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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“FEDERICO II”
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

TESI DI LAUREA

IN

FILOSOFIA TEORETICA

PAUL CELAN. LA POESIA COME PAROLA D’INFANZIA.

Relatore Candidato

Ch.mo Prof. Paolo Graziani


Eugenio Mazzarella Matr. 04/11882

Anno Accademico 2001/2002

1
INDICE

INDICE__________________________________________________________1

INTRODUZIONE__________________________________________________3

BIOGRAFIA DI PAUL CELAN______________________________________8

CAP.I – IL POETA IN-FANTE. BIOGRAFIA DI UNA RESISTENZA._____13


I.0: PER UNA BIOGRAFIA COME SCRITTURA DI VITA.______________________13
I.1: ORIENTARSI, CANTANDO. IL MERIDIANO COME RITORNELLO.___________16
I.2: IL FONDO CHE NON SI PUÒ TOCCARE. L’INFANZIA CHE DÀ DA PENSARE.___19
I.3: INDECIFRABILITÀ E RESISTENZA. CONTRO UNA POSSIBILE RIDUZIONE
PSICANALITICA.__________________________________________________22
I.4: L’INDECIFRABILITÀ COME CUSTODIA DELLA PAROLA NEL SILENZIO. IL
RISCHIO DI UNA ASTRAZIONE FONDAMENTALE._________________________27
I.5: LO SCANDALO ETICO DELL’INFANZIA. UN’IPOTESI CIRCA LA PAROLA
VENTURA CHE NON VENNE._________________________________________29
I.6: UN’ANGOSCIA SENZA PAROLA. INFANZIA E ONTOLOGIA._______________37
I.7: “ES”, UN CHE DI INEFFABILE, SI MOSTRA. COME WITTGENSTEIN LEGGE
HEIDEGGER, DAL PUNTO DI VISTA DELL’ETICA._________________________41
I.8: LO SCANDALO DI CIÒ CHE SI MOSTRA. DI COME HEIDEGGER AGGIRÒ CON
PAROLA ANTERIORE, LA MANCANZA DI PAROLA CHE GLI ERA PROPRIA._______43
I.9: L’ES CUI LA POESIA SI ESPONE.___________________________________49
I.10: IN LOTTA NELLA “STRETTA”. L’AGONIA POETICA DEL CORPO DI PAUL
CELAN.________________________________________________________52
I.11: “TUTTI I POETI SONO EBREI”. L’ISCRIZIONE INDECIFRABILE, E DI COME LA
RESISTENZA DI P.C. LE FACCIA VELO, RIVELANDOLA._____________________58

CAP.II - DA AUSCHWITZ A CZERNOWITZ. IL RIMPATRIO


ILLEGGIBILE.___________________________________________________63
II.0: NOMINARE AUSCHWITZ. UN INQUIETANTE GIOCO DI PAROLE.__________63
II.1: “NON ACCORGERTI”. ASCOLTARE UN “LABBRO INTERDETTO”.__________65
II.2: L’INFANZIA SOPPRESSA DI HITLER. L’UMANITÀ CHE STERMINÒ I PROPRI
FIGLI.__________________________________________________________68
II.3: PAUL PESSACH ANTSCHEL. IL SACRIFICIO CHE CONSENTE IL PASSAGGIO._72
II.4: L’INFANZIA, “UN CRISTALLO DI RESPIRO”, DI PAUL ANTSCHEL._________77
II.5: “NERO LATTE DELL’ALBA”. L’INFANZIA RIMOSSA E QUANTO NE TRASPARE
IN TODESFUGE.__________________________________________________84
II.6: DA AUSCHWITZ A CZERNOWITZ. SCHIBBOLETH: L’INTRADUCIBILE CHE DÀ
DIRITTO A PASSARE._______________________________________________91
II.7: IL PASSAGGIO CIFRATO. L’ACCESSO SBARRATO ALL’IN-FANZIA DI PAUL
CELAN.________________________________________________________98

2
CAP.III - COGITO PER UN IO DISSOLTO. SE INFINE GLI AUTOMI
FALLISCONO.__________________________________________________104
III.0: LA POESIA COME SOGLIA. UN PASSAGGIO PER NESSUNO.____________104
III.1: LA POESIA IN CAMMINO. U-TOPIA E RIMPATRIO.___________________105
III.2: UN’IN-FANZIA DA RI-MUOVERE. L’ALTRO COME POTENZA DI INVERSIONE.
______________________________________________________________108
III.3: L’ETERNO RITORNO COME SOGLIA. IL TEMPO FUORI DAI SUOI CARDINI._114
III.4: “CHI DOMINA?”. LA PAROLA COME GEGENWORT E UNWORT.________117
III.5: LA PAROLA SILENZIATA RESA ALLA NOTTE. L’IMPENSABILE PRECLUSO A
OGNI LOGOS.___________________________________________________122
III.6: “MI SI PENSA”. DIVENIRE-IMPERCETTIBILE PER PASSARE NELLA GRATA
DEL LINGUAGGIO._______________________________________________131
III.7: IN-FANZIA VERSUS A-FASIA. PER UNA PEDAGOGIA ANTI-AUTORITARIA.__134
III.8: “UN OCCHIO, APERTO”. DE-PENSARE A PARTIRE DALLA VISTA._______140
III.9: SE INFINE ANCHE GLI AUTOMI FALLISCONO. LA POESIA COME TENSIONE, E
MISURA, DI UNA SVOLTA DI RESPIRO._________________________________142

CAP.IV - LA POESIA COME STRETTA DI MANI. ETICA E APOLIDIA:


L’IMMAGINARIO COME CARTOGRAFIA.________________________146
IV.0: “NOLI ME LEGERE”. LA POESIA COME TENSIONE E MISURA DI DUE
ESTRANEITÀ.___________________________________________________146
IV.1: IL PENSIERO COME MANOVRA PRIVATA NELLA SUA DIFFERENZA CON
L’OPERA, “STRETTA DI MANI”.______________________________________150
IV.2: L’APERTURA AL MISTERO. L’HEIMAT DEL PENSIERO E L’APOLIDIA DELLA
SCRITTURA.____________________________________________________156
IV.3: L’U-TOPIA E IL MISTERO DELL’INCONTRO. IL MERIDIANO COME VIA
CREATURALE DELLA POESIA._______________________________________161
IV.4: L’ETHOS NOMADE DI CELAN E LA SOLIDARIETÀ CON LE VITTIME._____167
IV.5: ETHOS COME DIMORA ED ETHOS COME ESILIO. L’IMMAGINARIO
CARTOGRAFICO DI CELAN.________________________________________170
IV.6: “ABITARE DA POETI O DA ASSASSINI?”. LA POESIA COME PROGETTO DI
LIBERTÀ.______________________________________________________173
IV.7: “L’ALONE PAUL CELAN”. LA FRAGILITÀ DELL’OPERA COME SUPERFICIE E
LA POTENZA NOCIVA DELLE COAZIONI DI LUCE AUTORITARIE._____________179
IV.8: L’ETICA COME ECCEDENZA, DISPENDIO CREATIVO._________________182
IV.9: L’OBLIO COME POTENZA D’U-TOPIA. “EGLI VEDE- CHI È FANCIULLO NEGLI
OCCHI”._______________________________________________________187
IV.10: L’OPERA DI CELAN COME LETTERA BRUCIATA. L’AMORE AL DI LÀ DEL
SAPERE._______________________________________________________189

CONCLUSIONE_________________________________________________194

BIBLIOGRAFIA________________________________________________204

3
INTRODUZIONE

“La dottrina di un pensatore è ciò che,


nel suo dire, resta Non-detto.”1

"I poeti dicono la verità quando affermano che,


iniziando a scrivere una poesia,
non sanno cosa finiranno per dire.
Scriviamo per dire il non-detto, e per conoscerlo".2

Questo testo si presenta in forma di tesi di laurea, ma è in virtù


di un’assenza, di un che di informe, che esso si scrive: ça parle,
qualcuno lo parla, uno sconosciuto ne dispone.
Abbiamo detto assenza, ma non è la vicenda di una mancanza;
piuttosto, qui, l’insistenza di un desiderio lavora il testo, agisce per
sottrazione, lo restituisce alle sue miserie, polvere che siamo e
ritorniamo, scampati al dominio della sintesi.
Paul Celan è il poeta di cui ci occupiamo, lo pseudonimo
dell’opera da cui questo testo è occupato.
E’ da qui che cominciamo, ed è dell’inizio, che si tratta -
dell’intrattabile, di ciò che al pensiero sfugge perché ne è margine, ciò
che lo inquieta e da cui continuamente si separa, a volte con una sorta
di lamentosa nostalgia.
Chiameremo questo inizio in-fantia: essa si impone e perdura,
nonostante tutto, come una resistenza irriducibile. La filosofia,

1
M.Heidegger, La dottrina platonica della verità, in Segnavia,a cura di F.Volpi, Milano, Adelphi,
1987, p.160.
2
O.Paz, cit. da “Sagarana”, n.4, 7/2001, http://www.sagarana.net/rivista/numero4/dicas.html

4
quest’amore senza possesso, ne sa il pathos, ne risente come uno
stillicidio, il martellante rumore di fondo, residuo di un antico vagito.
Segreta è la violenza sull’infanzia. La crudeltà di un
marchingegno di sopraffazione continuamente, e sempre più
occultamente, predispone i bambini di oggi e di sempre,
maltrattandoli, all’ubbidienza che un domani dovranno al meccanismo
di potere che li produce e riproduce.
Quando la poesia di Celan è interpretata, come comunemente
accade, attraverso la lente aberrante di Auschwitz, sono in pochi a far
presente come l’olocausto, i lager, lo sterminio cui il poeta
miracolosamente scampò, furono per quella generazione, e per Celan
stesso, la realizzazione in grande stile di qualcosa che già molti di loro
avevano ben conosciuto, nei primi anni della loro vita.
Leggere la biografia dei primi anni di vita di Celan, un po’ come
leggere la Lettera al padre di Kafka - o alcuni scritti di Hitler, che ci
premerà ricordare - ci consente di scoprire come le vittime dello
sterminio condividessero con i carnefici un segreto terribile,
l’indicibile crudeltà che ne aveva stroncato, in tempi remoti,
l’innocenza.
Non sarà filologia, la nostra, che consenta di decodificare
finalmente quel segreto, scoperchiarne la cripta, decifrarne la
combinazione.
Ciò che intendiamo sostenere, piuttosto, è che la poesia di Celan
non riesce a farne a meno, ne è dominata, ne è la paticità da cui il
pensiero si scansa, un po’ come fece Heidegger, aggirando nel silenzio
le domande di Celan, in quel di Todtnauberg.

5
Essa, l’in-fantia che perdura nel testo di Celan, l’in-fantia di cui
il testo è perpetua e insufficiente rimozione, custodisce nel suo mistero
quell’eccedenza d’essere, che richiamandoci al senso originario di
questa parola, battezzeremo ethos: l’aperto soggiorno che abita
l’uomo e ne è l’abitudine. In quanto in esso si attua l’innocenza del
divenire, la libertà in cui ogni parola “nomina e instaura”3, questo
aperto soggiorno che è l’ethos, ha da essere, pare, continuamente
sopraffatto, crudelmente violato, perché ne sia impedita la
generatività, la libera produttività che gli è propria.
Più che mai oggi, la violenza sull’infanzia resta occulta, un tabù
che ogni giorno si conferma e rinforza anche mediante l’abbondanza
di parole che in ogni sede si spendono a favore di una immagine del
bambino “vittima”, oggetto fragilissimo del possesso e della vigile
custodia del genitore.
Ciò che l’infanzia di Celan - la sua infanzia personale e l’in-
fanzia che è all’opera nella sua poesia, l’indicibile sfondo che la
dispone - ci invita a meditare, piuttosto, è che il non-adulto da cui
ostinatamente prendiamo le distanze, germina e vive, o più spesso
soffoca e muore, proprio in quanto esso è l’in-forme, l’immaginario in
quanto l’Altrove, e il divenire, di ogni immagine - l’ethos, in quanto
habitus4 capace di rendere abituale qualsiasi dimora.
“Il vero Sé è l’Informe(…)Poiché questo Sé è informe, esso non
è legato a nessuna forma, ma può assumere tutte le forme” 5, insegna
3
Così Celan definisce il linguaggio della sua opera poetica: “Esso non trasfigura, non poetizza,
esso nomina e instaura”(cfr. P.C., Gesammelte Werke in sieben Bänden, a cura di B.Alleman e S.
Reichert, Frankfurt am Main, Surkhamp Verlag, 1983 III, p.167)
4
Qui per Habitus, o abitudine, non si vuol intendere la ripetizione, la consuetudine. Con questo
termine definiamo piuttosto quella potenza di sintesi, di sottrazione, che agisce in quanto
determinazione della differenza: “l’abitudine sottrae alla ripetizione qualcosa di nuovo: la
differenza”(G.Deleuze, Differenza e ripetizione ,Milano, Raffaello Cortina editore, 1997, p.100)
5
Hisamatsu, Hôseki, “Arte e opera d’arte nel buddhismo Zen”, tit. originale: “Kunst und
Kunstwerke in Zen-Buddhismus,” trad. di C.Saviani, in Sophia, n.1, marzo 1999, p.45.

6
un monaco Zen; e nella povertà del nostro tentativo di estrarre un
sapere dalle poesie di Celan, da quello che fin d’ora definiamo il suo
‘immaginario cartografico’ e l’apolidia del suo ethos, è a questa
lezione che giungiamo, sia pure seguendo le incerte e cifrate
indicazioni di un messaggio in bottiglia.
Riepilogando, quindi, il nostro lavoro di riflessione si proporrà
di:
a)Rilevare come la peculiare indecifrabilità dell’opera di Celan
dia corpo, e vita, a un fondo biografico resistente e inaccessibile, che
l’interpretazione non può tralasciare proprio in quanto ne è
costantemente respinta.
b)Descrivere il nesso profondo che lega alcuni inquietanti
episodi dell’infanzia del poeta con la ferita nel linguaggio che Celan
mette in opera in alcuni testi, per tentare di indicare, attraverso
“parole di soglia”, quanto di non-detto giace al fondo dei suoi versi.
c)De-limitare l’ambito della poesia, in particolare della poesia
di Celan, rispetto al pensiero, individuando e descrivendo
quell’incrinatura nell’'ego cogito’ che lo può mettere in condizione di
pensare, pur nell’economia che gli è propria, quell’in-fanzia
inaccessibile al pensiero, in cui il poema, più dispendiosamente, si
arrischia.
d)Evidenziare la peculiarità dell’esperienza poetica di Celan
come concretizzazione di una generosità etica, che a un pensatore
come Heidegger, pur così influente su Celan, rimase del tutto
preclusa; generosità etica che si evidenzia nella concezione, diffusa
nell’opera di Celan, per cui la poesia non può darsi al di fuori del
“mistero dell’incontro” con l’Altro, incontro di impossibile

7
collocazione esegetica, come la condizione apolide (biografica e
poetologica) di Celan, consentì e rese necessario.
E’ dell’infanzia come l’eccedenza po-etica del pensiero,
dunque, che tratteremo, e proprio per questo ci sia consentito di non
dirne oltre, in quanto è di ciò che non ha parola, che qui si tenta, con
insistenza, di scrivere.
In quanto ne siamo lontani, è di quella perdita, che siamo in
sofferenza, in miseria. Ed è stato proprio qui, nei varchi che
faticosamente abbiamo tentato di riaprire, fra le maglie di questa
Sprachgitter, che a tratti ci è sembrato, con pudica meraviglia, di
vederla, nuovamente, riaffiorare.

Di seguito, come semplice ausilio per il lettore, riportiamo i dati biografici


fondamentali, relativi alla vita e all’opera di Paul Celan. Una biografia molto più
completa, da cui abbiamo estratto questi dati, è pubblicata in Paul Celan, Poesie,
Milano, Mondadori, 1998, a cura di G. Bevilacqua, p.CXXXIII-CLX.

8
BIOGRAFIA DI PAUL CELAN

1920 Il 23 novembre, a Czernowitz in Bucovina, regione oggi divisa


fra Ucraina e Romania, nasce, sotto il nome di Paul (Pessach)
Antschel, da genitori ebrei, che impartiranno al figlio una educazione
rigida e repressiva.

1925 Nonostante le difficoltà economiche, Paul frequenta il Meisler-


Kindergarten, asilo fra i più esclusivi dove il tedesco è lingua ufficiale.
Sarà la madre, in particolare, a trasmettere al figlio l’amore per la
lingua e la letteratura tedesca.

1927 Dopo un anno alla scuola elementare di lingua tedesca, Paul


viene iscritto alla scuola ebraica, per motivazioni legate all’ideologia
sionista del padre. Il disagio di Paul nei confronti dell’ortodossia
repressiva del padre si manifesta fortemente proprio in questo periodo.

1930 Paul viene iscritto al ginnasio statale rumeno.

1933 Pur avendo interrotto lo studio dell’ebraico per ribellione nei


confronti del padre, Paul si sottopone alla cerimonia del Bar Mizwà, il
rito con cui viene accolto ufficialmente nella comunità religiosa
ebraica.

1935 Avendo conseguito l’ammissione al ginnasio superiore, dove


riprenderà lo studio del tedesco, Paul avvia un’intensa lettura dei
classici della letteratura tedesca (Hölderlin, Goethe, Schiller, Heine, e
soprattutto Rilke), nonché di scrittori e poeti di lingua francese, fra cui
Verlaine e Rimbaud. La lettura delle opere di Marx lo lascia piuttosto
freddo; più interesse destano in lui i testi di anarchici come Landauer e
Kropotkin.

1938: Paul supera brillantemente l’esame di maturità. Nonostante le


inclinazioni letterarie, i genitori decidono di fargli studiare medicina, a
Tours, in Francia. Il treno che lo conduce in Francia sosterà a Berlino
nella notte fra il 9 e il 10 novembre, la famigerata “Notte dei
cristalli”. Sono di quest’anno le prime poesie note di P.C. In questo
periodo si intensificano le letture, in particolare di Kafka, Shakespeare
e Nietzsche.

9
1939: La Bucovina è annessa all’Unione Sovietica, sicché Paul,
tornato per le vacanze, non può ripartire per Tours. Si iscrive alla
facoltà di romanistica a Czernowitz e intensifica l’attività poetica.

1940: Prima impegnativa relazione, con l’attrice Ruth Lackner.


L’Armata Rossa invade Czernowitz, avviando così la lunga sequenza
dei catastrofici eventi bellici che colpiranno anche quella zona, pure
marginale, dell’Europa.

1941 Le truppe rumene, d’accordo con i tedeschi, occupano


Czernowitz. Parte degli abitanti fugge in Unione Sovietica, altri,
soprattutto ebrei, sono deportati in Transnistria, altri ancora vengono
rinchiusi nel ghetto. Paul è comandato ai lavori forzati.

1942 Riprendono le deportazioni. Il 27 giugno Paul cerca di


convincere i genitori a riparare con lui in un buon nascondiglio, ma
essi non lo seguono. Non li rivedrà mai più: moriranno entrambi pochi
mesi dopo in un campo di concentramento, come la maggior parte
degli ebrei di Czernowitz.
Paul, insieme con altri ebrei, viene inviato ai lavori forzati in
Moldavia, dove resterà fino al 1944.

1944 Per non incorrere in nuove deportazioni, Paul lavora come


assistente in una clinica psichiatrica. Si iscrive poi alla facoltà di
anglistica, e ordina le sue prime poesie in due raccolte, donate a Ruth
prima della partenza da Czernowitz.

1945 Partenza per Bucarest, dove lavora come traduttore e redattore di


una casa editrice.

1946. Conoscenza con Petre Solomon e con altri poeti e letterati


romeni.
1947 Nasce ufficialmente lo pseudonimo Paul Celan, anagramma
della trascrizione romena del cognome Antschel. Prime poesie
pubblicate su riviste, in particolare Todesfuge.

1948 Fuggendo dall’occupazione sovietica della Romania, Celan


approda a Vienna, dove pubblica alcune poesie e in particolare la
prima raccolta, “Der Sand aus den Urnen” (La sabbia dalle urne).

10
In questo periodo, oltre a vari personaggi dell’ambiente surrealista,
Celan conosce la poetessa I.Bachmann, con cui vive una breve e
intensa relazione.
Pubblica poi un breve saggio, dal titolo “Edgar Jenè und der Traum
von Träume”.
A luglio, Celan abbandona Vienna per Parigi. All’ENS si iscrive ai
corsi di germanistica e filologia.

1949 Celan conosce un poeta molto affermato, Yvan Goll, che morirà
poco dopo, e sua moglie.

1950 Conseguimento della licenza alla ENS. Pubblicazione degli


aforismi “Gegenlicht” (Controluce).

1951 Celan si appassiona al pensiero di Heidegger, che sarà una delle


più importanti e frequenti letture di quegli anni. In autunno, conosce la
pittrice Gisèle de Lestrange, che sposerà un anno dopo.

1952 Celan è invitato tramite I.Bachmann in Germania, presso il


Gruppo 47, dove le sue poesie troveranno un’accoglienza piuttosto
fredda. A fine anno pubblica quella che egli considererà la sua prima
vera raccolta, “Mohn und Gedächtnis” (Oppio e memoria).

1953 Contatti con vari personaggi della cultura francese, fra cui Renè
Char. A ottobre nasce il primo figlio, François, che muore poche ore
dopo la nascita. La vedova di Y.Goll avvia una prima campagna
diffamatoria nei confronti di Celan, calunniandolo con surrettizie
accuse di plagio.

1954 Traduzioni di varie opere altrui, fra cui il “Sommario di


decomposizione” di E.Cioran, che sarà fra gli ultimi amici del poeta,
fino alla morte. Inizia un lungo carteggio epistolare con la poetessa
Nelly Sachs.
1955 Cittadinanza francese. Nasce il figlio Eric. Pubblicazione di
“Von Schwelle zu Schwelle” (Di soglia in soglia), dedicato alla
moglie. Continua una intensa attività di traduttore.

1956 Premio letterario dell’associazione degli industriali tedeschi.

11
1957 Sempre più frequenti inviti in Germania, per alcune letture di
poesie.

1958 Premio letterario della Città di Brema, per il quale il poeta tiene
una significativa allocuzione, in cui identifica la sua poesia con
l’immagine del “messaggio in bottiglia”.

1959 Inizia il lavoro come lettore di lingua tedesca all’ENS, che


continuerà fino alla morte. Continua l’attività di traduttore(importanti
le traduzioni da Mandel’stam e Valery). Pubblicazione di
“Sprachgitter”(Grata di linguaggio). In seguito a un mancato
incontro con Adorno, scrive un piccolo racconto, dal titolo “Gespräch
im Gebirge” (Conversazione nella montagna).
E’ in quest’anno che Celan conosce Szondi e Bollack.

1960 Nuove accuse di plagio da parte di C.Goll, che provocano un


profondo trauma psichico in C. Sono di quest’anno altri importanti
incontri, fra cui quelli con N.Sachs, ricoverata a Stoccolma in clinica
psichiatrica. In ottobre Celan riceve il premio Büchner, in occasione
del quale pronuncia il discorso “Der Meridian” (Il meridiano).

1962 E’ di quest’anno il primo ricovero psichiatrico di Celan, in


seguito all’aggravarsi di un pesante sentimento di angoscia,
testimoniato anche dagli amici, fra cui Bonnefoy e Jabes.

1963 Incontra lo scrittore F.Wurm, con cui inizia una frequente


corrispondenza. In autunno, pubblica “Die Niemandsrose” (La rosa di
nessuno), dedicato alla memoria di O.Mandel’stam.

1964 Grosser Preis della regione Nord-Westfalia.

1965 Nuovi soggiorni in clinica psichiatrica. Al Goethe-Institut di


Parigi è esposta l’edizione di lusso di “Atemkristall” (Cristallo di
respiro), illustrata con acquerelli da Gisele Lestrange-Celan.
1967 Nuovo aggravamento delle condizioni psichiche, cui segue un
prolungato soggiorno in clinica e la decisione, concordata con la
moglie, di vivere da solo in un appartamento nel Quartiere Latino. A
luglio, Celan tiene una lettura di poesie a Friburgo e incontra
M.Heidegger nella sua baita a Todtnauberg. In autunno esce
Atemwende (Svolta del respiro).

12
1968 Durante i moti studenteschi parigini, Celan si mostra dapprima
solidale con la protesta, per poi dissociarsi quando questa ricorre a
schemi ideologici autoritari e violenti. In autunno pubblica
“Fadensonnen”(Filamenti di sole), l’ultima silloge edita in vita.

1969 Ulteriori soggiorni in clinica. A metà anno, pubblicazione di


“Schwarzmaut”(Pedaggio al nero), una plaquette illustrata con
acquerelli, contenente il primo nucleo della raccolta postuma
“Lichtzwang”(Coazione di luce). A fine anno, viaggio in Israele.

1970 Ultime letture pubbliche di poesie, fra cui una a Friburgo, in


presenza di Heidegger, che viene rimproverato da Celan per la
disattenzione con cui lo ascolta. In aprile, ultimo seminario
all’università, sul “Cacciatore Gracchus”, un racconto di Kafka.
Presumibilmente il 20 aprile, si suicida gettandosi nelle acque della
Senna. Il cadavere viene ritrovato da un pescatore solo il primo
maggio. Postume escono tre raccolte di poesie, che Celan aveva
portato a termine prima della morte: “Lichtzwang”(Luce coatta);
“Schneepart”(Parte di neve); “Zeitgehöft” (Dimora del tempo).

CAP.I – IL POETA IN-FANTE.


BIOGRAFIA DI UNA RESISTENZA.

“La verità della nostra infanzia


è scritta nel nostro corpo”1

I.0: Per una biografia come scrittura di vita.

Dell’infanzia di Celan sappiamo poco, pochissimo. Non


disponiamo, ovviamente, di suoi testi risalenti a quel tempo (ce ne
sono giunti, però, alcuni risalenti all’adolescenza); com’è evidente,

1
A.Miller, Il bambino inascoltato, trad. di M.A.Massimello, Torino, Bollati Boringhieri, 1990,
p.332.

13
testimonianze provenienti da altri, sul periodo della sua infanzia, degli
anni 1920-30 per capirci, sono piuttosto scarse; anche da parte dello
stesso Celan “adulto” è molto difficile trovare indicazioni esplicite,
dirette, che ci indirizzino a quel periodo, che pure dovette essere
essenziale, come per tutti, per la sua vicenda esistenziale. Siamo
indotti, pertanto, a sospettare di versi, peraltro non rari, che ci
sembrano parlare d’infanzia, senza però poter attribuire questi versi,
con sicurezza, a una precisa volontà di esprimere un ricordo, un
sentimento che abbia a che fare con l’infanzia biografica del poeta.
Alcuni versi, che riecheggiano la dura esperienza del ricovero
psichiatrico, ci paiono collocarsi su questa linea d’indagine:

“AVANZI DI COSE UDITE, VISTE, nel


dormitorio milleuno,

notte e giorno
la Polka degli Orsi:

ti rieducano questi,

tu ridiventi

lui”1

Possiamo affermare con certezza che quel “lui”, Er, marchi


nella poesia, criptandolo, il nome di Leo Antschel, il nome del padre?
Non disponiamo ovviamente di nessuna informazione in
proposito - e pretestuosa e falsificante sarebbe una interpretazione che
1
P.Celan, Gesammelte Werke in sieben Bänden, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1983, II,
p.233. Le citazioni successive delle poesie di Celan dovranno intendersi sempre riferite a questa
edizione; la traduzione è nostra, salvo dove diversamente indicato.

14
tenda a schiacciare la poesia di Celan, questa e tutte le altre, su
specifici episodi o figure della sua vita personale.
Del resto, soprattutto i primi anni di vita e l’identità delle figure
che composero la famiglia del poeta, restano nascoste sotto un velo
d’oblio, letteralmente e letterariamente rimosse - quasi che anche la
letteratura critica abbia inteso confessare, così, il suo timore, la sua
angoscia di quel che di terribile potrebbe essere scoperto, forse, in
quei primi anni di vita - una confessione a contrario, come di un
inquietante tabù.
Sfogliando l’edizione italiana delle poesie di Celan, ad es., ci
accade di leggere che: “Il primo ventennio di vita fra le due guerre sta
sotto il segno della quotidiana normalità”2: di che tipo di normalità si
sia trattato, avremo modo di dirlo, più avanti, quando ci imbatteremo
nelle testimonianze che ci prospettano anni di vita, i primi, tutt’altro
che tranquillizzanti. Essa, la “normalità” dell’infanzia di C., ha in
verità a che vedere molto da vicino con la “banalità” del male di
Auschwitz, e forse solo questo può ancora provocare un
fraintendimento così inquietante, una interpretazione riduttiva e in
fondo rassicurante, come quella che riconduce tutta la poesia di C.
sotto il segno dell’Olocausto. Effettivamente molte infanzie di quel
tempo furono “normali”, come quella di C.; non a caso gli adulti di
quella generazione si resero responsabili di orrori quali i totalitarismi,
i genocidi, la guerra mondiale, la bomba atomica. Quanto d’inaudito
ancora resta, al fondo di quegli orrori, rimosso il velo che ci spinge
coattivamente a ricondurre tutto all’unica chiave di lettura di
Auschwitz, dello sterminio nazista?
2
G.Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, la parabola di P.C., in P.Celan, Poesie, a cura di
G.Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p.XIV.

15
Lo stesso J.Felstiner, che pure traccia una dettagliata e
argomentata biografia critica del poeta, riguardo la sua infanzia non si
sofferma al di là di poche indicazioni sul rapporto, che fu molto
difficile, fra il poeta e il padre. Si tratta di brevi cenni, al più, in linea
di massima riguardanti l’imposizione, da parte, del padre, di un
ebraismo comunque piuttosto esteriore, formale.
Ci colpisce però un cenno, una relazione che vedremo ricorrere
più volte nella nostra ricerca, in varie forme: Felstiner ricorda come
Celan avesse detto, a un amico, che la “Lettera al padre” di Kafka
dovrebbe essere riscritta di nuovo in ogni famiglia ebraica 3. L’infanzia
“normale” di Celan fu forse come l’infanzia “normale” di Kafka?
Non siamo qui per tracciare una biografia del poeta, riduttiva
collezione di fatti di vita, sulla base dei quali illuderci di detenere
chiavi e chiavistelli, con cui furtivamente scassinare il suo scrittoio, il
suo domicilio poetico; a questa operazione meramente biografica, che
rischia di rendere definitivamente inaudibile l’inaudito che l’opera di
C. custodisce, opponiamo invece la scrittura di vita, la viva e feconda
grafia che informa tutta l’opera di C. Scrittura di vita che è r-esistenza
in forma di versi, resistenza a un silenzio che avrebbe troppo
prematuramente stroncato quel non-detto, quel surplus di segreto, che
la sua infanzia custodì e volle portare in salvo - vi riuscì?- oltre tutto
quello che il poeta di Czernowitz ebbe a vivere. Resistenza, che
afferma e reclama una disposizione etica diversa, un ethos più ospitale
di quello che soggiogò e prescrisse la carne ancora innocente del
bambino P.C.
3
Cfr. J.Felstiner, Paul Celan: Poet, Survivor, Jew, New Haven, Yale UP, 1995, p.7: “Indeed,
Celan once told a friend that Kafka’s bitter Letter to His Father had to be written over and over
again in Jewish homes”. Cfr. anche Pöggeler, Ö., Spur des Worts. Zur Lyrik P.Celans, Freiburg,
Alber, 1986, p.406.

16
Ebbe a dire una volta Celan, in una lettera:

“La lingua, specialmente nella poesia, è


ethos – ethos come fatale progetto di
verità”4.

I.1: Orientarsi, cantando. Il meridiano come ritornello.

“…Ho tentato di scrivere poesie: per parlare,


per orientarmi, per riconoscere il luogo, dove
mi trovavo…”1

Scrittura di vita, dunque, come un mezzo per orientarsi, “in


cerca di sé stessi…una sorta di rimpatrio” 2 dirà anche C., un
rimpatrio in realtà impossibile e tuttavia indispensabile: figura di U-
topia, di un luogo che non c’è e tuttavia dovrebbe esserci. Un
rimpatrio, questo, che il poeta si sforzò di predisporre, di profetare
almeno, con quel percorso creativo che egli stesso riunì sotto la
denominazione di “Meridiano”.
Scrive Celan:

4
Questa affermazione, che citiamo da R.Bruno, “Poesia e filosofia”, documento web disponibile
alla pagina http://scienzaesocieta.cassino.edu/filosofia/bruno.pdf , appartiene a una lettera di Celan
a W.Weber, di cui non ci è stato possibile prendere diretta lettura. La lettera dovrebbe, in ogni caso
essere stata pubblicata, insieme a un ampio carteggio, nel catalogo della mostra dell’archivio di
Marbach: A.Gellhaus, <<Fremde Nähe>>. Celan als Übersetzer, Marbach am Neckar, Marbacher
Kataloge, 1997.
1
P.Celan, op.cit, III, p.186.
2
P.C., op.cit, III, p.201.

17
“Cerco (…) il luogo della mia propria
origine. Cerco tutto ciò, con un dito alquanto
impreciso, perché inquieto, sulla carta
geografica - su una carta geografica per
bambini(…)” 3

Non lasciamoci sfuggire questa immagine - questa indicazione:


un poeta cerca la sua origine su una carta geografica, ma non utilizza
la più aggiornata, la più precisa delle mappe, un infallibile atlante che
con la sua precisione lo riporti senza erranze a Czernowitz, come
dovendoci tornare, da adulto, con la propria automobile, per la via più
diretta.
C. cerca piuttosto la sua origine su una cartina da scuola
elementare, forse un mappamondo di quelli che i bambini tengono
nelle stanze, magari come luce da notte, e che solo con una certa
imprecisione consentono di approcciarsi all’immagine del mondo e
delle sue suddivisioni territoriali.
Eppure, con un mappamondo così approssimativo, Celan cerca
la sua origine, e crede di trovarla in un Meridiano: “Qualcosa di
circolare, che ritorna a sé stesso”4.
Rammentiamolo: ciò che può raccogliere e destinare il poema
all’incontro (lasciamo in sospeso, per ora, nel non-detto, con “chi”
avverrà, o mancherà, quest’incontro; questo non-detto, in qualche
modo, gli spetta), è un meridiano: qualcosa di circolare, un ritorno a sé
stessi, un ritornello, in un certo senso uno di quei ritornelli con il quale

3
P.Celan, op.cit, III, p. 202 (corsivo nostro)
4
P.C., op.cit, III, p.202.

18
un bimbo, lasciato solo nel buio di una stanza chiusa a chiave, si
rassicura, cantando.5
Quella che Celan, in quell’occasione (il conferimento del
premio Büchner), tenne, fu praticamente l’unica importante
allocuzione poetologica pronunciata in tutta la sua vita, l’unica
opportunità che il poeta si diede, per disseminare qualche indizio
concettuale in base alla quale noi oggi siamo invitati a ri(n)tracciarlo.
In essa C. credette di poter dire di sé e della sua opera quanto le
sue poesie avevano lasciato in una zona d’ombra: tutto quel sostrato
problematico, filosofico, che poi, dopo la sua morte, avrebbe finito per
rovesciarsi - ne diventeremo complici noi stessi, inevitabilmente -
sulla sua opera. Non poté farne a meno: in un disperato bisogno di
identificazione, di autocoscienza, probabilmente, in un rassegnato
esame di coscienza, quanto meno.
Mediante un faticoso impegno di riflessione e di sintesi, egli
credette di dover dire di sé e della sua opera così solitaria e distante
tutto ciò che potesse renderla più comprensibile, più avvicinabile.
Avvinse così la sua poesia, in modo più esplicito e persuasivo di
quanto già non avesse implicitamente, e da tempo, fatto, all’abbraccio
mortale del pensiero, quella stessa “morsa di tempie”6 con cui
Heidegger, già da anni, aveva meditato in modo stringente le poesie di
Hölderlin, Trakl, Rilke e altri ancora.

5
Riprendiamo questa immagine da una suggestiva pagina di Deleuze-Guattari (G.Deleuze;
F.Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, trad. di G.Passerone, Roma, Castelvecchi, 1996,
III, pag.5), in cui la figura del ritornello come filo d’Arianna viene esaminata con notevole
complessità. Secondo i due pensatori francesi, questo tipo di ritornello svolgerebbe
simultaneamente una triplice funzione: rassicurante costituzione di un centro di gravità;
delimitazione e custodia di uno spazio interno; innesto di una o più linee centrifughe di erranza,
capaci, a determinate condizioni, di trionfare sulla gravità del centro individuato dal ritornello
stesso.
6
P.C., op.cit., II, p.21

19
Non a caso, e avremo modo di tornarci, il fascino ambiguo della
figura di Heidegger, per C., assunse un rilievo molto maggiore di
quanto ne avrebbe comportato il mero problema del silenzio sul
nazismo: Heidegger, “il pensatore”, e C., “il poeta”, si cercarono per
tutta la vita e per tutta la vita si respinsero; ma sicuramente fra i due fu
Celan a risentire del potere dell’altro, a mostrare di più il proprio stato
di bisogno, e ad avere la peggio, almeno esistentivamente.

I.2: Il fondo che non si può toccare. L’infanzia che dà da pensare.

Si trattò, dunque, nel discorso detto “Der Meridian”, di una


esplicitazione del contenuto di senso dell’opera poetica di Celan, che
ne destinò il cammino secondo un indirizzo che molto più da vicino, e
decodificabilmente, la connetteva al pensiero, in particolare a quello
di Heidegger. Inscrivendo così la sua opera sotto un regime di senso
che alla fine esibiva, nell’indicazione topologica del “Meridiano”, la
sua circolarità, e quindi assumendola sotto il segno della ripetizione e
del concetto, Celan avviò già il suo suicidio, additando esplicitamente
l’insostenibile insufficienza della sua opera, una sofferenza
intollerabile, una mancanza di parola che egli chiedeva al pensiero di
colmare; ma quella carta geografica con cui individuò e tracciò quel
concetto, non dimentichiamolo, era una carta da bambini.
Il nostro primo compito, pertanto, sarà non dimenticare che di
infanzia innanzitutto si tratta, ovvero, letteralmente, “di ciò che non
può dirsi”, e che tuttavia, instancabilmente resta, permane, sia pure
come s-fondo - l’eccedenza di un discorso, il diktat che detta, e di
fronte al quale siamo immessi per apprenderne la corretta dizione, in

20
altre parole ancora, il fondo che non si può più toccare, da cui siamo
separati, da un certo momento in poi, e che più non possiamo esperire,
se non come l’origine perduta, il primo tocco che sempre si mostra
solo in quanto ri-toccato.
Siamo di fronte a:

“Un’infanzia che non è un’età della vita e


che non trascorre. Ossessiona il discorso.
Quest’ultimo non cessa di metterla in
disparte, è la sua separazione. Con ciò stesso,
si ostina però a costituirla, come perduta. La
ospita dunque, a propria insaputa. Essa è il
suo resto.”1

L’in-fanzia, il resto di un discorso. “Avanzi di cose udite, viste”,


scriveva Celan. E altrove “Un residuo cantabile”2. Cantabile solo in
virtù di un “lallen und lallen”3, di una voce tremula che si riduce a
balbettare, pur di parlare ancora.
Troppe volte nel nostro lavoro di ricerca ci siamo imbattuti in
una interpretazione di questo “lallen”, che incredibilmente lo
attribuisce a Celan come formidabile intuizione filosofica di un
linguaggio adeguato allo spirito dei tempi, che C. stesso, poi, nella sua
opera avrebbe inteso eseguire, mettere in atto. Si tratterebbe cioè
dell’unico linguaggio che un poeta, e quindi C., potesse portare in

1
J.F.Lyotard, Letture d’infanzia, trad. di F.Sossi, Milano, Anabasi, 1993, p.5.
2
P.C., op.cit, II, p.36
3
P.C., op.cit, I, p.226

21
serbo, al di là di Auschwitz, al di là della celebre prescrizione di
Adorno sull’impossibilità per la poesia di sopravvivere all’Olocausto.4
Tenteremo di sostenere, piuttosto, come quel lallen, quel
balbettio, altri tremori evochi e voglia dire, altre paure e più primitivi
terrori, che non quelli di Auschwitz, pure così spaventosi; ma ancor
più, tenteremo di ascoltare e ripetere il dolore di un silenzio, di una
afasia, di cui C. stesso fu vittima, e di cui la filosofia si dovrebbe far
carico, di fronte a una poesia che cerca, nonostante tutto, di parlare.
Poesia, questa di C., che corse fino in fondo il rischio
dell’ammutolimento, del silenzio, perché semplicemente non poté fare
altrimenti, perché insistentemente perdurò esposta al rischio della
propria germinante mancanza di parola; e sotto lo scacco di questo
silenzio, che non dobbiamo correre l’errore di tradurre in una costante
metafisica, in un valore normativo di una autoritaria teoria del
linguaggio, sotto lo scacco di questo silenzio, in definitiva, dovette,
letteralmente, tacere.5
Paul Celan morì suicida, nella Senna, a 50 anni. Il suo silenzio
divenne appunto definitivo. La sua poesia, gli avanzi di quel suo
silenzio, invece, continuò a far corpo e resistenza contro la rimozione
della sua verità, cui egli stesso non riuscì a ribellarsi.

4
Commette a nostro avviso questo errore, un eccesso ‘hegeliano’, il poeta e traduttore R.Carifi,
che in modo sorprendente, pur avvertendo con sensibilità il valore fondante di quel ‘lallen’ nella
poetica di C., non ne rileva affatto il legame stringente e irremovibile con un’infanzia personale
prima ancora che lirica:“Parlare ai limiti del dicibile, pensare nell’epoca in cui il pensiero ha
incontrato l’impensabile nell’orrore di Auschwitz. Parlare e ammutolire, rischiare il
silenzio(…)Lallen und lallen, balbettare e balbettare purchè lo <<stento lucore>> della parola
non si spenga del tutto(..) “(R.Carifi, La nuda voce, Firenze, Meridiana, 2001,.p.7)
5
Molto interessante è l’interpretazione che il poeta M.Guzzi ha dato del suicidio di molti poeti
della nostra epoca, come C. stesso; si tratterebbe, a suo dire, della tragica letteralizzazione di una
morte iniziatica che pure l’uomo del nostro tempo dovrebbe attraversare, per riaprirsi alle fonti
germinative, ri-creative, dello Spirito.
Afferma Guzzi: “Letteralizzare la morte iniziatica nel suicidio manifesta tragicamente la sterilità
del prendere alla lettera (e quindi del bloccare) la parola in un suo significato fermo, fisso, invece
di lasciare che continui a parlare”.(cfr. M.Guzzi, L’uomo nascente, Como, Red, 1997, p.178.)

22
Una poesia che fa corpo per una scrittura, che ci affascina e
conquista, a tutt’oggi, innanzitutto per la sua difficilissima, quasi
impossibile, decifrazione. E forse è proprio questa indecifrabilità, a
renderla così corposa, così resistente, e tuttavia così angosciante, tanto
da richiamarci quasi coattivamente alla necessità di una
interpretazione che la faccia tacere, magari per sempre.

I.3: Indecifrabilità e resistenza. Contro una possibile riduzione


psicanalitica.

Colpisce, infatti, forse in Celan più che in ogni altro poeta,


come la sua opera resista ai più vari tentativi di decodificazione, che
pure continuamente vengono compiuti. Quasi si potrebbe affermare
che il maggior fascino della sua poesia, e di molta della poesia
contemporanea, consista in questa resistenza all’interpretazione.
Senza dubbio il senso, il luogo della poesia di Celan ha a che
fare molto da vicino con questa renitenza alla decifrazione, con questa
indecifrabilità.
Fissiamo quindi due parole come linee guida preliminari, con le
quali tentare di approssimarci alla infanzia segreta di C., attraverso i
suoi versi.
Resistenza, da un lato; e indecifrabilità, dall’altro.
Le risonanze psicoanalitiche di queste parole, di questi concetti,
sono evidenti, ma non è a un’analisi di tipo freudiano che intendiamo
rifarci. Troppo spesso la psicanalisi, sin da Freud, ha commesso
l’errore di appiattire l’infanzia su un regime di senso modellato sulla
riproduzione dello status quo di un familismo autoritario,
condividendone in pieno metodi e ragioni e travisando i bisogni

23
infantili, interpretati innanzitutto e per lo più come colpevoli desideri
di origine sessuale nei confronti dei genitori.1
Bisognerà piuttosto evitare di riportare a questa troppo rigida
linea interpretativa, il vissuto intra-familiare di C., pure così
immanente alla sua poesia.
Dappertutto, nei suoi versi, la figura della madre si manifesta in
modo possente:

“Madre, io ho
scritto lettere.
Madre, non ebbi risposta.
Madre, ebbi quella risposta.
Madre, io ho
scritto lettere a-
Madre, essi scrivono poesie.
Madre, non le scriverebbero,
se non ci fosse la poesia, quella
che io ho scritto per
tua volontà, per
volontà
del tuo
Dio.”2

1
Innumerevoli e molto interessanti sono le analisi che Alice Miller fa, nelle sue opere, su questi
aspetti critici della psicoanalisi freudiana. Riportiamo qui solo una frase, a nostro avviso molto
significativa: “L’intento pedagogico della psicoanalisi serve solo a rendere inconoscibili i traumi
dell’infanzia”(A.Miller, L’infanzia rimossa, trad. di U.Gandini, Milano, Garzanti, 1990, p.152)
Per una decostruzione più approfondita e meditata del mito edipico e delle modalità con cui Freud
appiattisce la sessualità del bambino su un modello autoritario di famiglia, funzionale al sistema
economico e sociale capitalistico moderno, rinviamo tuttavia a Deleuze, G.;Guattari, F.,
L’antiedipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. di A.Fontana, Torino, Einaudi, 1975, per es. pag.48 e
ss.

24
“NELLA CARROZZA DEL SERPENTE,
lungo
il corteo di bianchi cipressi,
al di là del fiume
ti trassero.

Ma in te, per
nascita,
gorgogliava l’altra fonte,
sul nero
getto di memoria
ti innalzasti alla luce.”3

Sia nella tardiva e disperata dichiarazione d’amore alla madre,


che leggiamo nella prima strofa tratta da “Wolfsbonhe”, sia nella
splendida e inquietante rievocazione della deportazione della madre,
come di tanti altri ebrei, verso i campi di sterminio, sicuramente parla

2
In questa delicatissima poesia, “Bacca di lupo”(P.C., op.cit, VII, p.45), rimasta inedita per una
precisa scelta del poeta, C. rivolge forse il più accorato e disperato degli appelli, la più lacerante
invocazione, alla madre per sempre lontana.
3
Sono versi tratti da Atemkristall (P.C., op.cit, II, p.27) che, secondo Bevilacqua, maggiore
studioso e traduttore italiano della poesia di C., condivisibilmente, fanno riferimento alle
circostanze della deportazione della madre (cfr. G.Bevilacqua, op.cit., p.XCIV)
Inconciliabilmente differente, tuttavia, è l’interpretazione che H.G.Gadamer offre di questo passo.
Gadamer ritiene infatti che la prima strofa di questa poesia rappresenti “l’ebbrezza della vita”, in
quanto lo Schlangenwagen, “la carrozza del serpente”, simbolizzerebbe “Dioniso, dio
dell’ebbrezza”(cfr. H.G.Gadamer, Chi sono io, chi sei tu, trad. di F. Camera, Genova, Marietti,
1989, p.64).
Risolutiva ci sembra l’osservazione di Ö.Pöggeler (op.cit., p.207) a proposito di questo inquietante
fraintendimento di Gadamer: “Kommt man aber nicht in dieses Gedicht nur dann hinein, wenn
man in Gedächtnis behält, dass in der Todesfuge der ‘Meister of Deutschland’ mit Schlangen
spielt?”

