento), (b)
quello delle antinomie (le norme che individuano criterî di risoluzione delle
antinomie sono metanorme che sono o pongono condizioni necessarie e/o
sufficienti di (in)validità delle norme antinomiche), e (c) quello delle lacune (le
norme che individuano criterî per colmare le lacune sono anch’esse metanorme
che indicano a quali norme e/o a quali principî ricorrere per la risoluzione di un
caso in assenza di un’esplicita disposizione che ne indichi la disciplina).
Che, almeno per quanto attiene alle norme giuridiche, i calcoli di logica
deontica presentino, e non possano non presentare tali limiti esplicativi, è
esplicitamente riconosciuto, nel 1991, dallo stesso von Wright:
“A calculus such as the one I devised in my 1951 paper is, at best, a logic of what
I used to call “norm-propositions”, i.e., of true or false propositions to the effect
that there are such and such norms. But such a logic cannot claim to be an
adequate representation of existing normative codes in general. This is so, for one
thing, because it excludes both contradictions and gaps in the codes. To try to do
this “on grounds of logic” is a futile manoeuvre. One can think of various meta-
norms for how to deal with contradictions and gaps – or one decides from case to
case what to do with them, if anything. The meta-norms, some of which are well-
known from traditional legal theory and practice, are not laws of a Logic of
Norms. But even if the “classical” system does not adequately represent existing
normative structures, it may have another sensible function with regard to them.
Namely as an ideal pattern to which a contradiction free and gapless normative
structure has to conform” 40.

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