25
in Celan un immenso amore per la madre, e tutto il dolore che una
perdita simile poté causare nella sua persona.
Eppure, troppo edipizzante, molto schematica e finanche un
tantino morbosa ci sembra la tendenza a prediligere in modo
schiacciante la figura della madre nell’approccio alla poesia di C. Si
giunge perfino a vedere nel “Tu”, a cui spessissimo si rivolge Celan
nella sua opera poetica ( sembra all’incirca 1300 volte) 4, poco più che
la figura materna con la quale il poeta tenterebbe di imbastire un
impossibile e tardivo dialogo in versi5.
Ci poniamo piuttosto due domande, che questa interpretazione
sembra ignorare:
a)la presenza molto meglio occultata, quasi cancellata,
segretata, del padre, nella poesia di Celan, non può forse meritare
almeno la medesima attenzione, magari riportando l’importanza della
figura materna entro i limiti di una struttura familiare più simile a
quella che realmente C. ebbe a sperimentare?
b) è davvero opportuno far coincidere così morbosamente la
figura materna con l’oggetto di interesse erotico, quasi a voler
ricondurre tutto il dramma della tormentata psiche di C. a un antico e
troppo stretto rapporto con la madre, che ne avrebbe compromesso la
stabilità psichica?6 Non è forse proprio con questo tipo di
4
Cfr J.Felstiner, op.cit., p.XVI
5
Cfr G.Bevilacqua, op.cit., p.CXVI.
6
Insiste moltissimo sul rapporto con la madre un po’ tutta la letteratura critica di carattere
prevalentemente biografico(cfr. per es. J.Felstiner, Paul Celan: Poet, Survivor, Jew, New Haven,
Yale UP, 1995); ma più in là ancora si spinge G.Bevilacqua, il quale arriva persino a leggere molte
delle poesie di “Di soglia in soglia” come illustrazioni metaforiche di una vera e propria staffetta
fra la madre e la sposa(Gisele Lestrange) di C. Scrive Bevilacqua: “la sposa assume una posizione
vicaria, subentra alla madre in quanto essa è morta”(G.Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, in
P.C., Poesie, trad. di G.Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p.XLV). Questa identificazione così
stretta fra le due figure, la moglie e la madre, è a nostro avviso da respingere. E’ piuttosto la morte
della madre, che rende ancora più necessaria una crescita, sia pure dolorosa, per la persona del
poeta, un passaggio che lo conduce ben al di là di una ripetizione coattiva di un incompiuto

26
“triangolazioni” edipiche, che ci copriamo gli occhi per non vedere
ben altri traumi, molto meno colpevoli (almeno nel caso del bambino),
che con ogni probabilità dovette sperimentare su di sé il poeta nella
sua infanzia?
Ancora una volta ci troviamo di fronte a questioni che
attengono a resistenza e indecifrabilità.
Contro cosa resiste la poesia di Celan, opponendovi la propria
indecifrabilità? E siamo sicuri che questa indecifrabilità sia la forma
concreta, l’evidenza di una resistenza da rimuovere, e non piuttosto il
“residuo cantabile”, la sofferente e indispensabile custodia di un
antico dolore, che con la sua indecifrabilità mise a tacere il fanciullo
P.C., la sua infanzia – l’unica modalità, che egli trovò, per assumere su
di sé, quel primitivo sopruso, per respingere l’impotenza, cui esso
diede luogo?

I.4: L’indecifrabilità come custodia della parola nel silenzio. Il


rischio di una astrazione fondamentale.

Davvero, ci chiediamo, non v’è altra ipotesi, che possiamo


azzardare, altra interpretazione di questa indecifrabilità, di questo
resistente corpus letterario, se non questa:

rapporto edipico con la madre: “del tuo esser morta, figlia”(P.C., op.cit., I, p.XXX).

27
“La sua poesia è la preghiera che sola è
possibile dopo l’abbandono di Dio(…)
[preghiera] di una religione che non dà’
sicurezza alcuna, né consolazione, ma resta
tutta affidata all’incertezza della contro-
parola che lega il linguaggio al Silenzio (…)
sempre nel rischio di essere contraddetta,
negata dal suo Altro.”1 ?

Interpretazione, questa, che su un piano di assoluta astrazione


riteniamo anche condivisibile – finchè non ci domandiamo, ancora: è
la filosofia quel genere di sapere che prescinde dalla biografia di chi
ne è interprete (in entrambi i sensi: come attore e come, diciamo,
lettore)?
Forse non siamo ancora abbastanza concreti per rispondere a
domande come questa, che mettono radicalmente in questione il
nostro bisogno di senso, ciò che individualmente, biograficamente ci
fa sentire la necessità di indirizzarci “zur Sache des Denkens”, verso
la cosa del pensiero, qualsiasi cosa essa sia.
Nei fatti, però, è nostra intenzione addentrarci più in profondità
di quell’interpretazione che, astraendo dalla vita del poeta, individua
nell’indecifrabilità celaniana una necessità, parallela a quella del
linguaggio heideggeriano successivo alla Kehre, di torcere la lingua in
modo esasperato fino a rischiarne l’incomprensibilità, per difenderla,
proteggerla, da ogni possibile riduzione semantica che i lettori
avrebbero potuto operarvi. E’ sicuramente, questo, un punto
1
cfr. V.Vitiello, Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, Bari, Laterza, 1996, p.114-
115.

28
fondamentale: effettivamente C. imprime alla lingua una torsione, una
pressione che raggiunge in buona parte quella finalità, di cui
dicevamo. Il problema che ci poniamo, però, è un problema
eminentemente etico: l’operazione di C. ha fini solo filosofici,
linguistici, oppure le sue finalità erano talmente personali da essere
finanche a lui stesso sconosciute - proprio in quanto esse coincidevano
col modo stesso del suo abitare, con il nomadismo della sua
condizione esistenziale?
E se la risposta a questa domanda fosse, poniamo, la seconda:
come mai la filosofia, per es. con Heidegger, si è resa tanto
diffusamente e prestigiosamente (di C., in questo senso, si sono
occupate personalità come Derrida, Gadamer, Levinas, fra gli altri)
complice di questo silenzio? Perché la filosofia, il pensiero, non ha
saputo, nel caso di C., finora, rendersi avvertita dell’in-fanzia,
l’ineffabile, che unanimemente tutti riconoscono così onnipresente
nella poesia di C., senza tradirlo in un “indicibile” col quale la parola
deve fare i conti, necessariamente, in una astratta vicenda tutta interna
al mondo della poesia, della lingua, o più arditamente, dell’essere?
Un passo in cui Heidegger affronta l’esegesi di una poesia di
Trakl, ci risuona in tal senso molto inquietante:

29
“La poesia è stata composta da Georg Trakl.
Che il poeta sia lui, non ha alcuna
importanza.”2

Ciò che ci chiediamo è, dunque: non è possibile che, invece,


quel non-detto, quel “residuo cantabile” di cui la poesia di Celan fa
professione, abbia proprio a che fare con la persona del poeta, con la
sua infanzia biografica in primo luogo?

I.5: Lo scandalo etico dell’infanzia. Un’ipotesi circa la parola


ventura che non venne.

Non si tratta, lo ribadiamo ancora, di trovare nei fatti di vita di


C. le occasioni, le ragioni, le spiegazioni della sua poesia, che ce la
rendano più avvicinabile, più digeribile.
Si tratta piuttosto di accettarne lo scandalo fino in fondo, di
lasciarci scandalizzare: “lasciate che i bambini vengano a me”,1 è un
passo, questo evangelico, che oggi suona più scabroso che mai.
E suona più scabroso che mai, perché ancor più sottilmente
oggi, pur nel fiorire di pedagogie e telefoni azzurri e arcobaleno,
l’infanzia è a tutti i livelli misconosciuta, tradita, sopraffatta.
Ma cosa è realmente sopraffatto?

2
Cfr. M.Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A.Caracciolo, Milano, Mursia, 1973,
p.32.
1
Cfr. AA.VV., La sacra bibbia, Roma, Cei, 1974, Lc 18,16.
Affinchè sia evidente quanto sia scabrosa oggi questa affermazione, che allude alla libera e
irriducibile vitalità di cui solo l’età infantile è capace, ci limitiamo a segnalare il caso di un libro di
alcuni anni fa, che appunto recando il titolo di ‘Lasciate che i bimbi’ intendeva invitare “a
diffidare di chiunque la meni troppo con la protezione dell'infanzia, e a riflettere sulla necessità di
una reale liberazione dei non-adulti”(L.Blissett, Lasciate che i bimbi, Roma, Castelvecchi, 1997).
Liberamente disponibile su Internet, questo libro-inchiesta riguardante gli eccessi della c.d. ‘lotta
alla pedofilia’, ha subito però innumerevoli censure fino a un’ordinanza del Tribunale di Bologna
che ne ha disposto la pressocchè completa“distruzione”(cfr. La Repubblica-ed. di Bologna,
11/12/2001).

30
Forse ciò che è sopraffatto più d’ogni altra cosa è quell’esigenza
etica fondamentale, che l’infanzia evoca in noi tutti. Quell’esigenza di
una dimora accogliente, ospitale, di un abitare sicuro, protetto, eppure,
soprattutto, libero e liberatorio, che è custodia feconda per lo sviluppo
emotivo.
Non è forse rimuovendo quell’infanzia, quel fondo di non-detto
che secondo Heidegger, almeno sul piano esistintivo, “non ha alcuna
importanza”, che la filosofia, almeno nel caso del pensatore di
Messkirch, si è tradita, si è tradita dichiarando, svelando
implicitamente, che dell’infanzia, oggi - ovvero dell’etica, come
avremo modo di dire - non ne è più nulla, almeno quanto al compito
del pensiero?
Non è forse – un sospetto ci sorge, a questo proposito - proprio
rimuovendo quell’esigenza etica fondamentale, quel bisogno infantile
di essere riconosciuti e amati e accettati nella propria singolarità, che
Heidegger rimase, letteralmente, senza parole, di fronte al nazismo, di
fronte alle richieste di spiegazioni successive in proposito, di fronte
alla speranza riposta da C. nella “parola ventura di un pensatore”2?
Molto interessanti sono le pagine che F.Savater dedica alla
limitatezza etica del pensiero di Heidegger, individuando nel suo anti-
umanismo e nelle conseguenze estreme cui Heidegger lo condusse, un
margine che interroga profondamente la filosofia:

2
P.C., op.cit, II, p.255

31
“Il problema dell’inettitudine etica di
Heidegger sta tutto nella concezione della
volontà e del protagonista della volontà che è
il soggetto libero”.3

Non possiamo però permetterci, in questa sede, di inoltrarci in


un territorio, peraltro già molto esplorato, e comunque così
accidentato e vasto, quale è quello della presenza o dell’assenza di una
qualche forma di etica nel pensiero di Heidegger. Per quel che serve
ribadirlo, riteniamo che nessun pensiero possa prescindere dal
riconoscere i propri presupposti etici - innanzitutto in quanto la
filosofia è già un modo di essere nel linguaggio – ovvero nel rapporto
con Altri - di prendervi dimora in ragione di un qualche rapporto con
il proprio essere-nel-mondo, di una certa apertura del Ci del proprio
esser-ci, per rifarci appunto al linguaggio di Heidegger.
Si tratta qui di un altro ordine di problemi: può permettersi la
filosofia, e con quali perdite, di trascurare, di non avventarsi contro
quel limite del linguaggio, contro quel margine che radicalmente dà’
da pensare, che l’infanzia rappresenta? Intendiamo qui con infanzia:
innanzitutto l’infanzia come età della vita, personale; e poi, con una
certa differenza tutta da misurare, l’in-fanzia come s-fondo residuale e
3
cfr. F.Savater, Etica come amor proprio, trad. di D.Osorio Lovera e C.Paternò, Bari, Laterza,
1994, p.229.
Ci porterebbe troppo lontano approfondire la questione della presenza o dell’assenza di un’etica, e
di che tipo di etica, nel pensiero di Heidegger. Ci riferiamo in tal senso in particolare alla “Lettera
sull’umanismo” di Heidegger, e soprattutto alle molte pagine che a questo tema dedica
E.Mazzarella, per es. dove scrive, a proposito del pensiero meditativo auspicato da Heidegger
stesso: “In questo esso consegue una paideia(…)che significa(…)l’aprirsi a un nuovo ethos: come
soggiorno, come ambito del disvelamento.”(E.Mazzarella, Ermeneutica dell’effettività, Napoli,
Guida, 1993, p.130-131, grassetto nostro).Una paideia, ci chiediamo, come puo’ prescindere dai
paidoi, non trarne, piuttosto, la propria misura?E’ in questo senso che rileviamo una potente
connessione, anche in una prospettiva heideggeriana, fra il tema dell’etica, pur intesa come
oikologia, come etica del soggiorno, e il tema dell’infanzia in ogni suo senso . Cfr. anche infra, par.
IV.5

32
sempre fertile, ri-creativo, del linguaggio stesso, ciò che non sappiamo
dire e che dunque ci costringe a scrivere.4
Non pensiamo sia compito del pensiero, e nemmeno che gli
possa giovare, condannare sommariamente Heidegger per questa sua
presunta inettitudine etica, oppure, che poi è lo stesso, per la
compromissione col nazismo e per il suo conseguente silenzio sulle
ragioni che lo resero complice, sia pure a certe condizioni, della
barbarie del Terzo Reich. Condividiamo pienamente la posizione di
Derrida, in merito a questo punto:

“Io intendo questo terribile, forse


imperdonabile silenzio di Heidegger come
un’eredità.(…) Ci lascia l’obbligo di pensare
ciò che egli stesso non ha pensato.”5

Siamo di fronte a un silenzio che ci obbliga a pensare, a un


silenzio di fronte al quale il pensiero sperimenta il margine della
propria responsabilità: come rendere ragione del nazismo, di
Auschwitz, senza rendergli ragione? Giacché Auschwitz, nel suo
orrore, ha messo di fronte l’uomo, e dunque anche il pensatore, il
poeta, a qualcosa di cui non si può non dire, di fronte al quale non si
può rimanere in silenzio senza esserne immediatamente complici; ma
allo stesso tempo, qualcosa di fronte al quale le parole non bastano.
Scrive un’allieva di Derrida, a questo proposito: “Come non dirlo, e
tuttavia con quali parole dirlo.”6
4
Cfr. G.Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. di G. Guglielmi, Milano, R.Cortina editore, 1997,
p.4: “Non si scrive che al limite del proprio sapere”.
5
J.Derrida, Il silenzio di Heidegger, in M.Heidegger, Risposta. A colloquio con M.Heidegger, trad.
di C.Tatasciore, Napoli, Guida, 1992, p.183.
6
Abbiamo avuto la possibilità di udire questa affermazione, attribuita alla pensatrice ebrea
S.Kofman, la cui importanza e concisione ci sono sembrate considerevoli, in un seminario del

33
Sembra davvero un problema infantile, in quanto ha a che fare
con quella difficoltà espressiva, con quella insufficienza del
linguaggio, che è propria della prima età della vita: l’orrore di
Auschwitz ci impone un insieme di emozioni che ci riportano a quelle,
fortissime, generose e laceranti, che il bambino sperimenta, fino a una
certa età senza averne parola, senza poterne rendere ragione
innanzitutto a sé stesso.7
Il bambino chiede all’adulto la parola che gli manca, e nel
mancare di quella parola egli sperimenta in maniera lacerante la
violenza di una emotività che nessun logos, nessun raccoglimento,
giunge a contenere.
Ci sovviene ancora quanto scrive Lyotard in conclusione del suo
saggio sul rapporto fra Heidegger e gli ebrei:

“Celan non è né l’inizio né la fine di


Heidegger, è la sua mancanza: ciò che gli
manca, ciò che egli manca e la cui mancanza
gli manca.”8

Sotto un certo aspetto, quindi, è la parola adulta di Heidegger,


che manca a Celan; sotto un altro aspetto, però, è forse ancor più
radicale, fondamentale, la mancanza di parola in cui Heidegger restò,

poeta e saggista R.Carifi, dal titolo “P.Celan.La parola in cammino”, tenutosi a Pisa il 23/3/2002.
Non ci è stato possibile individuare il riferimento originario della citazione.
7
In questo senso possiamo rilevare come l’operazione cinematografica svolta da R.Benigni nel suo
film “La vita è bella” abbia davvero un che di inquietante. In nome di quale concezione
dell’infanzia, l’attore e regista ha ritenuto che realmente la sensibilità di un bambino potesse e
dovesse essere ingannata, in un luogo di verità così crudele e inesorabile, quale Auschwitz? Il
bambino ingannato di Benigni mostra e rispecchia l’inganno di cui si arma comunemente la
violenza sull’infanzia, su bambini a cui sempre è ordinato: “Non accorgerti!”, perfino di fronte al
Male puro ed evidente dell’Olocausto.
8
J.F.Lyotard, Heidegger e gli ebrei, trad. di G.Scibilia, Milano, Feltrinelli, 1989, p.111

34
una parola che nessuna poesia, neanche quella di Celan - che ne era in
mancanza essa stessa - poté offrirgli.9
Forse una medesima infanzia d’inesprimibile pathos abitava il
fondo delle loro menti, minando dal di dentro la stabilità del loro
pensiero come un terreno apparentemente sicuro che a poco a poco
inizia a franare.
In quel senso quando Celan scrisse, il 25 luglio 1967, sul libro
degli ospiti della dimora heideggeriana di Todtnauberg:

“In das Hüttenbuch, mit dem Blick auf der


Brunnenstern, mit einer Hoffnung auf ein
kommendes Wort in Herzen”10

non siamo affatto sicuri, anzi, che la parola ventura che egli
attendeva, e che mancò, da Heidegger, fosse un giudizio, una parola di
condanna sul nazismo, personale o storico che fosse.
Già molti anni prima, C. era stato pienamente in grado, in prima
persona e quando l’orrore nazista era ancora cronaca recente, di dare
in una delle sue prime e più potenti poesie una delle immagini più
sintetiche, più incisive, più severe dello sterminio nazista; ci riferiamo
al celebre testo Todesfuge, pubblicata nel 1948, dove C. scriveva, fra
l’altro:
9
Questa mancanza di parola, che s-finisce – spalancandone la sistematicità a un in-finito di
inesauribile vigore - dall’interno l’opera pensante di Heidegger, si riscontra già nell’incompiutezza
di Sein und Zeit: come in seguito Heidegger stesso spiegò, con caratteristica ellitticità, egli non
potè pubblicare la parte mancante del suo testo, quella in cui tutto doveva capovolgersi, “perché il
pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta”(M.Heidegger, Lettera
sull’umanismo, a cura di F.Volpi, Milano, Adelphi, 1995, p.52).E tutta l’opera successiva di
Heidegger può essere letta come cammino di un pensiero “verso il linguaggio”, come in una
coazione a ri-petere, cioè a interrogare sempre nuovamente, quella originaria mancanza di parola.
10
Cit. da Ö.Pöggeler, op.cit., p.259 (“Nel libro della baita, con lo sguardo alla stella di fonte, con
la speranza, nel cuore, in una parola ventura”). Su quest’incontro fra Heidegger e Celan, per una
dettagliata cronaca dell’evento, in verità non del tutto neutrale, cfr. anche: G.Baumann,“Quello
che Heidegger non disse mai a Celan”, a cura di C.Miglio, in <<Micromega>>, n.4, 1997,
pp.213-36.

35
“Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e mattino beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro”11

C. aveva ben saputo dire una parola sul nazismo, anzi più d’una;
“non sono rimasto irreperibile per gli antisemiti”, tiene a dire in una
lettera, datata 1957.12 Sappiamo anzi da più fonti di come egli stesso
avesse provato fastidio di fronte alla diffusione e fama crescente che la
sua “Fuga di morte” aveva presso il pubblico tedesco, tanto da
rifiutarsi di leggerla pubblicamente.13 Non dobbiamo interpretare
questo rifiuto come una vanità del poeta; trattava probabilmente di
altro. C. almeno intravedeva, e il discorso sul Meridiano ce lo mostra
in qualche modo, un bisogno di verità più radicale, di cui farsi
testimone e portavoce: un bisogno di parola, che si volgeva ben al di
là di un giudizio di condanna su Auschwitz, che troppo facilmente
avrebbe rischiato di chiudere il discorso, di far tacere le coscienze, di
rendere definitivamente inaudito e inaudibile il grido di dolore di un
bambino, l’emozione infantile che invece nelle sue poesie in qualche
modo, nonostante tutto, emergeva, affiorava almeno.
Quando rileviamo in C. questo bisogno etico fondamentale,
questa necessità di una parola di libertà, di una parola che sia
paradossalmente parola dell’indicibile, immediatamente il pensiero va

11
P.C., op.cit, I, p.39-42.
12
P.Celan, Scritti rumeni, a cura di M.Mincu, trad. di F. Del Fabbro, Udine, Campanotto, 1994,
p.77.
13
Ne da’ conto, fra gli altri, G.Baumann, op.cit., p.235 in nota; cfr. però anche O.Pöggeler, op.cit.,
p.10.

36
al discorso sul Meridiano, appunto; lì dove C. scriveva, riguardo il
grido “Viva il re” della Lucile di Büchner:

“E’ l’antiparola, è la parola che strappa


il ‘filo’(…)è un atto della libertà.(…) Qui si
rende omaggio alla maestà dell’assurdo, che
testimonia della presenza dell’umano. “14

Credo sia molto importante sottolineare questo: quando C.


invoca questa Gegenwort, questa anti-parola, e ad essa lega
strettamente il destino della poesia, sua personale e non solo, l’anti-
parola che egli immagina è segnata, marcata dall’umano, dalla
presenza (Gegenwart) dell’umano.
Quale ovvietà, a prima vista: quale parola non è marcata dalla
presenza dell’umano? Eppure per C. una parola marcata d’umano,
segnata profondamente d’umanità, è l’anti-parola, ai confini con
l’assurdo. Purtuttavia parola, però, parola di una poesia sempre ancora
da raggiungere; e tuttavia parola anti-, parola di una resistenza che si
oppone, di una contrad-dizione; e, insistiamo: parola-ante, verbo che
nomina un prima, in nome del quale si oppone questa resistenza,
parola in lotta, quindi, con quella post-fazione che sembra essere,
piuttosto, il proprio del pensiero15. Parola, non v’è dubbio, di una
difficoltà tale, nell’essere detta, da essere sempre esposta a pericoli
quali, fra gli altri, il rischio dell’ammutolimento.
14
P.C., op.cit, III, p.189-190.
15
Abbiamo nominato il termine Gegen-wort, e come spesso accade nella lettura dell’opera di C., il
termine stesso, da lui prescelto, si concede a una pluralità di possibili determinazioni, rese più
evidenti dalla sua traduzione in italiano. Condividiamo quanto dice Szondi, in proposito: “Chi ha
imparato a ‘leggere’ la scrittura di C. sa che non si tratta di scegliere fra i differenti significati,
bensì di comprendere che essi non differiscono, ma coincidono.L’ambiguità(…)è posta al servizio
della precisione”.(P.Szondi, L’ora che non ha sorelle.Studi su P.C., a cura di J.Bollack, Ferrara,
Gallio, 1990, p.67)

37
Cosa produsse in C. una così stringente necessità di connettere,
in modo così sorprendente e straniante, umanità e parola?
Forse, è questa la nostra ipotesi, fu il medesimo che addirittura
impedì del tutto ad Heidegger di dire quella parola ventura, che C. gli
chiese.
Forse si trattava di una infantile e tremula voce angosciante che
troppo presto, e purtroppo senza ripensamenti, Heidegger si era illuso
di poter zittire, rinchiudendola entro le strette sbarre di una
colpevolezza originaria a cui l’esserci deve decidersi per poter-essere
autenticamente.

I.6: Un’angoscia senza parola. Infanzia e ontologia.

Facendo riferimento nel modo suddetto alla colpevolezza


originaria dell’esserci e all’autenticità che come modo d’essere esso
può esperire, decidendosi per la propria colpevolezza, ci siamo portati
al cospetto di quella entusiasmante e appassionata sfida del pensiero
che Heidegger portò a (parziale) compimento in “Essere e tempo”.
Non è nostra intenzione darne conto qui se non per alcuni
limitatissimi aspetti, che attengono strettamente alla nostra ricerca -
ossia al tema dell’infanzia come domanda etica che la poesia di
P.Celan ci rivolge in modo pressante.
La filosofia, per Heidegger, potremmo dire in modo molto
sintetico, si svolge come un’interrogazione senza posa, sempre rivolta
all’essere, che trae la sua necessità e la sua motivazione da stati
d’animo fondamentali, quali ad es. la meraviglia che sorprende
l’esserci di fronte al fatto che l’ente è, oppure l’angoscia, che situa

38
l’esserci dell’uomo nello spaesamento, nell’isolamento che solo gli
permette di avvertire l’appello che l’essere gli rivolge, richiamandolo
a sé stesso dall’inautenticità in cui l’esserci umano innanzitutto e per
lo più si trova gettato.
Prendiamo ad es. questo brano, che riunisce sotto il medesimo
obiettivo di senso questi due stati d’animo che abbiamo appena
presentato:

“La disponibilità all’angoscia è il sì


all’insistenza nel soddisfare la pretesa
somma, la quale soltanto coglie nel segno
l’essenza dell’uomo. Unico fra tutti gli enti,
l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere,
esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie:
che l’ente è”1

Dunque l’angoscia, a fondamento di questa esigenza di


ascoltare la chiamata dell’essere.
L’angoscia come condizione necessaria e commisurata a questo
appello, a questa pro-vocazione che l’essere ci volge.
Si tratta di una chiamata che l’essere ci volge nella nostra
coscienza:

1
M.Heidegger, Poscritto a ‘Che cos’è la metafisica?’, in M.Heidegger, Segnavia, cit., p.261.

39
“Nella coscienza, l’Esserci chiama sé
stesso”.2

Ma con quali parole, l’essere ci chiama? “Nel modo del silenzio”, dice
Heidegger.3
Riepiloghiamo, dunque: l’angoscia, come stato d’animo
fondamentale che ci converte all’esperienza del nulla, rimettendoci
nell’esigenza di ascoltare la voce dell’essere; la chiamata dell’essere,
che si manifesta alla coscienza dell’esserci; si tratta, però, di una
chiamata, che si manifesta come silenzio.
L’angoscia pone quindi l’esserci umano di fronte a una esigenza
che per lui è fondamentale: esigenza di ascoltare, che presuppone e
richiede una parola, che appaghi quel bisogno, quella mancanza, che
ogni ascolto produce o almeno manifesta nell’ascoltatore stesso.
Ma qual è, secondo Heidegger, la parola che corrisponde a
quell’angoscia, che mette l’esserci in condizione di udire la chiamata
della coscienza?
Di questa parola, letteralmente, non ne è nulla. Non ne è nulla in
quanto di silenzio, si tratta; ma di un silenzio, che, secondo Heidegger
non può essere interpretato semplicemente come mutismo, come
assenza di parola di fronte alla quale siamo abbandonati alla nostra
deiezione, senza che nulla accada.
Invece, per riprendere le parole di Celan: “Qualcosa accade”4.
Un rivolgimento fondamentale, ovvero un rivolgimento che
accade a partire dal fondo, per la precisione. L’angoscia porta l’esserci
a riscontrare il proprio spaesamento di fronte al silenzio in cui la
2
Cfr. M.Heidegger, Essere e tempo, trad. di P.Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p.333.
3
M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p.332.
4
P.C., op.cit, III, p.187.

40
chiamata della coscienza si manifesta; ma questo smarrimento è un
ritrovarsi, che si manifesta secondo Heidegger come originaria
colpevolezza dell’Esserci.
Leggiamo cosa dice Heidegger:

“L’idea formale esistenziale di


<<colpevole>> va quindi definita così: esser
fondamento di un essere che è determinato
da un <<non>>, cioè essere fondamento di
una nullità.”5

Questa chiarificazione, che H. offre, della colpevolezza come


condizione originaria, esistenziale, appropriata all’esserci, ha, come
sua conseguenza, che la colpa dell’esserci non abbia nulla di
eticamente rilevante: non si pone, insomma, il problema di giudicare
da un punto di vista morale di quale colpa concretamente si tratti,
anzi; l’esserci in quanto nell’angoscia è messo di fronte alla sua
colpevolezza originaria, è, per così dire, al di qua di tutte le sue colpe
possibili sul piano esistentivo; al di qua, in una irresponsabilità che
trae le ragioni della sua sufficienza da una unica responsabilità
fondamentale, quella di rispondere all’appello silenzioso che l’esserci
gli volge nella sua coscienza angosciata e spaesata.
I.7: “Es”, un che di ineffabile, si mostra. Come Wittgenstein legge
Heidegger, dal punto di vista dell’etica.

Molto accorto era stato Wittgenstein, leggendo in questi


passaggi di “Essere e tempo” la densità di una esigenza che sempre

5
M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p.343.

41
più egli sentì come sua, nel percorso che lo portò dal “Tractatus” alle
“Ricerche filosofiche” e oltre ancora:

“Ich kann mir wohl denken was Heidegger


mit Sein und Angst meint. Der Mensch hat
den Trieb, gegen die Grenzen der Sprache
anzurennen.(…) Dieses Anrennen hat auch
Kierkegaard gesehen und es sogar ganz
ähnlich (…) bezeichnet. Dieses Anrennen
gegen die Grenzen der Sprache ist die
Ethik.“1

Wittgenstein riscontrava così nell’ontologia di Heidegger e in


particolare nei passaggi da lui così nominati, una motivazione
fondamentale che egli stesso avvertiva e progressivamente
riconosceva come la più propria dell’uomo: “avventarsi contro i limiti
del linguaggio”, ossia verso il confine dell’indicibile, e anche oltre,
per dire comunque, infine, qualcosa su quello che W. stesso,
originariamente, chiamò “Mistico”, e che successivamente gli riuscì,
appunto, di designare: “l’etica”, “il significato ultimo della vita”.2
1
La citazione originale è ripresa da: L. Wittgenstein, Zu Heidegger, in: Ludwig Wittgenstein und
der Wiener Kreis: Gespräche, annotati da F. Waismann, curatore B. F. McGuiness, Frankfurt/M.
1967, p. 68f. La traduzione che ne offre F.Volpi(cfr. infra, nota 51, per rif.bibl.) suona così: “Posso
bene immaginarmi che cosa intenda Heidegger per essere e angoscia. L’uomo ha l’impulso ad
avventarsi contro i limiti del linguaggio.(..)Anche Kierkeegaard ha visto tale avventarsi e l’ha
perfino descritto in termini del tutto analoghi. Questo avventarsi contro i limiti del linguaggio è
l’etica.”
2
Un’interessante lettura di questa corrispondenza indiretta fra Wittgenstein e Heidegger è offerta
da F.Volpi, “L’etica dell’inesprimibile fra Wittgenstein e Heidegger”, in <<Micromega>>,
Almanacco di Filosofia, 1998, pp.180-195.
Questo testo, oltre al brano citato(cfr. supra, nota 50) - datato 1929 - fa poi riferimento a una più
tarda “Conferenza sull’etica” di Wittgenstein; già nel Tractatus, tuttavia, il tema dell’etica è in
qualche modo affrontato, per es. nella proposizione 6.421 dove W. dice: “E’ chiaro che l’etica non
può formularsi”. E’ notevole la consonanza fra la risolutezza con cui il primo Wittgenstein liquida
ogni proposizione che pretenda di formulare concetti sull’etica, e la maniera altrettanto risoluta
con cui Heidegger, per es. nella Lettera sull’umanismo, rifiuta in modo netto di confrontarsi col
tema dei “valori”, certo in nome di un’etica originaria che appunto egli ritiene l’unica adeguata a

42
“Avventarsi contro i limiti del linguaggio”, diceva dunque
Wittgenstein: ossia lanciarsi in una direzione oscura, e tuttavia a
quanto sembra inesorabile:

“Es gibt allerding Unaussprechliches. Dies


'zeigt' sich, es ist das Mystische.”3

Un che di non-detto, d’ineffabile, anima dal fondo -


dal suo fuori, piuttosto - il linguaggio. Wittgenstein, che
impiegò tutta la vita in ricerche sul linguaggio, sin
dall’inizio dovette riconoscerlo. Un che di non-detto
zeigt sich, si mostra, è in mostra di sé. Esso non può
dirsi, appartiene al rango dell’indicibile; eppure
Heidegger può dire:

“Il più considerevole si mostra nel fatto che


noi ancora non pensiamo.”4

Si domanda E.Jabes: “E se l’impensato fosse, per il


pensiero, l’unica evidenza?”5. L’unica evidenza, il più
considerevole, ossia ciò che da’ da pensare, si mostra

quella originaria colpevolezza propria all’esserci – l’unica fondamentale responsabilità etica che
tuttavia es-pone l’esserci alla sua più totale irresponsabilità, ossia incapacità di rispondere, di
fronte alle sue proprie colpe esistentive.
3
Abbiamo volutamente lasciato in tedesco questa prop.6.522 del Tractatus(cfr. L.Wittgenstein,
Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G.Conte, Torino, Einaudi,
1995, p.109), per svolgere poi alcune considerazioni sul senso della parola ‘zeigen’, utilizzata qui
da W., che ci sembrano indispensabili in riferimento all’esperienza del mostruoso, che ovviamente
tocca da vicino la vicenda di Celan e comunque tutta la tematica dell’etica.
La traduzione italiana dell’aforisma di W., potrebbe essere: “V’è pure dell’indicibile. Esso si
mostra, è il Mistico.”
4
M.Heidegger, Che cosa significa pensare, in Saggi e discorsi, a cura di G.Vattimo, Milano,
Mursia, 1976, p.86. Il termine usato da Heidegger è: ‘das Bedenkliche’, ossia “ciò che è degno di
considerazione”, ciò che dà da pensare.
5
E.Jabès, Poesie per i giorni di pioggia e di sole e altri scritti, a cura di C.Agostini, Lecce, Manni,
2002, p.42.

43
come impensato. Non a caso: l’impensato è tale,
innanzitutto in quanto esso manca di parola: per esso
manca un dire adeguato, un dire che però non riporti
l’impensato, ossia ciò che dà da pensare, nell’ambito
del mero opinare, o delle formulazioni scientifiche
caratterizzate dal calcolo.
Si tratta, per Heidegger, di portare il linguaggio
all’altezza di un dire con-veniente all’essere, che dà da
pensare6; per Wittgenstein, almeno all’epoca del
Tractatus, d’altro canto, si tratta di non confondere
l’ambito del “mistico”, ossia dell’indicibile, con ciò che
invece può e deve restare oggetto del linguaggio: ciò
che può dirsi, la totalità dei fatti. Ciò che più d’ogni altra
cosa deve esser detto, quindi; eppure, ciò che più
d’ogni altra cosa, e prima ancora d’ogni altra, è
inesprimibile. In questa estrema contraddizione, una via
d’uscita si mostra: “Es” (lasciamo in sospeso cosa
questo “Es” rappresenti: Das Mystische, ovvero Das
Bedenkliche) zeigt sich.

I.8: Lo scandalo di ciò che si mostra. Di come Heidegger aggirò


con parola anteriore, la mancanza di parola che gli era
propria.

Esso, ciò che non può dirsi, ciò che più d’ogni altra
cosa ha da dirsi, si mostra.

6
Cfr. M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pag.102: “portare di volta in volta al linguaggio
questo avvento dell’essere(…) è l’unica cosa del pensiero”.

44
Questo “Es”, di cui poco ancora sappiamo, ha però
un carattere fondamentale: si mostra, è cioè
“mostruoso”.1
Ciò che intendiamo dire, sottolineando il carattere di
“mostruosità” di questo “Es”, è che esso, come tutto ciò che è
monstrum vel prodigium, scandalizza. Esso, di qualsiasi cosa si tratti,
dà scandalo di sé, si dona, si offre alla nostra parola, colpendoci
innanzitutto nell’aisthesis che produce, nella sensazione che dà di sé,
prima ancora che un qualsiasi significato possa giungere a contenerlo,
limitando la polisemia indecifrabile del segno con il quale “Es zeigt
sich”, esso si mostra e quindi si inscrive.
Ci sovvengono i famosi versi di Hölderlin:
“Ein Zeichen sind wir, deutunglos”.2

Una possibile traduzione, suona:


“Noi siamo mostri, senza senso.”

Il nostro essere senza senso (deutunglos, dice la poesia) ci


sottrae a ogni possibile interpretazione (deutung). C’è in noi qualcosa

1
Abbiamo presente, caratterizzando ‘ciò che si mostra’ come ‘mostruoso’, e insistendo sul termine
Zeigen, il valore che questo concetto assume nel pensiero di Heidegger, nei diversi modi in cui egli
vi fa ricorso nella sua opera: per es. in Essere e tempo, in cui viene esaminato il rimando come
fondamento ontologico dello Zeigen; in In cammino verso il linguaggio, in cui Zeigen e Sagen
vengono ricondotti alla comune radice alto-tedesca Sagan, ciò che fa dire ad Heidegger che: “ciò
che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario[sagen] in quanto
Mostrare[zeichen]”(M.Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p.199); oppure, ancora, in
Was heisst Denken, in cui Heidegger medita sulla poesia di Hölderlin Mnemosyne, rilevando la
mostratività, ossia lo zeigen (potremmo anche dire: la mostruosità), come carattere fondamentale
dell’uomo in quanto “segno”.
E’ molto interessante la lunga analisi che Derrida dedica a questo aspetto del pensiero di
Heidegger in J.Derrida, La mano di Heidegger, a cura di M.Ferraris, Bari, Laterza, 1991, in
particolare alle pagine 31-79.
2
F.Hölderlin, Mnemosyne - Zweite Fassung, in F.Hölderlin, Le liriche, a cura di E.Mandruzzato,
Milano, Adelphi, 1977, p.694 e ss. La traduzione che offriamo, nostra, si richiama a una traduzione
francese dello stesso passo, a cura di Aloys Becker e Gerard Granel, che recita: “Nous sommes un
monstre privè de sens”(cfr. J.Derrida, La mano di Heidegger, cit., p.39).

45
che si mostra, qualcosa di mostruoso che pretende di essere visto, che
si dà a vedere al di qua e comunque al di fuori di ogni possibile
interpretazione.
Questa qualcosa, questo “Es”, che resiste alla spiegazione, come
può non evocarci, ancora una volta, la poesia così ardua di Celan?
Abbiamo attraversato fino a questo punto il territorio del
pensiero, in particolare del pensiero di Heidegger, per sottolineare
come esso abbia a che fare fin dal suo fondamento (ma a questo punto
dovremmo dire: dal suo s-fondo, dalla sua origine rimossa) con quella
“mostruosità” infantile, ineffabile, che vogliamo interrogare attraverso
la poesia di Celan. Un’esigenza, che abbiamo individuato come
radicalmente connessa con la questione dell’etica, pone il pensiero
nella necessità di esperire la propria mancanza di parola.
A questo punto, di fronte alla propria mancanza di parola, il
pensiero di Heidegger - ed è quel punto che egli caratterizza come
“Kehre”, come la svolta decisiva che egli imprime al suo pensiero a
partire dalla “Lettera sull’umanismo”- si rivolge ai poeti, in quanto i
più arrischianti, coloro che si arrischiano più in profondità nel
linguaggio: essi sono “coloro che nella mancanza di salvezza si
rendono conto del nostro esser-senza-protezione”. 3
Poeta, quindi, è colui che esperisce in radicale esposizione, la
mancanza di salvezza che è propria dell’uomo.
E’ significativo, e ci permettiamo di segnalarlo, quanto
Heidegger stesso, incontrando Celan per l’ultima volta, nella
primavera del 1970, a pochissima distanza dal suo suicidio, ebbe a
dire:
3
M.Heidegger, Perché i poeti, in Sentieri interrotti, trad. di P.Chiodi, Scandicci(Fi), La Nuova
Italia, 1968, p.296.

46
“Celan ist krank – heillos”4, ovvero: “Celan è malato - senza
salvezza.”
Agli occhi di Heidegger, evidentemente, la mancanza di
salvezza che egli aveva intuito come ciò che prima d’ogni altri i poeti
assumono su di sé, in Celan si fece, ormai verso la fine della sua vita,
carne, s’incarnò, mostruosamente, verrebbe da dire, tanto da rendersi
scandalosamente appariscente agli occhi del pensatore di Messkirch.
Tutto il contrario di quanto accadde, invece, alla persona e al
pensiero di Heidegger, invece.
Il suo pensiero, infatti, da tempo si era volto in una direzione
che lo avvicinava al pensiero orientale, a una riflessione che sempre
più prescindeva dalla pressante attualità delle problematiche
intramondane, intentando così quella forma di saggezza meditativa
che sempre ripete la medesima e incessante interrogazione dell’essere,
per predisporsi con sereno distacco all’attesa, o all’assenza, di quel dio
che solo, ormai, “ci può salvare”.5
Non a caso egli non potè che rispondere, alla poesia
“Todtnauberg” di Celan, che il poeta scrisse in seguito all’incontro
avuto col pensatore, dove la sua attesa di una parola era rimasta
definitivamente delusa6, con parole di letizia, conciliazione, armonia,
che a noi lettori sembrano completamente assurde, svianti rispetto alla

4
cfr. R.Safranski, Ein Meister aus Deutschland, Frankfurt/M., Fischer, 1997, p.469.
5
Cfr. M.Heidegger, Risposta. A colloquio con M.Heidegger, trad. di C.Tatasciore, Napoli, Guida,
1992, p.124.
6
Correttamente C.Miglio intravede nell’ultimo verso di quella poesia: “Umidità,/molta”, un
ambiguo, quanto tragico riferimento che il poeta volle fare all’acqua, presente in quella giornata
sotto forma di pioggia, e poi, più tardi - ma già in precedenti eventi della vita di C, come per es.
nella morte per naufragio della sua ex-compagna Lia Fingerhut (cfr. P.C., Scritti rumeni, cit., p.81)
- nella biografia stessa del poeta, sotto forma di morte per acqua. Cfr. C.Miglio, “Cronaca di un
incontro mancato”, <<Micromega>>, n.4, 1997, p.213

47
lacerante angoscia incarnata da Celan, nella sua urgente attesa di
parola.
Scrisse Heidegger, in una poesia che tuttavia non inviò mai a
C.:
(….)
tu mi hai trovato,
con pensiero anteriore rivolto alla destinazione.

Baita: per i bambini gioire di giovinezza


(…)
Baita: silenzio e mondo, fondati da te.”7

Non potevano certo bastare, al poeta ormai “senza salvezza”,


parole così concilianti, così melodiose, quali queste di Heidegger;
anzi, esse, mostruosamente, ci mostrano come Heidegger si vantasse,
quasi con euforia, di praticare un pensiero “anteriore” e “rivolto alla
destinazione”, anche nella baita, di fronte all’ospite, praticamente
dichiarando così la sua mancanza di cura nei confronti delle esigenze
pressanti che questo gli poneva, innanzitutto con la sua carne segnata
dall’infanzia.
Giacché d’infanzia era segnata, innanzitutto, come avremo
modo di dire.
Quella di Heidegger, ce n’è giunta qualche recondita eco, pure
era stata segnata dalla rigida educazione dei genitori.
Quella di Celan, ne daremo conto più ampiamente in seguito,
marcata anch’essa dalla rigidità, particolarmente del padre, che con

7
ibidem, p.222-223.

48
severità aveva imposto la pratica dell’ebraismo al figlio, e chissà
cos’altro, e chissà con che mezzi.
Eppure, mentre il poeta balbettava sempre più faticosamente,
con la propria carne afflitta, con la propria lingua in frantumi, la
propria infanzia - biografica in quanto scrittura di vita, verità di una
scrittura sul corpo, come diremo- ansiosa di trovare parola, il
pensatore invece, sin da “Essere e tempo”, come abbiamo visto, e
sempre più fino agli esiti che abbiamo mostrato, spiegava la propria
in-fanzia celandola sotto parole che la resero invisibile finanche ai
suoi occhi, tradendola così in veste di rassicurante ritornello,
arrestandosi così sul terreno del dicibile che solo allude, ma senza
troppo sbilanciarsi, a quel fuori che resta, così, completo appannaggio,
appunto, dei poeti.
Scrive Alice Miller, a proposito di Heidegger:

“<<Pensando appassionatamente>> alla


<<essenza della verità>>, un bambino può
proteggersi per tutta la vita dalla tragica,
intollerabile verità della sua esistenza.”8

Quell’”Es”, che “zeigt sich”, in Heidegger restò solo come


terreno cui sempre rinviare, senza mai arrischiarvisi davvero, in una
economia che si situa, regolandola, fra la totalità del dicibile e quel
resto, che la eccede9; in Celan, invece, esso si manifestò in tutta la sua

8
A.Miller, L’infanzia rimossa, trad. di U.Gandini, Milano, Garzanti, 1990, p.155.
9
Per una lucida analisi della differance, intesa come l’eccedenza che determina dall’esterno il
discorso filosofico, in una economia del voler-dire che si svolge fra la ragione, la follia e la morte,
cfr. J.Derrida, La scrittura e la differenza, trad. di G.Pozzi, Torino, Einaudi, 1971, p.78-79.

49
dura necessità, come quel fuori che logora, continuamente, il
linguaggio, e che continuamente, allo stesso tempo, lo provoca.

I.9: L’Es cui la poesia si espone.

A quell’Es, che qui potremmo anche nominare altrimenti come


il corpo nella sua verità infantile - la verità della sua originarietà, della
sua innocenza pre-morale - quel corpo su cui la verità della nostra
infanzia si inscrive in modo indelebile, quell’Es che “funziona
ovunque, ora senza sosta, ora discontinuo. Respira, scalda, mangia” 1,
la poesia di C.:
“ne s’impose plus, elle s’expose”.2

Abbiamo detto l’Es, ed abbiamo parlato di corpo infantile, e di


verità. Troppo facilmente potremmo finire per prenderci in parola, e
letteralizzando intendere questi termini in modo dogmatico, ovvero
secondo una logica binaria che oppone sempre un termine all’altro,
arrestando tutta quella densità di flusso che invece intercorre proprio
fra i due termini di una polarità - il flusso del molteplice.
Abbiamo detto Es, ma non intendiamo il contrario dell’Io,
l’inconscio; abbiamo detto corpo, ma non intendiamo un che di
organico e di materiale, da contrapporre all’anima; abbiamo detto
infanzia, ma non si trattava di una condizione che si oppone,
precludendolo, allo stato adulto; abbiamo detto verità, ma non
dobbiamo pensarla come esattezza.

1
G.Deleuze; F.Guattari, L’anti-edipo, cit., p.3
2
P.C., op.cit., III, p.181. Si tratta di un biglietto datato 26/3/1969, dunque circa un anno prima del
suicidio.

50
Il primo termine delle coppie suddette, invece, attraversa e
determina l’altro; in realtà è l’altro, il secondo, l’Io, l’anima, la
condizione adulta, l’esattezza, a prodursi solo per separazione dal
primo, in un continuo confronto con il primo termine - Es, corpo,
infanzia, verità - che è lotta, resistenza, insistenza a volte ospitale, a
volte tragica.
La poesia di Celan si espone; anche noi vogliamo partecipare
alla sua esposizione, sia pure con altri mezzi - partecipare alla sua
esposizione, che non vuol dire: farne le parti, come sezionando su un
tavolo autoptico l’opera-corpo del poeta. Vogliamo impegnarci,
piuttosto, a rimettere in funzione la macchina infantile nel pensiero,
far entrare un po’ di emozione nella nostra ordinata trattazione,
metterla a repentaglio, noi stessi metterci a repentaglio. Aggiungere
altri ingranaggi alla macchina stupendamente produttiva, escogitata da
Paul Celan. Innestare altre linee di fuga, sul suo corpo, pur sapendo
che questa operazione non potrà essere incruenta: non lo è stata, non
potrà esserlo. Non c’è innocenza, laddove si è in cerca dell’innocenza.
Giacché ciò di cui siamo stati messi sull’avviso più volte, per
es. da un altro rumeno fuggito in Francia, ma con sorte molto diversa
da C., ossia E.Cioran, è che:

“Quasi tutti i filosofi sono finiti bene: questo


è l’argomento supremo contro la filosofia”.3

3
Cfr. E.M.Cioran, Sommario di decomposizione, a cura di M.A.Rigoni, Milano, Adelphi, 1996,
p.68. La vicinanza fra Cioran e Celan non si limita ai soli eventi nominati nel testo - la stessa
patria, la traduzione che Celan svolse sul testo di Cioran. Del rapporto fra i due ci riferisce
sinteticamente lo stesso Cioran in “Begegnungen mit Paul Celan”, in <<Akzente>>, XXXVI,
1989, pp.319-21, dove apprendiamo, per es., che i due abitarono nel medesimo Quartiere Latino, a
Parigi; che fu lo stesso Cioran, a convincerlo ad accettare il posto di lettore alla Scuola Normale
Superiore; e altre cose ancora, su quella che Cioran definisce “Eine tragische Gestalt, ein
tragisches Wesen” (ibidem, p.321)

51
Celan conosceva bene questo pensiero. L’opera da cui è tratta,
egli stesso ebbe modo di tradurla dal francese al tedesco; non c’è
dubbio d’altra parte che C. sperimentò su sé stesso, sulla propria
carne, quanto sia sottile, eppure affilatissima, la linea che passa fra il
filosofo che si salva, attenendosi alla mancanza della propria
mancanza di parola, e il poeta che si arrischia fino a perdere il
linguaggio - sottile linea che passa fra i due, trapassandone la
differenza con l’elisione di uno dei differenti.
Questa elisione, eseguita letteralmente, in ultimo luogo, dal
poeta stesso nel gesto del suicidio, tuttavia si evidenzia ancora
nell’elisione della sua opera, che pure vuole continuare a parlare e a
parlarci, sia pure attraverso lo Sprachgitter, la grata, la feritoia, della
sua indecifrabilità.
Abbiamo detto elisione, e abbiamo nominato, insieme, una
ferita, una piaga, forse più d’una4:

“traghetto che

trasborda letture
da piaghe. “5
Si tratta di addentrarci nel corpo piagato di Celan, di addentrarci
verso quell’”Es” che es-ponendosi, mostra: senza s-piegarlo, però,

4
Elidere: da ex-laedere, ciò che proviene, restando, da un ferire cui si è sempre post - come nel
dire di una post-fazione.
5
P.C., op.cit, II, p.24. G.Bevilacqua, all’opera nella traduzione “ufficiale”, propone una versione
molto differente dalla nostra: “[il traghetto:]/tragitta ciò che fu letto/fino a straziarsi.” Qui non si
tratta tanto di decidere quale delle due traduzioni sia ‘esatta’, piuttosto è da rilevare ancora una
volta l’intraducibilità di cui vive, e si nutre, la poesia di Paul Celan; più che mai dobbiamo
rilevarla qui, riguardo questo verso che nomina appunto lo übersetzen, il tradurre. Il traghetto che
traduce, porta fino a noi, ci indirizza, letture da piaghe, letture segnate da piaghe e capaci di
piagare a loro volta. Cosa intende, invece, Bevilacqua, quando traduce “wundgelesenes” con “ciò
che fu letto fino a straziarsi”?

52
senza s-piagarlo, senza sottrargli le sue piaghe più di quanto, almeno,
non siamo disposti anche noi ad esperire il nostro essere piagati. Ma
quale corpo reca inscritta tuttora la sua infanzia, la sua “verità”,
richiamando le parole di A.Miller, con il quale avevamo iniziato?

I.10: In lotta nella “Stretta”. L’agonia poetica del corpo di Paul


Celan.

Questo corpo sul quale è inscritta la sua verità, è tutt’uno, ancor


vivo, con la sua opera; in tal senso possiamo parlare, per Celan, di una
vita che si scrive, tuttora, innanzi a noi, continuum inscindibile di
scrittura che non dobbiamo commettere l’errore di pre-scrivere, di
interrompere impedendone il corso, tagliandone la carne viva con i
nostri bisturi ermeneutici; questo corpo ci racconta, piuttosto, di una
parola, che non tagliò la carne, anzi, che suturò non vista:

“Giunse, giunse.
giunse una parola, giunse,
giunse lungo la notte,
volle splendere, volle splendere.

(…)

Giunse fino a noi, giunse


fin dentro, suturò
nascosta, suturò
fino all’ultima membrana
e

53
il mondo, un cristallo da mille,
vi germogliò, vi rinacque.”1

Una parola giunse, comunque, nonostante tutto. Giunse una


parola e il mondo, un cristallo da mille, vi germogliò. Vi rinacque,
insiste Celan.2
Una parola riuscì a suturare ogni cosa, a unire fino all’ultima
membrana dispersa, in una comunione ri-creativa - e nascita fu.
Ma questa parola, che da’ occasione al sorgere del mondo, che
gli assegna una forma, non tradisce la nascita, non l’appaga,
archiviandola per sempre nell’oblio che spetta a ciò che ormai è
definitivamente compiuto; anzi, essa, la parola, ci riconduce di nuovo
di fronte a quell’infanzia, nella sua necessità di dirsi, nel suo
fondamentale stato di necessità:
“vi germogliò, vi rinacque./ Poi –
(…)
“…il
mondo punta la sua intimità
al gioco delle ore
nuove.”3

1
Si tratta di due strofe di “Stretta”, in traduzione nostra. Per l’originale, vedi P.C., op.cit, I, p.195-
204.
2
Il termine adottato da Celan qui è Anschiessen, ripetuto due volte. Come sempre in C., siamo di
fronte a un uso molto particolare della lingua, un uso straniante; non possiamo quindi prescegliere
un significato, senza trascurarne molti altri. In particolare, il traduttore francese J.Daive ha
adottato il termine fuser, che evoca più da vicino un altro significato di Anschiessen, un significato
che ha a che fare col fucile, la fucilazione. Lo ricorda Szondi, nel suo studio su “Stretta”:
“Anschiessen (“concrezionare”) richiama schiessen (“fucilare”)” (P.Szondi, L’ora che non ha
sorelle, cit., p.48). La nostra opzione per il significato sorgivo, germinativo, non esclude però
affatto l’altro senso del termine tedesco: non è forse la nascita anche una peculiare forma di sparo,
di espulsione?
3
P.C., op.cit., I, p.195-204.

54
Il mondo, che appena aveva ritrovato il contatto con la sua
intimità creativa, sorgiva, germogliante, attraverso la carica ri-unitiva
della parola, subito però si tradisce, si smarrisce: esso punta la sua
intimità, nuovamente custodita dal corpo, al gioco delle ore nuove,
illudendosi di trovare in essa una novità che è già da subito vecchia.
E infatti:

“Non una
anima di fumo si leva e sta al gioco”.4

Non certo i morti potrebbero stare a questo gioco, il gioco delle


ore sempre nuove e quindi sempre già vecchie, il gioco in cui il
premio, il bottino, è la propria intimità più feconda e vitale - la propria
capacità di generare.
Non i morti, certo, non la morte; e neppure la nascita.

“Egli ha due avversari: il primo lo incalza


dalle spalle, dalla origine; il secondo gli
taglia la strada davanti. Egli combatte con
entrambi”.5

Queste parole di Kafka dicono con illuminante semplicità


contro cosa si erga, e valga, la resistenza che la poesia di C. ci mostra.
Non dobbiamo però intendere qui per “avversari” la nascita e la
morte, come ciò contro cui Celan combatte; è più importante, invece,

4
Ibidem.
5
Si tratta di un appunto di F.Kafka, datato 17-1-1920. Cfr. F.Kafka, Diari, a cura di E.Pocar,
Mondadori, Milano, 1988.

55
vedere come egli combatta con entrambi, in un corpo a corpo che
unisce i Tre in una unità che non può essere in alcun modo disgiunta.
E se abbiamo fatto riferimento in modo così insistente alla
poesia “Stretta”, è proprio perché mediante questa stretta siamo messi
di fronte in modo ineludibile alla resistenza, che C. ci mostra: la
resistenza del suo corpo-testo, che invoca e provoca una scrittura che
non si lasci decifrare; resistenza che si oppone alla nascita e alla
morte, come due forze del “non” che potrebbero definitivamente
arrestarla, ma che non punta affatto ad eliminarle, a saturarle, a
sopraffarle attraverso una scrittura che ne prescinda, anzi: la sua
scrittura, proprio perché è scrittura di vita, resiste innanzitutto alla
propria nascita e morte continue, incessanti.
Essa resiste in nome della propria infanzia, abbiamo più volte
detto. Essa, la poesia di C., il corpo-testo di C., resiste in nome della
nudità della propria aisthesis, che si manifesta in esso come esigenza
pre-morale di una etica, che gli corrisponda, in cui egli possa
riconoscere il proprio habitus.
E tuttavia, in questo riconoscimento, in questo ri-tocco, si
manifesta, e lo vedremo, proprio attraverso l’indecifrabilità,
l’illeggibilità, la tragica paradossalità dell’etica: essa si inscrive sul
corpo nel segno di una giustizia, che però, per inscriversi, deve
commettere un torto fondamentale, un atto di crudeltà.
Lo scrive benissimo, a nostro modo di vedere, Lyotard:

“L’esecuzione della giustizia(…)deve


automaticamente causare un torto, un torto
mortale. Questo torto non è occasionale,
costituisce l’essenza della morale in quanto

56
essa si effettua.”6

Contro questa nascita alla morale, che prescrive il corpo senza


organi infantile, in un triplice senso (essa, la Legge in quanto scrittura,
è prescrittiva, è parola d’ordine inaggirabile; essa si scrive prima, a
monte di ogni azione, trasformando l’innocenza del corpo in
colpevolezza originaria; essa, infine, è pre-scritta, ossia è ineseguibile
perché sempre tardiva); contro questa nascita alla morale, che
prescrive l’infanzia, il corpo pure attua la sua agonia: lotta, cioè,
resistenza, lotta contro quella nascita che si sdoppia in morte - nascita
alla Legge, alla tradizione che vuole tra-dir-si sull’infante, che è morte
del suo corpo innocente - che appunto abbiamo rintracciato nella
poesia “Stretta”, di Paul Celan.
Leggiamo in “Nella colonia penale” di Kafka, infatti, che:

6
J.F.Lyotard, Letture d’infanzia, cit., p.57. Molto interessante e accurata è la disamina che Lyotard
svolge qui riguardo al racconto Nella colonia penale di Kafka; scomponendo questo racconto,
Lyotard individua il percorso che in ogni individuo porta dal corpo pre-morale, in quanto pura
aisthesis, alla colpa in quanto questa innocenza è colpevole di fronte alla Legge - e alla
costituzione, infine, della Legge in quanto scrittura indecifrabile sul corpo, che ha un’unica e
suprema funzione: incidersi sul corpo infante in modo che solo esso, innocente, possa decifrarla.
Indecifrabile a chi la vede, quindi; ma decifrabile, riconoscibile, al corpo, che contro di essa resiste
in nome della propria innocenza. Questa incisione indecifrabile è appunto ciò che costituisce
l’etica, l’universalità della legge morale. Ci siamo permessi qui una breve sintesi, ma rinviamo a:
J.F.Lyotard, Letture d’infanzia, cit., p.37-66.

57
“Le prime sei ore il condannato vive quasi
come prima, soffre soltanto. Dopo due ore il
tampone di feltro viene eliminato, perché
l’uomo non ha più la forza di gridare.
(….)Solo verso la sesta ora gli passa la
voglia di mangiare.(…)Come si fa silenzioso
verso la sesta ora! Anche il più stupido
comincia a capire.(…)In fondo accade una
cosa soltanto: l’uomo inizia a decifrare lo
scritto.”7

Abbiamo letto in una poesia di Sylvia Plath, parole che non


possiamo trascurare, ora che siamo di fronte a questa dolorosa lotta
dell’in-fante Celan per sopravvivere, con la propria resistenza,
all’incisione dell’indecifrabile come Legge, sul suo corpo -
all’incisione di una Legge, di una morale del terrore che avrebbe per
sempre sopraffatto la sua infanzia.
Abbiamo già descritto più volte, come C. lottò per mantenere in
vita, per dare vita, per donare la propria vita a una parola, da portare al
di là del silenzio. Ora abbiamo letto, in Kafka, di come alla sesta ora il
condannato si fa silenzioso, quando inizia appunto a decifrare la
Legge.
E Sylvia Plath, anch’essa morta suicida, come Celan, scrive:
“Io scrivo solo perché
c’è una voce in me
che non vuol tacere”.8

7
F.Kafka, Nella colonia penale, da Tutti i racconti, trad. di L.Coppè e G.Raio, Roma, Newton
Compton, 1992, p.91.

58
I.11: “Tutti i poeti sono ebrei”. L’iscrizione indecifrabile, e di come
la resistenza di P.C. le faccia velo, rivelandola.

“Tutti i poeti sono ebrei”, scriveva Marina Cvetaeva1. Che


senso possiamo dare a questa espressione? I poeti, lo abbiamo detto
poco sopra, sono coloro che più a fondo si arrischiano verso l’intimità,
l’abissalità del linguaggio, in cerca di una parola di cui sentono la
mancanza. Ma se tutti i poeti sono ebrei, tutti i poeti sono circoncisi,
ed è a partire da questa circoncisione - da questa ferita originaria- che
muove la loro ricerca di parola.
Non si tratta di un evento fisico come tanti; la circoncisione,
come uno Schibboleth2, inscrive sul corpo con una caratteristica
mutilazione - una mutilazione a forma di anello, aggiungiamo subito:
come un Meridiano - un segno differenziale, il segno di una diversità.
L’essere-circonciso è condizione preliminare, prescrizione appunto -
nel triplice senso in cui prima ne parlavamo - per appartenere a una
comunità; è operazione chirurgica, con cui sul corpo viene scritta la
Legge, nella sua indecifrabilità che è data anche dalla condizione

8
S.Plath, Letters Home: correspondance 1950-1963, Faber and Faber, London, 1978, p.34-35.
1
L’espressione, citata da Celan come epigrafe della sua poesia “Und mit dem Buch aus Tarussa”,
cfr. P.Celan, op.cit, I, p.287, è in realtà lievemente diversa nell’originale. Essa suona all’incirca,
infatti: “i poeti sono gli ebrei” (cfr. M.Cvetaeva, Poesie, Milano, Feltrinelli, 1994, p.162).
2
Avremo modo di tornare più avanti, trattando il tema dell’appartenenza ebraica di Celan in
relazione ad Auschwitz, su questa parola, Schibboleth, e sulle poesie in cui C. la nomina. Qui basti
dire, come in anteprima, che con questa parola si designa la differenza generata dall’appartenenza
di un individuo alla propria comunità - la marca di questa differenza rispetto allo straniero.

59
infantile, innocente3 del corpo, su cui, come matrice indifferenziata, si
attua l’inscrizione.
L’indecifrabile si scrive nel corpo, inscrivendo la differenza -
come segno universalmente riconoscibile - nel corpo. Questo corpo, il
corpo indifeso di un bambino, non può opporre resistenza, è messo di
fronte a una forza indicibilmente superiore, che lo sottomette a sé
sottraendogli per sempre la sua innocenza, imprimendo un movimento
irresistibile alla sua pre-moralità fino ad allora inerte.
Esso, il corpo del bambino, ri-muove la sua resistenza,
spostandola dove v’è una nuova necessità di resistere, cioè contro il
rinvenire di quella impotenza originaria, e di tutti gli altri momenti di
altrettale impotenza, che la sua infanzia, successivamente, ebbe a
sperimentare.
Questa resistenza, che egli non poté opporre, si ripresenterà poi
per tutta la sua vita, come resistenza al ricordo di quella violenza,
resistenza contro ciò che lo fa riaffiorare.
Scrive Freud:

“Tuttavia la rimozione, inizialmente efficace,


3
Nominiamo qui l’innocenza dell’infanzia in tutti i sensi possibili di questo termine. Conosciamo
tutte le declinazioni possibili di una pedagogia “nera” che da secoli persiste legittimando i tanti
maltrattamenti che l’infanzia subisce, in nome della buona e civile “educazione”; siamo a
conoscenza, inoltre, della teoria freudiana delle pulsioni, che attribuisce una vera e propria
sessualità anche ai bambini di precocissima età, e delle conseguenze in termini di conflitti edipici,
che questa sessualizzazione dell’infanzia comporta; siamo, infine, a conoscenza di come queste
teorie siano state sviluppate, per es. da M. Klein, per identificare un’immagine di “bambino
crudele”, sadico, da applicare finanche al lattante, e in base alla quale sarebbe il bambino stesso -
certo in base a sue innate pulsioni aggressive - a provocare la reazione crudele del genitore.
Si vorrebbe anche convenire, talvolta, con queste teorie, e assegnare al bambino almeno una parte
di quella responsabilità, certo enorme, che pesa sulle spalle di genitori pur sempre violati, a loro
volta, in quanto ex-bambini. Sarebbe bello poter liberare i genitori almeno di una parte di quella
colpa. In base a quali istanze, però possiamo convalidare quelle teorie, se non, alla fine,
corrispondendo al mero bisogno dei genitori, di non riconoscere le proprie violenze, quelle fatte e
quelle subite, un tempo, quando essi erano ancora bambini?
Tutta una catena di crudeltà, e di rimozione, si dipana così di generazione in generazione. Come
rimuoverla, se non ripristinando, tanto per cominciare, l’immagine del bambino a priori
‘innocente’?

60
non tiene, e col progredire degli eventi il suo
scacco risulta con evidenza sempre
maggiore.(..)L’affetto scomparso ritorna
sotto forma di angoscia sociale, di angoscia
morale(…)”4

Pur se qui caccia ricorso a una citazione del padre della


psicanalisi, non è nostra intenzione, anzi, soffermarci su una analisi
psicologica dell’angoscia di Celan, che ne individui la causa in
qualche trauma infantile, in qualche conflitto edipico irrisolto, la cui
chiarificazione tempestiva avrebbe magari potuto salvare la vita di
Celan - e comunque oggi potrebbe salvare noi stessi dal pericolo di
dover mettere a repentaglio le nostre anime belle, rassicurate dalle
teorie freudiane che così bene promettono di poter spiegare
l’inconscio, e risolverne i problemi limitando al minimo il rischio di
vissuti emotivi laceranti, che esso custodisce nella rimozione.
Quel che piuttosto qui vogliamo pensare, con Freud, è che
l’angoscia - avevamo già trovato questo termine: per Heidegger essa è
uno degli stati d’animo fondamentali che provoca il pensiero –
l’angoscia è in realtà l’affetto di copertura, che costituisce l’ultimo
inefficace baluardo contro il ritorno del rimosso. Non esso da’ quindi
da pensare; piuttosto esso è il limite, contro cui il pensiero vorrebbe
potersi avventare, restandone piuttosto escluso - in una economia di
sé, che ne garantisce la ragionevolezza salvaguardandolo dalla follia.
Anche nella sua suprema esposizione, il poeta P.C. dovette
sperimentare, fino a esserne sopraffatto, una angoscia che

4
S.Freud, Metapsicologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p.66.

61
inefficacemente lo protesse, però, fino allo stremo delle forze dal
ricordo di ciò che il suo pensiero non poteva sopportare, dal ricordo di
quell’indecifrabile scrittura che ne prescrisse l’infanzia.
Scrive Derrida:

“Non c’è scrittura che non si costituisca una


protezione, proteggendosi contro di sé,
contro la scrittura secondo la quale il
‘soggetto’ è anch’esso minacciato quando si
lascia scrivere: quando si espone”.5

Scrittura che quindi incide prescrivendo; e tuttavia scrittura che


istituisce anche la protezione, una sottile pellicola di angoscia,
destinata a diventare sempre più resistente, a ispessirsi, sotto la quale è
assicurata la permanenza, tuttavia sempre più opaca e invisibile, dello
scritto originario. Una protezione che è rimozione, quindi; e tuttavia
come far saltare quella rimozione, senza rimuovere a nostra volta lo
scritto, il ricordo, che essa custodiva?
Questo fu ciò che impedì a Celan di accedere al proprio
rimosso: e a rendere permanente e ineliminabile questa protezione,
contribuì in maniera decisiva la mancanza di un testimone della
propria infanzia, che gli permettesse di rivivere le emozioni terribili
contro le quali la sua angoscia - e la psicosi in cui questa degenerò -
fungeva da estremo baluardo. Contro di esso egli dovette opporre una
resistenza lacerante.
Oggi, tuttavia, non possiamo più renderci complici di quella
cecità, e di quell’angoscia. A noi tocca vedere, udire, liberare la poesia

5
Derrida, “La scrittura e la differenza”, cit., p.288. Il corsivo è nell’originale.

62
di P.C. in quella esposizione, che egli non poté permettersi fino in
fondo.
Anche quando il grido di dolore del bambino Paul Celan si sarà
reso più chiaramente udibile a noi, per es. attraverso le tante
testimonianze che ce ne offre I.Chalfen nel suo bellissimo libro 6
sull’infanzia del poeta, il nostro problema sarà solo diventato più
evidente: quale domanda pone, esteticamente, con le sue generose e
inespresse sensazioni, il corpo del bambino? Come dare risposta,
eticamente, a questa domanda?
Il nostro obiettivo sarà appunto portarci sul margine di questa
domanda, e sarà l’opera poetica di Paul Celan, quel grido di inaudito
dolore, a portarci fin lì, come novello Caronte.
Lo faremo interrogando, e ascoltando, le testimonianze di cui
disponiamo, sull’infanzia personale di C.; esse ci indirizzeranno, con
legame pieno di inquietudini, ad altre testimonianze, sulla genesi
biografica di tutt’altri destini, che pure così orrendamente
incrociarono quelli del poeta.
Di fronte a questa ininterpretabile mostruosità, che si darà poi il
nome di Auschwitz, tutta la problematicità di questa data - delle date,
che segnano il poema di Celan – ci porterà a riformulare quanto
preliminarmente, qui, abbiamo chiamato indecifrabilità, sotto il segno
di uno schibboleth che si volle intraducibile per poter giungere ancora
intatto all’”Altro”: resistenza etica, che invoca e reclama una etica
che gli corrisponda; resistenza etica, di fronte alla quale non possiamo
più tacere.
6
I.Chalfen, P.C. Eine biographie seiner Jugend, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983. In
particolare nel terzo capitolo di questo libro, significativamente intitolato “Bei dir ist es eng”,
sono raccolte le testimonianze più gravi della drammatica infanzia di Celan, troppo spesso
trascurate dalla letteratura critica.

63
“Ferite più fonde che a me
inflisse a te il tacere”.7

CAP.II - DA AUSCHWITZ A
CZERNOWITZ. IL RIMPATRIO
ILLEGGIBILE.

“Beviamo aria di morte a ogni respiro,


ed ogni ora è per noi l’ora suprema.”8

“Il mio cuore è una chiusa che ogni volta


arresta un flusso ininterrotto di dolore”.9

II.0: Nominare Auschwitz. Un inquietante gioco di parole.

Quando si nomina Auschwitz, è come un ordine, una


disposizione d’avvio, un esitante nomadismo, a scaturirne: tutta una

7
P.C., op.cit, “Der Andere”, VII, p.29.
8
O.Mandel’štam, Cinquanta poesie, a cura di Remo Faccani, Torino, Einaudi, 1998, p.45. Si tratta
di una poesia del 1916, dunque antecedente alle persecuzioni che il poeta ebbe a subire,
successivamente, ad opera del regime stalinista - persecuzioni che lo condussero alla morte in un
lager di transito in Siberia. Non è quindi di un lager, che si parla; e tuttavia, come nella successiva
Todesfuge di Celan, vengono nominate l’aria e la morte, nell’atto del bere. Non a caso,
commentando la poesia di Mandel’štam - forse il poeta che più amò - Celan ebbe a scrivere: “Le
poesie sono progetti esistenziali: il poeta vi modella la sua vita” (P.C., La verità della poesia, trad.
di G.Bevilacqua, Torino, Einaudi, 1993, p.56).
9
E.Hillesum, Diario 1941-43, trad. di C.Passanti, Milano, Adelphi, 1996, p.205. Nata nel 1914 e
morta nel 1943 ad Auschwitz, la giovane Etty riuscì fortunosamente a lasciare alcuni diari, la cui
pubblicazione ha riscosso un successo paragonabile a quelli di Anna Frank: diari che emozionano
per la lucidità con cui fino all’ultimo Etty riuscì a farsi carico del dolore altrui, e del proprio, senza
opporvi resistenza, accettando l’indecifrabile crudeltà che si manifestava nei campi, assumendola,
al di là di ogni tentativo di interpretazione, come una forza capace di mettere in moto le emozioni e
i bisogni più elementari - e dunque più autentici - dell’uomo. La sua esperienza trovò un’estrema
sintesi in questa ultima frase, vergata su una cartolina che ella riuscì a gettare dal treno che la
portava alla morte: “abbiamo lasciato il campo cantando”(cfr. E.Hillesum, op.cit., p.18). Ancora
“un residuo cantabile”(P.C., op.cit., II, p.36), in-contro all’illeggibile.

64
cartografia, ben diversa da una mappa stradale, un atlante di sentieri
interrotti, in rotta col senso, si istituisce, attorno al centro
rappresentato da quel nome.
Pluralità irredimibile di traiettorie: “sigillate di frantumi/le
traiettorie là fuori”. Il tempo della giusta nascita, aggiunge subito
Celan1, è proprio questo.
Un nome, attorno a cui vagare per rintracciarvi infine un
reticolo di significato: regione dell’ente che ancora reclama senso, il
suo redde rationem.
E tuttavia come rendere ad Auschwitz l’ethos che esso reclama,
il significato che pure gli spetta, la parola che esso invoca, senza
immediatamente ridurre Auschwitz a uno dei tanti fatti, sia pure
terribili, che la nostra memoria può incasellare, ordinare, secondo un
regime di sensatezza che lo renda, in qualche modo, finalmente
accettabile?2
Ci colpisce quanto rileva una sopravvissuta allo sterminio,
sottolineando come nello stesso nome della località si nascondessero -
quasi un eccesso di senso ben occultato dietro l’insensato
dell’Olocausto - reticoli semantici dagli imprevedibili, e inquietanti
svolgimenti.3
1
P.C., op.cit, II, p.240. Riproduciamo nella sua interezza questa bellissima poesia: “Mine
d’ingresso sulle tue lune/sinistre, Saturno.//Sigillate di frantumi/le traiettorie là fuori.// Dev’essere
ora il momento/per una giusta/nascita”.
2
Molto interessante è quanto scrive B.Moroncini in Mondo e senso - Heidegger e Celan, Napoli,
Cronopio, 1998, riguardo questa difficoltà che Auschwitz pone alla filosofia: la perdita di senso
che caratterizza il nostro tempo è, secondo l’autore, definitivamente esplicitata dall’evento-
Auschwitz: “Nulla si presenta ad Auschwitz, né senso, né mondo” (ivi, p.27), e tuttavia persiste la
necessità di un pensiero che sia eticamente responsabile, più di quanto l’”etica originaria” di
Heidegger abbia potuto fare. Si tratta cioè di elaborare un “fare, una poiesis”(ivi, p.29) che sia
adeguato, che corrisponda a questa perdita di senso che Auschwitz nomina, “che lo iscriva nella
lingua attraverso il significante, attraverso la lettera”(ivi, p.29), in nome però di un parlare
diventato ormai impossibile, insensato. Moroncini individua appunto in questa modalità del fare
poetico l’esemplarità dell’opera di P.C.
3
Ci riferiamo a quanto leggiamo in una nota a p. 71 del libro di P.Amodio, Diacronie- Arendt,
Celan, Levinas, Bloch, Napoli, Giannini, 2000, dove si cita quanto scrive a proposito di questa

65
Uno per tutti: Aus-ch-witz, il venir-fuori di un “Witz”, la
liberazione di un “Witz”- di un motto di spirito.
Freud ebbe a scriverne in un suo noto saggio:

“Il pensiero che, con l’intenzione di creare


un motto di spirito, si tuffa nell’inconscio,
non fa altro perciò che ricercare la vecchia
dimora del gioco di parole di un tempo. Il
pensiero è stato riportato per un momento
allo stadio della fanciullezza per
riconquistare il possesso della fonte infantile
di piacere”.4

II.1: “Non accorgerti”. Ascoltare un “labbro interdetto”.


Cosa ricercava, da quale inconscio (ri)muoveva, chi decise
l’operazione che noi riuniamo sotto il nome di Auschwitz? Quale
“eccesso di senso”, quale in-fanzia rimasta inespressa, resistendo
all’indecifrabilità della propria inscrizione, della propria nascita
morale, nel suo disperato tentativo di resistere al rimontare del proprio
scacco, della propria impotenza, ebbe a dirsi sotto forma di un
devastante motto di spirito, di un Witz, di un Aus-ch-Witz?
Colui che decise quell’operazione, colui che progettò e decise
Aus-ch-witz, la liberazione di un simile “scherzo”, di un’impotente e
distruttiva freddura, aveva detto una volta:

polisemia auschwitziana A.L.Stern, psicanalista ebrea sopravvissuta allo sterminio nazista.


4
S.Freud, Il motto di spirito, in Opere 1886/1905, Roma, Newton Compton, 1992, p.1152.

66
“Ci procura anche un piacere segreto del
tutto particolare vedere che la gente intorno a
noi non si accorge di quello che in realtà le
sta succedendo.”1

Chi è che non si accorge? Chi è che non deve accorgersi del
male che si trova a subire? Con ogni evidenza, non occorre diffondersi
in riferimenti storici per confermarlo, Hitler si comportava con il suo
popolo come un padre di fronte al figlio; egli - e con lui tanti, che
avevano subito con ogni probabilità una educazione simile alla sua -
sperimentava finalmente quel piacere liberatorio che a sua volta aveva
dovuto sperimentare suo padre, scatenando sul piccolo Adolf una
violenza di cui il figlio, però, prestissimo imparò a non accorgersi.2
Non si tratta qui di ricostruire l’infanzia di Hitler, per dare
finalmente una spiegazione alla mostruosità dell’Olocausto; si tratta
però di disporci all’ascolto di quella mostruosità, del suo scandalo:
essa, in quanto mostruosità, ha qualcosa da mostrare, qualcosa che
ostinatamente richiama la nostra attenzione.
E’ quel “non accorgerti”, intrinseco al processo che portò
all’instaurazione del regime nazista e a tutto quello che ne conseguì, è
quel “non accorgerti” che ci riporta immediatamente da Ausch-Witz a
Czerno-Witz. A volte in modo fin troppo immediato, aggiungiamo
subito: come se si ripetesse quel processo di “tuffo nell’inconscio”,
così bene illustrato da Freud, colui che legge la poesia di Celan si
trova quasi inesorabilmente costretto a stabilire l’equazione pure
1
La citazione è tratta da A.Miller, La persecuzione del bambino, trad. di M.A.Massimello, Torino,
Bollati Boringhieri, 1987, p.55, ma proviene da H.Rauschning, Così parlò Hitler, Roma,
Cosmopolita, 1944(corsivo nostro).
2
Cfr. infra, nota 103.

67
significativa fra Czernowitz, quale Heimat fisica del poeta, e
Auschwitz quale Heimat irraggiungibile della sua poesia, come luogo
di provenienza del suo frammentato e balbettante linguaggio. Un
rimpatrio, verrebbe da dire, fin troppo chiaramente leggibile.
In realtà la linea retta che collega questi due luoghi è appunto
troppo retta, troppo ragionevole: è piuttosto in ciò che sta fra Czerno-
witz e Ausch-witz, nell’irrazionalità illeggibile che si occulta ancor
oggi, perfettamente dissimulata, fra le pieghe di tanta rettitudine, che
dobbiamo cercare.
E allora sarà paradossalmente quasi lo stesso, parlare
dell’infanzia di Hitler, di Kafka, di Celan, o di altri. Sarà forse “come
ascoltare un labbro chiuso”3, un “labbro interdetto”4 che però
annuncia: “ciò che più non può dirsi, cocente,/udibile in bocca.”5
E’ a questo vero e proprio imperativo di Celan 6, che ci
volgiamo, come ad ubbidire:

“E’ ultra-sera,
io faccio luce dietro di me.

Portami giù,
sii serio
con noi.”7

3
C.Pavese, Poesie del disamore, Torino, Einaudi, 1951, p.77.
4
P.C., op.cit, II, p.36.
5
P.C., op.cit, I, p.187.
6
Sottolinea questa imperatività peculiare alla poesia di P.C., M.Guzzi, nel suo La svolta, Milano,
Jaca Book, 1986, p.199: “La poesia di P.C. è imperativa. E’ un ordine, una rotta, una cometa.” A
sostegno di questa immagine, ci permettiamo di ricordare i versi, bellissimi, che M.Blanchot pone
in chiusura de L’ultimo a parlare: “Sprich auch du/sprich als letzer/sag deinen spruch” (P.C., op.
cit, I, 135), un’esortazione che Blanchot raccoglie così: “Parla, anche tu, anche se fossi l’ultimo a
parlare” (M.Blanchot, L’ultimo a parlare, trad. di C.Angelino, Genova, Melangolo, 1990, p.47).
7
P.C., op.cit, II, 350.

68
Cosa accomuna, biograficamente, l’infanzia di Hitler e di
Celan?
II.2: L’infanzia soppressa di Hitler. L’umanità che sterminò i
propri figli.

Fu Hitler stesso, nel suo Mein Kampf, a descrivere, sia pure


sotto la forma dissimulata di “fantasia” esemplificativa, la sua
infanzia:

“In uno scantinato di due tetre stanzette abita


una famiglia operaia(…).Tra i figli c’è anche
un bimbetto, poniamo, di tre anni(…).
L’angustia e il sovraffollamento del luogo
non portano a rapporti eccessivamente buoni
fra i familiari. Litigi e alterchi sono già molto
frequenti(…). All’età di sei anni il
commiserabile piccolo sospetta l’esistenza di
cose delle quali un adulto può solo provare
orrore.”1

Il piccolo bimbetto di cui ci parla Hitler, qui, non è altro che lui
stesso, evidentemente; chiunque legga le biografie del Führer, per es.
nei libri che ad essa hanno dedicato Stierlin 2, Toland3, o Fest4, si
imbatterà in un padre pieno di insicurezze, che egli però ben
nascondeva sotto quella che il necrologio definisce “una ruvida
scorza”5; ruvida scorza che si manifestava, nei confronti dei figli e in
particolare del piccolo Adolf, sotto forma di ripetute violenze, fin dai
1
H.Stierlin, Adolf Hitler - Familiarperspecktiven, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1975, p.24.
2
cfr. supra, nota 98.
3
J.Toland, Adolf Hitler, Doubleday, New York, 1976.
4
J.C.Fest, Hitler: eine Biographie, Frankfurt a.M., Propyläen, 1973.
5
Lo riferisce J.Toland, op.cit., p.34.

69
primissimi anni di vita. Lo stesso Adolf, in seguito, riferì con orgoglio
ad una delle sue segretarie di aver imparato a subire i colpi del padre
senza lasciarsi sfuggire neppure un lamento dalle labbra6.
Molti anni dopo, e sicuramente senza pensare all’infanzia di
Hitler, Celan scrisse:

“Labbro sapeva. Labbro sa.

Labbro lo tace, fino in fondo.”7

Non è indispensabile, a questo punto, approfondire


ulteriormente il resoconto dell’infanzia di Hitler; le brillanti analisi
che su di essa - e sulle infanzie di Himmler, Höss, Göring8 e altri fra i
principali gerarchi nazisti - ha condotto Alice Miller, psicanalista, la
quale si è dedicata a lungo allo studio delle ripercussioni che le
violenze praticate dai genitori sui figli hanno poi nella loro vita adulta,
danno modo a chi vuol prenderne conoscenza, di avvicinarsi a quella
che fu la radice, feconda di lutti, della personalità distruttiva di un
uomo che assunse su di sé tutto il destino di un tempo - il tempo delle

6
Cfr. J.Toland, op.cit., p.30. Così avrebbe detto Hitler: “Decisi che alla prossima razione di botte
non avrei lasciato uscire neppure un lamento dalle mie labbra. E quando venne il momento(…) ho
contato ogni colpo che mi veniva dato. Mia madre pensò che fossi diventato pazzo quando le
riferii raggiante di orgoglio: ‘Mio padre mi ha dato trentadue colpi!’”.
7
P.C., op.cit, I, p.180.
8
Cfr. A.Miller, La persecuzione del bambino, cit., p.55-79.

70
“catastrofi mondiali”, che il poeta Georg Trakl9, pochi anni prima,
aveva così prefigurato:

“GRODEK

A sera risuonano i boschi autunnali

di armi letali, le auree distese

e gli azzurri laghi, e dall'alto il sole

rovina all'orizzonte, più oscuro; la Notte abbraccia

guerrieri morenti, il furioso lamento

delle loro bocche in frantumi.

Pure silenziosa si raduna fra i salici

rossa nube, soggiorno di un dio furente,

il sangue sparso, argentea frescura;

tutte le strade sfociano in nera putredine.

9
Georg Trakl, poeta, nato a Salisburgo nel 1887 e morto, con ogni probabilità suicida, nel 1914,
intravide e mostrò attraverso la sua opera in versi tutta la potente ambiguità del nostro tempo,
quella stessa ambiguità che spinse Heidegger, molti anni dopo, a parlare di “Gelassenheit zu den
Dingen” in modo ancipite: abbandono delle cose, ma anche abbandono alle cose(cfr.
M.Heidegger, L’abbandono, trad. di A. Fabris, Genova, Il melangolo, 1989, p.38), come
atteggiamento etico corrispondente. Lo stesso Trakl incoraggiò un’interpretazione ‘profetica’ della
sua poesia, disseminandola di enigmatiche visioni a carattere anticipatorio, sinteticamente espresse
dalla formula, adottata in una lettera: “Io anticipo le catastrofi mondiali” (G.Trakl, Le poesie,
trad. di V. degli Alberti e E.Innerkofler, Milano, Garzanti, 1983). Ciononostante,
un’interpretazione troppo appiattita su questa valenza divinatrice della poesia di Trakl - come ci
sembra ad es. la Erörterung tentata da Heidegger in In cammino verso il linguaggio - pur essendo
carica di tutta la potenzialità scopritiva che in effetti le è propria, rischia di invertire proprio i
termini essenziali della questione di cui si occupa: è infatti proprio nella vita, alle radici della vita
del poeta, che si può rintracciare ciò che fu comune a molti altri, e che improntò lo spirito del
tempo, “i nipoti non nati” che quel tempo abortì. Perché invece confondere il prima col dopo,
considerando quel che era una disperata confessione, come una profezia?

71
Sotto gli aurei rami della Notte stellata

vacilla l'ombra della sorella per la selva ammutolita

a salutare gli spiriti degli eroi, le teste insanguinate;

e lievi risuonano nel canneto i sinistri flauti autunnali.

O più fiera pena! O, voi, ferree are,

l'ardente fiamma dello spirito nutre oggi un possente dolore,

i nipoti non nati.”10

“Die ungebornen Enkel”, ebbe a scrivere, quindi, Trakl; e


furono queste le sue ultime parole in versi, parole che enunciano la
drammatica mancanza di speranza, la rinuncia ad ogni orizzonte di
futuro, rinuncia che rispecchia così visibilmente - radicalmente,
autenticamente - quella che fu l’esperienza biografica del poeta,
quella che sarà l’esperienza di molti altri, il destino del suo tempo, un
tempo che aveva già abortito in anticipo i suoi nipoti, sterminando i
propri figli.
Scrive in una poesia intitolata “Agli ammutoliti”11, lo stesso
Trakl:
“Prostituta, che fra freddi brividi partorisce un bimbo morto.”

10
G.Trakl, op.cit., p.322-323, traduz. nostra.
11
G.Trakl, op.cit., p.206-207, traduz. nostra.

72
Non il rischio di “una sterilità definitiva”12, come qualcuno ha
scritto a proposito di questa immagine; ma un genere umano capace di
mettere al mondo solo una infanzia già morta, un fanciullo già
disfatto, un nato morto, nato per la morte, nato e subito già esposto,
come disposizione etica, al rischio della propria fine, all’esser-
presente della propria finitezza, nella concretezza della propria
infanzia irrevocabilmente estinta.
Questo genere umano che negli anni ’30-’40 partorirà i disastri
dei totalitarismi stalinisti e nazifascisti, della guerra mondiale, della
bomba atomica, dei campi di sterminio - l’umanità di Auschwitz, se è
vero che “homo sum: nihil humani a me alienum puto” 13 significa
anche: sono, in quanto uomo, complice di tutto ciò che un altro uomo
ha voluto - questo genere umano già da tempo lavorava al suo stesso
sterminio, sterminando i propri figli, elidendone l’infanzia fino agli
esiti più tragici.
Ne daremo conto per quanto ciò riguarda Paul Celan, nato Paul
Antschel in quel di Czernowitz, il 23 novembre 1920:

“sottomesso alle tardive, severe


stelle di novembre:
12
Ci riferiamo a un passo di M.Guzzi(cfr.L’uomo nascente, Como, Red, 1997, p.168), dove
commentando questo verso si dice: “Una prostituzione finale è il rischio estremo, una sterilità
definitiva è il pericolo che corriamo a Occidente”. Anche qui si ripete l’inversione che prima
segnalavamo(cfr. supra, nota 106): perché leggere nella poesia, in particolare questa di Trakl, una
profezia, piuttosto che un’ammissione, l’unica espressione possibile di sè contro
l’ammutolimento? Il bimbo morto, non potrebbe forse essere innanzitutto lo stesso Trakl?
13
Cfr Terenzio, Heautontimorumenos. Riconosciamo in questa antica espressione una possibile
formulazione di una disposizione etica cui anche l’umanità di oggi non può sottrarsi,
indipendentemente dalla capacità di giungere a una qualche autocoscienza di questo ethos che
sempre e comunque, singolarmente, ne dispone l’agire e l’esistenza; tale detto enuncia in modo
esemplare quell’interrogazione d’altri, che è condizione imprescindibile della costituzione umana.
Kojeve, molto più tardi, commentando Hegel, ebbe a dire lo stesso, sotto questa forma: “è umano
desiderare ciò che gli altri desiderano, perché lo desiderano.(…)La storia umana è la la storia dei
Desideri desiderati”(A.Kojeve, Introduzione alla lettura di Hegel, trad. di G.F.Frigo, Milano,
Adelphi, 1996, p.19-209).

73
(…)
corda d’arco, da cui
scocchi la tua scrittura di freccia,
Sagittario. “14
II.3: Paul Pessach Antschel. Il sacrificio che consente il passaggio.

Corda d’arco, quindi; ma pure, e più originariamente, “colui


che passa”, Pessach, l’ebreo che Dio ha liberato dalla schiavitù
colpendo il popolo egiziano con l’ultima delle terribili dieci piaghe,
l’uccisione di tutti i primogeniti delle famiglie non ebree.
Pessach, fu il secondo nome che Paul Antschel ricevette 1, o se
vogliamo, il suo primo pseudonimo; pseudonimo circonciso,
aggiungiamo subito, innanzitutto in quanto esso fu assegnato
all’ottavo giorno dalla nascita, nel giorno della circoncisione; ma
nome circonciso in quanto esso affonda le sue radici nell’anello-
meridiano con cui è sigillata l’alleanza del popolo ebreo con il
Signore, alleanza marcata da un passare-oltre, da una trasgressione se
vogliamo - una liberazione che si attua a partire dalla propria
separazione dall’infanzia. Schibboleth, marca differenziale incisa con
sangue di bambino, dove il crinale passa, in questo caso, fra i bambini
degli egiziani, uccisi in nome del Signore, e i bambini ebrei,
risparmiati in quanto uccisi solo simbolicamente, nell’agnello
sacrificale col cui sangue gli ebrei segnarono le porte delle proprie
dimore, affinché l’angelo sterminatore passasse oltre - affinchè loro
stessi potessero passare oltre. E proprio questo agnello sacrificale, è

14
P.C., op.cit, II, p.22
1
cfr I.Chalfen, op.cit., p.25, dove il significato del nome ebraico, di tradizione orale, è ampiamente
spiegato.

74
Pessach, ‘la Pasqua’, l’agnello sacrificale in nome del quale si può
passare oltre.2
Ancora - e in realtà ancora prima - di un’uccisione simbolica
dell’infanzia, ci parla la Bibbia, quando essa ci pone di fronte a un Dio
terribile che chiede ad Abramo l’estrema prova a sigillo dell’alleanza
con il popolo ebreo:

“Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami,


Isacco, (…) e offrilo in olocausto su di un
monte che io ti indicherò”.3

E non occorrerà ricordare che sarà la stessa divinità, a offrire il


proprio figlio come agnello, rinnovando l’antica alleanza in nome di
questo terrificante sacrificio.
Non basta, però, la valenza simbolica di questi sacrifici
pasquali, nemmeno l’offerta simbolica dei primogeniti al Dio - che la
circoncisione sta appunto a rendere manifesta, tangibile - per
sopraffare e tacitare completamente quell’infanzia, quell’ineludibile
inaudibile che ossessiona dal fondo il discorso, la comunità che si
istituisce nell’alleanza col Padre. Questo Padre chiede ancora e
ancora, con fermezza, che quell’infanzia di cui è in sofferenza, sia
ineluttabilmente imprigionata, costretta all’impotenza.
Dice infatti l’Ecclesiaste, a proposito dei figli maleducati:
“frusta e correzione in ogni tempo sono saggezza”.4
(Paul) Pessach (Antschel), dunque, l’agnello sacrificale in nome
del quale il popolo ebraico può compiere il proprio passaggio; eppure

2
Cfr. AA.VV., La Sacra Bibbia, Roma, CEI, 1974, Es.11-12.
3
Cfr. La Sacra Bibbia, cit., Genesi 22,1
4
Cfr. La Sacra Bibbia, cit., Sir.22, 6.

75
il suo sacrificio, lo vedremo, non basterà al popolo ebraico e
nemmeno alla sua famiglia. Il sacrificio del fanciullo Pessach
diventerà, successivamente, il sacrificio del poeta Paul Celan, nel
gesto del suo suicidio. E non ci sarà più alcuna liberazione, solo la
cripta ormai sepolta dalla sabbia, catacomba resa inaccessibile da una
scrittura incisa a colpi di frusta, una scrittura che soffocò a sua volta
quella voce d’in-fante che a noi tocca ora, almeno, di provare a
riconoscere. Giacché quella voce, poco prima di tacere per sempre,
pure riuscì a dire:
“NOTTE DI UN COLPO IN PIU’,
è la parte
del figlio
da tanto, in-
tatto,
fatto prigioniero.

Una voce, da lì in mezzo,


a mo’ di gallo chiama un volto.”5

Il figlio, fatto prigioniero, è ancora lì, intangibile, chiuso dietro


sbarre che solo con molta miopia possiamo identificare e risolvere
nelle sbarre della Sprachgitter in cui la poesia di Paul Celan trovò uno
dei suoi segni: grata di linguaggio che non fu mai una prigione, anzi:
l’unica forma di liberazione, e comunque insufficiente, che quel
fanciullo riuscì a intravedere, “occhio tondo fra le sbarre”6.
5
P.C., op.cit, II, p.286.
6
P.C., op.cit, I, p.167. E’ la poesia che da’ il titolo alla raccolta: Sprachgitter, “Grata di
linguaggio”. Si tratta di una grata che separa, ma non del tutto, non in modo definitivo; essa
“lascia passare uno sguardo”, afferma Celan nella stessa poesia. E’ interessante un significato

76
Si trattò solo di una metafora, di una tardiva similitudine con
cui Paul Celan cercò di esprimere, di rendere ancora visibile, la sua
condizione di isolamento, di incomunicabilità?
Non dobbiamo cadere in questo errore esegetico, in questo
eccesso filologico, opponendoci come “uomini-ostacoli” alla poesia
incarnata con cui Celan, anche nel ritardo estremo, cercò sempre e
comunque di riportarsi più vicino possibile a quel segreto, da cui egli
stesso era inevitabilmente separato, quel segreto per cui non vi era
stata testimonianza, non vi poteva essere più testimonianza: il mistero
criptato della sua terribile infanzia, rispetto al quale ogni metafora
sarebbe stato un tradimento:

“scrivevano, tradivano la nostra risata


in una
delle loro lingue illustrate.“7

Così scrisse Celan, condannando in modo netto e definitivo quel


parlare per immagini che troppo facilmente si presta a rimuovere
l’istanza che lo anima, dislocando la scrittura - e il lettore-
altrove:, portare al di là, appunto.
Il linguaggio di Celan, come dice egli stesso, “non trasfigura,
non poetizza”8; non dobbiamo farci dislocare, quindi, dalle metafore,
dobbiamo invece restare qui, dove risuona quel fastidioso e
martellante canto di gallo, quella chiamata che pure invoca un volto,

della parola ‘Gitter’, segnalato da C.Miglio (Celan e Valery- poesia, traduzione di una distanza,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, p.112, in nota): “reticolo ottico”. Si tratterebbe
dunque di un reticolo ottico formato nel linguaggio, uno speciale dispositivo per vedere le cose
con la precisione necessaria a dirle. Come sempre affascina la polisemia dei titoli che Celan da’
alle sue sillogi. Una visione d’insieme sull’ambiguità di questo titolo, in particolare, la offre
G.Bevilacqua in Poesie, cit., p.LII e ss.
7
P.C., op.cit, I, p.213.
8
P.C., op.cit., III, p.167.

77
qui dove giace, dietro le sbarre di una prigione, un figlio ancora
intatto, al riparo nella sua Zeitgehöft - nell’alone-dimora di un tempo,
che gli fu originario, e che egli definitivamente aveva dovuto
recintare.9
II.4: L’infanzia, “un cristallo di respiro”, di Paul Antschel.

Scrive Israel Chalfen, raccontando i primissimi anni di vita di


Paul Antschel, non ancora divenuto Paul Celan:

“(...)era violentemente sgridato dal padre


oppure riceveva perfino percosse. Quando la
‘mancanza’ di Paul appariva particolarmente
grave, il padre lo rinchiudeva in una stanza
vuota e toglieva la chiave.”1

“Non sono nato per essere nato”2, così ebbe a scrivere di sé, su
di sé, C.Bene. E’ a quest’infanzia, a questa condizione neonatale, al
9
Riteniamo di poter sviluppare con questa parafrasi il senso del titolo dell’ultima raccolta, peraltro
postuma, di P.C., che reca appunto il nome di Zeitgehöft. Per una spiegazione sintetica della
polisemia di questo titolo, cfr. G.Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, in P.C., Poesie, cit., p.CVIII-
CIX; Bevilacqua, dopo aver tradotto, nel 1983, con “Alone del tempo”, preferisce, in questa nuova
e più completa edizione delle poesie di C., la locuzione “Dimora del tempo”, secondo noi più
adeguata perché permette di udire il suffisso “ge”, che nella prima traduzione andava perso. Il
termine Zeithof, infatti, ricorre alcune volte nelle poesie postume di Celan, per l’esattezza tre; ed è
a questo termine che spetta il significato di “Alone del tempo”. Quello che accade nel titolo
dell’ultima raccolta, è un passaggio ulteriore: l’erezione di un recinto, la delimitazione di un
perimetro. Per una interessante illustrazione della costellazione semantica che si istituisce attorno
al titolo dell’ultima raccolta di P.C., cfr. J.Greisch, Zeitgehöft et Anwesen - La dia-chronie du
poème, in Contre-Jour. Ètude sur Paul Celan. Colloque de Cerisy, a cura di M.Broda, Èditions du
Cerf, 1986, secondo cui: “Zeitgehöft signifie un ‘present’ irrèductible aux significations de la
prèsence permanente vèhiculèes par les discours ontologiques de l’Occident, mais ègalement à la
temporalitè originaire de l’Ereignis heideggerien.” (ivi, p.183).Un presente irriducibile: forse il
presente irriducibile di un infantile immer-noch divenuto, irrevocabilmente, uno schon-nicht-mehr
(cfr. P.C., op.cit, III, p.197)?
1
I.Chalfen, op.cit., p.37. Traduz. nostra.
2
C.Bene, Opere, Milano, Bompiani, 2002, p.VII. Incidentalmente, segnaliamo le interessanti
pagine (ivi, pp.1431-1458) che G.Deleuze dedica all’analisi del lavorio d’afasia che Bene opera
sulla lingua, minorandola, sviluppandone i possibili usi minori; in particolare qui, dove si dice:
“Far balbettare il linguaggio è un’altra cosa. Significa imporre alla lingua(…)il lavorio della
variazione continua”(ivi, p.1442). Un divenir-bambino qui è rimesso in moto, mediante balbettio e
impedimento; quali divenir-bambino, invece, sono all’opera nel lallen und lallen di P.C.?

78
proprio incipit che P.C. dovette così tristemente e crudelmente
rinunciare - o meglio: così spietatamente ne fu rimosso.
Sbalzato sin da subito fuori dalla propria culla, proiettato
nell’oblio prematuro di colui al quale troppo presto si è imposto
l’ineludibile, l’immemoriale, C. stesso scrisse di sé, più tardi:
“Non sia cullato chi non ebbe ninna-nanna”.3

Il capitolo che Chalfen dedica alla testimonianza dell’incipit


amputato dell’esistenza di Paul Antschel è una rassegna breve, ma
straziante, di una Auschwitz nascosta, segreta, che solo con la
delicatezza dei testimoni - e non con certo con l’ipocrisia dei complici
- abbiamo il diritto di visitare.
Una ristrettissima abitazione, tre stanzette in cui i due genitori,
Leo Antschel e Fritzi Schrager, convivevano col padre di Leo e con le
due sorelle nubili di lui,4 fu il suo primo e in realtà unico campo di
concentramento, il lager in cui venne ripetutamente e definitivamente
soppressa la sua infanzia.
Il padre, cui un tempo era stata impartita “una dura educazione
ortodossa”5, non seppe far di meglio, come quasi sempre accadeva e
ancora troppo spesso accade, che rivivere, ripetere attraverso il figlio
quella che un tempo era stata la propria tragica esperienza; la madre, a
sua volta, cui era morta la madre quando ella era molto piccola, aveva
dovuto, fin dall’età di dodici anni, votarsi alle responsabilità che la
casa e la cura delle sorelle minori imponeva a lei, la più grande donna
di casa; una volta sposatasi con Leo - uomo per il quale tutt’al più

3
P.C., op.cit, I, p.13.
4
Cfr. I.Chalfen, cit., p.26.
5
I.Chalfen, cit., p.28.

79
provava “un sentimento materno”6- ella dovette assumere anche la
cura di questa nuova casa e dei suoi abitanti. Nonostante la sua
condizione di sudditanza pressoché totale nei confronti del marito,
autentico “tiranno in casa”7, ella riuscì almeno ad arrecare un
parziale, insufficiente sollievo al proprio bambino, così duramente
segnato dalla violenza del padre: attraverso la finestra della stanza
vuota in cui il piccolo veniva rinchiuso, ella sempre si mostrava
cercando di rassicurarlo; e più tardi, fu sempre lei, insieme alle zie, a
raccontare le prime fiabe e storie al bambino. Il padre di Paul, però,
non era d’accordo, e urlava: “Se proprio dovete raccontargli storie,
che siano quelle istruttive dell’Antico Testamento!”.8
Peccato che il padre di Paul- il padre di Paul Pessach, l’agnello
del sacrificio - non trovasse, poi, il tempo di raccontare al figlio
nemmeno quelle storie, nemmeno storie a suo dire “istruttive”. Al
piccolo Paul non restava che legarsi disperatamente alla madre, unica
testimone dell’iscrizione di morte che il padre incideva, colpo su
colpo, sul suo corpo di fanciullo.
Alcuni versi fra i più celebri di Paul Celan, versi che sono posti
a conclusione e cifra della breve raccolta Atemkristall, sembrano, pur
in quell’indecifrabilità che non dobbiamo elidere - indecifrabilità che
è piuttosto la marca, lo schibboleth sorgivo da cui sgorga la poesia di
P.C.- rivolgersi, tardivamente, alla madre :

6
I.Chalfen, cit., p.33
7
I.Chalfen, cit., p.36. La definizione di ‘tiranno’, nonché diverse affermazioni che confermano
quanto fosse dura la disciplina imposta dal padre di Celan a suo figlio, fin dai primissimi anni,
appartengono a una cugina di secondo grado del poeta, Emma Lustig, la quale così ricorda Paul da
piccolo: “Paul era un bambino molto sensibile e soffrì senza dubbio moltissimo sotto la severità
paterna”(ibidem, traduz.nostra)
8
I.Chalfen, cit., p.39

80
“In fondo
al crepaccio degli eoni,
presso
il ghiaccio dei favi
attende, un cristallo di respiro,
la tua irrevocabile
testimonianza.” 9
Un cristallo di respiro, un piccolo granello di fiato attende,
come ibernato, il momento in cui la madre – quale madre? Non
basterà in questo caso affidarci alla semplice figura di Fritzi Schrager,
la madre del poeta, il che sarebbe riduttivo - potrà, con la sua
testimonianza procreatrice, ri-generarlo, riportarlo alla vita, sottrarlo a
quei ghiacci in cui esso giace raggelato.
Quale immagine, dell’infanzia! Di quell’infanzia, aggiungiamo
subito, che può sopravvivere solo in quanto ibernata, custodita in un
luogo non più raggiungibile, in una parola: rimossa, segretata.
Essa deve sfuggire, nascondersi al sicuro, al riparo; di contro a
una minaccia di distruzione, essa deve ricorrere alla difesa estrema;
9
P.C., op.cit, II, p. 31. La raccolta Atemkristall, un vero e proprio ciclo di ventuno poesie
pubblicato in un primo momento indipendentemente, nel 1965, e poi successivamente integrato al
volume Atemwende, secondo alcuni - in particolare H.G.Gadamer - costituisce il vertice dell’opera
di P.C. In quest’ultima poesia, in particolare, emerge la centralità dello zeugen come azione
fondamentale di quel “Tu”, a cui il poeta destina i suoi versi.
Proprio Gadamer, il quale ha dedicato un intero volume a un analitico lavoro ermeneutico su
questo ciclo, lascia però nella più vaga indeterminazione il senso di questo ultimo verso, la cripta
in cui si cela la firma del poeta. Egli scrive: “Colui per il quale il ‘cristallo di fiato’ testimonia (la
‘tua’ testimonianza) sei ‘tu’, quel tu familiare e sconosciuto che per l’io - che è qui sia l’io del
poeta che quello del lettore- è il suo tu ‘ tutto, tutto reale’”(H.G.Gadamer, Chi sono io, chi sei tu,
trad. di F. Camera, Genova, Marietti, 1989, p.80). In una ricerca ermenutica come quella di
Gadamer ci sorprende la rinuncia a un maggior approfondimento dell’enigma costituito da questo
zeugen, posto in fine d’opera. Esso, come dicevamo, racchiude nella sua ambiguità la firma del
poeta: zeugen, verbo tedesco che instaura una doppia sequenza semantica: testimoniare, deporre,
nel suo uso intransitivo; procreare, generare, nel suo uso transitivo (cfr. J.Felstiner, cit., p.223).
“Dein unumstössliches/Zeugnis”, dunque, allude, con tutta la pluralità di rimandi che da questo
centro si dipartono, alla maternità come testimonianza che non si può revocare. In effetti l’evento
della maternità, della nascita, ha per eccellenza- insieme alla morte- il carattere dell’irreversibilità-
della differenza pura.

81
essa si oblia, in varie modalità si trascrive in altro da sé, fino “in
fondo al crepaccio degli eoni”. Questa trascrizione ripete
l’immemorabile iscrizione, l’indecifrabile segno della sopraffazione
che ha impresso l’impulso, per così dire, originario.
Scrive A.Miller, introducendo il libro che appunto si intitola
“L’infanzia rimossa”:

“L’unica possibilità che al neonato rimane di


aiutare sé stesso quando non si ascolta la sua
invocazione consiste nella rimozione del
dolore, che, a sua volta, comporta una
mutilazione del suo animo”.10

Una mutilazione del suo animo: siamo ancora di fronte a una


circoncisione, a uno schibboleth in forma di anello - iscrizione
indecifrabile, perché senza significato, e tuttavia ineludibile, cioè non
contrattabile in forma ludica, di gioco. Il massimo dislivello di potere
si verifica in questa incisione, in cui colui che possiede la lama - chi
ha manico e coltello - ottiene, senza possibilità di resistenza, il
risultato sperato:
“la lunga lama dell’onda d’acqua
arresterà la parola”.11
Non si tratta infatti soltanto di incidere la carne, il corpo pre-
morale del bambino - Deleuze e Guattari scriverebbero: il corpo senza
organi12- col segno della legge, del super-io, con una iscrizione che in
10
A.Miller, L’infanzia rimossa, trad. di U.Gandini, Milano, Garzanti, 1990, p.7.
11
cfr. M.Blanchot, L’ultimo a parlare, trad. di C.Angelino, Genova, Il Melangolo, 1990, p.51.
12
“Il corpo senza organi è quel che resta quando si è tolto tutto (…) è blocco d’infanzia, divenire,
il contrario del ricordo d’infanzia. Non è il bambino ‘prima’ dell’adulto (..) è la stretta
contemporaneità del bambino e dell’adulto (…): il bambino come contemporaneo germinale dei
genitori.” (G.Deleuze; F.Guattari, Millepiani, cit., II, p.8 e p.28)

82
questo senso sarebbe ancora decifrabile, riconoscibile. L’esploratore
che giunge nella colonia penale kafkiana, di fronte alla macchina che
iscrive la sentenza sul corpo del condannato, domanda all’ufficiale:
“Conosce la sua condanna?”13
La risposta dell’ufficiale è:
“Sarebbe inutile comunicargliela, la leggerà sul proprio
corpo”.14
Un corpo non può conoscere, un corpo - un bambino - non si
incide (e non si uccide) a colpi di idee, non è così che si può segnare –
e sigillare - la sua moralità, rimuovendone l’infanzia. Occorre una
crudeltà che disconosca la pura aìsthesis della presenza del corpo, che
gli corrisponda in forma di torto. Siamo nuovamente di fronte alla
paradossalità di questa forma di etica: essa si iscrive solo in quanto si
tradisce, imponendo con la forza il suo imperativo morale “sii
giusto”15: prescrizione universale che non ammette l’innocenza del
fuori-legge. Ed essa, la legge, questa forma di etica, si assicura della
sua ripetizione, della sua tradizione, proprio attraverso questa crudeltà
paradossale: im-ponendosi irresistibilmente, essa disloca sempre
altrove la resistenza che non poté essere opposta.
Uccidere il proprio vero nemico equivale a renderlo immortale,
definitivo, e in questo senso possiamo dire che l’iscrizione, uccidendo
il proprio nemico - il corpo nella sua libertà pre-morale, l’infanzia,
l’indicibile che ossessiona il discorso - lo rende immortale, e dunque
sempre ancora da uccidere.

13
F.Kafka, Tutti i racconti, trad. di L.Coppè e G.Raio, Roma, Newton Compton, 1992, p.87
14
Ibidem.
15
Ibidem, p.99.

83
Nuove crudeltà si ripeteranno inesorabili, dunque, quando quel
nemico si renderà nuovamente presente, in forma di bambino - o di
ebreo, come poté essere per Hitler:

“Come gli ebrei oramai non avevano più


alcuna possibilità di scampo, così un tempo
anche il piccolo Adolf non aveva potuto
sottrarsi alle percosse del padre, perché il
motivo di quelle botte risiedeva(…)nei
problemi irrisolti del padre stesso, nel suo
tentativo di difendersi dal lutto relativo alla
propria infanzia”.16

E’ la conoscenza che viene proscritta; la crudeltà si oppone con


forza incontrastabile al bisogno di sapere che il bambino volge come
propria domanda essenziale, incarnata; bisogno di sapere che provoca
angoscia, nel genitore il quale attraverso il bambino esperisce
nuovamente, ripetendo, la propria mancanza di sapere - la propria
mancanza di parola.
Contro quella mancanza di parola, non resta, per il genitore (per
gran parte, almeno, dei genitori), che opporre la violenza che marca il
luogo di un segreto irrecuperabile.
Questo ebbe a sperimentare Celan, quando piccolissimo si trovò
di fronte un padre che:
16
A.Miller, La persecuzione del bambino, cit., p.145. L’autrice, fra l’altro, ricostruisce l’infanzia di
Adolf Hitler e le radici della sua personalità distruttiva, documentando come le origini illegittime
di suo padre - molto probabilmente figlio di un ebreo- sia stato uno dei moventi inconsci
importanti che portarono il dittatore a dirigere il suo odio - il suo bisogno di trovare un nemico -
contro il popolo ebreo e tutte le altre categorie “deboli”. Un’affermazione di Hitler suona così:
“La mia è una pedagogia dura. La debolezza dev’essere bandita”.(cfr. A.Miller, La persecuzione
del bambino, p.127). Per quanto riguarda la ricostruzione dei dubbi natali del padre di Hitler, cfr.
J.C.Fest, cit., p.21 ss.

84
“(…)praticava una dura disciplina. Non era
affatto un uomo buono, accampava enormi
pretese su suo figlio, lo castigava, lo batteva
spesso, per ogni più piccola mancanza
infantile.”17

La sua infanzia venne molto prematuramente uccisa


-immortalata; ed egli, di conseguenza, non poté che esperire in modo
terribile la morte, sin dalla propria infanzia, con tutta l’angoscia che
quella crudeltà paterna vi aveva associato, come testimonia un’altra
cugina di Paul, Edith Hubermann, che spesso si trovava con lui a
giocare in assenza dei suoi genitori; in quelle occasioni, ella racconta:

“Paul improvvisamente urlava: ‘Ho paura, la

Morte mi viene a prendere! Io mi devo


nascondere da Lei!’ Di corsa strisciava fino
al lettino (…) e si nascondeva sotto le
coperte.”18

Un bambino non fugge mai di fronte a un pericolo che non ha


già avuto modo di conoscere; e quel bambino, che fuggiva da una
morte così terribile, doveva già aver conosciuto, sperimentato, una
morte altrettanto terribile.

II.5: “Nero latte dell’alba”. L’infanzia rimossa e quanto ne


traspare in Todesfuge.

17
I.Chalfen, cit., p.36, testimonianza di Emma Lustig, vedi supra nota 127.
18
I.Chalfen, cit., p.47, testimonianza di Edith Hubermann.

85
Alcuni anni più tardi, siamo nel 1945, una poesia che doveva
divenire la più celebre fra quelle scritte da Paul Celan - il quale intanto
aveva rimosso anche il proprio originario cognome, Antschel,
sostituendolo con il più noto pseudonimo - rievoca, nel titolo,
appunto, quell’esperienza infantile che abbiamo appena nominato:
Todesfuge, ‘Fuga di morte’, la fuga che spetta alla morte. 1 Un tema di
fuga, una linea di fuga - linea di un rimpatrio cifrato, illeggibile -
congiunge l’orrore dell’infanzia violata di Czerno-witz all’orrore,
appena manifestatosi in tutta la sua barbarie, di Ausch-witz; e ancora
le parole del primo verso di questa poesia, ci assicurano di questo
strettissimo collegamento:

“Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends” 2

Celan non aveva sperimentato di persona l’orrore dei campi di


sterminio, egli infatti era riuscito a sfuggire alla cattura nella notte in
cui furono, invece, prelevati e deportati i suoi genitori.
Ce ne riferisce così Chalfen:

1
Lunghe e dettagliate sono le pagine che J.Felstiner dedica a questa poesia, in particolare alla
difficile ricostruzione dei tempi e modi della sua scrittura. In particolare ci piace segnalare qui
l’originario titolo della poesia: Todestango, ‘‘Tango della morte’, termine che stava a indicare un
tipo di tango che realmente le SS ordinavano ai prigionieri dei campi di suonare e cantare durante
le varie marce, torture, etc. Lo stesso Celan aveva avuto modo, probabilmente, di udire questa
musica, a Parigi, quando si trovava lì nel 1939 per i suoi studi di medicina, poi interrotti per la
guerra. “Pertanto il titolo originario di Celan, ‘Todestango’, dava al suo poema il sigillo di una
chiara evidenza”(J.Felstiner, cit.,p.30). Questo titolo, che fu anche il primo con cui la poesia
apparve, in traduzione rumena, nel 1947, fu però mutato da Celan in Todesfuge, probabilmente,
suggerisce Felstiner, per evitare quella confusione fra piano del poema e piano della realtà, che
l’altro titolo contribuiva ad alimentare (Celan, in effetti, non era mai stato prigioniero di un lager,
non aveva mai dovuto suonare o cantare il Todestango; il termine ‘Fuge’, poi, meglio indicava il
ritmo che i versi intendevano simulare, la velocità e la cadenza particolare di questa poesia.).Cfr.
J.Felstiner, cit., p.26-30.
2
P.C., op.cit, I, p.41. Versi così celebri non abbisognerebbero di traduzione, che però rendiamo
così: “Nero latte dell’alba ti beviamo a sera”.

86
“Quando venne (…)l’ora del coprifuoco,
Paul decise di agire senza l’adesione dei
genitori. Andò via da solo ed era ancora
speranzoso, che essi lo avrebbero seguito nel
nascondiglio. Essi, invece, non vennero.
Quando Paul la mattina presto volle
rimettere piede nella casa dei genitori, trovò
la porta d’ingresso sigillata: i genitori erano
stati deportati.”3

I genitori erano stati deportati e sterminati, come molti degli


ebrei, riuniti nella comune sorte dell’Olocausto, del “brucia-tutto”
come lo chiama Derrida.4
Eppure egli, che non aveva direttamente sperimentato
l’inimmaginabile che pure si era scatenato ad Auschwitz, seppe
descriverlo - meglio sarebbe dire: tradurlo, ossia condurlo attraverso le
lingue, da una lingua all’altra, per salvaguardarne la leggibilità - in un
modo così preciso, così rigoroso e intenso, che Todesfuge, oltre a
essere divenuto il più celebrato dei suoi poemi, può essere a ragione
definito: “la Guernica della letteratura europea del dopoguerra”.5
3
I.Chalfen, cit., p.120. Paul aveva cercato in ogni modo di convincere i genitori a seguirlo in un
luogo dove avrebbero potuto nascondersi, per quella notte in cui si temeva la possibile
deportazione; e fu grazie a quel nascondiglio, che egli si salvò. La sorte dei genitori fu diversa.
Essi furono deportati di campo in campo fino a che non morirono entrambi, poco tempo dopo. La
lirica Schwarze Flocken, ‘Fiocchi neri’, scritta proprio non appena appresa la notizia della morte
del padre, ci riporta in modo molto esplicito a quella che dovette essere l’esperienza personale del
poeta, di fronte a quella scoperta (cfr. P.C., op.cit, III, p.25, e J.Felstiner, cit., p.18-21).
4
Cfr. J.Derrida, Schibboleth, trad. di G.Scibilia, Ferrara, Gallio, 1991, p.65, dove si rileva, fra
l’altro, un punto che ci pare fondamentale, e che con coraggio il pensatore francese sottolinea:
“c’è certamente oggi la data di quell’olocausto che sappiamo(…)ma c’è un olocausto per ogni
data, e da qualche parte del mondo a ogni ora.” Non si tratta di rivedere, sminuendola,
l’importanza di quella data; si tratta, al contrario, di sottrarvi l’importanza, quel valore
assolutizzante, affinchè essa non diventi quella che Derrida chiama “la cripta assoluta” (ibidem),
in rischio d’illegibilità, d’amnesia. Bisogna guardarsi dall’oblio, certo; ma non anche dagli eccessi
della memoria? E quale memoria è davvero appropriata, corrispondente, all’Olocausto?
5
Cfr. J.Felstiner, cit. p.26, trad. nostra.

87
Come poté, chi quei campi non aveva mai visitato, renderne
così palese, immaginabile al di là e al di fuori di ogni
rappresentazione, l’essenza, e in modo così tempestivo - in pratica
quando l’orrendo genocidio era stato appena scoperto, svelato? Come
poté, senza averla già conosciuta, l’essenza del lager, in prima
persona?
Primo Levi, che invece i campi di sterminio sperimentò, e
lungamente, di persona, ebbe a dire, a proposito della poesia di P.C.:

“questa tenebra che cresce di pagina in


pagina, fino all’ultimo disarticolato balbettio,
costerna come il rantolo di un moribondo, e
infatti altro non è. Ci avvince(…)ma insieme
ci defrauda di qualcosa che doveva essere
detto e non lo è stato”.6

Primo Levi, appunto, aveva conosciuto da vicino e in modo


molto drammatico la vita nei campi di sterminio; egli, partendo dal
presupposto che Celan, in quanto ebreo e in quanto figlio di genitori
uccisi dai nazisti, non potesse astenersi dalla centralità del tema della
Shoah - meglio: dal dovere di farne il perno della propria opera -
6
P.Levi, L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985, p.53. Forse queste pagine di Primo Levi,
grandissimo testimone dell’Olocausto, sono in un certo senso una significativa indicazione che ci
permette di svincolare la poesia di Celan dall’interpretazione che la riferisce senz’altro al fatto-di-
Auschwitz, al resoconto dello sterminio. In effetti l’oscurità della poesia di C., come scrive Levi, è
tale che della sua poesia si può dire che “non è una comunicazione, non è un linguaggio, o al più è
un linguaggio buio e monco”(ibidem). Essa, la sua poesia, infatti, non intende informarci di un
fatto - come si potrebbe dire, invece, dei romanzi di P.Levi. Piuttosto, essa trascrive una
condizione, quella in cui comunicare è impossibile in quanto è la parola stessa, a mancare; essa
assume su di sé, come una ferita, questa mancanza di parola, l’indecifrabilità, mostrando con
parole ferite la resistenza, che vi corrisponde. Essa, la poesia di Paul Celan, davvero fa i conti con
quanto non può dirsi, a partire da quanto egli, di se stesso, non può dire. Essa ci defrauda di
qualcosa, dice Levi. Forse della nostra sicurezza che ogni cosa possa essere sempre e comunque
riportata all’ambito del dicibile, al comunicabile?

88
riteneva indubitabilmente che il luogo dell’opera poetica di Celan non
potesse che essere Auschwitz. Ne consegue che lo “scrivere oscuro”
di Celan, dal punto di vista di Levi, rischierebbe addirittura di rendersi
complice, in quanto autoritario e preclusivo, con gli assassini.
Tu devi render conto - anche dell’inesplicabile, questo sembra
dire Levi; questo sembrano dire, in altra forma, anche tutti coloro che
decifrano così chiaramente, linearmente, il testo di Celan - Todesfuge
come l’intera opera del poeta - come una conseguenza di Auschwitz,
una sua effettuazione, in forma di descrizione o di contestazione
cifrata.
L’idea, piuttosto diffusa nella letteratura critica riguardante
Celan, si richiama al noto verdetto di Adorno, secondo cui dopo
Auschwitz scrivere poesie sarebbe barbarico:7

7
Cfr. T.W.Adorno, Kulturkritik und Gesellschaft (I. Gesammelte Schriften. Band 10.1.), a cura di
Rolf Tiedemann, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1998, p. 30:“nach Auschwitz ein
Gedicht zu schreiben, ist barbarisch”.Disponiamo di una risposta inequivocabile che C. diede al
veto di Adorno: “Nessuna poesia dopo Auschwitz(Adorno): ma qui cosa si intende per ‘poesia’?
La boria di ciò che si sottintende ipoteticamente - speculativamente raccontare o considerare
Auschwitz dalla prospettiva degli usignoli – o dei tordi.”(cfr. C. Miglio, cit., p.24, che traduce così
questo appunto di Celan, relativo ai materiali preparatori di Atemwende). La poesia che Auschwitz
dovrebbe prescrivere, per Celan, è piuttosto, se ne deduce, quella che pretende di narrare
Auschwitz, o peggio ancora, di descriverlo con metafore che lo trasfigurino, riconducendone la
tragedia a una melodiosità piacevole, conciliante.

89
“Contro questo verdetto, Celan ha lottato
tutta la vita, fino a che la follia e il desiderio
di morte non hanno preso in lui il
sopravvento sulla speranza di riuscire a
compiere(…)la trasformazione dell’orrore
puro in immagini del linguaggio”.8

Fu davvero questa la speranza di Paul Celan, ammesso che egli


ne avesse una? Se anche gli fosse riuscito di trasformare in linguaggio,
di riportare alla dicibilità e al testo quanto Auschwitz aveva
manifestato di indicibile, questo non sarebbe stato, davvero, rendersi
complici dell’abominio, della sua spettacolarità? De-criptare la
violenza con cui la Legge, sia pure una legge terrificante e crudele, si
era imposta, renderla dicibile, comprensibile, in fin dei conti - davvero
obliabile?
Perché è tale la Legge – crudele - per rendersi, piuttosto,
memorabile: tale da dover essere sempre ri-memorata, tale che la
resistenza, che vi si opponga, debba sempre riscontrare la propria
insufficienza: l’insistenza che è tipica e indispensabile
dell’indecifrabile sempre reclama il pensiero e sempre lo respinge,
custodito in quella eccedenza, in quella restanza di corpo, che è come
la bottiglia del suo messaggio:

8
M.Pezzella, Le voci di Celan, in Narcisismo e società dello spettacolo, Roma, Manifesto libri,
1996, p.137.Ci sembra opportuno segnalare, però, la condivisibile conclusione a cui giunge
Pezzella: “Le poesie di C. sono (…)inassimilabili e la loro volontà di resistere non meno feroce
della volontà distruttiva dei persecutori(…)Lo slittamento continuo che C. opera tra passato e
presente(…) è la ragione non ultima dello scandalo e dell’incomprensione che esse non cessano di
suscitare”(ivi, p.140)

90
“La poesia può(…)essere un messaggio in bottiglia”9, ebbe a
dire C.
Insistenza e resistenza di un monologo, che solo nella sua
prospettiva infinita accetta la possibilità, il rischio, l’in-conveniente
del dialogo: occorre dunque murare, dunque, la quarta parete del
teatro, per rendere eterno e dunque veramente effimero - segno capace
di marcare la data - quanto viene detto, il cui non-detto ne viene
appunto custodito, tenuto in serbo per quel lettore-ascoltare che gli
(a)spetta.
Mille e mille volte, dunque, la poesia di Celan ripete, interpella
nuovamente, quell’istante di passaggio ormai irrecuperabile, della
nascita, di tutte le nascite: evento eticamente rilevante, incisione sulla
sua vita - biografia nel senso più cruento- che ne partorì come un
dovere la scrittura, come il dovere della forma, come l’esigenza e la
responsabilità di un voler-dire:

“Dalla malattia subita alla pato-logia esibita:


eccessi e difetti energetici che cominciano a
discorrere, solitudine del bambino solare che
reclama una forma visibile e udibile”. 10

Eppure questo bambino che reclama una forma, non si appaga


di una forma, non declina in una forma; il suo reclamo, l’appello
9
P.C., op.cit, III, p.186. Non si sbaglierà mai a sottolineare questa importante indicazione: un
messaggio in bottiglia, il messaggio di un naufrago, dunque ben altro che una lettera (magari
rubata).Non si tratta di un testo segretato, pur essendo posto sotto gli occhi di tutti, perché tutti si
provino a scovarlo; si tratta, invece, di un testo che non può neppure essere cercato, di una scrittura
irreperibile: esso, piuttosto, può trovarci, attirare all’improvviso la nostra attenzione mentre
distrattamente osserviamo il mare, seduti su una scomoda scogliera. La ricerca che ne facciamo è
solo un sintomo, l’evidenza del nostro esserne in mancanza, dell’indisponibilità in cui siamo: fuori
testo.
10
F.Nobili, Gesicht Gedicht Genicht (In memoria di Paul Celan)- E mi presero gli occhi,
documento web disponibile sul sito www.eliogabalo.org, 1994.

91
dell’informe, insiste come tale, non ci appare ancora ascoltato, non ci
consente di esaurire il suo scandalo in nessuna delle nostre “lingue
illustrate”.

“Sostituite l’anamnesi con l’oblio,


l’interpretazione con la sperimentazione”11

Così scrivevano Deleuze-Guattari, esortandoci a spingere il


pensiero oltre i rigori di una logica autoritaria e repressiva; ed è
davvero questo che dobbiamo fare, ponendoci nell’ascolto delle
poesie di Paul Celan: evidenziarne le linee di fuga, liberarne le
indeterminazioni sottraendole a ogni pretesa definitoria, amputarne gli
eccessi di significazione per mostrarne, piuttosto, le potenzialità
rimesse all’oblio, l’appello che essa - la poesia di C.- muove alla
nostra capacità di dimenticare, ma di dimenticare realmente: ri-
muovere, ma per non ri-petere. Ciò che può darsi solo a partire da una
e-mozione: movimento che parte da un punto e inesorabilmente, senza
ricadute, se ne allontana. Pura sorgività, creatività che non accetta
ripensamenti, che resiste nella sua innocenza.
Quale linea di fuga, dunque, si presenta nella poesia Todesfuge,
in virtù della quale, quindi, sfuggiamo alla definizione di questa
poesia - e della poesia di Celan - come poesia di Auschwitz?

II.6: Da Auschwitz a Czernowitz. Schibboleth: l’intraducibile che


dà diritto a passare.

Il primo verso nomina lo “Schwarze Milch der Frühe”,


immagine del latte, del latte d’alba, d’inizio.
11
G.Deleuze; F.Guattari, Millepiani, cit., vol.II, p.7.

92
Immagine di cui non deve sfuggirci la tragicità, la distruttività
che le è intrinseca: l’esordio della poesia che nomina - non diremo:
descrive- Ausch-witz, ci mette di fronte a qualcosa che non siamo
neppure disposti a figurarci: del latte, ma nero.
Quale madre darebbe a un bambino del latte nero? Felstiner ci
riferisce dell’interpretazione che lo psicanalista B.Bettelheim diede di
questo “latte nero”: “immagine di una madre che distrugge il suo
bambino”.1
L’immagine di una madre che distrugge il suo bambino,
l’immagine di un infanticidio: siamo ancora ad Ausch-witz? Vi siamo
mai stati, in verità? Vi potremmo mai essere? Piuttosto siamo tradotti
altrove, verso un luogo diverso e più sconosciuto, deportati a nostra
volta: ancora nel Witz di un motto di spirito, dove la compresenza di
un latte- che nutre - e di un nero - che allude alla morte - ci costringe a
vedere, per così dire, attraverso il buco del nostro paiolo: a meno che
non vogliamo rischiare di comportarci come il protagonista della
storiella di Freud, che pur di detenere comunque “la ragione”-
giustificando in qualche modo il buco della pentola - era disposto ad
adottare come validi argomenti fra loro contrastanti.2
Noi non vogliamo cadere nel sofisma di questo personaggio -
provvisorio e alquanto imbarazzato detentore di una pentola di rame
bucata, la cui esistenza si traduce nel tentativo di esonerarsi dalla
responsabilità di quel buco, ovvero di tapparlo; piuttosto, ci gettiamo
1
Cfr. J.Felstiner, cit. p.34. La citazione originale è in Bruno Bettelheim, Surviving and other
essays, New York, 1979, p.98-99, 103-105, 110-11.
2
Ci riferiamo alla storiella del paiolo bucato, cfr. S.Freud, Opere 1886/1905, cit., p.1082. Vi fa
riferimento anche J.Derrida, in Il fattore della verità, trad. di F.Zambon, Milano, Adelphi, 1978,
p.106, con riguardo al c.d. “fallogocentrismo” che presidierebbe il pensiero e l’opera di Freud.
Esso, sostiene Derrida, “non ha una ragione: esso è la ragione. Prima, durante e dopo Freud.
(…)Nella c.d logica ‘del paiolo’, la ragione avrà sempre ragione.(…)Essa si intende dire ciò che
non può intendere”.

93
in quel buco come in dantesca natural burella - ma nel verso opposto -
seguendo tutto il percorso di quel Witz - da Ausch-witz a Czerno-witz,
lungo una scia segnata di latte nero.
Lungo questa scia, certo, incontriamo una poetessa, Rose
Ausländer, che Celan conobbe nel 1944 e che già da molti anni, in una
sua poesia, aveva adottato l’immagine dello “schwarze Milch”3 ; ma è
più in là che siamo richiamati, lì dove giace “Il solo segreto” che “si
immischia per sempre nella parola”4. Ancora una volta l’eterno, che,
dicevamo, deve diventare passeggero, deve avere il diritto di passare,
di condursi altrove, di trascriversi oltre una dogana, che è quella che
separa un sì rassegnato e perdente da un no, che dovette essere
impedito, con le sopraffazioni di cui sappiamo fu costellata l’infanzia
di Paul Celan.
Si tratta del diritto di passare:

“Bisogna proprio pronunciare schibboleth


per avere il diritto di passare, in verità il
diritto alla vita”5.

Nel libro dei Giudici, infatti, leggiamo:

“Quando uno dei fuggiaschi di Efraim


diceva: <<Lasciatemi passare>>, gli uomini
di Galaad gli chiedevano: <<Sei un
Efraimita?>> Se questi gli rispondeva:
<<No>>, i Galaaditi gli dicevano: “Ebbene,

3
Cfr. I.Chalfen, cit., p.133, dove è riportata la testimonianza della Ausländer, orgogliosa di aver
contribuito così alla genesi di Todesfuge.
4
Sono versi tratti da una poesia di Fadensonnen, ‘Soli di filamenti’, in P.C., op.cit, II, p.146.
5
J.Derrida, Schibboleth, cit., p.9.

94
dì Schibboleth>>, e quegli diceva:
<<Sibboleth>>, non sapendo pronunciare
bene. Allora lo afferravano e lo
uccidevano.”6

Celan pronuncia questa parola, Schibboleth, in due poesie, di


cui riproduciamo di seguito alcune strofe, le più indicative:

SCHIBBOLETH7
Assieme alle mie pietre,
quelle su cui piansi senza sosta
dietro le sbarre,

mi trasciranono
nel mezzo del mercato,
fin là,
dove si srotola il vessillo, su cui io
non pronunciai alcun giuramento.

(…)

Cuore:
fatti riconoscere anche qui,
6
AA.VV, La Sacra Bibbia, cit., Giudici, 12, 5-7.
7
P.C., op.cit, I, p.131. Questa poesia è inserita nella raccolta “Di soglia in soglia”, che nomina un
confine, più d’uno anzi, già nel titolo. Tutto un dinanismo, una molteplicità in movimento, lotta
qui con la minaccia che quelle soglie, quegli orifizi, improvvisamente si chiudano,
interrompendone il flusso.
Una certa difficoltà di traduzione presenta il verso forse fondamentale: “Ruf’s, das Schibboleth,
hinaus/in die Fremde der Heimat”, che qui abbiamo tradotto con una certa - necessaria, peraltro-
libertà, intendendo lo schibboleth come la marca differenziale che il poeta invita a pronunciare, per
distinguere l’estraneo dall’amico. Non a caso il verso immediatamente successivo a questo nomina
Erich Einhorn, compagno di studi e di passione politica di Celan negli anni precedenti alla guerra.
Molto diversa è la traduzione di questo verso offerta da Bevilacqua: “Gridalo, lo
Schibboleth,/nella patria estraniata”.

95
qui, nel mezzo del mercato.
Gridalo, lo Schibboleth, avverso
gli estranei nella tua patria:
febbraio. No pasaran.

IN UNO8
Tredici febbraio. Alla soglia del cuore
ridestato Schibboleth. Con te,
Peuple
de Paris. No pasaràn.

Innanzitutto, i titoli, ovvero il termine a quo, la nascita: giacché


è appunto in direzione della nascita, che muoviamo, a ri-muoverla.
Allo schibboleth nominato con funzione di titolo nella prima
poesia, quasi a volerlo contrassegnare come l’origine, il ritornello che
fa da centro di gravità e da asse normativo dei versi che ne seguono, si
passa al secondo titolo, successivo di qualche anno: qui lo schibboleth
è rimosso dal titolo, dove al suo posto viene pre-posto l’uno, l’unità.
“In Eins”, al di là di tutti gli affannosi tentativi di traduzione, ci
riporta di fronte a un’espressione fondamentale della poesia di Trakl:
si tratta dell’unica parola tipograficamente spaziata, in tutta l’opera di
questo poeta: “Ein Geschlecht”9. La parola sottolineata da Trakl è
8
P.C., op.cit., I, p.270. I quattro versi che ci limitiamo a riportare possono sensatamente essere
definiti uno dei capolavori dell’opera di Celan: la pietra miliare dell’indecifrabilità trascritta, il
perno attorno a cui gira tutta la Celan-frage. In questi versi, il poeta nomina più volte la cifratura
che occlude il passaggio, e che allo stesso tempo viene invocata come ciò che solo può consentirlo.
E’ in questo senso che intendiamo occuparcene.
Qui in nota - dove un flusso sotterraneo al testo continuamente lo smargina, esibendone la povertà,
le innumerevoli mancanze che lo giustificano - possiamo soltanto far presente come quattro lingue
vengono nominate da Celan in questi pochi versi. “Il quadrante di un sigillo”, così lo definisce
Derrida (J.Derrida, Schibboleth, cit., p.36); o anche, e non senza differenza, la quadratura
dell’anello - di una parola data, data nel modo più autentico - in quanto se ne dona la mancanza.
9
Cfr. G.Trakl, cit.,p.218-219.

96
proprio “Ein”. Qui l’espressione di Trakl ci pone di fronte all’unità
destinale della stirpe: il pensiero di Heidegger, che anche stavolta si
(ri)muove in maniera conciliante nell’esegesi del poema di Trakl, così
interpreta questo passaggio:

“L’unità di quest’una stirpe nasce


dall’impronta che(…)compone la discordia
delle stirpi unificandola nella mitezza della
duplicità”.10

Dunque un’unità, un gesto riunitivo, la tregua in cui i due fronti


opposti riscoprono la loro armonia, condividendo la medesima
frontiera. E’ di questo tipo l’”In eins” di Celan? Possiamo dirne
questo, che esso invoca l’unità di un popolo, il superamento di una
discordia nel nome di un segno comune - magari della comunità di
coloro che sono in grado di pronunciare lo schibboleth?
In queste due poesie, in effetti, quasi riecheggiando
l’interpretazione “ortodossa” di Todesfuge, che la riconduce sic et
simpliciter al fatto-di-Auschwitz, non è impossibile riscontrare
indicazioni, come dire, politiche, di appartenenza politica, che
assegnerebbero Celan a un preciso schieramento. Per esempio:

“Lo Schibboleth gridato da Celan va letto


(…)come appello a costituire l’unità di
quelle forze che credono in una vita libera e

10
Cfr. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A.Caracciolo, Milano, Mursia, 1973,
p.77. Corsivo nell’originale. Su questo passaggio del Denkweg di Heidegger, in particolare con
riferimento al problema di questo Geschlecht, alla polisemia di questo termine, e alla maniera con
cui Heidegger si sforza di riportarla a un unitarietà che ne prescrive il valore differenziale, cfr.
J.Derrida, La mano di Heidegger, a cura di M.Ferraris, Bari, Laterza, 1991, p.61-79.

97
umana”.11

In realtà nel confronto con l’opera di Celan dobbiamo guardarci


sempre da interpretazioni troppo letterali, non basterà mai ripeterlo; e
quanto a questa in particolare, ci basterà ricordare quanto Celan
rispose a un’inchiesta del settimanale “Der Spiegel”, che, proprio nel
1968, aveva interrogato vari intellettuali sulla inevitabilità storica di
una rivoluzione.
La risposta di Celan suonò così:

“Io spero ancor sempre(…)in una svolta.


Non potrà essere generata da sistemi proposti
in cambio, e la rivoluzione(…)è pensabile
solo a partire da quella [svolta]. Essa
inizia(…)a partire dal singolo individuo”.12

Il fatto è che quando Celan, o anche Trakl, nominano l’unità,


essa non è affatto l’unità dell’anima bella, in cui tutte le differenze
possono convivere in splendida e incruenta armonia. Siamo piuttosto
di fronte a una potenza di selezione, che distrugge l’unità dell’anima
bella, gettandola nel caleidoscopio delle differenze: non un certo,
commemorabile, 13 febbraio (quello del 1962, o altri ancora
anniversari possibili), ma il 13 febbraio di ciascuno di noi, di ciascun

11
De Lugnani, S., Il 13 febbraio di P.C., in “Nuova corrente”, 79-80, 1979, pp.447-500. Si tratta di
un’interpretazione tutta marxista dell’opera di Paul Celan. Ma Celan non fu mai marxista, anche
negli anni giovanili in cui il suo orientamento politico poteva essere avvicinato a idee che oggi
identificheremmo come “di sinistra”. Come ci riferisce Chalfen, egli trovò la lettura de “Il
capitale” e del “Manifesto”, nonché delle opere di Engels, piuttosto noiose(cfr. I.Chalfen, cit.,
p.63-64); il suo interesse si volse sempre verso i testi dell’anarchismo, in particolare verso
Kropotkin e Landauer, come ricorda lo stesso Celan in Der Meridian (cfr. P.C., op.cit, III, p.190).
12
P.C., op.cit, III, p.179.

98
giorno; non un certo Olocausto, ma l’Olocausto che ogni data, ogni
nome comporta, manifesta.
La ripetizione, lo affermò Deleuze, “non è la generalità”13, non
scaturisce dall’annullamento delle differenze; essa piuttosto si produce
attraverso la più potente affermazione di una singolarità: in Eins,
nell’unità di una affermazione che pone la differenza come tale.

“Non aggiungere una seconda e una terza


volta alla prima, ma portare la prima volta
all’ennesima potenza”14.

La mente ne è in terrore; essa vorrebbe impedirla, trattenerla,


riportarla alla ragione, arrestare la differenza e sottoporre la
ripetizione al regime della generalità, ma “è il cuore l’organo
amoroso della ripetizione”15.
Proprio il cuore, dunque. Nominato, assieme allo schibboleth, in
entrambe le poesie. Altrove, invocato così:

“Il cuori-
forme cratere
testimoni nudo per gli inizi,
le nascite
regali.”16

E’ questo l’appello che Celan volge al suo cuore in Atemkristall


- il cuore a forma di cratere, come un pozzo di cui non si vede il

13
G.Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p.7
14
G.Deleuze, ivi, p.8.
15
ibidem
16
P.C., op.cit, II, p.29.

99
fondo, e che tuttavia deve e può testimoniare per gli inizi, per le
nascite (non è da trascurare, qui, l’uso del plurale per intensificare la
singolarità che qui viene affermata. “Le nascite” marca qui,
inequivocabilmente, la ripetizione dell’irripetibile. E’ verso di essa che
punta il suo mirino - il suo Sprachgitter, il suo reticolo ottico di
linguaggio- il poeta. Fa segno, ci mostra, essendone in mancanza, le
sue in-fanzie ).

II.7: Il passaggio cifrato. L’accesso sbarrato all’in-fanzia di Paul


Celan.
Come si attua, nella poesia di Paul Celan, questa testimonianza
del cuore?
Assumendo su di sé l’indecifrabile, è quanto cerchiamo di dire.
Cifrando il passaggio, per renderlo possibile: per consentirlo, ma non
a chi sia in possesso di tutte le chiavi- il quale, semplicemente,
distruggerebbe il passaggio, lo sigillerebbe per sempre - piuttosto, a
colui il quale semplicemente passi, perché le cifre in questione
combaciano perfettamente con le sue, come la combinazione di una
serratura combacia, senza problemi, con la sua chiave.
Di quali cifre parliamo?
Sinteticamente, nei primi quattro versi della poesia “In Eins”- e
si tratta appunto di soli 4 versi - sono nominati:
- Il numero 13, una cifra in senso proprio.
- Il 13 febbraio, la cui ricorsività è cifra di ogni sorta di
anniversario possibile o reale. Lo stesso febbraio, come possiamo
facilmente osservare, ricorre già in entrambe le poesie in cui si
nomina lo schibboleth.1
1
Seppure volessimo limitarci a decifrare questa data - il 13 febbraio - ci troveremmo di fronte a
una firma, che come tale è unica, singolare, e pertanto custodisce la sua verità selezionando in

100
- La soglia del cuore, figura, se vogliamo, di tutta la poesia
in quanto poesia che nomina il passaggio - lo schibboleth, il diritto
di passare.
- Lo schibboleth stesso, “la cifra della cifra, la
manifestazione cifrata della cifra come tale”2, il che ci consente
appunto di de-cifrare l’indecifrabilità di queste cifre e di poterle
riconoscere come tali - come ciò di cui siamo in mancanza.
- Il “peuple de Paris”, ove si nomina un’identità collettiva
in realtà singolarissima e non più ripetibile - come tale quindi
proiettata nella ripetizione pura propria a ognuna di queste cifre.
- L’espressione no pasaran, che certo riprende il motto
antifascista dei repubblicani della guerra di Spagna degli anni ’30-
e lo ritroviamo infatti richiamato in entrambe le poesie - ma che
pure contrassegna un a-poria, un passaggio sbarrato, quindi,
perlomeno un passaggio che pretende di selezionare coloro che
hanno il diritto di attraversarlo - ancora uno schibboleth: chi non sa
pronunciarlo, muore.
- E ancora, le quattro lingue adottate in questi quattro versi:
il tedesco, l’ebraico, il francese, lo spagnolo, e soprattutto il
rapporto in cui esse stanno fra di loro: firma a mo’ di Babele, essa è
sigla della singolarità del gesto poetico di Celan. Qualsiasi

maniera molto efficace i suoi interpreti. Derrida suggerisce che il 13 febbraio in questione possa
essere il 13 febbraio 1962, data in cui un milione di parigini assistono ai funerali delle vittime del
massacro compiuto dall’OAS al metrò di Parigi(cfr. J.Derrida, Schibboleth, cit., p.40). De Lugnani
è d’accordo con questa interpretazione(cfr. S.De Lugnani, cit., p.495); non così invece Pöggeler, il
quale ritiene ugualmente possibili altre attribuzioni, per es. con riferimento ai giorni del febbraio
1934 - fra cui anche il 13 - in cui il popolo viennese si sollevò contro il nazismo, oppure con
riferimento a una qualche data privata di Celan, di cui non siamo a conoscenza(cfr. Ö.Pöggeler,
cit., p.88-89). L’affermazione che Pöggeler pone, comunque, a chiusura della nota n.25 a p.411, ci
sembra esprimere una precisa opinione dell’autore: “Anche nella poesia ‘In Eins’ Celan rimane un
poeta di una terra, la Bucovina, una volta facente parte del regno austriaco, luogo che
innanzitutto nomina lo schibboleth “13 febbraio””.
2
J.Derrida, Schibboleth, cit., p.42.

101
traduzione, non potendo trasporre quel peculiare rapporto fra
lingue, lo perde, lo de-cifra, letteralmente. Lo straniero - lo
straniero a queste lingue così criptate - non passa.
Quanto siamo venuti elencando, le molteplici cripte che serrano
l’enigma celaniano impedendovi l’accesso agli estranei, deve tuttavia
ritenersi solo un elenco frammentario, inconcluso. Volutamente
inconcluso, perché mentre la individuavamo, la cifra - la firma- si era
già spostata altrove, rendendosi illeggibile.

“Per funzionare, cioè per essere leggibile,


una firma deve avere una forma
ripetibile(…)E’ la sua medesimezza che,
alterando la sua identità e la sua singolarità,
ne divide il sigillo”.3

Ma questo è quanto abbiamo tentato di fare noi: tentare di


estorcere al testo la sua firma, in realtà un qualche contrassegno
leggibile, che però non è già più, mentre lo scriviamo, la cifratura
originale, che resiste anche a queste nostre molto frammentarie,
limitate, esteriori prensioni.
Noi, che non siamo in possesso di quella cifratura, non
possiamo che esserne gli esclusi, coloro a cui il passaggio di soglia è
precluso. In continua tentazione di commettere un furto, di sottrarre
con varietà di artifizi la combinazione, che però è messa lì per
resisterci: resistenza che fa da guardia, che salvaguardia
l’indecifrabilità della soglia.

3
J.Derrida, Margini della filosofia, , a cura di M.Iofrida, Torino, Einaudi, 1997, p.422.

102
Essa non può essere passata, eppure deve poter essere passata.
Da chi?
In realtà la nostra disperazione di fronte alla condizione di
esclusione in cui ci troviamo, quando ci poniamo di fronte alla
rocciosa resistenza che la poesia di Celan oppone a ogni nostro
tentativo di decifrarla, è proprio l’unico mezzo di cui disponiamo, per
entrare davvero in contatto, con questa poesia, o meglio: con l’in-fante
poeta, che in essa (non) parla, parla in forma di passaggio sbarrato.
Egli assume su di sé, abbiamo detto, l’indecifrabilità che fu
propria alla violenta iscrizione che il suo corpo, infante innanzitutto
anagraficamente, dovette subire, inizialmente, nelle modalità di cui
abbiamo detto. Egli non poté decifrare quella violenza, poté solo
resistervi; e noi, noi possiamo solo insistere, rimuovere a nostra volta,
disconoscere la realtà di ciò che leggiamo - che è tutt’uno con la sua
illeggibilità, “unlesbarkeit dieser/ Welt”4 - oppure renderci conto che
quel passaggio, quella criptazione esclude, per sempre, anche noi,
come escluse, innanzitutto, quel bambino.
Solo così forse giungiamo, ma tardivamente, a essergli
compagni nell’attesa, la sua attesa, quando dinanzi a quella soglia -
alla soglia della Legge - egli dovette sentirsi dire, infine, come Kafka:

4
P.C., op.cit, II, p.338: “Illeggibilità di questo mondo”.

103
“Nessun altro poteva entrare da qui, questo
ingresso era destinato soltanto a te. Adesso
me ne vado e lo chiudo”.5

E l’irripetibile, da cui restiamo- come in fondo Celan - esclusi


per sempre: la nostra in-fanzia, che se potesse, attraverso Celan,
ritrovare almeno in parte le parole, parlerebbe pressappoco così -
segnata da voglie, punteggiata di mistero:

“LO CAVALCAVA LA NOTTE, era tornato a sé,


il grembiule da orfanello per vessillo,

più nessuno sbandamento,


lo si montava a forza –

E’, è come se stessero sul ligustro le arance,


come se costui, cavalcato così, null’altro
indossasse se non la sua
prima,
segnata da voglie,
punteggiata di mistero,
pelle. 6

5
F.Kafka, “Vor dem Gesetz”, trad. italiana “Dinanzi alla legge”, in F.Kafka, Tutti i racconti, trad.
di L.Coppè e G.Raio, Roma, Newton Compton, 1992, p.112-113. Lo stesso Celan, profondo
conoscitore e amante dell’opera di Kafka, aveva tradotto questo racconto, in lingua romena:
rimandiamo per questo a P.C., Scritti rumeni, a cura di M.Mincu, trad. di F. Del Fabbro, Udine,
Campanotto, 1994, p.60-61.
6
P.C., op.cit., II, p.234.

104
CAP.III - COGITO PER UN IO DISSOLTO.
SE INFINE GLI AUTOMI FALLISCONO.

“…bisognava necessariamente che io che la pensava,


fossi qualche cosa.”7

7
R.Descartes, Discorso sul metodo, a cura di E.Gilson e E.Carrara, Milano, Fabbri, 1996, p.84.
Più volte, nel corso del suo Denkweg, Heidegger affronta in modo critico il nodo fondamentale che
l’”ego cogito” cartesiano rappresenta per la storia della metafisica. Già in Essere e tempo, cit., in
più punti e in particolare nel §6(p.43), leggiamo: “Col cogito sum, Cartesio pretende di porre la
filosofia su basi nuove e più sicure. Ma ciò che questo suo inizio <<radicale>> lascia
indeterminato è(…)il senso dell’essere del sum”(evidenziature nell’originale). Ancora, in Saggi e
discorsi, leggiamo: “L’ego cogito, per Cartesio, è in tutte le cogitationes il già rappresentato e
prodotto, ciò che è presente e non è problematico”.(M.Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di
G.Vattimo, Milano, Mursia, 1976, p.47, corsivo originale). E’ la temporalità come senso
dell’essere del sum, heideggerianamente - ma prima ancora, kantianamente - quanto di irrisolto e
non problematizzato Cartesio sottintende. Come mostra lo stesso Heidegger, l’imposizione insita
nella determinazione speculativa dell’io come “ego cogito” ha radici molto più antiche e,
diremmo, tragiche, di una pura mancanza del pensiero; è proprio l’in-fanzia, in quanto potenza
sorgiva e ri-creativa di ogni divenire dell’uomo, a essere sottratta all’ego cogitante, così concepito.

105
“Urta, / urta per sempre.//
Nell’insidia della soglia.//
Contro la porta, sigillata./
Contro la frase, vuota.”8

III.0: La poesia come soglia. Un passaggio per Nessuno.

Di fronte a una soglia, quindi. Come compagni, resistendo,


desistendo, poi, insieme al poeta, dinanzi all’accesso, sbarrato, a
quella soglia, condividendo il peso dell’indecifrabilità, che essa gli
oppone, e così, di soglia in soglia, at-tratti e dis-tratti dallo srotolarsi
della Legge, di fronte a noi. Definitività di un dado di soglia, che fu
tratto.
Legge che si è fatta soglia, passaggio cifrato; essa chiede,
reclama il sacrificio. Passare è possibile, anzi, come leggiamo in
Kafka, passare è nostro diritto, e quella porta è lì, aperta, accessibile,
solo per noi.
Per noi, ma per noi chi? Chi è che può ancora dire noi, o anche
solo dire Io, scandire il proprio nome? Come mi chiamo, o meglio,
come mi chiamano?
In verità, lo abbiamo detto, non è da tutti e forse è di nessuno,
la possibilità di attraversare questa porta. Bisogna, come l’Ulisse
prigioniero di Polifemo, farsi Nessuno, per poter passare. “Lodato sia
tu, Nessuno./Per amor tuo vogliamo/fiorire./Incontro a te.” 1. Questa

8
Y.Bonnefoy, Nell’insidia della soglia, Torino, Einaudi, 1990, p.9. Bonnefoy, nato a Tours nel
1923, è poeta e scrittore francese che fu tra i più vicini, innanzitutto nella vita, a Celan. Una volta
Celan ebbe a dire, a Bonnefoy: “Tu sei a casa tua all’interno della tua lingua.(…)Per quanto
riguarda me, io sono all’esterno”(cfr. J.Felstiner, op.cit., p.94).
1
P.C., op.cit., I, p.225.

106
poesia-soglia, questa parola-schibboleth, è differenza pura, è potenza
di selezione, è firma che si afferma nella singolarità irripetibile di un
messaggio in bottiglia: Flaschenpost. Essa si dirige verso qualcosa,
qualcuno - per essere più precisi, Nessuno, il che non significa che
non si tratti comunque di Altri. Essa si destina, ma non reca con sé il
nome del suo destinatario, l’indirizzo.

III.1: La poesia in cammino. U-topia e rimpatrio.

Scrive Celan:

“Le poesie sono anche in questo senso in


cammino: esse si dirigono verso qualcosa.
Verso cosa? Verso qualcosa di accessibile,
conquistabile, forse verso un tu, una realtà,
cui rivolgere la parola”.1

Levinas attribuisce a questo percorso il senso di un movimento


di trascendenza, diretto verso l’altro, l’Assolutamente Altro: “Il
movimento così descritto va da un luogo a un non-luogo, da qui verso
l’utopia”2, laddove per utopia si intende la trascendentalità
dell’”altrimenti che essere”3. Qui, laddove il linguaggio della
metafisica inesorabilmente avvolge nelle spire delle sue forme il
voler-dire che vi fa istanza e lo eccede, possiamo osservare come
l’operazione del pensiero, in quanto si oppone alla dissoluzione
dell’unità dell’’io penso’, nel suo approcciare la poesia di Celan,

1
P.C., op.cit., III, p.186.
2
E.Levinas, “De l’etre à l’autre”, in ‘P.C.’, <<Revue des belles Lettres>>, XCVI, 1972, 2-3,
pp.193-9. Trad. nostra.
3
E.Levinas, ibidem.

107
costantemente respinge quell’inversione, quella svolta, cui il poeta
esorta il suo lettore.
Giacché, è vero, è ragionevole, che la sua poesia sia rivolta
all’altro: “il poema tende a un Altro”4; ed è anche vero, e ancor più
ragionevole, che questa poesia, che è in cerca - e in mancanza - d’altri,
li cerchi fino a spingersi oltre sé stessa, oltre il suo luogo, nell’infinito
dell’u-topia, del non-luogo, coltivato come terreno di una speranza
insopprimibile: utopia, luogo della dislocazione infinita, cui tuttavia si
tende come una meta.5 Pellegrinaggio infinito, quasi ascesi mistica,
verso l’altro, tuttavia questa poesia non si vuole identificare
limitativamente in questa tensione, non cerca, in essa, una possibilità
di identificazione; essa tende a un tu, ma per richiamarlo a sé, per
ricondurlo ai propri inizi, per ritornare ai natali: “una sorta di
rimpatrio”6, dice Celan.
In una poesia, che appunto si intitola “Rimpatrio”, leggiamo,
nell’ultima strofa:

“Là: un sentimento,
sferzato da gelido vento,
che il suo stendardo color-
colomba, color-neve, trattiene.”7

4
P.C., op.cit., III, p.198.
5
Nel discorso “Der Meridian” Celan mette in risonanza, intenzionalmente, questi due usi del
termine ‘utopia’, che infatti egli scrive dapprima nella forma staccata: “U-topia”(cfr. op.cit., III,
p.199), e poi, successivamente, senza il trattino, “utopia”(ibidem, p.200 e 202), con l’intenzione
di evidenziare la differenza fra il non-luogo in quanto tale, e la sua valenza di vettore di speranza,
la tonalità emotiva, per così dire, che vi è associata.
6
P.C., op.cit., III, p.201. Poco prima, il percorso della poesia viene definito così: “inviarsi fuori di
sé stesso, in cerca di sé stesso”. Bisogna evitare, però, un possibile fraintendimento: che questa
poesia debba essere intesa come semplice espressione dell’esperienza vissuta del poeta, di Celan.
Il rimpatrio, invece- la sua opera in quanto “rimpatrio”- comporta, pur sempre, un divenir-stranieri
che rende illeggibile, irrecuperabile, ogni inizio in quanto tale.
7
P.C., op.cit., I, p.156.

108
Là, dove può operarsi il rimpatrio, là, dove il poeta dice di poter
trovare “quello che può condurre il poema all’incontro” 8, là, dove si
manifesta la circolarità imperfetta del Meridiano: là giace un
sentimento, sferzato di gelido vento, che trattiene a forza, contro
questo vento, il suo stendardo color-colomba, color-neve: il vessillo
della propria innocenza, tenuto fermo a forza contro la violenza
glaciale delle sopraffazioni che avrebbero voluto, per sempre,
sopprimerlo.
“Resistenza etica”9, la chiamerebbe Levinas. Una resistenza,
però, che non si volge verso l’altro per far dimenticare, per
oltrepassare sé stesso: il suo ethos chiede l’altro, lo desidera, in quanto
riconosce - anzi: disconosce, in quanto inafferrabile - l’altro
innanzitutto in sé stesso, nell’inaccessibilità delle proprie origini: in-
fanzia, che invoca una dicibilità, una leggibilità, che cerca la lettura
dell’altro10, ma richiama quest’altro a sé stesso - all’altro che gli è
proprio e da cui egli, in quanto identità, cerca a fatica di distinguersi.

III.2: Un’in-fanzia da ri-muovere. L’Altro come potenza di


inversione.

La poesia di P.Celan, lo ribadiamo, conseguentemente rifiuta


ogni forma di linguaggio illustrato, quel linguaggio in cui l’immagine
(das Bild) degrada rapidamente a copia e duplicato(“Abbild und

8
P.C., op.cit., III, p.202.
9
cfr.E.Levinas, Totalità e infinito, p.204: “si tratta qui di una relazione non con una resistenza
grandissima, ma con qualcosa di assolutamente Altro: la resistenza di ciò che non ha resistenza -
la resistenza etica”.
10
L’oscurità della poesia di P.Celan non è in nessun caso un ostacolo, frapposto dal poeta per una
forma di snobismo o di incapacità, alla lettura; essa piuttosto costituisce una sfida e una necessità,
un che di inesorabile. Proprio riguardo l’oscurità rimproverata alla poesia contemporanea, Celan
citò così Pascal: “Non ci rimproverate più la mancanza di chiarezza, perché noi ne facciamo
professione!”(cfr. P.C., op.cit., III, p.195). Professione, nel senso di una estraneità che la poesia
stessa progetta, perché possa accadere l’incontro, che essa invoca e reclama.

109
Nachbild”1), a strumento di una letteralizzazione implacabile. La sua
poesia mette in opera il passaggio sbarrato, la combinazione cifrata
che chiede lettura, apertura, per ricondursi - e ricondurci - laddove il
“me” non poté farsi “sé”, laddove l’infanzia restò in-fante, indicibile,
là, dove candore di neve è marca di ciò che perdura intatto,
inesplorato:
“ TU PUOI, certo,
deliziarmi di neve”2
Sono i primissimi versi della raccolta Atemkristall, questi; in
apertura di questo ciclo fondamentale, il poeta sembra volgere al tu,
destinatario nominato in tutte quelle poesie, un appello molto
pressante: tu - solo tu, non io, non-io - certo, puoi deliziarmi di neve,
darmi ospitalità, offrirmi neve, accogliere, finalmente, la mia infanzia
che giace lì, racchiusa in un cristallo di respiro, in fondo al crepaccio
degli eoni, come dice la poesia conclusiva di questo ciclo.
Quando J.Brodskji, poeta ebreo di origini russe, che dovette
scontare ogni sorta di persecuzione in patria, fino all’esilio, che lo
condusse a morire come cittadino americano - biografia che
riecheggia la condizione profuga e apolide di Celan - scrive:

“Di tutto l’uomo non resta che una parte


del discorso. In genere, una parte. Parte del discorso.”3

possiamo anche aggiungere: quella parte del discorso, che resta,


che resta a disposizione della tradizione, che le spetterà, non è la parte
più importante, o perlomeno, non è che la superficie, la corteccia che

1
P.C., op.cit., II, p.29.
2
P.C., op.cit., II, p.11.
3
J.Brodskji, Poesie 1972-1985, a cura di G.Buttafava, Milano, Adelphi, 1986, p.75.

110
custodisce e salvaguardia un nucleo molto più fragile, più delicato,
quasi, potremmo dire, magmatico, liquido e incandescente, lì nascosto
sotto l’orifizio, tappato, di quel “cuori-forme cratere”4 di cui appunto
ci parla un’altra poesia di Atemkristall.
Non si tratta, quindi, se non parzialmente, di un movimento
attraverso il quale, “andando verso l’altro” sarebbe possibile, per il
poeta, radicarsi “in una terra, ormai natale, sgravata di tutto il peso
della mia identità”5; questa è appunto la parte del discorso, il discorso
della parte, potremmo anche dire - il discorso di chi fa le parti,
spartisce la poesia di Celan per inscriverla, impositivamente,
all’interno di un sistema di pensiero.
Una parte del discorso, la parte che appartiene, che spetta fare,
al discorso, al Logos: con questa rapida inversione, piuttosto,
cerchiamo di corrispondere, consapevoli però di esserne ormai in
ritardo, in irreversibile mancanza, a quell’appello che Celan rivolge
nel Meridiano:
“Es ist Zeit, umzukehren”6
appello, questo, che sembra riecheggiare altri versi, fra quelli
per così dire inaugurali, scritti agli albori del cammino poetico di P.C.:

“Es ist Zeit, daß man weiß!


Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.”.7
4
P.C., op.cit., II, p.29.
5
E.Levinas, “De l’etre à l’autre”, cit., ibidem.
6
P.C., op.cit., III, p.200. “E’ tempo, di invertire la marcia.”
7
P.C., op.cit, I, p.37. “E’ tempo, che si sappia!/E’ tempo, che la pietra si decida a fiorire/che per
l’inquietudine batta un cuore./E’ tempo, che sia tempo.”
Si tratta della poesia “Corona”, pubblicata dapprima in “La sabbia delle urne”, nel 1948, e poi
confluita in “Oppio e memoria”(1952), molto probabilmente occasionata dalla relazione con la

111
In questi versi, in cui con potente effetto di straniamento si
invita la pietra stessa a fiorire, ritroviamo nuovamente l’immagine del
cuore: è tempo che per l’inquietudine batta un cuore, scrive il poeta; e’
tempo d’invertire la marcia, leggevamo prima; e’ tempo che sia
tempo, leggiamo, infine.
Per operare questa svolta, però, è necessario passare attraverso
la potenza di inversione rappresentata dall’altro, dal tu, colui, o colei,
del quale il poema è in cerca, in desiderio: qui, in questa poesia, per
es., il poeta si coniuga e congiunge al suo tu per operare l’inversione
direttamente sul tempo:
“Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli insegniamo a
camminare:
il tempo torna nel suo guscio.”8
Non si tratta, quindi, di far semplicemente ritorno al tempo
perduto delle origini, in un mero lavoro di ricerca sul proprio passato;
si tratta piuttosto di dar velocità al tempo, di rimetterlo in movimento,
di farlo andare; e questa marcia - la marcia del tempo rimesso in
movimento, verrebbe quasi da dire: ri-mosso - questa marcia è quella
stessa, che ancora, nel discorso “Der Meridian”, Celan ci invita a
invertire.
Si tratta di un meridiano, di una linea che tende, ma solo
attraverso un lunghissimo giro, a ritornare a sé stessa; si tratta di un
ritornello, di un canto che ci invita al ritorno:
“Viene il mattino e anche la notte,
poetessa I.Bachmann, allora, fra l’altro, impegnata nella scrittura di una tesi di laurea fortemente
critica nei confronti del pensiero di Heidegger. La stessa Bachmann, più tardi, trascrisse in forma
di racconto, nella novella “Malina”, la vicenda della relazione con Celan.(Cfr. J.Felstiner, cit.,
p.55).
8
P.C., op.cit., I, p.37.

112
se volete domandate,
convertitevi, ritornate!”9
Heidegger ne aveva fatto una questione d’epoche, di destino, di
storia destinale dell’essere:

“L’epoca a cui manca il fondamento pende


nell’abisso. Posto che a questa epoca sia
ancora riservata una svolta, questa potrà aver
luogo solo se il mondo si capovolge da capo
a fondo, cioè se si capovolge a partire
dall’abisso.”10

Celan, però, come avevamo già riscontrato, più fortemente di


Heidegger sottolinea quanto il problema di questa svolta sia un
problema che ha a che fare col singolo, con la sua capacità di re-
innescarne il movimento, di rimettersi in marcia, di invertire la
marcia. Non è più possibile, per un io defunto alla propria identità -
incrinato, frantumato, dissolto - rappresentarsi nell’univocità
dell’esser-ci e attendere, come spettatori di un lucreziano naufragio 11, i
destini dell’essere, il disvelamento di altri eoni; lì in fondo al
9
AA.VV., La Sacra Bibbia, Roma, ed. Paoline, 1964, Isaia, 21,12.
10
M.Heidegger, Perché i poeti?, in M.Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p.248.
11
Ci riferiamo, evidentemente, al libro II del “De rerum natura” di Lucrezio, che inizia appunto
così: “E’ dolce, quando nel grande mare i venti scuotono le acque,/ guardare da terra il grande
affanno altrui;/ non perché sia una sublime voluttà ch’altri soffra,/ ma perché è dolce osservare
da quali mali tu stesso sei libero.“( Lucrezio, La natura delle cose, a cura di G.Milanese, Milano,
Mondadori, 1992, p.86, trad.nostra). In questa metafora del “naufragio con spettatore”, come la
definisce il titolo di un recente libro di H.Blumenberg, è manifesta la pretesa di fondare la libertà
su un terreno che già pre-esistente, pre-costituito e stabile: qui la libertà viene essenzialmente
considerata come l’affrancamento dalle passioni inutili e non necessarie, liberazione dagli elementi
più dinamici dell’esistenza, costruzione teoretica di un complesso ideale capace di eliminare la
dipendenza dal mondo in nome della vittoriosa inattualità del saggio. La libertà in quanto progetto
di affrancamento non “dalle”, ma “delle” passioni, sintetizzata da Celan nella figura
dell’Atemwende come inversione di marcia capace di far fallire gli automi, sembra essere del tutto
post-moderna, rispetto all’immagine del saggio lucreziano: non più disincanto, piuttosto tutta la
potenza ri-creativa dell’incantesimo - la poesia come incantesimo e naufragio, contro ogni
impostazione ascetica e disincarnata.

113
crepaccio degli eoni, nell’abisso del senza-fondo, non è più possibile
dimenticarlo, si cela, un cristallo di respiro, ciò che da’ da pensare e
poetare in quanto il personale, singolare destino di Celan, l’infanzia,
ripetiamo ancora questa parola. Di un io dissolto, non si può più
predicare l’essere, neppure determinandolo filosoficamente a partire
dalla temporalità, come tenta di fare Heidegger; esso non è, esso
consiste, si condensa, nell’atto dell’affermazione di una differenza
pura - una differenza senza negazione: un cristallo di respiro, un
respiro cristallizzato, il primo vagito di una in-fanzia da ri-muovere,
da rimettere in moto12.
L’in-fanzia che insistente sussiste in parole, nomi, e reclama
insonne una nuova trascrizione:
“Pensa:
tutto ciò mi giunse,
di nomi, di mano, insonne
in eterno,
dall’insepolto.”13
Tutto ciò che viene, i nomi, la mano che li scrive,
ossessivamente, giungono da lì: eternamente in cammino, insonni,
provenienti da ciò che non ebbe sepoltura, perpetua traslazione della
reliquia, intatta, di un inizio - genesi incessante - con cui ci si dovrà
ricongiungere, infine - cioè finendo:
“Ciò che diciamo iniziare è spesso la fine,
e finire è cominciare.

12
Per dirla ancora con Deleuze-Guattari: “La questione è di produrre dell’inconscio, e con esso,
nuovi enunciati, altri desideri” (G.Deleuze; F.Guattari, Millepiani, I, cit., p.37). Non si tratta di
raggiungere quel cristallo di respiro per svelarlo; si tratta, piuttosto, di rendere cristallino ogni
respiro, di dare ritmo e velocità alla parola.
13
P.C., op.cit., II, p.227.

114
La fine è là, donde partimmo.”14
Un cammino, un flusso di movimento, dunque, una marcia; una
marcia reversibile, il cui finire è sempre un cominciare, il cui
cominciare sempre associato a un finire, giacché un che di in-sepolto,
qualcosa di morto e che tuttavia non può morire fino in fondo-
dissoluzione sempre in corso - giace, rimosso, al suo fondo, nel suo
abisso, lì da dove esso pure aveva segnato l’inizio, il tempo dell’in-
vio, l’attimo in cui il passaggio, a colpi di schibboleth, venne istituito.

III.3: L’eterno ritorno come soglia. Il tempo fuori dai suoi cardini.

Il passaggio, dicevamo, la soglia, forse una porta carraia su cui


sta scritto, enigmaticamente, attimo:

“Questa lunga via fino alla porta e


all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga
via fuori dalla porta e in avanti - è un’altra
eternità”.1

Il pensiero nietzscheano dell’eterno ritorno dell’uguale ci


propone nuovamente quest’immagine della porta, della soglia: essa
reca il segno dell’attimo, dell’istante che unisce e separa le due strade,
due strade che poi diverranno - è questo l’enigma, l’indecifrabile- la
stessa. “Il cerchio si trova alla fine della linea” 2: Nietzsche non
14
T.S.Eliot, “Quattro quartetti”, in La terra desolata-Quattro quartetti, trad. di A.Tonelli, Milano,
Feltrinelli, 1995, p.158-159, trad.nostra.
1
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. di M.Montinari, Milano, Adelphi, 1968, p.182.
2
G.Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p.381. Nel rileggere questo
celebre concetto di Nietzsche, ci avvaliamo in particolare dell’interpretazione che ne da’ il
pensatore francese, il quale individua, al di là dei due episodi dello Zarathustra in cui il pensiero
dell’eterno ritorno viene illustrato(“La visione e l’enigma” e “Il convalescente”), un terzo
episodio, che però non venne scritto, e che tuttavia si può dedurre osservando la progressione dei
primi due episodi. In essi, infatti, distinguiamo un primo tempo, quello di Zarathustra malato, che
si oppone con forza all’idea del nano, il quale concepisce l’eterno ritorno come la semplice

115
escogita mai formule consolanti, rassicuranti, la sua filosofia, vuole
scardinare i nostri- i propri- presupposti, portarci oltre- “l’uomo è
qualcosa che deve essere superato”3.
Non dobbiamo ridurre, dunque, il pensiero dell’eterno ritorno a
una melodia armoniosa e conciliante, a una canzoncina da organetto:
si tratta piuttosto di un pensiero abissale e terribile, la cui potenza
sottrae ogni fondamento a ogni identità, la logora dall’interno, la
lacera e la sfibra, scagliandola nella corrente delle differenze, delle
molteplicità, delle eccedenze affermate come tali, di ciò che non è
riducibile alla generalità, all’identico. E’ solo questo che torna: solo
questo - colui che fosse in grado di affermare fino in fondo la volontà
di potenza, o meglio ancora: l’atto, assolutamente inattuale,
irriducibilmente pre-individuale, intensivamente singolare, di questa
affermazione - può attraversare e riattraversare, in ogni senso, quella
porta, su cui sta scritto ‘attimo’. Tutto il resto è destinato a perire, in
quanto può ripetere, cioè passare solo una volta, solo in una direzione,
quindi viene ricondotto all’ordine di un tempo rimasto incardinato,
linea retta che trascorre irreversibilmente.
Per essere all’altezza della prova, della selettività posta
dall’eterno ritorno come soglia bifronte “bisogna- amleticamente-
vivere e concepire il tempo fuori dei suoi cardini” 4, bisogna
congedarsi dagli orologi (“Non è vero, d'altronde,/che quest'orologio

circolarità del tempo; poi un secondo tempo, in cui Zarathustra non presta più ascolto alle bestie, le
quali ancora affermano l’idea che anche il piccolo uomo, come ogni cosa, debba ritornare
eternamente, che l’eterno ritorno comporti l’eterna ripetizione di ogni cosa; ma in questo secondo
tempo, Zarathustra è ancora convalescente e viene perciò messo a tacere dai suoi animali, perché
solo “colui che è sano può parlare”(F.Nietzsche, op.cit., p.258). Deleuze ne deduce quindi un
terzo tempo, in cui Zarathustra, sano, riuscirà a concepire esplicitamente l’eterno ritorno come la
prova che seleziona fra coloro che possono passare eternamente per la porta, ripetere, e coloro che
non ritorneranno.
3
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p.5.
4
G.Deleuze, Differenza e ripetizione,cit., p.381.

116
congedò anche noi?”5) e far impazzire le lancette, come accade con la
bussola, quando si è giunti al Polo Nord. Bisogna divenirlo, quel Polo
Nord, quel cristallo di respiro riposto nel gelido crepaccio degli eoni;
bisogna, ma non è detto che sia possibile, e, soprattutto, non è detto
che sia pensabile, almeno nella maniera in cui siamo abituati a farlo.
Di un tempo fuori dei cardini parla anche Celan:
“il tempo, il rospo,
scardina il suo mondo.”6
In questo tempo scardinato e scardinante, in cui mondo e caos
giungono a coincidenza, si producono momenti come questo:
“Istante sdiavolato.
Tutti i venti.”7
Enigmatico tempo in cui gli istanti sono sottratti al demonio, in
cui tutti i venti sferzano da ogni parte, in cui “il sangue torna
indietro”8 : Celan sembra davvero portarci di fronte a quella soglia
nietzscheana dove la parola attimo cripta un passaggio aperto eppure
inaccessibile, inaccessibile in quanto appunto criptato, nascosto e
quindi esposto all’imprevedibilità delle onde, come un naufrago affida
la sua residua speranza a un messaggio in bottiglia- Flaschenpost.
Giacchè questa sembra essere la sua condizione, e lo stesso suicidio,
le sue modalità, ce ne assicurano: letteralizzazione, abbiamo già detto,
di un naufragio che non riuscì completamente, di un’apertura ad Altri
che avrebbe potuto riportarlo, forse, a sé; tentativo sullo zero,
esperimento contro la cifra, destinato a rimanere a metà strada,
eternamente in prossimità della sua meta, dinanzi alla Legge, come il
5
P.C., op.cit., I, p.227.
6
P.C., op.cit., II, p.254.
7
P.C., op.cit., II, p.163.
8
Ibidem

117
kafkiano Josef K., imputato di un processo che vide la fine solo per
suo sfinimento.
III.4: “Chi domina?”. La parola come Gegenwort e Unwort.

Lo avevamo premesso, con Bonnefoy, a questo nostro scritto:


“urta, urta per sempre/nell’insidia della soglia”: impossibilità di una
rinuncia, fascinazione incessante di una solitudine che si sa come
tardiva, che vuole riafferrare i suoi inizi, che non può non scriversi
perché è altro- l’altro che è in sé, il divenir-bambino che gli è intimo-
a tenergli la penna. ”Oh, genesi, genesi incessante!”1, così scrive un
altro grande poeta contemporaneo.
Si sarebbe trattato, detto altrimenti, di sottrarre a chi lo domina -
alla violenza che ne comanda il dire, all’indecifrabile che lo sottopone
con crudeltà al suo nomos, costringendolo a tentare una resistenza in
forma di “rimpatrio illeggibile”, come lo abbiamo definito - il potere
della cifra, impossessarsi della combinazione che scardinerà l’istante,
per attuare l’inversione. Nuovo e benigno incantesimo che libererà il
tempo, questo rospo, dalla prigionia di una malvagia e distruttiva
stregoneria.
Operazione d’attrito, in direzione di una salvaguardia del
linguaggio che può accadere solo attraverso l’arrischiamento più
doloroso, fino al non-senso di tutte le parole. Troviamo una traccia di

1
M.Luzi, L’opera poetica, Milano, Mondadori, 1998, p.885.

118
tutto questo in una poesia, “Chi domina?”2, che riportiamo pressocché
integralmente.
“CHI
DOMINA?

Assediata da colori la vita, oppressa da cifre.

L’orologio
ruba il tempo alla cometa,
le spade
pescano,
il nome
indora i simulacri,
l’impatiens, col suo elmo,
numera i punti nella pietra.

Dolore, come ombre di lumache per via.


Sento che non è ancora tardi.
Insulso e falso, issati in sella,
misurano anche questo.

Lampade a sfera invece di te.


Trappole di luce, deità di confine, invece
2
P.C., op.cit., II, p.116. Si tratta di una fra le prime poesie di “Fadensonnen”, ultima raccolta
pubblicata in vita da Paul Celan. Già sin dal titolo di questa raccolta, possiamo osservare quel
procedimento di inversione che Celan commina anche al suo stesso linguaggio: non a caso il
traduttore è portato, in genere, a riportare alla “norma” la parola, la locuzione, rendendo ad es.
questo titolo con la locuzione “Filamenti di sole”, o quello di “Lichtzwang” con “Luce coatta”.
E’ una forma di rimozione anche questa, che si riscontra in numerosi casi nella traduzione italiana
delle poesie eseguita da Bevilacqua. Riteniamo che le inversioni operate da Celan siano invece da
mantenere, anche laddove esse generino apparenti non-sensi: per es. traducendo “Fadensonnen”
con “Soli di filamenti”, “Lichtzwang” con Coazione di luce”, etc.

119
delle nostre case.

(…)

La metafonia strappata all’im-parola:


il tuo riflesso: stemma funebre
di un’ombra del pensiero,
fra altre, qui.”

“Wer herrscht?”, l’incipit-titolo di questa poesia, è domanda


che già segna, di-segna il fatto stesso di un’operazione di potere, di cui
la poesia narra lo svolgersi, descrive la posizione e la maniera.
Leggiamo, subito dopo, infatti, che la vita - la sua nuda
essenzialità, la sua germinalità - è assediata e oppressa: da colori, da
cifre, da tutto ciò che vorrebbe, e potrebbe, conquistarla e distruggerla,
rendendola definitivamente inaccessibile.
La strofa successiva ci mostra lo svolgersi di quest’operazione
di potere, su cui il poeta si interroga: l’orologio - il tempo cronologico,
lineare, irreversibile, che allontana il poeta dalla svolta, dalla sua
infanzia - ruba il tempo alla cometa, al segno che illumina la via della
nascita3; le spade, le lame, fungono da ami da pesca, catturano tutto
ciò che nuota, che fluisce; il nome indora i simulacri, permettendo alle
bugie di presentarsi come verità; anche la pietra, quella che in
“Corona” doveva fiorire liberamente, qui viene sottoposta a questa
operazione di potere, viene numerata, cifrata. Tutto viene misurato,
3
AA.VV., La Sacra Bibbia, ed.cit., Matteo 2,9: “Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo
sorgere, li precedeva, finchè giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino”. Si tratta,
ovviamente, del celebre episodio dei magi, che seguendo la stella raggiungono il luogo della
nascita di Cristo, per adorarlo.

120
conteggiato, messo sotto combinazione: sono “insulso e falso”, a
compiere questa operazione di potere, a esserne gli esecutori materiali
- resta però indeterminato chi ne sia il mandante, giacchè egli non si
presenta: “lampade a sfera, invece di te”; le lampade a forma di
globo, forse quel mappamondo luminoso che i bambini usano come
luce da notte, e come prima cartina, una cartina buona, però, per
trovarvi un meridiano, avevamo scritto all’inizio della nostra ricerca.
Contro questa operazione di potere, contro queste trappole di
luce che fungono da divinità poste a protezione dei confini, il poeta,
per cogliere almeno il riflesso, l’ombra, di questo misterioso mandante
di tutte le violenze, i dolori, che lo sopraffanno, ha però qualcosa da
tentare, è riuscito a conquistare, almeno, qualcosa: “la metafonia
strappata all’im-parola”, la metafonia, conquistata combattendo
(in)contro alla parola impossibile, alla non-parola. Altrove, anni
prima, Celan aveva parlato di Gegenwort4; di essa V.Vitiello ha scritto:

“Gegenwort, contro-parola, parola-contro, è


la parola della poesia. Contro parola, perché
parla contro le marionette dell’arte, contro le
maschere della storia(…)Gegenwort non da’
voce al nostro vissuto privato(…)fa
riferimento ad un’esperienza singolare (…)
una singolarità che è prima”5.

4
Ci riferiamo ancora al discorso “Il meridiano”, in cui C. , a proposito del “Viva il re!”
pronunciato dalla Lucile di Büchner, scrive: “E’ l’antiparola, è la parola che strappa il <<filo>>,
(…) è un atto della libertà. E’ un passo”(P.C., op.cit., III, p.189)
5
V.Vitiello, “P.C. <<Gegenwort>>: Parola contro-parola dell’incontro”, in V.Vitiello, Non
dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, Bari, Laterza, 1996, p.99(corsivi nell’originale).

121
Qui, però, il poeta non usa il termine Gegenwort, ma Unwort:
dovremo tener conto di questa differenza, per non rischiare di
consegnare alla stasi il flusso, ancora vivo, del tentativo celaniano.
Dovremo ascoltare la differenza, il suo farsi nel linguaggio, perché
questa differenza si è data fin nell’identità del poeta, è stata da lui
recepita fino allo sfilamento del proprio linguaggio e della propria
stessa persona.
Gegenwort, l’antiparola, è ancora una parola immersa nella
presenza, sia pure sotto forma di atto di libertà, di assurdo, di utopia.
Bisogna andare oltre, bisogna portarsi più in là, scardinare l’istante
appunto: lì accade di giungere nei pressi dell’Unwort, dove il flusso
della nominazione si arresta e siamo costretti al silenzio, lì dove un
margine - una soglia - separa ciò su cui si può parlare, e ciò, su cui si
deve, secondo l’indicazione di Wittgenstein, tacere. La soglia
dell’Etico, ancora una volta.
“Anche noi vogliamo essere/dove il tempo dice la parola di
soglia”6, leggiamo in una poesia inedita di Celan, ma questa parola
non è Gegenwort, non è antiparola, che ancora potrebbe essere in
qualche modo, ma correttamente, detta: è Unwort, è l’im-parola, l’in-
dicibile, quanto d’ineffabile abbiamo battezzato: in-fanzia.
A questa in-fanzia il poeta può certo strappare la metafonia:
raddolcire le vocali, lasciare che l’impronunciabile compia la sua
operazione di straniamento, alterando le parole finanche nella loro
pronuncia: “Muta la tua chiave, muta la parola,/ cui è permesso
intendersi coi fiocchi.”7

6
P.C., op.cit., VII, p.37.
7
P.C., op.cit, I, p.112.

122
Metafonia, in tedesco Umlaut, è l’operazione con cui la
pronuncia di una vocale viene modificata; intervento sulla voce, che si
spinge, per così dire, oltre la voce, in quel territorio di confine fra le
vocali, dove si attua il passaggio di soglia - ad es.: fra a ed e, fra o ed
e, fra i ed u. E’ qui tutto ciò che l’Unwort concede al poeta, alla sua
lotta: ancora una volta la dogana, il passaggio di confine, stavolta fra
una vocale e l’altra, lì dove si situa, vocale di soglia, l’Umlaut, la
metafonia.

III.5: La parola silenziata resa alla Notte. L’impensabile precluso a


ogni Logos.

Nuovamente nell’insidia della soglia, in presenza di chiuse, di


interruzioni del flusso: tagli, circoncisioni, indispensabili, a quanto
pare, per consentire la parola, il discorso.
Senza tagli, pause, il discorso non scorre. E tuttavia, qualcosa
accade, la poesia.
Scrive Celan:

“(…)una conversazione che, lo avvertiamo,


potrebbe protrarsi ininterrottamente, se non
accadesse qualcosa.

Accade qualcosa.”.1

Più che mai nell’opera di Celan, siamo di fronte alla poesia


come operazione sulle pause, sugli intervalli, sulle soglie: la poesia si
manifesta più che come parola pregnante, come dono del vuoto, più
1
P.C., op.cit., III, p.187 .

123
che come veicolo di messaggi, come sottrazione-criptazione di ogni
messaggio, operata dai margini ai danni del testo, che ne resta
sfigurato - l’indecifrabilità come dono, appunto. Essa, la poesia, si
manifesta come Atemwende: svolta, ma anche pausa, del respiro- la
soglia che unisce e divide inspirazione ed espirazione.
Eccoci dunque di fronte all’insidia della soglia, di fronte alla
porta sigillata, contro cui la poesia urta, come dicevamo prima,
richiamandoci ai versi di Bonnefoy. La soglia fra parola e silenzio, la
soglia in cui non è già più parola, ma non è ancora abbastanza
silenzio.
“Das erschwiegene Wort”2, scrisse P.C.: “la parola silenziata”.
La parola silenziata, parola taciuta o meglio, parola costretta al
silenzio, radunata nel silenzio.
Parola del fuori, parola che parla, tuttavia - ma solo essendo
passata attraverso “un orrendo ammutolire”3, espressione che ricorre
esattamente identica in entrambi i celebri discorsi pronunciati da
Celan. Essa, la parola, passò attraverso questo mutismo, fin dentro la
sua stessa perdita, e ne riuscì “arricchita”4, così dice il poeta:
arricchita di ciò che stava oltre i suoi margini, arricchita in quanto in
grado di indicare, con tutta la mostratività - la mostruosità - del segno,
2
P.C., op.cit., I, p.138. Si tratta forse di una delle poesie più celebri di C., “Argumentum e
silentio”, dedicata a Renè Char. “Tale poesia(..)ha come tema la salvezza della parola”, notano
giustamente Künkler e Rossetti (cfr. “Un segno dal silenzio”, in <<La rosa necessaria>>, n.15,
(anno IV-1996), p.14); aggiungiamo: la salvezza della parola, in quanto parola di soglia, parola che
si fa carico di tutte le proprie soglie – ovvero delle proprie date, giacchè poesia per C. è
“concentrazione di chi permane nel pensiero di tutte le proprie date” (P.C., op.cit., III, p.198).
Sfortunatamente, alla conoscenza di questa poesia, in particolare per quanto riguarda la locuzione
di cui ci occupiamo, ha molto nuociuto la traduzione di G.Bevilacqua, per il quale con “das
erschwiegene Wort” dovrebbe intendersi “la parola vinta al silenzio”(cfr. P.C., Poesie, cit. p.237):
poesia come lotta della parola contro il silenzio. Qui c’è una fatale incomprensione, come
ravvisano ad es. Carifi, il quale traduce erschweigen con “ottenere il silenzio”, silenziare – ovvero,
come rendiamo noi, “la parola silenziata”- e gli stessi Künkler e Rossetti, i quali scrivono: “la
poesia intende dire(…)il rendere più silenziosa possibile la parola.”
3
P.C., op.cit., III, p.186 e p.195. L’espressione tedesca è “ein furchtbares Verstummen”.
4
P.C., op.cit., III, p.186.

124
ciò che sta oltre sé stessa: parola silenziata, quindi non parola sul
silenzio ma parola plasmata dal silenzio, in contatto fisico, materiale,
col silenzio che ne è ragione e fondamento. Parola silenziata, come il
colpo di una pistola dotata di silenziatore: il più minaccioso, e
inesorabile, degli spari, giacché essa giunge al suo destinatario senza
che nessun altro possa avvedersene.
Soffermiamoci con attenzione questa immagine: la parola
poetica di Celan come il colpo di una pistola silenziata. Esso ha un
preciso destinatario, e solo quello; nessun altro, se non colui al quale il
proiettile è indirizzato, può accorgersi dello sparo. Quale immagine di
una infanzia violentata e sopraffatta, ancora una volta! Il colpo di un
padre, diretto contro un destinatario preciso che non è il proprio
bambino, ma è l’infanzia in quanto l’irriducibilmente altro che lo
ossessiona, l’irrecuperabile minaccioso che sottrae identità al proprio
ruolo di adulto; il colpo di un padre - o quello, molto meglio
dissimulato, ma non meno cruento, di una madre - è quanto di più
preciso, ben mirato e, nello stesso tempo, efficacemente silenziato.
Neanche il bambino stesso deve accorgersene, proprio come un colpo
di pistola talmente preciso, fulmineo e inavvertibile, da essere
scoperto solo quando il sangue comincia a fuoriuscire copiosamente
dalla ferita. Le sopraffazioni dei genitori sono le più terribili non tanto
per la loro violenza, ma per la loro intestimoniabilità: “nessuno/
testimonia per il/ testimone”5, scriveva Celan - e mai come in questo
tempo, e per un ebreo, la testimonianza ha a che fare, come nel

5
P.C., op.cit., II, p.72

125
significato greco originario, con il martirio, con una ferita mortale,
con un atto irrevocabile.6
Nessun testimone, quindi, per i martiri di Auschwitz, ma
soprattutto: nessun testimone per il martirio dell’in-fante Celan.
Egli null’altro può adottare, nel tentativo di dirsi, che una parola
silenziata: e tuttavia potentissima, proprio perché intensamente
singolare, in alcun modo - neppure in questo nostro - riconducibile a
una logica che la renda condivisibile. Qui davvero il linguaggio si
dissolve, e con esso, l’io: l’io come atomo di pensiero indivisibile,
come margine che si oppone a ogni tentativo di sfondamento, viene
scosso in profondità, fino al punto in cui della parola può dirsi:

“essa infine testimonia,


infine, quando non suonano che catene,
essa testimonia della notte, che giace là
fra oro e oblio,
da sempre sorella ad entrambi.”7

Essa, la parola silenziata, che “vuol albeggiare accanto ai


giorni”8, essa però non appartiene alla zona d’ombra fra giorno e

6
Ci rifacciamo al significato originario di μαρτύρομαι, in greco antico, nel senso in cui questo
termine è utilizzato nell’Apocalisse di S.Giovanni(cfr. Ap. 1,5, o 2,13-14, per es.): rendere
testimonianza con il proprio corpo, garantendo con la propria vita. In questo senso ribadiamo
l’importante costellazione semantica che il termine Zeugen (testimoniare) mette in opera nella
poesia di Celan: testimonianza, martirio - ma anche procreazione. Rimandiamo per questo al cap.II
del nostro lavoro, nota 129.
7
P.C., op.cit., I, p.138. Ci permettiamo di sottolineare un dettaglio grammaticale del testo, che
tuttavia non ci sembra insignificante: tutti i verbi utilizzati da Celan in questi versi sono coniugati
al tempo presente. Egli sta parlando di qualcosa che accade hic et nunc. Eppure comunemente si
impone il desiderio di intendere la sua (e molte altre poesie come questa) come una profezia, in
molti traduttori: Bevilacqua, per es., che traduce “quando/, in estremo, non vi sarà che suono che
di catene”(P.C., Poesie, a cura di G.Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p.239); Künkler-
Rossetti, che traducono: “essa infine sarà testimone” (cfr. “Un Segno dal silenzio”, cit., p.17).
8
P.C., ibidem

126
notte, non è parola di un crepuscolo, non è affatto ambigua,
ambivalente: essa appartiene alla notte, essa testimonia della notte, di
quella notte che fu messa in catene, di quella notte che “accordò
tempo ad entrambi”9 . E’ la notte, in cui tutto è ancora possibile, e
tutto è già accaduto, giacchè solo la luce può permetterci di
distinguere, e non v’è luce in questa notte. Se con Heidegger
definiamo l’e-sistenza dell’uomo come “lo stare nella radura
dell’essere”10, laddove la radura (Lichtung) è lo squarcio che la luce
(Das Licht) opera nell’oscurità della selva, determinando così la
provenienza essenziale dell’e-sistenza umana, allora la differenza
radicale del pensiero poetato di Celan, ci appare ben evidente: se la
parola di Heidegger vuol farsi testimone della Lichtung, del Giorno -
sia pure di un giorno ancora da compier-si, in quanto già da sempre
compiuto - la parola silenziata di Celan vuol essere invece testimone
della Notte - e questa notte, per essere testimoniata, esigerà dalla
parola stessa, e da chi la pronuncia, l’estremo sacrificio, il
dissolvimento, giacché non v’è luce, e non v’è individuazione, e non
v’è identità, laddove non v’è nessuna possibilità di riuscire a vedere,
di attuare una qualche forma, purchessia, di θεωρειν.
Essa, la Notte, per testimoniare la quale Celan si arrischia, come
poeta, fino al punto di silenziare la sua stessa parola - la Notte alla cui
oscurità cerca di corrispondere con parola silenziata, essa, questa
Notte, ha certo a che fare molto da vicino con quanto scrisse, in un
celebre poema, Hölderlin:

“Ma essi, tu dici, sono come sacri sacerdoti del dio del vino,

9
P.C., ibidem.
10
M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.46.

127
che vanno di terra in terra nella sacra notte.”11

Questi due versi costituiscono la risposta che Hölderlin da alla


domanda, posta da lui stesso nel verso precedente, “wozu Dichter”,
“perché i poeti”. Partendo da questa domanda, in un saggio in cui essa
viene messa in rapporto con altre poesie in particolare di Rilke,
Heidegger conclude che:

“Esser poeta nel tempo della povertà


significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli
Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della
notte del mondo il poeta canta il Sacro.”12

Ancora una volta possiamo rilevare come Heidegger,


confrontandosi con la poesia, si mantiene sempre ben al di qua di quel
margine oltre il quale l’impensato si manifesta come impensabile,
come l’”altrimenti che pensiero”: egli, in quanto pensatore, si rivolge
alla poesia, in questo caso alla poesia di Hölderlin, sempre e
comunque con lo scopo di ricavarne un sapere teoretico, intendendo
per θεωρειν quel che Heidegger stesso così aveva definito,
richiamandosi al senso greco della parola: “La teoria è il guardare,
custodendola, la verità”.13 La verità, evidentemente, intesa come
“disvelatezza, da cui e in cui la cosa presente si dispiega come
presente”14. Questo atteggiamento contemplativo, che approccia la
poesia nel tentativo di cogliervi la presenza di ciò che è presente, il
darsi di un disvelamento, rimane ben distante dalla poesia di Celan, in

11
F.Hölderlin, Le liriche, a cura di E.Mandruzzato, Milano, Adelphi, Milano, p.527, trad. nostra.
12
M.Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p.250.
13
M.Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p.33. Corsivo originale.
14
M.Heidegger, ibidem.

128
cui non si dà , non si manifesta, verità15 né presenza, il cui percorso
mira a silenziare la parola per renderla alla Notte, per sprofondare in
abissi la cui minacciosità resta invece del tutto inaccessibile al βίος
θεωρητικός heideggeriano. Minacciosità di una oscura profondità che
resta sì inaccessibile, ma che non può non alterare, in certa misura, la
fondatività - la fondatezza - del suo discorso.
Nel caso del dialogo con la poesia di Hölderlin, si tratta di
sostenere, mediante un colloquio pensante con i versi, la teoria che
contrassegna quest’epoca come quella della fuga degli dei, o, il che è
lo stesso, del compimento della metafisica. Il poeta, inquadrato in
quest’ottica, non può che essere colui che avverte questa “verità”
come un precursore, l’avverte più abissalmente di altri, e continuando
a parlare, anzi, a cantare, pur nella notte più oscura, mantiene vivo lo
spazio in cui può avvenire il Sacro. Si tratterebbe, quindi, di una Notte
trascendentale, di cui il poeta si fa cantore, in vista del Giorno, del
rivenire della Luce o meglio del rimpatrio dell’uomo nella Luce che lo
determina sin dall’origine. ”Poeti”, sostiene Heidegger nello stesso
saggio, sono coloro che “nella miseria rimemorano la salvezza”16,
nella Notte, ricordano agli altri mortali un comune racconto, seguendo
la traccia degli dei fuggiti.
In effetti, si può ritenere opinione concorde nella filosofia e
sociologia che si occupa di interrogare dal punto di vista storico il
senso profondo della contemporaneità, che questo sia il tempo in cui i
15
Ci permettiamo qui di far rilevare il fatale fraintendimento che, a nostro avviso, è all’origine
dell’incomprensibile titolo “La verità della poesia” con cui sono state edite, in Italia, le prose e i
discorsi di P.Celan. Questo titolo, per quanto ci risulta, non ha riscontri nell’opera di Celan. In
essa, del resto, si da’ verità solo in quanto l’in-finito, l’indefinibile: “la poesia(…)questa parola
infinita”(P.C., op.cit., III, p.200), parola che non può essere in alcun modo universalizzata, distinta
da chi la pronuncia: “Poesia - vale a dire la fatale singolarità della lingua.”(P.C., op.cit., III,
p.175)
16
M.Heidegger, Sentieri interrotti, p.295.

129
grandi racconti, le verità forti che, sorrette da una duratura e
ininterrotta tradizione, avevano improntato il vivere comune
dell’uomo, sono ormai state accantonate. Lo sintetizza molto bene
Lyotard, dicendo: “possiamo considerare postmoderna l’incredulità
nei confronti delle metanarrazioni” 17; in questo senso, la condizione
estremamente marginale dei poeti nella nostra società sembra essere
un’ulteriore contro-prova a sostegno della visione heideggeriana della
poesia - perlomeno di certa poesia - come quel peculiare tipo di
linguaggio che unicamente è capace di ricordare la provenienza
dell’uomo, il racconto della sua provenienza, tenendo traccia del suo
destino.
Scriveva, tuttavia, Celan, in una delle sue ultime poesie:
“Io so, da dove,

Io dimentico, da dove”.18
Ci dobbiamo chiedere, a questo punto, se l’interpretazione
heideggeriana della poesia come ri-memorazione di una provenienza
dimorante nel linguaggio possa e debba essere estesa all’opera poetica
di Celan.
Heidegger afferma, interrogando la poesia di Trakl:

“Il linguaggio parla. Noi ricerchiamo ora il


parlare del linguaggio della poesia”.19

All’incirca a distanza di un anno, Celan, nel discorso “Der


Meridian”, così sembra rispondere a Heidegger:

17
J.F.Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981, p.6.
18
P.C., op.cit., III, p.99
19
M.Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, p.33.

130
“Il poema sarebbe quindi(…) linguaggio divenuto figura di una
singolarità”20. E, poco prima: “Dunque non linguaggio tout court”21.
Lo avevamo già sottolineato più volte, nel primo capitolo di
questo nostro lavoro, e lo ribadiamo adesso con queste parole, che
evidenziano come il tema della data - intesa come schibboleth, marca
differenziale - segni una linea di demarcazione fra il pensiero di
Heidegger e la poetica di Celan:

“Il proprio dell’umano non viene colto da


Heidegger come ciò che, per parlare con
Celan, lo fa io, attualizzandolo: ciò che priva
del respiro, che lo arresta - la data.”22

Forse qui, proprio in questo dialogo così ravvicinato eppure


irriducibilmente a distanza, fra Heidegger e Celan, passa, in maniera
palese come non mai, quel crinale, quella piega, che riunisce e divide
inequivocabilmente la poesia e la filosofia. Qui, dove la parola è
portata fino al punto di divenire silenziata, di divenire balbuzie, qui
dove l’io deve essere innanzitutto “fatto”, per poter esser detto, qui si
può forse tracciare il confine che separa un cogito, il cogito cartesiano
certo, ma anche quello, sia pure a suo modo, “incrinato” di Heidegger,
dal suo sum, dall’altro del pensiero, che il pensiero vorrebbe sempre e
comunque riportare, infine, a sé stesso 23. Qui, dove la balbuzie, il
20
P.C., op.cit., III, p.197-198.
21
P.C., op.cit., III, p.197.
22
K.Birge Büch, “Attesa di una parola umana”, documento web,
http://www.lettere.unimi.it/filosofiacontemporanea/magazzino/saggi/celan_heid.htm , p.15-16.
Corsivo nell’originale.
23
Ci riferiamo su questo punto a un colloquio radiofonico tenuto dal prof. V.Vitiello l’11/1/98 su
RadioTre, riportato in “Fede e ragione”, documento web,
http://www.emsf.rai.it/radio/trasmissioni.asp?d=75 , in cui egli afferma: “La ragione deve sempre
ragionare su altro, lo stesso cogito cartesiano non è mai un cogitare sul cogito, ma è un cogitare
sul sum. Il sum come altro dal pensare.”

131
divenire bambino celaniano disfa e fa l’io rompendo qualsiasi regola
di ogni possibile gioco linguistico, prendendo velocità nel suo
nomadismo fino a rendersi impercettibile - qui non v’è spazio se non
per un cogito che vi corrisponda, riconoscendosi nella distanza
irredimibile che separa logiche e conseguenti riflessioni dalla
singolarità straniata della lingua poetica di Celan: “cogito per un io
dissolto”24, dicevamo. Noi, i pensanti, in qualche modo al sicuro sulla
nostra sia pure precaria postazione di controllo, ben al di qua di quella
soglia-passaggio-schibboleth che metterebbe a repentaglio la nostra
identità, siamo al cospetto, qui, di un io incrinato, o più ancora,
dissolto nell’impersonalità del “si”, non più un io di cui si possa
invocare l’unitarietà sotto la forma atemporale del pensiero.

III.6: “Mi si pensa”. Divenire-impercettibile per passare nella


grata del linguaggio.

Non più “io penso quindi sono”, con Descartes, , ma, tutt’al
più, con Rimbaud: “mi si pensa”1 ; qui il punto di soggettivazione, il
perno attorno a cui si avvolge l’identità del soggetto pensante, è
proiettato all’esterno, nell’informe caoticità non altrimenti definibile
se non sotto le spoglie (in un certo senso “mentite”) del “Si”:
interminabile dinamismo di Altri2, che si insinua nell’identità, ne fa e
24
Ci serviamo di questa formula traendola da G.Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p.3, dove
leggiamo: “Né particolarità empiriche, né universale astratto: cogito per un io dissolto. Noi
crediamo in un mondo in cui le individuazioni sono impersonali e le singolarità preindividuali: lo
splendore del “SI”.
1
A.Rimbaud, Opere in versi e prosa, trad. di D.Bellezza, Milano, Garzanti, 1989, p. 531. Si tratta
di una celebre lettera, quella a G.Izambard del 1871, in cui Rimbaud scrive, fra l’altro: “si tratta di
raggiungere l’ignoto di tutti i sensi.(…)E’ falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa.(…)Io
è un altro”.
2
Molto interessanti sono alcune affermazioni di Derrida a riguardo di “Altri”, nome con cui
indichiamo, rinviando anche alle riflessioni di Levinas, un’alterità irriducibile all’io e al concetto.
“Quello che sfugge al concetto come potere, non è dunque l’esistenza in generale, ma l’esistenza
d’altri. E, innanzi tutto, perché non c’è, malgrado le apparenze, un concetto di altri. Bisognerebbe
riflettere(…)intorno a quest’espressione Autrui (<<Altri>>), sorvegliata in silenzio dalla

132
disfa le differenze, dio profano che getta dadi dalle infinite facce,
fanciullo eracliteo scatenato nel suo gioco infantile.
Tutto questo noi, in quanto riflettiamo su questa poesia, siamo
invitati a pensare, o meglio, a de-pensare: poesia, questa di Celan, che
sembra sospingerci direttamente contro i limiti del linguaggio, contro i
limiti del pensiero, per costringerci, infine, al gesto della sottrazione:
non più pensieri che si aggiungono ad altri, ma ancora un pensiero da
sottrarre, per sottrarre l’Uno al pensiero.
Scriveva C. Bene, con parole che descrivono con estrema
precisione la sua operazione teatrale - e per analogia, l’operazione
celaniana:

“Quel che conta è operare nei buchi neri del


linguaggio, uscire dal seminato, dal
pensabile”.3

Un testo di Wittgenstein, datato 17-12-1930, e facente


riferimento ai severi limiti posti al linguaggio dalle formulazioni del
Tractatus, in particolare con riferimento all’Etica, reca scritto,
appunto:

maiuscola, che ingigantisce la neutralità dell’altro e di cui noi ci serviamo con tanta
dimestichezza, mentre è il disordine stesso della concettualità”. J.Derrida, La scrittura e la
differenza, cit. p.132.
3
C.Bene, Opere, cit., p.1272-1273. Molto può aggiungere, o meglio, sottrarre la lettura di Bene a
queste nostre, e altrui, “cogitationes” che in qualche modo tentano, volenti o nolenti, di opporre un
attrito, una resistenza, alla dissoluzione dell’identità, alla disintegrazione del Logos. Ci limitiamo a
questa breve citazione, che ci sembra lapidaria: “Per azzerare gli “spifferi” del
logos(…)occorreva semplicemente(!)murare la ‘quarta parete’. Impermeabile alle fughe del
senso”(C.Bene, op.cit., p. XXXV). La quarta parete, tecnicamente, è quella parete immaginaria
che divide la platea dalla scena.

133
“Avventarsi contro i limiti del linguaggio?
Ma il linguaggio non è affatto una gabbia”.4

Nient’affatto una gabbia, piuttosto: una grata, attraverso cui,


certo minorandosi, avvalendosi dei propri divenir-animale, divenire-
bambino, della propria balbuzie, della propria parola silenziata,
passare: divenire impercettibili, invisibili, fino a oltre-passar-si, un che
di pasquale, quasi che il secondo nome di Celan - Pessach,
“pasquale”- lo possa aver marcato, fino a tal punto 5. Sprachgitter:
grata di linguaggio. Ma non si passa attraverso la grata, rimanendo sé
stessi, opponendosi ai propri divenire: la grata-soglia, infine,
consentirà il passaggio, a condizione di sfigurare l’identità di chi
passa. Bisogna davvero divenire muti, “un io fuggito nel mutismo”6,
per poter continuare a parlare; l’incisione crudele della violenza
paterna, il dolore antico di una infanzia di sopraffazioni, pesa fino a
questo punto, l’indecifrabile di quella crudeltà fino a tal punto si
impone, da comminare questo verdetto, da imporre alla poesia una
perpetua fuga in avanti7:

“la furente persuasione,

che tutto questo sia da dire altrimenti che

così”.8
4
Cit. da A.Janik; S.Toulmin, La grande Vienna, Milano, Garzanti, 1997, p.205. Cit. originale in
“Wittgenstein’s Lecture on Ethics”, in “The Philosophical Review”, LXXIV, 1965, p.3-27.
5
J.Fesltiner nella sua biografia di Celan, ricorda un dettaglio non trascurabile: adottando lo
pseudonimo di Paul Celan, il poeta diede di sé questa auto-definizione: “Paul Celan: persona
gratata”, come a intendere: persona che si è fatta grata, griglia. Cfr. J.Felstiner, op.cit., p.46.
6
P.C., op.cit., I, p.156.
7
Cfr. P.C., op.cit., III, p.194.
8
P.C., op.cit., II, p.398. E in un’altra poesia della stessa raccolta, “Parte di neve”, leggiamo
anche: “Il mondo da ri-balbettare”(P.C., op.cit., II, p.349): il mondo da balbettare e balbettare.
“Su di me, come su molti miei contemporanei pesa la balbuzie della nascita. Abbiamo imparato
non a parlare, ma a balbettare”, aveva scritto il poeta più amato da Celan, Mandel’stam (Il

134
III.7: In-fanzia versus a-fasia. Per una pedagogia anti-autoritaria.

Balbuzie e infanzia, contro l’afasia, parola silenziata contro


l’ammutolimento della parola, testimonianza dell’intestimoniabile, per
dire, nel martirio fattosi corpo e testo, e fino al naufragio anche di
questo tentativo, l’indicibile, la notte oscura dell’anima, in catene fra
oro e oblio, fra papavero e memoria, fra vino e smarrimento, cristallo
di respiro di un’emozione infantile ri-mossa e sepolta da sempre “in
fondo/al crepaccio degli eoni”.1
E’ a questa notte che si volge la testimonianza celaniana:
“La notte, bada!, comandata dalla
sabbia,
è scrupolosa
con noi due.”2
Notte comandata dalla sabbia, “la sabbia dalle urne”, come
recitava il titolo della prima silloge poetica di Paul Celan. La sabbia, il
deserto che tiene il posto della cenere e scaturisce da quelle urne, in
cui fu sepolto ciò che fu sopraffatto, ucciso.3 Di quale deserto, di quale
sepoltura disfatta e irreperibile, di quale notte comandata dalla sabbia,
ci parlano questi versi di Celan?

rumore del tempo, trad. di V.Sereni, Torino, Einaudi, 1970, p.76-77). Si tratta di un uso minore
della lingua, un lavoro di minoranza e di minorazione che si oppone alla lingua formalizzata e
statica per rilanciarne la variazione, il dinamismo - balbuzie come sottrazione che sfibra l’identità
del linguaggio, in-fanzia e afasia contro la violenza della lingua dei padri, del potere; incapacità a
dirsi, affermata contro l’imposizione di non dirsi.
1
P.C., op.cit., II, p.31.
2
PC., op.cit., III, p.98.
3
Il titolo tedesco della prima raccolta di Paul Celan è “Der Sand aus den Urnen”: la traduzione
italiana inevitabilmente prescinde dall’ampiezza semantica propria della preposizione tedesca
“aus”, indicante fra l’altro origine, oltre che moto da luogo, appartenenza. Non solo, quindi, “la
sabbia delle urne”, ma anche: “la sabbia dalle urne”. A quanto pare la traduzione inglese dello
stesso titolo (“The Sand from the Urns””, almeno stando al testo di Felstiner), privilegia piuttosto
questo secondo significato, a differenza della traduzione italiana di G.Bevilacqua. Cfr. J.Felstiner,
op.cit., p.50.

135
Forse anche Celan ricorda il racconto della Notte e del Giorno
che la precede, la rende necessaria, la giustifica e la attraversa, fino a
ritornare. Ma l’accusa di Celan, “nessuno testimonia per il
testimone”, è troppo grave e precisa, perché noi possiamo renderci
complici sia pure a tale e tanta distanza, di una violenza così grave, di
un colpo di pistola così preciso, e così bene silenziato, quale quello
che giustiziò il bambino Paul Antschel. Quasi nella maniera inconscia
e incontrollata di una costruzione onirica, le sue poesie
rappresentarono probabilmente l’unica maniera, assolutamente
inadeguata e tuttavia indispensabile, che egli trovò per permettere al
proprio io dissolto, tramutato in cenere e sabbia da un’infanzia
terribile, per continuare a parlare, per far sopravvivere un pezzettino
almeno del proprio sé, della propria emotività.
Solo un testimone consapevole avrebbe potuto salvare il
bambino Paul Antschel, o l’adulto Paul Celan, da quella fatale
lontananza dalla propria infanzia, da quella tragica e indispensabile
rimozione, cui le sue poesie non poterono apportare il necessario
rimedio. Come scrive Alice Miller:
“Un bambino che non sperimenti altro che
crudeltà e cui manchi la presenza di un
simile testimone, non può riconoscere la
crudeltà in quanto tale”4.

Un bambino che non abbia avuto accanto a sé la presenza di


almeno una persona non crudele, e capace di aiutarlo a riconoscere la
realtà delle violenze che gli vengono inflitte, è destinato a rimuovere

4
A.Miller, L’infanzia rimossa, cit., p.143.

136
per sempre la propria innocenza, la propria emotività, permanendo
così in una irreparabile e grave mutilazione del proprio sé.
Non è qui né occasione, né tempo, per porre riparo a quello che
dovette patire Paul Celan, e tuttavia crediamo che metterci in ascolto
attraverso le sue poesie, di quanto di intestimoniato, e tuttavia
assolutamente reale, accadde nella sua infanzia, possa aiutarci a
elaborare un pensiero, predisporci a un pensiero che si basi su
fondamenti, almeno in parte, diversi, da quel cogito impositivo e
autoritario, da quel “fallogocentrismo”5, come lo definisce Derrida,
che ha dominato e orientato molta parte della storia del pensiero, fino
a oggi. Storia di un logos che si raccoglie impositivamente nell’unità
indivisibile del fallo quale significante trascendentale, contro ogni
potenzialità di disseminazione del significato offerta dalla scrittura,
dalla testualità. Non è qui questione d’androcentrismo; il
fallogocentrismo infatti sta a monte di ogni questione sessista “e
quello che è chiamato uomo e quella che è chiamata donna
potrebbero entrambi esservi assoggettati”6. Ciò che qui rileva, è che
questa dottrina implicita al pensiero occidentale, induce e rende
ragione di una pratica, un’etica, una politica e ovviamente anche una
pedagogia, che sotto il segno del significante unico e della sua
tradizione - la Famiglia, la Religione, la Legge, in una parola il Fallo7
5
Non è questo il luogo per approfondire come sarebbe necessario il concetto di fallogocentrismo e
le analisi che, fra l’altro, la pensatrice L.Irigaray e lo stesso Derrida vi hanno dedicato. Si tratta di
un concetto centrale, secondo questi pensatori, in tutta la storia del pensiero occidentale, e
finanche in alcuni tentativi di darne una descrizione che ne consentisse il superamento. Afferma
Derrida, fra l’altro, che “Freud(..)non fa che descrivere la necessità del fallogocentrismo(…)il
fallogocentrismo non è né un accidente né un errore speculativo(..)è un enorme e antica
radice(..)si può quindi descriverla(…)ma la descrizione è parte in causa quando induce una
pratica, un’etica e un’istituzione(…)L’intento etico-istituzionale è dichiarato in Lacan(…)esso si
regola sistematicamente su una dottrina fallogocentrica del significante”(J.Derrida, Il fattore
della verità, trad. di F.Zambon, Milano, Adelphi, 1978, p.145).
6
J.Derrida, Il fattore della verità, cit., p.105
7
Ci riferiamo con questo termine all’uso che ne fa Lacan; con “fallo” egli intende non il pene, ma
“il significante privilegiato di questo marchio, laddove la parte del logos si congiunge con

137
in quanto il significante unico – hanno adottato ogni sorta di strumenti
atti a sopraffare, a occludere, tutte le possibili vie di fuga, tutte le
domande di affrancamento, riconducendole a sé, arborizzandole come
le tante ramificazioni di una comune e unica radice.
E’ la domanda stessa del bambino, quale domanda d’amore, a
dare ogni volta l’occasione per l’istituzione di questo potere, sotto
forma del potere del significante: la dipendenza del lattante dai
genitori, dalla madre, da occasione all’espressione di bisogni, che
tuttavia pongono, in questa prospettiva fallogocentrica, “la domanda
di un significante nel quale il soggetto possa identificare il proprio
essere”8. Ne consegue che sarà la mancata soddisfazione dei bisogni
del bambino, vieppiù dissimulata, trasfigurata sotto forma di
appagamento della domanda di un significante unico (soddisfazione di
una domanda di identificazione, che in realtà il bambino non ha
ancora posto, ma che riflette il lavorio di interpretazione di cui si fa
attore il genitore, per conto della società) a incidere per sempre nella
carne del bambino, la legge del significante, il suo criptico potere,
l’indecifrabilità fattasi corpo del proprio bisogno d’amore, negato.
Non si tratterà, ovviamente, della mancata soddisfazione di un
momentaneo bisogno fisico, biologico del bambino; ciò su cui ci
soffermiamo, piuttosto, è quella molteplicità di bisogni, sintetizzabili
per semplicità nel fondamentale bisogno di amore comune a ogni
vivente, la cui negazione (ovvero sublimazione nella forma del potere
del significante edipico, fallico) sembra in una certa ottica pedagogica

l’avvento del desiderio(…)esso può esercitare il suo ruolo soltanto velato, cioè come segno della
latenza da cui è colpito ogni significabile, una volta elevato (aufgehoben) alla funzione di
significante. Il fallo è il significante di quella stessa Aufhebung che si inaugura(inizia) con la sua
sparizione”. (J.Lacan, Écrits, Paris, Seuil, 1966, p.692, trad. nostra)
8
M.Borch-Jacobsen, Lacan, il maestro assoluto, trad. di D.Tarizzo, Einaudi, Torino, 1999, p.253.

138
- quella stessa che dovette essere trascritta, in forma di schibboleth, di
parola circoncisa, sul corpo di Celan - essere indispensabile
all’educazione di un bambino. Abbiamo già ricordato9 come i
fondamenti di questa tradizione autoritaria siano ben esplicitati perfino
nella Bibbia; essi sono peraltro molto più implicitamente diffusi in
molta della psicologia e della pedagogia anche contemporanea.
Pochi anni prima che P.C. nascesse, un giovane studente di
filosofia goriziano, Carlo Michelstaedter, concludendo la sua tesi di
laurea, scriveva a proposito della δυσπαιδαγωγία, come egli la
chiamava:

“La peggior violenza si esercita così sui


bambini sotto la maschera dell’affetto e
dell’educazione civile”.10

Anche Michelstaedter, che pure era riuscito ad esplicitare


almeno nell’ambito di una riflessione filosofica i danni subiti nella sua
infanzia, non poté scampare alla distruttività dell’educazione
autoritaria ricevuta: poco prima di discutere la tesi di laurea, si uccise.
Gli effetti della δυσπαιδαγωγία, della “pedagogia nera” come la
definisce un libro del 197711, non possono essere contrastati
9
Cfr. cap. II, § II.3.
10
C.Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano, Adelphi, 1982, p.186. Si tratta
dell’ultimo capitolo della sua tesi di laurea, in cui la δυσπαιδαγωγία – letteralmente: la dis-
educazione, ma più correttamente: l’anti-pedagogia - viene individuata come il fattore
determinante della trasmissione e dell’imposizione della rettorica, ossia dell’apparato di valori con
cui l’individuo viene espropriato della propria libertà. Qui leggiamo, fra l’altro: “Fin dai primi
doveri che gli si impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo indifferente a quello che fa, purchè lo
faccia secondo le regole con tutta oggettività(…)Così ne potremo fare un degno braccio
irresponsabile della società: (…)un boia, che quando uccida un uomo non pensi, che egli, un
uomo, uccide un suo simile, senza sapere perché l’uccida”. Parole che non possono non sembrarci
estremamente anticipatrici dell’orrore che pochi decenni dopo dovette scatenarsi ad Auschwitz:
molti dei bambini educati nel modo che Michealstaedter descrisse, furono appunto i boia di
Auschwitz, autori ed esecutori dei massacri del secolo appena trascorso.
11
Ci riferiamo a una raccolta critica di testi pedagogici curata da K.Rutschky, Schwarze
Pädagogik, Ullstein, Berlino, 1977.

139
efficacemente, soprattutto quando sia mancato il “testimone
consapevole” la cui figura abbiamo delineato prima, se non laddove
sia stato possibile esperire, per il bambino ormai divenuto adulto, i
sentimenti e i bisogni che furono violati, negati e soppressi
nell’infanzia, e la rabbia che questa soppressione avrà inevitabilmente
comportato.
Questo fu quanto Celan, come molti altri purtroppo, non poté,
invece, mettere in atto: su di lui la pedagogia “fallogocentrica”, la
pedagogia autoritaria volta alla trasmissione dei valori sociali più
rigidamente costituiti, potè dispiegare fino in fondo i suoi effetti, e
solo un piccolo spazio rimase aperto e disponibile all’espressione,
purtroppo cifrata, codificata, della sua infanzia, della sua libertà.
Un piccolo spazio, in cui provarsi a ritmare, con lingua
balbuziente, il ri-venire di quel trauma, di quell’antico dolore, sotto
forma di:
“Cenere.
Cenere, cenere.
Notte.
Notte-e-notte.” 12

III.8: “Un occhio, aperto”. De-pensare a partire dalla vista.

Una poesia tratta da Sprachgitter sembra molto esplicita, nel


manifestare, nella modalità balbettante e amputata, che è propria al
linguaggio poetico celaniano, quanto di quell’esperienza infantile sia
rimasto inciso, nella memoria del poeta, il “residuo cantabile” di
quell’età:

12
P.C., op.cit., I, p.199.

140
“UN OCCHIO, APERTO

Ore, colorate di maggio, raggelate.


Ciò che più non può dirsi, cocente,
udibile in bocca.

La voce di Nessuno, ancora.

Il dolorante dorso dell'occhio:


la palpebra
non si oppone, il ciglio
non conta, ciò che entra.

La lacrima, dimezzata,
lente più acuta, mobile,
conquista a te le immagini.”1

Un occhio aperto, sbarrato, incapace di opporsi, è il testimone


azzittito di ore di maggio, colorate e gelide; ore di primavera,
sembrerebbe, e invece ore di un tardivo e inatteso inverno, il tempo
della testimonianza. Testimonianza impossibile, però: giacché tutto ciò
che resta in bocca, pur cocente, scottante, meritevole di ascolto, è ciò
che più non può dirsi; nient’altro che la voce di Nessuno: voce di chi
ha dovuto criptare, nascondere a sé stesso la propria provenienza, voce
composta della sabbia che scaturisce dalle urne, terra desolata che
tiene il posto delle origini. E’ solo la voce di Nessuno a parlare ancora,
è la voce dell’indicibile, è la voce dell’in-fanzia: un occhio sempre
aperto, occhio insonne e dolorante, che conquista immagini attraverso
1
P.C., op.cit., I, p.187.

141
la lente resa più acuta di una lacrima smezzata, reticolo ottico che
consente, ancora, l’inquadratura di un’immagine, la tessitura di un
testo. E’ solo attraverso questo occhio sempre aperto, insonne, e
questa lacrima smezzata, che il poeta può ancora in qualche modo
catturare le immagini, prodursi una lingua, o meglio: divenire-
straniero nella propria stessa lingua, ri-conquistare sì una lingua, ma
alterata, una lingua straniata dal pianto, distorta come distorta è la
visione di chi ha gli occhi gonfi di pianto - “occhi/lucenti della
pioggia che scorreva”2, “occhi di chi va straniato”3, recitano alcuni
versi di Celan.
Il riferimento agli occhi è ricorrente, nella poesia di Celan, e
carico di tutta la polivalenza che questo termine, questo senso, può
assumere: via d’accesso e di transito privilegiato da e verso le
emozioni, ma anche mezzo primo e indispensabile per operare una
prensione sul reale, in forma di tecnica, ma prima ancora in forma di
θεωρειν, attraverso lo sguardo che cattura, che si fa un’immagine della
realtà - magari per riprodurla artificialmente.

III.9: Se infine anche gli automi falliscono. La poesia come


tensione, e misura, di una svolta di respiro.

“Chi ha l’Arte negli occhi e nella mente(…) è dimentico di


sé.”1, afferma Celan nel discorso “Der Meridian”. Qui l’Arte è la
formalizzazione che l’uomo, l’essere arti-ficiale, è in grado di
imprimere sul caos del reale, per governarlo. Essa, secondo
l’impostazione di Büchner - la cui opera è a fondamento

2
P.C., op.cit., I, p.67
3
P.C., op.cit., II, p.319
1
P.C., op.cit., III, p.193.

142
dell’allocuzione “Der Meridian” - è la capacità di produrre
marionette e automi, la tecnica con cui l’uomo, distrutti tutti i
calendari e gli orologi, potrà finalmente farsi sostituire dalle
macchine, da lui stesso fabbricate - e conquistare, così, la libertà del
mero disimpegno, la continuità dell’ozio.
“Talvolta si vorrebbe essere un volto di Medusa”2, fa dire,
ancora, Büchner a uno dei suoi personaggi; “per…contemplare il
Naturale come Naturale mediante l’arte!”3, commenta Celan. Un
volto, quello di Medusa, o piuttosto uno sguardo che impetra, un paio
d’occhi - ma ne basterebbe uno solo, quello ben centrato e terribile di
Polifemo, quell’occhio spaventevole che costrinse il naufrago Ulisse a
farsi Nessuno, per non morire; morire alla propria identità, per non
morire.
Bisogna forse davvero divenire Nessuno - “la rosa di
Nessuno”4- per poter riconquistare la libertà perduta? Bisogna
accecare quell’occhio - “occhi persuasi alla cecità”5- calarsi fino in
fondo nell’oscurità, per poter continuare, almeno, la propria incessante
odissea? O forse, oggi, l’Arte, la tecnica, può illuderci che basti
divenire automi dallo sguardo che impetra, come Medusa?

2
G.Büchner, Lenz, cfr. P.C., La verità della poesia, cit., p.8.
3
P.C., op.cit., III, p.192.
4
P.C., op.cit., I, p.225. Si tratta della celebre poesia “Psalm”, dove, fra l’altro, leggiamo: “Un
Nulla/lo fummo, lo siamo, lo/resteremo, fiorendo:/la rosa di Nulla, la/rosa di Nessuno”. Su
“Psalm” cfr. J.Felstiner, op.cit., p.167-169, dove fra l’altro leggiamo: “Poco dopo il discorso
[Felstiner si riferisce a ‘Der Meridian’, discorso pronunciato da Celan pochi mesi prima di scrivere
questa poesia], Celan diede dimostrazione della ‘svolta del respiro’ in Psalm”. Qui, in questi versi,
C. attua la connessione più ardua e più drammatica, fra Nessuno, Nulla, e la rosa - coniugazione di
termini, ripresa dal celebre epitaffio rilkiano, che darà il titolo alla silloge che contiene questa
poesia: “La rosa di Nessuno”.
5
P.C., op.cit., I, p.226. Si tratta, significativamente, dell’incipit della poesia immediatamente
successiva a “Psalm”.

143
In poesia, divenire automi - occhi straniati e stranieri, esseri
marionetteschi dalla palpebra impietrita6 - comporterebbe, per Celan,
adeguare la sua lingua allo scopo di dar forma - magari una ‘bella’
forma - alla realtà, al visibile: “umanizzare l’informe nulla”7, direbbe
Blanchot.
Non è però in questo senso che della poesia, e del suo rapporto
con la realtà, parla Celan, quando ad es. afferma che “la realtà non è,
la realtà va cercata e conquistata”8: piuttosto nella sua opera sembra
avvertirsi, sia pure estraneissima, profondamente straniata, l’eco di
quell’antico comando divino: “Non ti farai idolo né immagine alcuna
di ciò che è lassù in cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra”.9
E’ una tensione quasi mistica, dunque; egli, il poeta, “ferito di
realtà e realtà cercando”10, non può non tendere, non può non
azzardarsi proprio nel terreno, che è destinato a rimanergli precluso;
quello dell’immagine, quello della cifra indecifrabile, quello dove
giace, sepolta, la violenza che ne ha sopraffatto l’infanzia, e ne detiene
l’in-fanzia - quanto di non-detto gli resta, da dire, un’irriducibile
eccedenza della forma, che ne de-forma le immagini.
Come scrisse Kafka: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca
viene trovato”11. Avvertimento che forse va inteso così, dal punto di

6
Cfr. P.C., op.cit., I, p.153, dove leggiamo: “Ci sarà ancora un occhio/straniero, accanto/al
nostro: muto/sotto palpebra di pietra”.
7
M.Blanchot, Lo spazio letterario, trad. di G.Zanobetti, Torino, Einaudi, 1967, p.222. L’ambiguità
della figura dell’occhio, dello sguardo, nella poetica celaniana, trova riscontro nell’ambiguità
dell’immagine, quale Blanchot la delinea, con queste parole: “L’immagine di un oggetto non
soltanto non è il senso di questo oggetto e non aiuta alla sua comprensione, ma tende a
sottrarvelo mantenendolo nell’immobilità di una somiglianza che non ha niente a cui
somigliare”(Blanchot, op.cit., p.228). E’ per questo che C. afferma, nel Meridiano, che: “anche la
poesia, talvolta, ci fugge innanzi”(P.C., op.cit., III, p.194): essa tenta, in questo modo, di liberarsi
dalla forza catturante, dalla potenza di sottrazione implicita alle proprie immagini.
8
P.C., op.cit., III, p.168.
9
AA.VV., La sacra bibbia, cit., Dt 5,8.
10
P.C., III, p.186.
11
F.Kafka, Quaderni in ottavo, Milano, Mondadori, 1972, p.90.

144
vista di Celan: non cedere al potere della mancanza, non subire il
fascino della verità, la malia del significante unico, ma, piuttosto,
progettare la ricerca stessa, l’erramento, come l’unica libertà possibile,
in una tensione irrisolvibile, ma fertile, fra estraneità e estraneità, fra
l’abisso e il volto di Medusa, fra l’abisso e gli automi, fra arte e
poesia, fra occhio e accecamento, fra memoria e oblio, fra
inspirazione ed espirazione. Ciò che fa dire, a Celan: “forse qui, con
l’io(…)forse qui si libera ancora dell’Altro?”12
“Si danno, forse, e in una sola direzione, due estraneità” 13,
quindi, che devono in qualche modo convivere, riunite nell’elasticità e
nell’affermatività inafferrabile di una svolta di respiro. Due estraneità,
il che potrebbe anche esser detto: due lontananze.

LONTANANZE

Occhio nell’occhio, nel gelo,


lasciaci pure iniziare qualcosa:
lascia
che respiriamo, insieme, la coltre
che ci nasconde l’uno all’altra,
quando la sera si accinge a stimare
quanto è ancora distante
da ogni immagine, che essa accoglie,
ogni immagine,
che essa ci presta.

12
P.C., op.cit., III, p.197.
13
P.C., op.cit., III, p.195.

145
Se infine “gli automi falliscono”14, laddove queste due
lontananze convergono nell’attimo fatale dell’Atemwende, a questo
punto questo potrebbe voler dire: se infine anche gli automi, le
macchine innestatesi sull’io dissolto, l’Arte come calli-grafia,
falliscono, si dissolvono al cospetto di un io, appunto, dissolto. Due
lontananze, l’automa e l’io, che si pongono come le due forme
totalizzanti di cui questa tensione, la tensione della svolta di respiro, è
misura, voltaggio.
E’ appunto nella misura, e come misura, di queste lontananze,
che la poesia - la poesia in quanto il “prender-misure(…)per l’abitare
dell’uomo”15 - si muove dentro il mistero, il mistero dell’incontro.

CAP.IV - LA POESIA COME STRETTA DI

MANI. ETICA E APOLIDIA:

L’IMMAGINARIO COME CARTOGRAFIA.

“Non scriverti
fra i mondi,
a margine della traccia di lacrime impara
a vivere”1.

IV.0: “Noli me legere”. La poesia come tensione e misura di due


estraneità.

14
P.C., op.cit., III, p.196.
15
M.Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p.133. In questo saggio, intitolato “…
Poeticamente abita l’uomo..”, Heidegger individua appunto, sulla scorta di alcuni versi di
Hölderlin, il poetare come l’essenza dell’abitare, la cui misura è appunto dettata dal misurarsi
dell’uomo, dei mortali, con i celesti, con la divinità.
1
P.C., op.cit., VII, p.320. Si tratta di una delle varianti di una breve poesia, rimasta inedita, di
Celan.

146
“Noli me legere”1, scrive Blanchot: “non voglio che tu mi
legga”. E’ sempre dal desiderio che (non) si parte, è sempre al
desiderio che si torna, tornando all’opera - un desiderio, però,
differito, cifrato di non, segnato da una resistenza. In realtà non si
torna, si tratta infatti di un “rimpatrio illeggibile”: la circolarità
dell’opera è sempre imperfetta, perché l’opera non è mai finita.
Circolarità dell’opera come l’anello del meridiano: circoncisione e
circo-scrizione. E’ nell’opera, però, che questa circolarità si rivela
nella sua imperfezione, come desiderio marcato di un ‘non’, la
rotazione in-finita e incompiuta di un dètournement: rivolgimento,
sviamento. “Il tempo non aspetta, perché il cerchio non è rotondo” 2,
recitava un monaco ortodosso in un film di alcuni anni fa. E’ già
tempo di un altro gioco, ancora un nuovo getto di dadi.
Resistenza e indecifrabilità, avevamo detto in avvio del nostro
lavoro. Indecifrabilità dell’opera, che rende manifesto a noi, che
aspireremmo a farcene lettori, il “non” di quel desiderio, la resistenza
incisa sul desiderio come sul desiderio - sui bisogni fondamentali del
bambino - venne incisa, un tempo, la Legge che doveva inibirli,
respingerli: resistenza che lo mostra e lo trasgredisce, consegnandola
alla nostra tradizione o al nostro tradimento.
Poesia di resistenza, dunque: Celan come lo Hypnos di Char,
“un non-soggetto, o soggetto di un ‘non’, di un ‘contro’” 3. Gegen-
1
M.Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p.9.
2
Il film è:“Prima della pioggia”, M.Manchevski, Macedonia, 1994.
3
R.Esposito, “Poesia e comunità in Renè Char”, <<Micromega>>, Almanacco di filosofia, 1998,
p.20. Qui però dobbiamo sottolineare una importante distinzione, fra Char e Celan, due poeti che
pure per molti versi possono essere avvicinati. La poesia come resistenza, in Char, ha un profilo
molto più esplicitamente politico, pratico: “l’unica azione che si giustifichi è una contro-azione il
cui contenuto rivoluzionario non è mai definibile in anticipo”(R.Char, cit. da R.Esposito, op.cit.,
ibidem), il che coincide con la biografia partigiana di Char, il capitano Alexandre della resistenza
francese. La poesia come resistenza, in Celan, ha un valore, un ritmo, più legato alla singolarità
dell’individuo, e dunque all’Etico in quanto modo d’essere del singolo. “Io spero ancor sempre in
una svolta. (…)Essa prende avvio(…) dal singolo individuo”(P.C., op.cit., III, p.179). Occorre

147
wort, infatti, parola-contro, si dice la scrittura celaniana: parola-
contro, ma, anche, parola dell’in-contro. In quanto lettori, infatti,
siamo fatalmente indotti a essere complici di questo ‘non’, di questa
resistenza: cogito per un io dissolto, abbiamo scritto. “Siamo
nell’epoca dei soliloqui”4, scrive T.Bernhard, e anche il pensiero
interpretante, la sterile circolarità di circoli ermeneutici sempre troppo
concludenti, non fa che ripetere all’infinito, con la fastidiosità del
rimbombo, l’antica violenza di chi comandò, impose, quella scrittura
sul corpo che è, kafkianamente, l’opera, in particolare l’opera di
Celan. Coazione a ripetere che si illude di poter essere in cerca
dell’autore, di poter leggere, in qualche modo, nella sua lettera - o di
poterla, almeno, rubare, per detenerne il potere.
Eppure, non è fatale questo destino, non è del tutto obbligata,
questa violenza - la violenza della lettura come identificazione
dell’autore.
“Noli me legere”, l’oscurità di cui la poesia di Celan fa
professione5, l’in-fanzia come lo s-fondo oscuro del suo immaginario,
richiama, in qualche modo, corrispondentemente, un lettore che non
sa, o non vuole, leggere, comprendere.6 Cecità di un lettore indovino,
che rinvia alla cecità di un poeta-veggente: “occhi, ciechi al mondo,
nelle fessure della morte: io vengo./Indurito nel cuore./Io vengo”7.
Egli, il lettore, è messo sull’avviso, giacché è solo in virtù di ciò
che non sa, che egli può continuare a leggere, e giacché è proprio

comunque ricordare che Char fu tra i poeti prediletti di Celan, il quale ne tradusse in tedesco le
opere principali, fra cui gli stessi Feuillets d’Hypnos: cfr. P.C., op.cit., IV, p.424-597.
4
T.Bernhard, Perturbamento, Milano, Adelphi, 1981, p.159.
5
Cfr. P.C., op.cit., III, p.195, laddove Celan cita un detto di Pascal, che recita così: “Non ci
rimproverate per la mancanza di chiarezza, perché noi ne facciamo professione!”
6
Lo scrive molto bene J.F.Lyotard, Letture d’infanzia, cit., p.6: “Ciò che non si lascia scrivere,
nello scritto, chiama forse un lettore che non sa più o non sa ancora leggere”
7
P.C., op.cit., I, p.168.

148
quella cripta di indecifrabile potenza, da cui egli è separato, a generare
nuove possibilità di lettura. Certo, la poesia di Celan viene sigillata,
firmata da lui, come Flaschenpost, come messaggio in bottiglia. Qui, e
cioè là, egli ha apposto la sua firma, ma non è certo nella lettera, che
noi potremo mai ritrovarlo. E nemmeno altrove. E’ proprio il
Flaschenpost come firma, ad apporre un fatale ed estremo sigillo
all’opera nella sua illeggibilità, a precluderci ogni possibilità di
reperirne il senso, la verità: la bottiglia come cripta affidata al
“mareggiare/ di errabonde parole”8. Non è più un messaggio, che ci
aspetta, ma un compito: il fra-intendimento come etica dell’ascolto.
Si tratta di intendere, di ri-conoscere (più che un sapere, una
riconoscenza) la peculiarità della relazione scrittore-lettore, come la
evidenzia l’opera di Celan: due estraneità messe in tensione, due
lontananze, come dicevamo alla fine del capitolo precedente, due
lontananze che l’opera fa entrare in risonanza, e di cui la poesia
costituisce la presa di misura, la misura del voltaggio.
“Noli me legere”, in questo modo, non comporterà più una
preclusione assoluta, un divieto che esclude ogni possibilità di lettura.
Piuttosto, attraverso l’indecifrabilità in cui resiste la poesia, un
desiderio si tradisce, di verso in verso, di soglia in soglia: esso eccede
l’opera, smarginando continuamente i confini del discorso che intorno
ad essa andiamo organizzando. Esso, il desiderio di non essere letto,
comanda e consente la lettura come atto della libertà: “a margine
della traccia di lacrime”9, è lì che siamo condotti, è da lì che siamo
chiamati a ripartire, da questa traccia-residuo cantabile, al cui margine
siamo condotti, per imparare a vivere.
8
P.C., op.cit., I, p.135.
9
Cfr. nota 276, supra.

149
“(Fossi io come te. Fossi tu come me.
Non sottostammo entrambi
ad un unico vento?
Noi siamo estranei).”10

Non c’è spazio per confusioni, per identificazioni coattive o


forzate. La poesia è piuttosto un dono11, una parola donata, che reca
insieme solitudine e destino, ma senza alcuna possibilità di astrazione,
di universalizzazione. Lo stesso poeta è estraneo, innanzitutto a sé
stesso - “il poeta si ascrive a un tempo altro, <<estraneissimo>>”12-
in perpetuo movimento in quell’Altrove di ineffabile mistero che
sembra essere il territorio su cui egli fa lavorare la sua cartografia.
L’estraneità del poeta, dunque, lo scrittore che non sa quello che
scrive e scrive in quanto non sa:

“Ma ci sono forse, (…) due diverse


estraneità – l’una accanto all’altra.”13

L’estraneità del lettore, anche. Estraneo allo scrittore, certo,


all’autore, inesorabilmente scagliato in una lontananza incolmabile,
egli, il lettore, ha solo nell’estraneità, nella tensione fra queste due
estraneità, l’occasione di un incontro, sia pure un incontro connotato
di mistero.

10
P.C., op.cit., I, p.167. Evidenziatura originale.
11
Cfr. P.C., op.cit., III, p.178: “Le poesie, esse sono certo doni- doni per chi presta attenzione.
Doni arrecanti destino”.
12
P.C., La verità della poesia, cit., p.54, traduzione di G.Bevilacqua. Corsivo nell’originale.
13
P.C., op.cit., III, p.195.

150
IV.1: Il pensiero come manovra privata nella sua differenza con
l’opera, “stretta di mani”.

E’ a questo mistero che siamo convocati, e non si tratta certo di


un giallo da risolvere. La filosofia, anche occupandosi di poesia, o di
Celan, ha sempre teso ad attuarsi nell’economia, e nella parsimonia, di
un romanzo poliziesco: economia, oikonomìa, del terrore1, essa detta
la Legge del suo abitare sottomettendo a questa legge ogni territorio
che in qualche modo vi si sottoponga, anzi: estendendo il suo dominio
anche all’Altrove che eccede il suo margine. “Era necessario che il
suo proprio limite non gli restasse estraneo”2, dice della filosofia, o
meglio, alla filosofia, Derrida.
Tuttavia, lo ribadiamo, non è mantenendoci in questa distanza,
non è con l’economia di un discorso da intenditori, che la nostra
estraneità di lettori si rivelerà un’alterità produttiva, feconda, una volta
messa in tensione, in risonanza con l’estraneità che è propria allo
scrittore in quanto in-fante, altro a sé stesso. “Non ci si parli qui di
<<poiein>> e cose simili”3, scrive polemicamente Celan in una sua
lettera. Interpretare la poesia a partire da concetti così astratti, così
depauperati di mondo, rischia, piuttosto che di giocare a favore di un
tempo a venire, a favore della svolta di respiro, di essere soffocante,
bloccante come lo sguardo di Medusa. Cogito per un io dissolto
significa, comporta, i miei stessi pensieri dissolti, “il mio cervello(…)
fatto di pensieri lavorati dalla pressa meccanica” 4. Una solitudine

1
Cfr. J.Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p.78.
2
J.Derrida, Margini della filosofia, cit., p.5.
3
P.C., op.cit., III, p.177.
4
B.Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi, Torino, 1991, p.3.

151
troppo rumorosa, appunto, per poterla mettere a tacere con dei concetti
così rassicuranti.
Piuttosto, si tratta di avventurarci nella distanza, con ri-
conoscenza, ricominciando dall’inizio, dalle presentazioni: come mi
chiamo? Come ti chiamo?
E’ per questo che la poesia non può che essere, per Celan, stretta
di mani, il primo atto di una conoscenza, il momento
dell’interpellazione, il nome che ci individua nell’atto di una
(ri)conoscenza, appunto. Sulla soglia, è lì che siamo invitati a darci un
nome o costretti a far nostro il nome che ci è stato assegnato. Siamo
estranei, ed è solo avventurandoci dentro il mistero dell’incontro,
facendoci carico di tutta questa estraneità, che siamo condotti agli
inizi, dove la poesia è inaugurazione e occasione per un incontro:
“non vedo nessuna differenza di principio fra stretta di mani e
poesia”5.
Una stretta di mani: la mano dello scrittore, e la scrittura come
manufatto, innanzitutto. “Solo mani vere scrivono vere poesie”6: la
poesia è, per Celan, Handwerk, il lavoro della mano sulla pagina. Non
si tratta della mera definizione della poesia come arte, come attività
manuale dell’uomo: ciò su cui vuol mettere l’accento Celan, è che la
poesia, la sua poesia, lungi dall’essere comunicazione e discorso
(magari un discorso particolarmente snob, aristocratico), è
innanzitutto e soprattutto tracciatura di linee, produzione artigianale di
mappe, di itinerari possibili. “Ho tentato di scrivere poesie: per
parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e verso dove

5
P.C., op.cit., III, p.177.
6
P.C., op.cit., ibidem.

152
ciò mi portava”7: è la mano che individuerà, tracciando immagini
sulla carta, la direzione, e l’indice, in questo senso, è già un indizio di
realtà.
Una stretta di mani: la mano del lettore, e la lettura come
chiromanzia. La parola di Celan, parola in catene, parola resa alla
Notte, come leggiamo in “Argumentum e silentio”, non può più
sperare nei lumi della ragione, di una ragionevolezza - sia pure quella
della chiarificazione interpretante del lettore. Come bambini,
piuttosto, siamo chiamati a lavorare col tatto, con le mani, per
orientarci: e la nostra lettura non potrà che essere la più infantile e
ludica delle chiromanzie, non arte divinatoria ma individuazione, e
prosecuzione, degli itinerari di rughe8 e dei punti di interramento9 che
il poeta ha tracciato sul suo corpo-opera-territorio:

“Sentieri nella penuria d’ombre


della tua mano.
Dal solco delle quattro dita
estraggo per me la
benedizione pietrificata.”10

La benedizione pietrificata: la possibilità, pietrificata,


condensata in parola, di bene-dire, di dire bene, l’opportunità per una
buona scrittura, il che non significa affatto: per una calli-grafia 11.
7
P.C., op.cit., III, p.186.
8
P.C., op.cit., II, p.28.
9
P.C., ibidem.
10
P.C., op.cit., II, p.18.
11
Con un’intenzione molto diversa, ci sembra, e verrebbe da dire, con bella grafia, Heidegger
scrive: “Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria(…)meno letteratura ma più
cura della lettera delle parole”.(M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano, p.103.)
Da una parte l’economia, la “parsimonia delle parole”(ibidem), di Heidegger; dall’altra, l’etica
come dispendio creativo, l’inarrestabile marea montante di errabonde parole, di Celan.

153
Dobbiamo infatti rilevare come anche a questo riguardo, pur
trattandosi in entrambi i casi di mano-scrittura, Celan, il poeta, si
distingue nettamente da Heidegger. Entrambi affermano che la poesia,
come il pensiero, è Handwerk12, lavoro manuale o anche, potremmo
dire, manovra. Ma è forse proprio qui, nella stretta di mani,
nell’incontro di mani - e nel segreto, che gli con-viene - fra lettore e
scrittore, che si determinano quegli scarti, quegli s-viamenti che
distinguono e dividono nettamente l’Handwerk celaniano
dall’Handwerk heideggeriano.
Derrida sottolinea molto bene come il pensiero di Heidegger
privilegi la mano nella sua universalità indifferenziata, come pura
astrazione della mano, prescindendo dalla duplicità concreta delle
mani dell’uomo, dalla loro attitudine prensile, dalla loro capacità di
toccare e essere toccati:

“Da una parte(…)la sola frase in cui


Heidegger nomina al plurale(..)le mani
dell’uomo, sembra concernere proprio(…)il
gesto onde le mani si uniscono per non farne
che una nella semplicità.(..)Dall’altra
parte(..)non viene mai detto nulla né della
carezza né del desiderio”.13

Ma non è più la stessa cosa, quando “mani vere”, quelle


poetanti, incontrano e si intrecciano alle mani vere, toccanti, del
lettore. Qui la trama si complica, si attiva il desiderio dell’altro, sia

12
Cfr. M.Heidegger, Che cosa significa pensare?, a cura di G.Vattimo, Milano, Sugarco, 1978,
p.108.
13
J.Derrida, La mano di Heidegger, cit., p.62.

154
pure come ‘noli me legere’, le traiettorie si moltiplicano e si
frantumano:

“Sigillate di frantumi
le traiettorie là fuori.

Deve essere questo l’attimo


per una giusta
nascita.”14

Là fuori, fra traiettorie sigillate e frantumate, fra scarti e


sviamenti che sono (con tutte le parentesi del caso: qui sempre il
linguaggio filosofico si tradisce, rassicurandosi rispetto alla minaccia
dell’impensato) l’eccedenza dell’Etico, il “pozzo notturno”15,
l’inconscio senza fondo dell’Etico - là fuori è tempo per una giusta
nascita, afferma Celan.
La nascita come provenienza da una cavità oscura, abissale,
certo; ma non è della provenienza, che qui si tratta, non è una
operazione anagrafica, quella che stiamo compiendo, con Celan.
Piuttosto, un che d’ineffabile, che è fuori dalla totalità intramondana,
si dà, si dona. Esso, scriveva Wittgenstein, si mostra 16, ma non è lì
dove si mostra che bisogna cercarlo, un po’ come accade in quella
storiella zen in cui lo stolto, invece di guardare la luna, osserva il dito
che la indica.
14
P.C., op.cit., II, p.240.
15
cfr. G.W.F.Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio(1830), trad. di V.Cicero,
Milano, Rusconi, 1996, §453, p.739: “L’intelligenza è dunque questo pozzo notturno in cui è
contenuto un mondo di immagini(…)senza che esse siano nella coscienza”.
16
L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G.Conte,
Einaudi, Torino, 1995, p.109.

155
E’ in questo che si manifesta la mostruosità del segno, e della
mano, in quanto capace di indicare(e di additare): la mano in quanto il
proprio dell’uomo, come l’essere capace di mostrare. E’ ancora a
Hölderlin che torniamo, all’Hölderlin ri-memorante di ‘Mnemosyne’,
e all’Heidegger che volge il proprio an-denken, la propria
commemorazione, a quei versi. “Ein Zeichen sind wir, deutunglos”,
afferma il poeta, ovvero: “Noi siamo mostri, senza senso”17; ma il
pensiero di Heidegger individua comunque un modo per evitare di
sprofondare in quella abissalità, nell’abissalità ineffabile che il poeta
riconosce negli uomini in quanto enti capaci di mostrare(di mostrare
ciò di cui mancano, il senso), indicando con le mani: egli, il pensatore,
si rassicura su una posizione logocentrica, individuando nella mano
dell’uomo la sua condizione privilegiata e particolare, quanto di
umano - e di umanistico - v’è nell’uomo. In quanto, infatti, è assorbito
innanzitutto e per lo più nel maneggiare le cose, non è l’uomo che ha
mani, ma “la mano occupa, per disporne, l’essenza dell’uomo”18, fino
al punto che: “solo un essere che parla, cioè che pensa, può avere la
mano e compiere, nella manipolazione, opere della mano”19.
“Il pensiero è per l’uomo il più semplice e di conseguenza il
più difficile lavoro della mano”20, aggiunge infine Heidegger: il
pensiero, e cioè la parola - la parola detta, il Logos - sono affare di una
mano sola, o tutt’al più il raccoglimento ri-memorante e meditante di
due mani giunte, unite a farne una sola.

17
Cfr.supra, cap.1 nota 57.
18
M.Heidegger, cit. da J.Derrida, La mano di Heidegger, cit., p.56.
19
M.Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., p.108.
20
M.Heidegger, ivi, p.108-109.

156
IV.2: L’apertura al mistero. L’heimat del pensiero e l’apolidia
della scrittura.

V’è del non-detto, dell’in-fanzia, esso si mostra. Scrive


Hölderlin: “noi siamo mostri”: v’è una pluralità, una molteplicità
determinata nella sua capacità di mostrare - una molteplicità di mani,
potremmo dire - che Heidegger sembra tradire, come poi
implicitamente gli rimprovera Celan, facendone l’affare di una mano
sola, una manovra del tutto individuale, privata.
E’ per questo che quando Heidegger parla, nella conferenza
intitolata “L’abbandono”, di mistero, (das Geheimnis), come del
senso del mondo della tecnica, che “si mostra e allo stesso tempo si
ritrae”1, facendone discendere un vero e proprio atteggiamento etico
che l’uomo dovrebbe assumere, in corrispondenza di questo darsi e
ritrarsi del senso, ovvero l’apertura al mistero (die Offenheit für das
Geheimnis), egli immagina questa apertura come “la possibilità di un
nuovo modo di radicarsi dell’uomo nel proprio terreno”2.
Qui il pensiero dell’Heimat, della propria terra, si congiunge
strettamente e in modo più che evidente con il tentativo di individuare
un atteggiamento etico corrispondente all’arcano del senso della
tecnica. Esso, il mistero, das Ge-Heim-nis, già nella parola stessa
custodisce l’aliquid che mantiene la dimora, la patria, nella sua
condizione di radicamento stabile, di fondamento, di provenienza. E’
solo aprendoci al segreto riposto in questa Heimat, sembra dire
Heidegger, è solo riconoscendoci nel mistero di questa provenienza,
che potremo corrispondere in modo appropriato al senso riposto nel
mondo della tecnica. L’opera dell’uomo, e ancor più l’opera d’arte,
1
M.Heidegger, L’abbandono, trad. di A. Fabris, Genova, Il melangolo, 1989, p.39.
2
M.Heidegger, ibidem.

157
vengono pertanto pensate da Heidegger nel loro rapporto con questa
provenienza, nel loro misurarsi con questa provenienza dalla terra
d’origine: “L’opera porta e mantiene la Terra nell’aperto di un
mondo. L’opera lascia che la Terra sia una Terra”.3 E’ solo attraverso
un fecondo e stabile rapporto con la propria origine, che l’uomo e
tanto più l’artista, il poeta innanzitutto, potrà salvaguardare la propria
essenza: il pensiero di Heidegger sfocia in queste parole, citate dal
poeta J.P.Hebel:

“Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi


siamo piante che debbono crescere radicate
nella terra, se vogliono fiorire e dare i loro
frutti”.4

Parole, queste di Heidegger, che destano alquanta inquietudine,


tanto più se le decliniamo in relazione a quella che fu l’esperienza
biografica di Celan: vittima del nazionalismo tedesco, innanzitutto,
poeta apolide per eccellenza, e vittima, ancor prima, di altre figura, di
altre esecuzioni dello stesso pensiero dell’Heimat quale radicamento
stabile: la violenza con cui la sua famiglia impose su di lui
forzatamente il marchio della propria Legge, del proprio ebraismo
rigido e ortodosso; e ancora, più tardi, la violenza con cui il nazismo
sterminò questa stessa famiglia, in nome di una ideologia totalitaria
dell’Heimat da cui lo stesso Heidegger non seppe, o non volle,
prendere le dovute distanze.
3
M.Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., p.31. Nello stesso saggio,
poco prima, leggiamo: “La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge
come nel proprio nascondimento protettivo. In ciò che sorge è-presente la Terra come la
nascondente-proteggente”(ivi, p.28). La Terra, qui, assume il senso che nel saggio L’abbandono
abbiamo visto attribuire al mistero: la custodia del segreto fondativo dell’abitare.
4
J.P.Hebel, Werke, ed. Altwegg, III, p.314, cit. in M.Heidegger, L’abbandono, cit. p.32.

158
Provenienza questa terribile, tutt’altro che la quiete di un
fondamento in cui radicarsi. Non a caso leggiamo in Celan:
“Quell’unico segreto/si intromette ogni volta nella parola” 5: qui
probabilmente Celan allude al segreto (Das Geheimnis)appunto come
l’ombra della sua origine, della sua infanzia, nel suo minaccioso
rinvenire, capace di intervenire sulla parola fino a oscurarla, a
bloccarla, tant’è che in alcuni versi, nella stessa poesia, si parla
appunto di ombre, di chiusure di ombre che intervengono a saturare, a
fermare, giunture di ombre6.
Il segreto della sua provenienza, dei suoi natali: certo si
rintraccia qui un mistero, un arcano che, ad es., la psicanalisi potrebbe
essere molto interessata a indagare, a svelare saccheggiando la lettera
del poema - ricercando nel trauma infantile di Celan, magari, la causa
e la fonte di ogni sua azione e opera successiva. “Coazione di luce”,
così la definisce Celan; e nella raccolta postuma, che reca appunto
questo titolo, probabilmente ispirato alla permanenza forzata in una
clinica psichiatrica7, leggiamo:

“LO CAVALCAVA LA NOTTE, era tornato a sé,


il grembiule da orfanello per vessillo,

più nessuno sbandamento,


lo si montava a forza –

5
P.C., op.cit., II, p.146.
6
P.C., op.cit., II, ibidem.
7
Questa interpretazione del titolo della raccolta, è proposta in particolare da G.Bevilacqua, Eros-
Nostos-Thanatos, in P.C., Poesie, cit., p.CVI.

159
E’, è come se stessero sul ligustro le arance,
come se costui, cavalcato così, null’altro
indossasse se non la sua
prima,
segnata da voglie,
punteggiata di mistero,
pelle.” 8

Questa poesia, che appunto è la seconda fra quelle di


Lichtzwang, ironizza e polemizza piuttosto duramente con
l’operazione di memoria, di ri-memorazione o comunque di ritorno a
sé, che la clinica, la sua coazione di luce, l’imposizione psichiatrica
cercò di operare, sulla condizione apolide, errante, pellegrinante,
propria di Celan. “Era tornato a sé”, leggiamo, e in lui non si poteva
riconoscere “più nessuno sbandamento”: ma è un’operazione
impossibile e violenta, la sopraffazione che tenta di ricondurre il poeta
alla sua infanzia, alle radici biografiche della sua dolorosa condizione
di esilio e di pena, un’operazione cui il poeta si oppone mostrandone
tutta l’assurdità. Ce ne assicura l’ultima strofa di questa poesia, la
quale inizia così: “è, è come se stessero sul ligustro le arance” 9:
riuscire a rimettere il poeta in condizione di indossare la sua prima
pelle, quella pelle punteggiata di mistero e di innocenza, sarebbe un
po’ come se sul ligustro, pianta ornamentale che da’ solo bacche
tossiche, crescessero invece delle gustose arance.

8
P.C., op.cit., II, p.234. Riproponiamo qui la citazione integrale di questa poesia, già proposta in
fine del secondo capitolo, per sviluppare ciò che in precedenza avevamo lasciato implicito, ovvero
il tema della memoria in rapporto al trauma infantile e alla sua irrecuperabilità.
9
P.C., op.cit., II, p.234.

160
In questa poesia nuovamente incontriamo la parola mistero, das
Geheimnis: non si tratta più, però, dello stesso segreto, del segreto che
sempre si intromette nella parola, di cui prima dicevamo. Qui piuttosto
la pelle punteggiata di mistero è, con tutta la nostalgia che ne è
implicata, riconosciuta però come definitivamente inattingibile: il
mistero dell’innocenza e l’innocenza del mistero, da cui la scrittura,
proprio in quanto trascrizione della crudeltà della Legge, esecuzione a
distanza dell’antica condanna, è inesorabilmente separata, ri-mandata,
ri-mossa.
Essa, la scrittura, trascrive e differisce nell’opera la data di
quell’esecuzione, il senso di quelle violenze - e tuttavia, e proprio in
quanto ne è irrimediabilmente separato, non può fermarsi a ri-
memorarle, raccogliersi nel destino di quella provenienza come “sotto
il tiro di presagi”10, come essendo bloccato nella fissità della pietra
dallo sguardo reificante di Medusa. “Ma il poema parla, sì! Esso resta
consapevole delle proprie date, ma – parla” 11. In virtù delle proprie
date, delle proprie memorie, il poema parla - ma non è di quelle date
che parla, non si tratta di una biografia ben dissimulata.

IV.3: L’u-topia e il mistero dell’incontro. Il Meridiano come via


creaturale della poesia.

Specularmente, infatti, alla condizione biografica apolide di


Celan - nato ebreo in Bucovina, regione rumena di lingua tedesca

10
P.C., op.cit., VII, p.143. Questa poesia inedita, come quella precedentemente citata, “Lo
cavalcava la notte”, fu scritta da Celan durante uno dei lunghi soggiorni in clinica psichiatrica, cui
egli fu indotto a sottoporsi, con risultati quanto meno dubbi, dal punto di vista terapeutico.
Significativi ci sembrano essere i versi finali, che recitano: “giammai/fui altro/che me stesso”.
Convinta affermazione della propria identità, o piuttosto ammissione di una impotenza resa ancor
più disperata dai tentativi, che certamente dovettero essere fatti, di ricondurlo, per così dire, in sé?
11
P.C., op.cit., III, p.196.

161
presto divenuta sovietica; poi fuggiasco a Bucarest, Budapest, Vienna,
e infine a Parigi, dove fu poeta nella lingua del nemico - la sua poesia
si sigilla, si codifica, sotto il segno dell’erramento, di un esilio, di una
diaspora interminata, disseminazione la cui meta è Altrove, e senza
ritorno:

“Il poema è solitario. Solitario e in cammino.


Chi lo scrive, gli resta congiunto.
Ma, proprio per questo, non si pone, il
poema, già qui dunque, dentro l’incontro -
nel mistero dell’incontro?”1

La risonanza etica della concezione poetica di Celan, della sua


prassi della scrittura come erramento ed esplorazione, si fa qui molto
evidente. La modalità celaniana di procedere per paradossi
corrisponde qui a un punto fondamentale: la poesia, in quanto
solitaria, proprio in questa condizione di isolamento si pone già entro
il mistero dell’incontro, è già essa stessa questo incontro, sia pure
come incontro custodito nel segreto, sigillato dall’anello del
meridiano, che simboleggia e detiene il potere dell’alleanza. E’ solo in
quanto il poema “è dialogo - spesso è un dialogo disperato”2, che
esso può parlare a partire dalla più sradicata, e per questo
potentemente radicale, germinale, delle solitudini.
E’ solo nell’incontro, e nell’incontro nella sua segretezza, che il
poema che si afferma quale atto della libertà, quale rimpatrio. “Una
specie di rimpatrio”, dice più esattamente Celan: siamo chiamati, qui,
a riconoscere che si tratta pur sempre di un rimpatrio rinviato in una
1
P.C., op.cit., III, p.198. Corsivo nell’originale.
2
P.C., op.cit., III, p.198.

162
temporalità altra, all’αίων quale temporalità irriducibile alla spazialità,
temporalità pura del mutamento incessante. A-topia dell’istante, e u-
topia dell’incontro: è solo entro queste coordinate, che possiamo
parlare di incontro, pro-seguendo le linee tracciate da Celan, l’a-
polide, il senza-patria.
Scrive Celan:

“Ricerca topologica? Sia pure! Ma alla luce


di ciò che è da cercarsi: alla luce dell’U-
topia.”3.

E’ soltanto mediante questa assoluta indeterminatezza, a-polidia


della parola e perfino a-polidia del rimpatrio stesso, di questa specie di
rimpatrio che è il Meridiano - qui davvero giungiamo ad absurdum:
ma non è questo il (non)luogo del poema, secondo Celan? 4 - è solo in
quanto u-topia e quindi incontro differito, che il poema può
mantenersi integralmente, e senza alcuna integrità totalizzante, aperto
al proprio mistero, al segreto della propria condizione dialogica. Le
poesie di Celan non ammettono determinazioni, vi sfuggono, se ne
liberano sottraendosi ad opera della propria innocenza infantile, del
proprio balbettio: esse non sono vie, piuttosto (non) sono “non-vie,
sviamenti da te a te(…)incontri(…)vie creaturali, forse progetti di
esistenza”5. L’indeterminabilità e la contraddittorietà che sembrano
spingersi fin nel colloquio che la poesia intende progettare, mettere in

3
P.C., op.cit., III, p.199.
4
Ci riferiamo qui a questo passaggio del discorso “Der Meridian”, dove Celan afferma: “Il
poema sarebbe pertanto il luogo, dove tutti i tropi [ovvero, i tropici: la coincidenza semantica
racchiusa nella parola tedesca “tropen” ha qualche importanza, soprattutto poco avanti, laddove si
parlerà della poesia come meridiano]e le metafore vogliono essere condotte ad absurdum”. Cfr.
P.C., op.cit., III, p.199.
5
P.C., op.cit., III, p.201.

163
opera, istituire nella sua apertura all’Altro, prolifica incessantemente
in immagini che non possono in alcun modo essere riportate
all’interno degli stati di cose, wittgensteinianamente dicibili, dominio
dell’Essere, del proprio, del pensiero come manovra privata. Qui
(cioè: là) il poema si scaglia altrove, in un’operazione di
scardinamento del senso che ne libera la maestà che gli è propria - la
maestà dell’assurdo, quella che, per Celan, testimonia della presenza
dell’umano.6
Non bisogna commettere l’errore di intendere questa libertà, che
il poema in questo modo si conquista e conquista all’altro, come la
mera arbitrarietà dell’insensatezza; piuttosto si tratterà di condurre le
immagini all’assurdo, al punto di dissonanza, fino a farle esplodere,
per liberarne appunto il senso, ciò che “è sempre presupposto non
appena io comincio a parlare”7, ciò che io sono in impotenza a dire,
perché esso è la mia in-fanzia, ciò da cui sono irrimediabilmente
separato e perciò ossessionato.
Qui il filosofo, il senso del cui pensiero è appunto il
presupposto inattingibile, deve cedere il passo al poeta, alla poesia
nomade, in cammino, l’unica appunto a poter operare il passo, il
passaggio. Si tratterà, allora, per il poeta, di svolgere il suo
immaginario in una operazione cartografica, una cartografia di
“oggetti senza-patria”, però, u-topici e a-polidi; immagini
6
Cfr. P.C., op.cit., III, p.190: “Qui si omaggia la maestà dell’assurdo che testimonia la presenza
dell’umano”.
7
G.Deleuze, Logica del senso, trad. di M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli, 1975, p.33,
sottolineatura nell’originale. “Del senso non è nemmeno possibile dire che esista”(op.cit., p.25),
scrive il pensatore francese, e tuttavia ciò non precipita il lavoro della scrittura nel vortice di un
indifferenziato non-senso: piuttosto, “il senso è la quarta dimensione della proposizione”(ibidem),
“quell’aliquid, a un tempo extra-essere e insistenza, quel minimo d’essere che conviene alle
insistenze”(ivi., p.27); non l’effettuazione, l’espressione, ma un quid(evento, frontiera) il cui
statuto composito consiste di un verso, aperto agli stati di cose, e di un altro, orientato sulla
proposizione.

164
deterritorializzate, vere e proprie linee di fuga. Il meridiano è appunto
l’immateriale linea immaginaria che attraversando l’io e tutti i suoi
luoghi-date, e intersecando i tropi e i tropici, in vista dell’Altrove che
esso cerca, consentirà, questo dice Celan, quell’incontro ammantato di
mistero, che è il poema.
Non si tratta di un’operazione che mira ad attraversare la
superficie, a sollevare la pelle, per raggiungere la profondità di un
centro di gravità, da cui ogni senso dipenda e si diparta, cervello e
organizzazione.
Piuttosto, l’incontro si situa, e si sposta, lungo un anello
imperfetto, puro evento di superficie, evento di una circo-scrizione
che si da’ come avventura di un dispendio creativo, senza riserva,
senza ritorno. Scrittura circolare, o meglio, ellittica: la terra non è una
sfera perfetta, e i meridiani, come l’orbita terrestre, sono cerchi
perfetti solo in apparenza, piuttosto ellissi, circolarità senza centro.
Una affermazione di Celan, appena posteriore al discorso di
Darmstadt, rende ulteriormente ragione della natura del “Meridiano”
come u-topico luogo d’incontro, linea creaturale della poesia:

“Non appena ritornai da Darmstadt, mi


imbattei quasi per caso in una citazione di
Keplero: ‘Dio è simbolizzato dalla Sfera. La
sezione della Sfera, è il cerchio; questa
designa l’Uomo’”.8

Infinite sezioni possibili, comportano infiniti modi d’essere


dell’uomo; l’avventura umana comporta, di necessità, il farsi e disfarsi
8
Ö.Pöggeler, Spur des worts, cit., p.162. L’autore cita qui una lettera ricevuta da Celan, datata 30
agosto 1961, in cui il poeta forniva alcune indicazioni in margine al discorso tenuto pochi mesi
prima, in occasione del conferimento del premio Büchner.

165
di anelli, di questa circolarità sempre imperfetta: circoncisione e
circoscrizione, essa procede mediante tagli e linee di superficie, ed è
in virtù di quest’anello, che essa tenta il passaggio - da superficie a
superficie, nella continuità interminabile di una sfera, ri-mossa dalla
passione dell’origine, passione di un centro e di una totalità sferica da
cui esso, il poema, si avverte come esule, irrimediabilmente espulso.
Con “colui che fu esiliato/(…)con lui/errano i Meridiani”9, recita una
poesia di Celan: “illusione dell’origine, della fine, della linea,
dell’anello, (…)del centro”10, essa, la scrittura, si trascrive appunto di
meridiano in meridiano, sempre in cammino, sempre in ellissi d’altri.
Non c’è ripetizione possibile: “con un dito alquanto impreciso, perché
inquieto, cerco tutto questo sulla carta geografica” 11; il dito inquieto
non garantisce affatto della precisione, della reiterabilità del percorso,
perché ogni ripetizione escluderebbe l’intervento dell’Altro,
chiuderebbe la soglia definendo il margine rispetto a cui il territorio
perimetrato dell’Io si separa dall’esterno, dall’Altrove, ri-centrandosi
sulla sua identità, sulla memoria del suo percorso.
“Attraverso l’indeterminatezza delle sue caratterizzazioni, resta
aperto un ambito nel quale l’altro si possa e si voglia ritrovare” 12, nel
segreto dell’incontro. L’immagine deve resta aperta, Gestalt indefinita
prolifica di insistenze, non-luogo dove è sempre possibile spostare la
domanda, la domanda d’Altri. Il meridiano, quindi, non opera qui
come un perimetro atto a delimitare l’immaginario, come un asse
cartesianamente efficace nel definire e strutturare un piano, su cui

9
P.C., op.cit., II, p.290.
10
J.Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p.378.
11
P.C., op.cit., III, p.202.
12
K.Birge Büch, “Attesa di una parola umana”, trad. di A.Gilardoni, 2001,
http://www.lettere.unimi.it/filosofiacontemporanea/magazzino/saggi/celan_heid.htm (p.15)

166
distribuire segni e significati, istanti e fatti di vita. Piuttosto quelle
ellissi-sezioni di sfera che Celan immagina, i meridiani erranti con
l’esiliato, operano qui come vettori di forze, isobare del tutto
provvisorie su cui insiste una domanda, una domanda che non
ammette risposte, e che non cessa di spostarsi: essa, piuttosto, nel suo
continuo de-centramento “fruisce di un libero fondo che non si lascia
risolvere”13.

IV.4: L’ethos nomade di Celan e la solidarietà con le vittime.

In realtà “io”, il presunto centro di questa domanda d’incontro,


che è il poema, è solo uno pseudos, il falso nome di una voragine, di
un pozzo senza fondo. Scrive E.Jabes, che fu tra gli ultimi e più
prossimi compagni di vita di Celan:

“L’ultimo ostacolo, l’ultimo limite è, chissà?


il centro. Allora, ogni cosa verrebbe a noi
dal fondo della notte, dall’infanzia”1.

E’ in questo senso che le poesie “hanno una meta.(…)Un Tu,


una realtà, a cui rivolgere la parola” 2: la meta della poesia è piuttosto
insistenza e trascendimento, la possibilità, per la parola, di ri-volgersi
ad Altri, marca di un verso che orienta la parola-vettore in una
direzione piuttosto che nell’altra. Lungi dal rappresentare un principio
di incardinamento, di organizzazione, questa relazione, questa
tensione io-tu coniuga le immagini nella più feconda delle unioni:
“saldatura d’anime”3, annuncia una poesia intitolata “Sala di
13
G.Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p.141.
1
E.Jabes, Livre des questions, cit. in Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p.381.
2
P.C., op.cit., III, p.186.
3
P.C., op.cit., II, p.291.

167
produzione”. Poesia coniugale, opera alchemica, come annuncia la
poesia “Chymisch”:
“ tutti i nomi, tutti i nomi
arsi assieme.
(…)
Come corone,
corone d’aria attorno - - “4

Nomi e immagini arsi insieme, meridiani come “corone


d’aria”5, che si levano su come spirali di fumo dalla terra appena
conquistata, liberata, nel rogo delle parole, nel silenzio, “cotto come
oro”.6 Le immagini della poesia non svolgono affatto un ruolo di
comunicazione, un valore in qualche modo simbolico, riunitivo: esse
piuttosto si effettuano come figure, ma come figure aperte, solo
parzialmente definite, perché è solo nell’apertura alla segretezza della
relazione io-tu (di quella relazione che è tale solo in quanto accade fra
due assolute estraneità: “Tu - tutta, tutta vera. Io - mera follia” 7), che
queste figure potranno produrre i loro effetti, ovvero: porre la
domanda d’eticità, che è propria del poema, del suo essere nomade, in
cammino.
Questi versi esprimono limpidamente questo senso etico, che
giace al fondo di questa relazione io-tu:

“ STARE ALL’ERTA, all’ombra


della cicatrice celeste.

4
P.C., op.cit., I, p.227.
5
P.C., op.cit., ibidem.
6
P.C., op.cit., ibidem.
7
P.C., op.cit., II, p.30.

168
Uno stare-per-nessuno-e-nulla.
In missione segreta,
solo
per te.

Con tutto ciò che qui ha luogo,


pur senza
voce. “8

Stare all’erta, così qui il poeta descrive la sua missione,


missione segreta che egli compie per Altri, missione che lo rende
alleato e solidale con tutto ciò che ha luogo, tanto più se senza voce,
se arrischiato nell’ammutolimento, come l’opera stessa, e la sua stessa
vita, in quanto territorio di quest’opera.
E’ in questa solidarietà fra esuli, fra vittime, che si presenta il
senso etico di questa poesia: una forma di attenzione (“l’attenzione è
preghiera spontanea dell’anima”9, afferma il Malebranche citato da
Celan attraverso Benjamin), che si concretizza in uno “stare-per-
nessuno-e-nulla”, in un ethos nomade e anarchico che non si
consegna né a gerarchie, né a finalità precise.

IV.5: Ethos come dimora ed ethos come esilio. L’immaginario


cartografico di Celan.

8
P.C., op.cit., II, p.23.
9
P.C., op.cit., III, p.198: qui Celan riprende, citando approssimativamente, quanto Benjamin
scriveva in un saggio su Kafka: “Se Kafka non ha pregato(…)gli era propria, in altissima misura,
ciò che Malebranche definisce: <<la preghiera naturale dell’anima>>: l’attenzione. E in
essa(..)egli ha compreso ogni creatura.” (W.Benjamin, Angelus Novus, a cura di R.Solmi, Torino,
Einaudi, 1982, p.299).

169
Parola ferita di realtà e che vuole conquistarsi, progettarsi, una
realtà, la parola poetica celaniana opera comunque una scelta di
campo molto più limpida e risoluta, di quella che Heidegger
ripetutamente, nel proprio percorso di pensiero, rifiutò di operare,
lasciando che la vergogna di una “inettitudine etica”1 si insinuasse
fino in fondo al suo pensiero, coalizzandosi implicitamente con
l’effettività della sua compromissione biografica col nazismo.
Il silenzio di Heidegger sul fenomeno storico del nazismo e
sugli aspetti del suo pensiero che più si arrischiano in quella zona
d’indiscernibilità, in cui può accadere quanto a lui stesso è
effettivamente accaduto, scambiare “il Tedesco per un Greco(…), il
fascista per un creatore di esistenza e di libertà” 2, consegna e affida
alla responsabilità del lettore il compito di pensare fino in fondo
quella vergogna, il compito di una attenzione che non può più essere
quella mera attesa, quella meditabonda e assorta disponibilità
“all’apparizione del dio o all’assenza del dio nel tramonto”3, cui

1
F.Savater, Etica come amor proprio, cit., p.229. Per maggiori approfondimenti riguardo il
problema della compromissione di Heidegger col nazismo, cfr. anche cap.I, § 1.5, del nostro
lavoro.
2
G.Deleuze; F.Guattari, Che cos’è la filosofia, a cura di C.Arcuri, Torino, Einaudi, 1996, p.102.
Deleuze, sia pure tangenzialmente rispetto a un discorso più ampio, sembra portare molto a fondo
la critica alla compromissione nazista del pensiero di Heidegger. Egli ritiene infatti che Heidegger
“si è sbagliato di popolo, di terra, di sangue”(ibidem), schierandosi a favore e in nome di una
maggioranza, dei più forti, dei sopraffattori, invece di optare per la minoranza “oppressa,
bastarda, inferiore, anarchica, nomade” (ibidem), la sola in grado di mettere in opera quella
resistenza creativa al presente, che pure Heidegger assume come compito del pensiero nell’età
della tecnica.
3
M.Heidegger, Risposta.A colloquio con M.Heidegger, cit., p.124. Si tratta del famoso colloquio
con “Der Spiegel”, registrato da Heidegger nel 1966 per essere pubblicato, poi, solo in seguito alla
sua morte, nel 1976.In questa intervista, più volte e in varia forma il pensatore viene interrogato
sui suoi rapporti storici e speculativi col nazismo e con l’attualità politica del nostro tempo. Le sue
risposte sempre piuttosto evasive, culminanti nel sospetto, posto da Heidegger, che il sistema
democratico non sia all’altezza del mondo della tecnica, e nell’affermazione che “ormai solo un
dio ci può salvare”(ibidem), hanno il valore decisivo, ben esplicitato da Derrida, di evidenziare
ineludibilmente quella “ferita del pensiero” (J.Derrida, ivi, p.183) che la sua compromissione col
nazismo ha rappresentato. Ferita che, celanianamente, può offrire per noi l’occasione di un
passaggio, di una apertura al mistero dell’incontro, che non può prescindere dalla responsabilità di
fronte alle vittime.

170
Heidegger, nell’intervista-testamento che sigilla il suo pensiero, ci
esorta.
Nella “Lettera sull’umanismo”, Heidegger, per definire il senso
che egli intende dare alla parola ‘ethos’, e quindi individuare
l’atteggiamento etico appropriato alla Seinsfrage, fa riferimento a un
detto di Eraclito, che recita, nella traduzione che ne offre il pensatore
tedesco:

“Il soggiorno (solito) è per l’uomo l’ambito


aperto per il presentarsi del dio (dell’in-
solito)”4.

Questa traduzione ci tra-duce, ci conduce immediatamente di


fronte all’idea dell’abitare, propria di Heidegger: la dimora, il
soggiorno, è la casa, il luogo in cui gli dei sono presenti, o piuttosto
assenti, come rileva Heidegger a proposito di un altro frammento di
Eraclito. Il luogo della quotidianità più abituale, è per Heidegger il
luogo dove può meglio dispiegarsi l’ethos originario dell’uomo: ethos
originario che consiste, afferma Heidegger, nel pensiero in quanto
esso “lavora a costruire la casa dell’essere”5, la dimora che l’uomo è
chiamato ad abitare (essendosi predisposto a udire l’appello della
verità dell’essere).
Leggendo queste parole, in cui Heidegger illustra la stretta
relazione fra ethos come soggiorno e l’essere come l’Altro cui l’uomo
sempre si riferisce, appare stridente e soffocante, giacchè
potentemente radicata in quella tradizione autoritaria che pure
vorrebbe meglio occultarsi, l’interpretazione che Heidegger da del
4
M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.93.
5
M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.95.

171
soggiorno, dell’ethos come soggiorno dell’uomo. Ciò che si intravede,
infatti, fra le righe del discorso etico heideggeriano, è l’ombra della
Hütte, la baita in cui il pensatore, sereno nella routine dell’alternarsi
ritmico delle ore e delle stagioni, attende con disposizione ospitale il
manifestarsi o il ritrarsi dell’Essere, dell’Altro. “Baita:/silenzio e
mondo, fondati da te”6, recita un verso di Heidegger.
Non c’è posto, nella baita di Heidegger, nell’ethos-baita
heideggeriano, nella quiete senza scosse di una quotidianità
ortodossamente kantiana, non c’è posto speculativamente e non vi fu
posto neanche sul piano esistentivo, per un ethos, per un abitare così
in-solito, quale quello celaniano, per il dinamismo di un’opera che si
volle non come architettura – heideggerianamente intesa come
l’allestimento della dimora dell’essere, l’esecuzione del comando che
esso (l’essere) da’ - ma come cartografia, cartografia dinamica per
giunta. La seconda strofa della poesia “Todtnauberg”, con la quale
Celan intese commemorare piuttosto polemicamente l’incontro
decisivo avuto con Heidegger, culminato nel decisivo silenzio del
pensatore, contiene esclusivamente tre parole, straordinariamente
isolate ed evidenziate: “in der/Hütte”7, nella baita. E’ lì che si avvertì,
infatti, esistentivamente, tutto il peso di una differenza inconciliabile,
fra l’ethos di chi, padrone nel ristretto spazio della propria dimora (e
della dimora del proprio), non riusciva a svincolare il proprio pensiero
dall’autoritarismo che lo aveva reso inerme, e complice, con i più
orrendi fatti della storia recente; e l’ethos di chi, dall’altro canto, esule
e straniero in qualsiasi terra, e tanto più nella provincia heideggeriana,

6
Si tratta di un verso tratto da una poesia scritta da Heidegger per Celan, in seguito all’incontro
avvenuto a Todtnauberg, nella baita del pensatore. Cfr. supra, cap.1, par.1.8.
7
P.C., op.cit., II, p.255.

172
non aveva che il proprio stesso nomadismo, la dinamicità del proprio
immaginario, per muovere incontro all’Altro, in cerca della parola che
manca - la parola che acconsente all’incontro, e che Heidegger non fu
in grado di pronunciare.
“Uno stare-per-nessuno-e-nulla”, l’ethos celaniano; “portare
al linguaggio - in quanto dimora dell’essere - la parola inespressa
dell’essere”8, l’ethos inteso dal punto di vista heideggeriano. L’uno
pensava l’abitare, lo stare, come una condizione che si vuole libera,
affrancata da ogni con-venienza, da ogni ger-archia e quindi,
corrispondentemente, da ogni archi-tettura. L’altro, piuttosto,
immaginava la disposizione etica dell’uomo come la con-venienza,
l’ascolto disciplinato del comando (o del mancato comando)
proveniente dall’Essere.

IV.6: “Abitare da poeti o da assassini?”. La poesia come progetto di


libertà.

Il problema, a questo punto, con radicalità si pone così:


“Abitare da poeti, o da assassini?” 1. E’ lo stesso problema che, più
volte, Heidegger pone, nel corso del suo cammino di pensiero; proprio
questo ci assicura della centralità del problema, e tuttavia ci spinge a
rilevare la differenza pratica, effettiva, fra la disposizione etica che
Heidegger pensò ed assunse, e quella celaniana, segnata della sua
condizione di vittima forse più consapevole dei danni sofferti, e
dunque per questo inesorabilmente condannata a tentare, con tutte le
pene del caso, di immaginare una via d’uscita, una liberazione.
8
M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.100.
1
P.Virilio, L’insècuritè du territoire, Stock, Paris, 1976, p.49, cit. da G.Deleuze; F.Guattari,
Millepiani, cit., III, p.60.

173
Non si tratta, qui, di contrapporre l’abitare poeticamente di
Celan, con un ethos oikologico, quale quello di Heidegger, che
apparirebbe, secondo questa prospettiva, intrinsecamente macchiato
dalla complicità con gli assassini. Piuttosto, ciò che vorremmo
sottolineare, è la differenza che Celan imprime alla sua operazione
poetica, rendendola capace di quell’abitare poeticamente, di quella
modalità inaugurale del costruire, di cui Heidegger resta al di qua,
privandone il proprio pensiero come un margine ulteriore, rispetto al
quale esso segna il suo limite insuperabile.
C’è un passaggio, nel saggio di Heidegger “...Poeticamente
abita l’uomo...” in cui ci sembra possibile individuare qual è il bivio,
in cui la strada percorsa dal pensatore si divide da quella del poeta,
precipitandosi nella voragine senza sbocchi di un pensiero
arborescente, gerarchico, dispotico. Parlando della poesia come presa
di misura per l’abitare umano, presa di misura che accade in relazione
alla visibilità o meno di ciò che è estraneo, alla sua capacità di “far-
vedere” ponendo l’estraneo sotto forma di immagini, Heidegger
scrive:

“Per questo le immagini poetiche sono delle


immaginazioni (Ein-bildungen) in un senso
eminente: non pure e semplici fantasie e
illusioni, ma immaginazioni come
incorporazioni (Einschlüsse) visibili
dell’estraneo nell’aspetto di ciò che è
familiare.”2

2
M.Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p.135. Sottolineature nell’originale.

174
Qui il pensiero heideggeriano della poesia si porta in un vicolo
cieco, di fronte al proprio buco nero, alla cui legge di gravità non gli è
dato di sfuggire: il pensatore di Messkirch non può evitare di pensare
l’immaginario del poeta, l’immaginario poetante, a partire dalla
presenza, rinchiudendolo così nell’ambito del presentarsi di ciò che è
presente - in una concezione, come già avevamo rilevato, tutta
logocentrica ed egologica della poesia (laddove il Logos è pensato
come “riunente lasciar-stare dinnanzi ciò che è presente nella sua
presenza”)3.
Pur sotto l’aspetto di un pensiero che medita l’estendersi
minaccioso del dominio dell’impianto, del Gestell come impositività
del mondo della tecnica, anche all’abitare umano, qui, dove Heidegger
riflette sull’essenza poetica dell’abitare, ci sembra essere all’opera in
qualche modo la stessa violenza impositiva, che pure si presenta nel
dominio della tecnica. Se infatti Heidegger stesso descrive l’im-
posizione come: “la riunione di quel ri-chiedere che richiede, che
pro-voca, l’uomo a disvelare il reale(…)come fondo”4, ovvero come
ciò che è presente nel modo dell’impiegabilità, allora anche il Logos,
in quanto il dire che riunisce ciò che è presente nella sua presenza, e
l’immaginazione intesa come incorporazione dell’estraneo nell’ambito
di ciò che è familiare, ossia di ciò che è presente, finiscono per essere
tutti ricondotti a quell’unità, a quella generalità riunitiva, che il
pensiero finisce per avere il compito di esplicitare e di indicare come
una meta da raggiungere: dittatura5 di un’archeologia del sapere e
un’architettura dell’abitare, cui Celan oppone, più che per scelta
3
M.Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p.156.
4
M.Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p.15.
5
Qui intendiamo con ‘dittatura’ il commisurarsi conveniente al dettato dell’Essere, il
destino(Geschick) in quanto il riunente raccogliersi dell’invio(schicken).

175
teoretica per l’assunzione su di sé della propria condizione biografica,
la libertà di un immaginario cartografico e l’anarchia di un abitare
nomade, da esuli.
Se è vero, proprio heideggerianamente, che “nascosto e sempre
in atto di nascondersi è (..)ciò che libera, il segreto(Geheimnis)” 6,
allora piuttosto che seguire fino in fondo Heidegger, che intende il
segreto, il mistero, a partire dal riferimento con ciò che è essenziale,
rispetto a cui il segreto si porrebbe semplicemente come “il velo in
quanto nascondente”7, ci chiediamo: questa concezione del segreto
come velo protettivo dell’essere essenziale, e di conseguenza della
libertà come la modalità di presentarsi, di volta in volta, di questo velo
che maschera la presenza dell’essere, non è forse condizionata, al suo
fondo, dall’impossibilità (in qualsiasi modo essa si sia determinata) di
aprire il pensiero, la totalità del pensiero, al mistero in quanto
tensione, riferimento non pre-determinabile del pensiero, o dell’essere,
all’Altrove rispetto a cui esso, in questo modo, si riassicura? Ciò che
cerchiamo di dire, è che qui anche il mistero, il segreto, è pur sempre
pensato a partire dalla presenza, sia pure da una certa modalità del
presentarsi dell’essere, come essere velato, nascosto. Non c’è posto
qui, nell’ottica con cui Heidegger guarda alla poesia, per un Tu
pensato, celanianamente, come “tutt’altro”, nel cui interesse, e certo
non si tratta di un mero calcolo interessato, il poema spera di riuscire a
parlare8. Il poema si progetta piuttosto come il tentativo di
conquistarsi, di volta in volta, nella lingua, quel “pezzo di terra
6
M.Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p.19.
7
M.Heidegger, Saggi e discorsi, cit., ibidem.
8
P.C., op.cit., III, p.196, dove leggiamo: “Ma io penso(…) che da sempre appartenga alle
speranze del poema, di riuscir pure a parlare, in questo modo, nell’interesse di estranei - no,
questa parola io non posso più adoperarla, ora - di parlare, piuttosto, nell’interesse di un altro-
chi lo sa, forse nell’interesse di tutt’altro.”

176
abitabile”9 a partire dal quale muovere, certo pagando il prezzo di un
nuovo disorientamento, verso l’altro, verso un altro ignoto e che il
poema rinuncia dal principio a determinare, senza illudersi di poterne
condizionare la libertà già avendolo incorporato nel proprio
immaginario, simbolicamente, riunitivamente.
E’ di nuovo “In die ferne”, nella lontananza, che il poema si
orienta, in cerca della sua libertà, progettando il proprio affrancamento
come liberazione dal dispotismo del proprio:

“Mutismo, di nuovo, ampio, una casa –


vieni, tu devi abitare.

Ore, maledettamente disposte a scale: raggiungibile


il rifugio.

Più tagliente che mai l’aria restante: tu devi respirare,


respirare ed essere tu.”10

In questa poesia l’abitare come edificazione di un fondamento


stabile, la dimora in quanto luogo dell’ospitalità per l’Altro, ci sembra
essere descritta in tutta la sua oppressività: nuovamente nel mutismo,

9
P.C., op.cit., II, p.227. Si tratta di una poesia piuttosto significativa, dal titolo: “Denk dir”,
“Pensa”. G.Bevilacqua, in una lunga nota (P.C., Poesie, cit., p.1383-1384), ritiene che questa
poesia sia un’affermazione del suicidio come estrema istanza di libertà, contro l’oppressione; egli
interpreta così, in particolare, il riferimento alla vicenda di Masada, ultimo bastione della
resistenza ebraica contro i romani, in cui i militari giudei e le loro famiglie scelsero il suicidio
piuttosto che finire prigionieri. Ci domandiamo, però: l’espressione “il soldato di Masada/si
conquista una patria” non stabilisce anche, piuttosto, una equazione patria-morte, che forse
potrebbe rappresentare il termine limite, quella tragica letteralizzazione, la patria-lettera morta,
contro cui l’immaginario, in quanto latore di vita, di dinamismo, si attiva, si impegna? Più che
istanza ideale e suprema di libertà, il suicidio rappresenterebbe qui il naufragio, la dignità
dell’unica scelta rimasta possibile.
10
P.C., op.cit., I, 178.

177
il poeta, che ha perso la parola, è però esortato a raggiungere una casa,
sia pure una casa lontana, accessibile solo dopo un lungo tragitto.
Quando però il rifugio viene conquistato, ciò che resta è solo una
piccola porzione d’aria, insufficiente e tagliente: sarà ancora possibile
compiere quell’atto di libertà, quel gesto fondamentale di
capovolgimento, d’inversione (pensiamo qui all’Atemwende, all’anti-
parola come “atto della libertà”) che consiste appunto nel respiro? O
piuttosto del respiro non ne sarà più che uno stanco e soffocato
rantolo?
L’abitare celaniano, l’ethos di Celan, non può prescindere dalla
libertà del respirare, e questa libertà consiste nella possibilità, per il Tu
che la sua poesia interpella e progetta come proprio destinatario, di
essere Tu, di conservarsi nella sua alterità incondizionata, nella
propria lontananza irriducibile. In una poesia che si intitola appunto
“Elogio della lontananza”, Celan scrive: “Apostata solo, io sono
fedele./ Io sono tu, quando io sono io.“11 E’ solo nell’atto pubblico del
ripudio, del rinnegamento, che io, essendo io fino in fondo, posso dar
luogo, nella mia libertà, al dispiegarsi incondizionato della tua, in
quanto altrui, libertà - e viceversa. E’ solo laddove l’immagine si
configura, viene configurata come passaggio, come ferita nella realtà,
piega12, che essa può assegnare, designare delle identità, sia pure come
identità transeunti, transitorie: come appunto, nella poesia “In die
ferne”, in cui l’io del poeta cerca la propria identità, la misura del

11
P.C., op.cit., I, p.33.
12
Qui adottiamo, su un piano ontico, il termine ‘piega’ come traduzione del tedesco Zwiefalt, con
il quale Heidegger designa: “il di-spiego dell’essere e dell’essente”(Heidegger, Saggi e discorsi,
cit., p.50), ovvero quello scarto, quel quid di non-essente, altrimenti denominabile, secondo il
lessico di Derrida, “la differanza”, il differenziante della differenza, quella piegatura che accade
nell’essere, il quale si dà sempre, è differito, come ente. Cfr. anche G.Deleuze, Differenza e
ripetizione, cit., p.90 in nota.

178
proprio abitare, in quella porosità, in quel ritmo, che è proprio del
respiro.13

IV.7: “L’alone Paul Celan”. La fragilità dell’opera come superficie


e la potenza nociva delle coazioni di luce autoritarie.

Identità dissolta e sempre in movimento, in cerca e in battesimo


dei propri frammenti, “l’alone Paul Celan”1 non può essere però
trascritto, ridotto entro la morsa di una trinità, di una triangolazione di
cui il pensiero, pure, potrebbe servirsi, allo scopo di incorporare il suo
immaginario così efficace, così s-viante rispetto alle rigide vie del
concetto, del logos. Non c’è triangolazione possibile, che ci permetta
da individuare la località(der Ort), della parola(das Wort) celaniana,
così come Heidegger tentò di fare, per es. con Trakl. Né località né
parola, giacché siamo di fronte a un flusso in continuo movimento,
un’incessante produzione di parole-luoghi, “attraverso le rapide della
tristezza”2, come recita l’incipit di un’altra poesia.
Al di fuori di ogni triangolazione, bisogna piuttosto individuare
nei termini di riferimento costituiti dal ‘bambino’ e dal ‘folle’- in
particolare, questo secondo termine, molto spesso utilizzato a
proposito di Celan - delle cartine tornasole, dei filtri di contrasto, che
ci permettano di separare la superficie, l’immaginario cartografico e
apolide di Celan, da quelle profondità che lo minacciano, che
rischiano continuamente di comprometterlo e da cui quelle immagini,
13
Cfr. C.Miglio, cit., p.132: “Nella poesia ‘In die ferne’(…)l’io riesce a trovare la propria identità
nel respiro”.
1
Cfr. P.C., Scritti rumeni, cit., p.37: “Partigiano dell’assolutismo erotico, megalomane reticente
persino tra gli scafandri e, al contempo, messaggero dell’alone Paul Celan”.
2
P.C., op.cit., II, p.16, dove la poesia è immaginata come “rilucente specchio di piaghe”, in cui
“si conducono alla foce/i quaranta tronchi di vita, scorticati”, gli anni del poeta, separati eppure
riuniti nel comune destino del fluire - e solo Tu, un tu capace di nuotare contro-corrente, “li
conti/li tocchi/tutti”.

179
appunto, progettano di affrancarsi, affermandosi come atto di libertà,
come l’unica libertà possibile, quella della superficie.
“Nulla è più fragile della superficie”3, scrive condivisibilmente
Deleuze, e l’efficacia distruttiva della trinità bambino-poeta-folle,
spesso adottata sulla base del grottesco pretesto di una somiglianza fra
l’operazione di minorazione del linguaggio, che opera il poeta, con la
balbuzie infantile o la dislessia del folle, è veramente potente e nociva,
laddove applicata alla persona e all’opera di Paul Celan.
Siamo stati noi stessi a sottolineare il nesso profondo, radicale,
dell’opera di questo poeta con la sua infanzia, con il rinvenire dal
profondo dei ricordi e delle tracce di una età che dovette essere
segnata, come la biografia racconta, da violenze e sopraffazioni di non
poco conto. E non possiamo trascurare, certo, al contempo, che la
condizione psicologica di Celan fu segnata, nel tempo, da escursioni
sempre più frequenti in stati emotivi sempre più precari e sofferenti,
che comportarono svariati ricoveri psichiatrici fino all’internamento
forzato del ’68, “in una clinica ove si praticavano rudi trattamenti” 4.
Il fatto è, tuttavia, che si resta troppo al di qua, in una distanza
infeconda dall’opera di Celan, leggendone i versi come se essi fossero
diretta espressione delle difficoltà linguistiche di un eterno bambino (il
balbettio, “lallen und lallen”5, continuamente evocato dal poeta) o
piuttosto il residuale spazio espressivo di una degenerazione psichica
ormai devastante, tale da contaminare irrimediabilmente il linguaggio
rendendolo sempre più desolato e insignificante6. Al di fuori e contro
3
G.Deleuze, Logica del senso, cit., p.79.
4
Lo riferisce G.Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, in P.C., Poesie, cit., p. CIII.
5
P.C., op.cit, I, p.226
6
Adombrano un’interpretazione di questo tipo le parole conclusive di un breve saggio di P.Auster,
che scrive: “Celan alla fine sembra non essere riuscito a tollerare oltre la desolazione, quasi che,
in un certo senso, il mondo per lui non esistesse più. E quando non rimase più nulla, non vi furono

180
ogni autoritaria pedagogia del linguaggio (che concepisce il
linguaggio come una grammatica cui il bambino deve essere costretto
a conformarsi7), e al di fuori e contro ogni psichiatra autoritaria e
dogmatica (che continuamente tenta di imporre, con “luce coatta”, la
propria operazione archeologica al paziente, invece di intensificarne e
stimolarne le sperimentazioni, l’immaginario cartografico), dobbiamo
imparare a leggere nella poesia di Celan quella superficie,
quell’eccedenza, quel “nulla d’inesauribile segreto”8, ovvero il poeta
in-fante, che scrive ciò che non sa dire, proprio in quanto non è un
bambino, delirante, proprio in quanto il suo delirio lo separa dagli
abissi senza ritorno della follia.
Non si scrive, così come non si abita, sulle proprie nevrosi, o sui
propri ricordi d’infanzia. Nevrosi e ricordi costituiscono, piuttosto,
quelle faglie, quei “punti d’interramento”9 in cui le superfici che
l’opera istituisce collidono e in cui, come insegna la tettonica delle
placche, esse sprofondano - il tutto tenuto insieme da un gioco di forze
in equilibrio dinamico, cangiante.
Superfici fragilissime, però, lievi come veli, la cui tenuta è
possibile solo finché il movimento, il processo, continuamente le
rifornisce della spinta necessaria: è l’arresto del processo, il tentativo
di svelare il velo, di far luce su quello che c’è sotto la placca di terra, a

più parole.”(P.Auster, “Celan: la poesie dell’esilio”, <<Micromega>>, n.5, 1996, p.182).


7
Ripensiamo qui all’esemplare contestazione di questa pedagogia - che è poi tutta una visione del
mondo, un’etica, con cui lo stesso Heidegger, con la sua “cura della lettera delle
parole”(M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p.103), finisce per compromettersi - che ci
fornisce Don Milani: “bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i
poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non
parla come loro. O per bocciarlo.”(Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa, LIBRERIA ed.
fiorentine, Firenze, p.19)
8
G.Ungaretti, Vita di uomo, Mondadori, Milano, 1992, p.519. Fra l’altro Ungaretti fu l’unico poeta
italiano tradotto da Celan: cfr. P.C., op.cit. , V, p.422-539.
9
P.C., op.cit., II, p.28.

181
comportare la malattia, il danno, il ri-piegamento piuttosto che ancora
una nuova piega, una nuova ferita.

IV.8: L’etica come eccedenza, dispendio creativo.

Piuttosto, è questa l’esortazione di Celan, “Sprich auch Du”:

“Parla anche tu,


parla in fine,
dì la tua sentenza.

Parla-
Ma non dividere il no dal sì.
Da’ anche il senso, al tuo verdetto:
dagli ombra.”1

Parla anche tu, dunque - ma non dividere il sì dal no, piuttosto


ripara il sì sotto l’ombra del no, preserva il senso, l’espresso, dandogli
ombra, “quanta sai esser divisa, intorno a te, fra/mezzanotte e
mezzodì e mezzanotte”.2
E’ l’ombra ciò che consente alla parola di essere pronunciata
sensatamente, ma non dobbiamo confondere l’ombra col senso, con
l’esprimibile incorporeo che è s-fondo dell’opera: l’ombra è
l’eccedenza, che la poesia mira a costruire, la superficie, che essa
progetta. Non solo l’ombra è il resto, la “restanza”3, ciò che dura e
1
P.C., op.cit., I, p.135.
2
P.C., op.cit., ibidem.
3
Nell’immagine dell’”ombra”, qui evocata da Celan, s’adombra, appunto, quella che Derrida
definisce “restanza”, ossia “il resto non presente” di un voler-dire, “staccato dalla sua
produzione o origine”, ossia la scrittura in quanto dotata di una vita indipendente dal suo autore e

182
resiste contro ogni tentativo di catturare il senso, di riportare il poeta e
l’opera al fondo del suo dire; ma l’ombra, più gioiosamente verrebbe
da dire - ed è forse questa gioiosità, questa danza nietzscheana, ciò che
pedagogia e psichiatria rigettano con senso di scandalo - è dispendio
creativo, produzione desiderante di sovrastrutture, costruzione de-
pensante che abolisce il privilegio di ogni architettura, di ogni sapere.
Si tratta dell’etica, in quanto essa, brechtianamente, viene dopo la
soddisfazione dei bisogni elementari dell’uomo4 - ciò che, nel nostro
occidente bulimico e sovra-alimentato, emerge ora come la domanda
inaudita, che scandalizza e sgomenta il pensiero (a cominciare da
quello heideggeriano, che di fronte alla domanda d’etica si rifugia
nell’ethos pensato come Hütte, come riparata dimora del pensatore).
L’etica in quanto lusso dell’innocenza e del superfluo storico, che si
svincola dalla necessità stringente, dall’economia e dal pensiero stesso
in quanto οικολογία5- tentativo di istituire nel sapere un rapporto
regolato fra il δεινόν, il terribile proprio della φύσις, e il δεινόν della
tecnica umana - l’etica in quanto lusso, in quanto eccesso assoluto, in
quanto Desiderio, non può trovare pace in questo, non può essere
irregimentata entro convenzioni e regolamenti di cui la comunità
umana, pure, ha indispensabile bisogno.

dal contesto in cui si è prodotta, nonché da ogni significato preteso come originale e autentico. Cfr.
J.Derrida, Margini della filosofia, cit., p.407.
4
Ci riferiamo qui all’Opera dei tre soldi di B.Brecht, e alla celebre espressione “Prima viene lo
stomaco, poi viene la morale”(B.Brecht, Teatro, Torino, Einaudi, 1963). Non sarà difficile, né qui
inopportuno, mostrare quanto questa espressione sia intrinsecamente contraddittoria, dal punto di
vista logico, e proprio per questo esibisca senz’altro quell’appartenenza all’Etico, ciò di cui il
linguaggio dovrebbe, ma non può, tacere: ciò che non può essere taciuto, perché né va dell’uomo
in quanto tale, del suo ethos, appunto.
5
Con il termine οικολογία, E.Mazzarella intende: “un sapere che nella sua originarietà si sa
rimesso a ciò che istituendolo nel soggiorno(…)è la sua propria dimora, cui è ri-chiamato per
farsene carico”(cfr. E.Mazzarella, Ermeneutica dell’effettività, Napoli, Guida, 1993, p.133).

183
Non dobbiamo dimenticare l’amore giovanile di Celan per i
testi capitali dell’anarchia6, che trova riscontro nelle sue successive
convinzioni politiche, irriducibili a una qualsiasi delle ideologie
totalitarie del nostro secolo, e fortemente centrata sull’autonomia del
singolo: anche in questo ambito si rispecchia fortemente la condizione
apolide che fu propria all’esperienza ma anche al pensiero, come
stiamo ribadendo, celaniano.
Apolidia e ethos come eccedenza, contro ogni istituzione e ogni
sapere istituito; dunque, anche, l’immaginario cartografico e la
produzione desiderante, contro l’architettura come sapere regolativo,
piano regolatore installato normativamente sul costruire, sulla
domanda etica dell’uomo posta nella sua singolarità: “svelare
l'architettura come forma di polizia per aprire spazi
all'immaginazione derivante.”7
Laddove il sistema non fa che tentare di assorbire le macchine e
le individualità, per dominarne le energie e asservirle in un corretto
regime di funzionamento, che riduca al massimo la propria entropia, la

6
E’ molto arduo, e probabilmente forzato, attribuire a Celan una precisa posizione politica. Senza
ombra di dubbio, la sua fu, più o meno in tutto l’arco della sua esistenza, un’ottica autonoma da
ogni ideologia, segnata da una profonda inquietudine anti-totalitaria: dunque non solo, com’è
ovvio, avversa a ogni forma di nazifascismo, ma pure, e con maggiore complessità, anticomunista,
soprattutto anti-stalinista. Testimonia dell’antistalinismo celaniano il suo profondo amore per
Mandel’stam, vittima appunto della persecuzione stalinista, come pure la sua stima per una
comunista anti-nazionalista come Rosa Luxemburg (la “Rosa del ghetto(…)immortale dopo/ tante
morti inflitte lungo le vie del mattino”, come recita la poesia “Incoronato fuori”, cfr. P.C., op.cit.,
I, 271); nonché la sua posizione nei confronti degli avvenimenti del 1968, che da un iniziale
entusiasmo mutò in rassegnato scetticismo di fronte all’irrigidirsi delle contrapposizioni
ideologiche.
Piuttosto, rimase costante la sua affezione per i testi anarchici, in particolare di Kropotkin e
Landauer, citati da Celan nel discorso “Der Meridian”(cfr. P.C., op.cit., III, p.190), testi che Celan
aveva letto fin dagli anni giovanili, collegandoli in un’ottica appunto antistalinista all’attività
politica di Trotzki(cfr. I.Chalfen, op.cit., p.64).
7
L.Blissett, Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0, Torino, Einaudi, 2000. Luther Blissett, nome
proprio di un mediocre calciatore inglese degli anni ’80, è l’identità collettiva adottata da un
numero indeterminato di persone, negli anni ’90, per compiere una serie di attività (pubblicazioni,
beffe mediatiche etc.)con le quali svelare e manipolare, secondo una matrice culturale
situazionista, i meccanismi di funzionamento del sistema ideologico neocapitalista.

184
poesia, e in particolare la poesia di Celan, tenta di recuperare la
propria innocenza sul piano della costruttività pura, entropica e non
irregimentabile: contro ogni tentativo di collocazione, sia pure la
Erörterung che Heidegger adotta nel suo approccio alla poesia, essa,
la poesia di Celan, oppone il Nirgends, il non-luogo, l’irrintracciabile
come dimora nomade dell’opera.

“Ricercabile, a partire da qui,


il non-luogo, indicato come dimora
dalla rosa, nell’anno del maggese”.8

“Il non-luogo, coperto di sete”.9

E’ qui, in una “terra desolata” che ricorda quella di Eliot, che


si attua il poema: in un non-luogo che la rosa, la rosa “senza perché”
di mistica memoria10, addita al poeta - il non-luogo dell’innocenza o
meglio, l’innocenza per cui non c’è mai luogo, e che pure però
scandalizza e mette alle corde ogni pedagogia, che cerca di contenerne
la domanda etica fondamentale: “abitare da poeti o da assassini”,
come dicevamo, domanda che non accetta risposte di compromesso,
perché ogni compromesso è già uno schierarsi dalla parte degli
assassini. La Legge morale come crudeltà, come l’opera kafkiana e
l’opera di Celan, fra le altre, ci pongono innanzi, in forma di denuncia;
e, come s-fondo di questa denuncia, l’innocenza come un’eccedenza,

8
P.C., op.cit., II, p.199.
9
P.C., op.cit., III, p.74.
10
Ci riferiamo qui al celebre detto di Angelus Silesius, più volte richiamato da Heidegger: “La
rosa è senza perché. Fiorisce, perché fiorisce”. (trad. nostra - cfr. A.Silesius, Il pellegrino
cherubico, ed.Demetra, Bussolengo(Vr), 1995,p.30.)

185
un lusso, sintesi alchemica dagli imprevedibili sviluppi, cui l’opera si
offre come non-luogo su cui tracciare immagini, la cartografia mai
definitiva delle proprie intensità, dei propri affetti. Giacché
l’immagine ha un limite, un’immagine limite, che è la morte, il
cadavere: “l’uomo è disfatto secondo la sua immagine” 11, scrive
Blanchot, e il veto biblico per cui non dev’essere fatta alcuna
immagine di Dio, evoca appunto questa potenza mortifera, distruttiva,
dell’immagine, cui l’opera resiste opponendovi la propria innocenza,
la propria incessante vitalità, le proprie traiettorie in divenire.
“Il poeta(…)parla, ma senza inizio. Dice, ma non si riferisce a
qualcosa da dire”12: piuttosto è il bianco della pagina, ciò che la
poesia lascia emergere, e le parole, disposte sulla pagina, sono tracce,
indizi di sentieri possibili, mediante i quali tentare di orientarsi in tutto
quel bianco (“Ho tentato di scrivere poesie(..)per orientarmi”13), in
tutto quel vuoto, che (non) è il non-luogo, in cui dimora l’opera. Esso,
il non-luogo dell’opera, continuamente rimanda il lettore alla
possibilità perturbante dello spaesamento, l’inquietante minaccia del
“non-sentirsi-a-casa-propria14”, cui la poesia offre, come
testimonianza, ethos, la propria parola circoncisa, la scrittura come
schibboleth, “vera di cicatrici”15: non edificazione di una rassicurante
conoscenza fondativa, ma solo più l’innocente enigmaticità - il
segreto- di un Flaschenpost, che più che dire qualcosa ripetutamente
ci addebita come una colpa il troppo del nostro dire, ciò che,
otturandole, rende mute le nostre bocche: il messaggio in bottiglia,

11
M.Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p.228.
12
M.Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p.37.
13
P.C., op.cit., III, p.186.
14
M.Heidegger, Essere e tempo, cit., p.237.
15
P.C., op.cit., VII, p.122.

186
scrive Celan, “ascolta/ un tal mare, lo beve/ fino in fondo, rivela/ le
bocche impenetrabili”16.

IV.9: L’oblio come potenza d’U-topia. “Egli vede- chi è fanciullo


negli occhi”.

Il bianco della pagina, il vuoto di un piano desertificato su cui


dispiegare le imprevedibili carte d’affetti, di immagini, che l’opera
dispone e invia al lettore: la poesia di Celan è sempre tensione di
“Mohn und Gedächtnis”, papavero, oblio, e memoria, come recita il
titolo della prima raccolta ufficiale. Se pure il ricordo, l’operazione
rimemorante mantiene, soprattutto nelle prime sillogi, il senso di un
legame inscindibile con il proprio destino, con i residui frantumati e
sparsi ovunque di una eredità avvertita come una colpa, è la
dimenticanza, l’oblio, a essere invocato come forza dell’U-topia,
come la maestà dell’assurdo che, lo leggiamo nel discorso “Der
Meridian”, è il segno evidente della presenza dell’umano.
Scrive Nietzsche:

“Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo


inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola,
un primo moto, un sacro dire di sì”.1

Ciò che la poesia di Celan, a nostro modo di vedere, tenta di


portare in salvo, inviandolo in forma di messaggio cifrato, di
messaggio in bottiglia, attraverso il grande mare dove nulla può più
16
P.C., op.cit., II, p.146.
1
F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p.25, grassetto nostro. Impressiona, fra l’altro,
l’immagine della “ruota ruotante da sola”, se confrontata con l’immagine del meridiano, la linea
che, tornando su sé stessa, può avviare il poema all’incontro. J.Felstiner in più punti del suo libro
fa presente come Nietzsche rappresentasse una delle più importanti fra le letture di Celan: cfr.
J.Felstiner, cit., p.96 e p.140.

187
gestirne le sorti, è l’innocenza, l’in-fanzia come domanda etica, come
limpida affermazione della potenza dell’inizio: ogni poesia di Celan
tenta di essere un nuovo inizio, un primo vagito, eppure ogni poesia ci
mette davanti tutto il carico della sua memoria, della storia di chi la
scrive - le sue radici ebraiche, le sue conoscenze di botanica e di
filosofia, la sua biografia. Inesorabilmente, le parole testimoniano per
la memoria ed è solo il bianco della pagina, ciò che logora e impedisce
l’univocità del messaggio, ciò che fa dissolvere l’identità dell’autore,
ciò che lo rende irrintracciabile dietro lo scritto; solo questo, il bianco
della pagina, la bottiglia del messaggio2, custodisce e tiene in vita tutta
la vitalità dell’inizio, l’affermatività di un ethos che vuol essere
creatore di valori a partire dalla singolarità della propria esperienza.
Se è vero che, sempre seguendo Nietzsche, “soltanto quel che
non cessa di dolorare resta nella memoria"3, solo l’oblio, l’apolidia
come modalità del soggiorno, può rappresentare quella deriva salutare,
inaugurale, che salvaguardi l’innocenza da ogni tentativo di incisione,
di iscrizione di una legge morale basata sul debito e sulla colpa. “Egli
vede - chi è fanciullo negli occhi”4, scrive Celan.

IV.10: L’opera di Celan come lettera bruciata. L’amore al di là del


sapere.

Quanto all’opera di Celan, si tratta, quindi, di un Flaschenpost,


di una lettera, come lui stesso la definisce: lettera che custodisce un

2
Per ‘bottiglia’ qui intendiamo: tutto ciò che ottiene quell’effetto di criptazione, di indecifrabilità,
che protegge e custodisce l’innocenza germinale dell’autore, da ogni possibilità di identificazione:
dunque, per restare alla metafora del Flaschenpost, non solo la bottiglia, ma anche il mare
nell’imprevedibilità delle sue correnti, la grafia, il foglio, la disposizione delle parole, etc. Tutto
ciò - l’opera - si adopera affinchè l’autore non possa venire trovato, affinchè l’innocenza del gesto
della scrittura possa affermarsi fino in fondo.
3
F.Nietzsche, Genealogia della morale, trad. di F.Masini, Milano, Adelphi, 1984, p.49.
4
P.C., op.cit., I, p.224.

188
ethos affermativo, creativo, lettera che detiene e mantiene al mistero
dell’incontro tutta la segretezza che gli è dovuta - quella segretezza,
indecifrabilità senza la quale esso, il mistero, non può essere tale, e
che si manifesta nella indeterminabilità delle identità, l’io e il tu, fra i
quali questo incontro avviene o manca. Essa, la lettera, non è però una
lettera rubata, una lettera il cui contenuto segreto conferisce un potere
decisivo a chi lo possiede, essendo costui in grado di renderlo
pubblico, come nel celebre racconto di E.A.Poe. Non c’è verità,
infatti, da ricercare nella lettera - essa, piuttosto, la lettera, l’opera,
mette in opera il lusso dell’assenza, la scrittura come sottrazione della
verità: non mancanza della verità, piuttosto la traccia come ri-mozione
della verità, come differanza1. Per il Tu, cui è inviato questa lettera,
per Altri, cui essa si destina, non si tratterà di sottrarre alla lettera il
potere che le è proprio - potere che è ciò che appunto ad essa non è
dato, in quanto si tratta di una lettera illeggibile, indecifrabile.
Piuttosto, l’indecifrabilità della lettera affida a chi la riceve il dubbio,
il sospetto sulla propria identità: è proprio a me che è destinata questa
lettera, questo messaggio in bottiglia? Chi sono io, dunque? Cosa vuol
dirmi, questa lettera? Cosa può farmi dire?
Nel suo non-detto, e nel sospetto su di sé che essa induce in chi
la legge, l’opera di Celan piuttosto ci mette in una condizione, che è
simile a quella dell’amico di Kafka, Max Brod, cui lo scrittore ordinò,
in punto di morte, di bruciare tutto ciò che dei suoi scritti ancora non
fosse stato reso pubblico. “Dobbiamo bruciare Kafka?”2, si chiede
1
Con questo termine, calco italiano del francese ‘différance’, J.Derrida intende “il dispiegamento
storico ed epocale dell’essere o della differenza ontologica”, in quanto esso è effetto intra-
metafisico della differanza stessa. Cfr. J.Derrida, Margini della filosofia, cit., p.50 e
passim(evidenziatura nell’originale).
2
In realtà, la domanda fu posta in questi termini, poco dopo la seconda guerra mondiale, da un
settimanale comunista. Essa venne poi ripresa da G.Bataille in La letteratura e il male, trad. di

189
Bataille, e nessun lettore di Kafka può prescindere da questo sospetto
su di sé, sulla propria condizione di lettore che disubbidisce all’ordine
testamentario dell’autore. Ci sono dei libri, che però non furono scritti
per essere letti: essi furono scritti, invece, affinchè Altri, ricevendoli, li
bruciasse.
E oggi, di fronte alla lettera di Celan, che non è più tale, non è
più la sua lettera, proprio in quanto ci arriva (essa è lettera, al
contrario, proprio in quanto le è inscritto il poter-non-arrivare, così
che l’effettività del suo arrivo le sottrae la sua essenza, dissolvendola),
ci chiediamo: dobbiamo bruciare Celan, la sua lettera?.
“Ardere ardere ardere”3, scrive Eliot, e la poesia di Celan, essa
stessa, è un rogo; come scrive Bataille a proposito di Kafka, si tratta di
“libri destinati al fuoco, oggetti ai quali manca, in realtà, di essere in
fiamme. Esistono per scomparire”4, non per essere letti e archiviati
nella memoria, ma per suscitare, in noi, la sacralità e la vitalità che è
propria della fiamma. In questa pira si effettua e si consuma, come nel
crogiolo di un alchimista, ogni possibile combinazione di elementi,
ogni possibilità di sintesi, ogni tentazione di individuare la verità,
l’origine, la causa, pietra filosofale in grado di trasformare in oro la
materia, l’esperienza comune, e tuttavia irreperibile:

“(…)tutti i nomi, tutti i nomi


arsi assieme. Tanta
cenere da benedire. Tanta
terra conquistata

A.Zanzotto, Milano, SE, 1997, p.137.


3
T.S.Eliot, La terra desolata - Quattro quartetti, cit., p.53.
4
G.Bataille, La letteratura e il male, cit., p.137.

190
sui
leggeri, così leggeri
anelli
d'anima.”5
Non c’è più origine né verità da ritrovare, da ricordare, per chi
legge Celan, nell’in-fanzia di Celan e nella nostra infanzia di lettori;
solo nuova terra da conquistare, la leggerezza degli anelli di fumo
dell’anima, finalmente libera, libera di immaginare, libera per
l’amore.6.
C’è un’eticità potente, in questo invito celaniano: “Non leggere
più - guarda!/Non guardare più - va’!”7: non siamo invitati a leggere,
piuttosto a superarci, nella lettura, a spostarci ancora - magari a
tastoni, a occhi chiusi, come dei bambini, senza nessuna garanzia sul
senso del nostro movimento, se non la fiducia nella fertilità della
propria insipienza. Non-sapere, dimenticanza che custodisce per noi la
possibilità del futuro, l’innocenza in quanto essa non cessa di
inventare nuove immagini, altre biografie possibili: solo questo può e

5
P.C., op.cit., I, p.227.
6
Come correttamente scrive G.Bevilacqua a proposito della poesia “Chymisch”, da cui abbiamo
tratto i versi precedenti, qui e in molte altre poesie lo sfondo è quello dell’Olocausto- il brucia-
tutto, come lo chiama Derrida - “come un buco nero calarsi nel quale significa partecipare
dell’annientamento”(G.Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, in P.C., Poesie, cit., p.LXXXI). Non
dobbiamo però abbandonarci a un’interpretazione troppo letterale, secondo cui questi versi
intenderebbero semplicemente commemorare l’evento auschwitziano, come una sorta di resoconto
scritto con fastidiosa melodiosità. Celan tese, piuttosto, in molti modi a mimare, a riprodurre in
forma di doppio, i fatti più tetri del nazismo: ricorda lo stesso Bevilacqua(cfr. ivi, p. XXXIII), che
la dizione con cui egli lesse “Fuga di morte” davanti ai poeti del “Gruppo 47” fu da uno di loro
offensivamente definita “il tono di voce di Goebbels”. Ciò che noi rileviamo, in questa mimesis, è
la differenza che la poesia, in quanto produzione di immagini, liberazione di territori possibili, fa,
costruisce, nel suo farsi rogo, olocausto, dei propri stessi ricordi. La “terra conquistata” di questa
poesia non è, come scrive Bevilacqua, “la patria immateriale verso cui si appunta la
nostalgia”(ivi, p.LXXXI) del poeta, essa è, piuttosto, proprio la terra, conquistata, strappata, a
ogni idea di patria, di nazionalismo. C’è un altro verso della piega-soglia che la poesia di Celan
rappresenta; perché continuare a leggerla solo mediante la chiave della memoria, e non piuttosto
in direzione dell’oblio, che essa intenta?
7
P.C., op.cit., I, p.195.

191
deve, celanianamente, sopravvivere alla lettera, e al rogo che la rende
alla sua assenza.
Come nella scena finale di un film, dedicato al IV
comandamento, “Onora il padre e la madre”8- appunto il
comandamento nel nome del quale l’infanzia sempre venne ed è
sopraffatta e abusata, come nel caso di Celan - l’amore comincia
appunto laddove la conoscenza perde valore e necessità, laddove la
domanda sull’origine non può più essere posta, e si tramuta nella
solidarietà fra chi, straniero innanzitutto a sé stesso, sceglie e progetta
insieme il proprio presente, “dentro il mistero dell’incontro”, entro un
segreto che nessuno potrà più svelare, giacché la lettera - la parola e la
missiva - che lo deteneva è stata bruciata: affinchè appunto l’amore
potesse affermarsi, libero dalle catene del sapere.
“Perché la lettera uccide, ma lo spirito vivifica.”9

8
Ci riferiamo qui al film “Decalogo IV- Onora il padre e la madre” del regista polacco
K.Kieslowski, in cui una lettera, scritta dalla madre in punto di morte, ritrovata dalla figlia ormai
adulta, potrebbe rivelarle, se aperta, che l’uomo che l’ha cresciuta come un padre non è il suo
padre naturale. Tra i due, una volta sorto il sospetto sulla natura del loro rapporto, sta per nascere
un amore diverso, non più filiale; ma la verità resterà sconosciuta, perché la lettera verrà bruciata
prima di essere letta, e solo una scelta fondata sul mistero, deciderà, alla fine, sulle sorti del loro
rapporto.
9
AA.VV., La sacra bibbia, cit., seconda lettera ai Corinzi, 3,6.

192
CONCLUSIONE

“Val la pena tornare, magari diverso”.10

Nel maggio ’68, mentre in Francia e nel resto del mondo si


scatenava la rivolta studentesca, Celan, che ormai abitava in un
appartamento da solo, separato dalla famiglia a causa delle sue
instabili condizioni psichiche, ebbe a vivere, probabilmente, uno degli
ultimi momenti felici della sua vita, destinata a concludersi
tragicamente esattamente due anni dopo. Le biografie di Celan
ricordano, in particolare, una passeggiata per Parigi col figlio Eric,
allora tredicenne: il figlio poté osservare, orgoglioso, il padre che
cantava l’Internazionale e altre canzoni rivoluzionarie, associandosi
alla ribellione studentesca.11

10
C.Pavese, Lavorare stanca, Torino, Einaudi, 1943, p.113.
11
Lo riferisce, fra gli altri, J.Felstiner, op.cit., p.258.

193
Due poesie12, dedicate appunto al figlio, celebrano quei giorni,
con una sintesi che rivela limpidamente quale fu la delusione di Celan
nei confronti del movimento sessantottino, ma soprattutto quale fu la
sua posizione, la sua scelta di campo: scelta, ethos che privilegiava la
singolarità e la libertà dell’individuo contro ogni tentazione ideologica
totalitaria, comprese quelle che presto iniziarono a circolare fra le
barricate della rivolta.
“Nel megafono/grufola la Storia”13, afferma una di queste due
poesie, ma l’altra conclude, esplicitando la scelta di Celan: “tu, figlio,
la mia mano che sfreccia/con la tua.” 14. In questo episodio di vita, e
nelle poesie che ne rendono testimonianza scritta, si ravvisa la
permanenza di un residuo di vitalità emotiva, di un filo rosso
sottilissimo e tuttavia ininterrotto, come l’anello di un meridiano, che
perdura, nonostante tutto, carsicamente, fino in fondo, nell’opera di
Celan - fino alla sua morte e oltre, fino a noi lettori. Un residuo di
vitalità, uno scarto: esso non si lascia ridurre entro le maglie della
storia, ne devia, ne è lo sviamento. Piuttosto la pudica emozione di
una stretta di mani, che l’imitazione sfacciata del saluto a mani tese
hitleriano, di cui gli studenti facevano bella mostra contro la polizia:
“non è così semplice”15, commentò Celan, non è abbastanza semplice,
quando il flusso di desiderio è contenuto nella mimica di una recita già
sin troppo vista, nella ritualità dell’ideologia consueta.
La potenza di una stretta di mani è generazione di velocità,
rigenerazione del flusso: le due mani, quella del padre e del figlio,
unite sfrecciano come dardi, così ce le mostra la poesia, e ci sembra di
12
Cfr. P.C., op.cit., II, p.372, e II, p.376.
13
P.C., op.cit., II, p.376.
14
P.C., op.cit., II, p.372
15
Cfr. J.Felstiner, op.cit., p.258.

194
vederli, il padre e il figlio, tenersi per mano nelle vie brulicanti di
Parigi. Divenire-impercettibile16, del padre nel figlio e del figlio nel
padre. Difficilmente il figlio di Celan, nonostante i gravi problemi
psichici del padre, avrà dovuto risentire di sofferenze e disagi della
stessa natura: quel residuo di infanzia non del tutto rimossa, quel
residuo affidato alla scrittura come l’unica ri-mozione capace di
custodirla, riaffiora come l’elemento decisivo lì, nell’incontro fra il
padre e il figlio, incontro che respinge l’autoritarismo del megafono
scegliendo, piuttosto, la libertà piena di pathos della stretta di mani.
Incontro fra padre e figlio, incontro intriso di mistero fra l’”ormai-
non-più”17 della nostra condizione adulta e il “pur-sempre”18,
l’insistenza di un bambino che è in noi, e che non possiamo mettere
del tutto a tacere senza mutilare, per sempre, la nostra vitalità.
Afferma Alice Miller, psicoterapeuta che ha rigettato e
decostruito a fondo l’autoritarismo insito nei metodi psicoanalitici e
pedagogici tradizionali:

16
Cfr. G.Deleuze; F.Guattari, Millepiani, cit., vol.II, p.214, dove il divenir-impercettibile è così
definito, con parole che adombrano la poesia come meridiano, come linea immaginaria: “ridursi a
una linea astratta, un tratto, per trovare la propria zona d’indiscernibilità con altri tratti ed
entrare così nell’ecceità come nell’impersonalità del creatore”.
17
P.C., op.cit., III, p.197.
18
P.C., op.cit., ibidem.

195
“Coloro che già da bambini sono stati
manipolati dal punto di vista ‘pedagogico’,
da adulti non si accorgeranno più di tutte le
prevaricazioni che si possono fare nei loro
confronti.”19

Non fu questo il destino di Celan, di non accorgersi; piuttosto il


suo tormento fu, come quello di tutti i bambini maltrattati, quello di
non riuscire a dire, quello di essere in perpetua e insistente mancanza
di parole per l’indicibile sofferenza patita: impegno intollerabile di
render cosciente a sé stesso e ad Altri, ciò che solo in quanto
inconscio, in quanto segreto, manteneva la sua potenza, la potenza
dell’origine, ciò che nemmeno la sua scrittura bruciante riuscì a
consumare fra le vampe di un rogo. In quel radicamento terribile, che
incise sulla lingua di Celan quell’oscurità, l’impronunciabilità di uno
schibboleth come marca del passaggio, che ne caratterizza la poesia,
risiede quella miseria di cenere, che siamo chiamati a non
commemorare, piuttosto a bruciare, infine, con tutto il resto.
“Val la pena tornare”, recita un verso di Pavese, uno dei tanti
suoi versi intrisi del dolore del nostos - ma non si torna più come
prima, non c’è ripetizione senza differenza: non è nell’origine ebraica,
né, infine, nell’infanzia del poeta, nelle presunte ripetizioni coatte che
essa produrrebbe sull’opera e sulla vita del poeta, che possiamo
rintracciare la verità della sua poesia. Essa, piuttosto, non ha verità,
non detiene messaggi, il suo messaggio, in quanto Flaschenpost,
inviato fra i flutti da un poeta naufrago, non è più in potere della sua
lettera, ne è differito, ne è la differenza criptata. Involuzione che
19
A.Miller, La persecuzione del bambino, cit., p.217.

196
dissolve le forme, il naufragio è l’atto che libera la potenza della
creatività dalle figure che la imprigionano. E’ la velocità delle mani
dardeggianti di Paul e Eric Celan per le vie di Parigi, che oltrepassa le
barricate e i ricordi, che dimentica e produce. E’ in questo saettare
bruciante, che la nostra operazione di lettori resta folgorata - e si
domanda un pensiero, un po’ di filosofia almeno, che lenisca le ferite
della ragione.
Filosofia, quest’affettuosa amicizia, prossimità con un sapere
che si ama, essendone per sempre esclusi. Non possiamo soffocare il
nostro stupore, stupore filosofico certo, quando la poesia di Celan ci
mette di fronte alla nostra impotenza concettuale, alla povertà dei
concetti che esibiamo.
Essa, tale povertà, richiama e rispecchia la miseria di un’altra
esclusione: “I vostri figli non sono i vostri figli”20, proclama un poema
molto noto - in povertà dei nostri concepimenti, costantemente siamo
in cerca di concetti come un carceriere abbisogna di chiavi. Ma lo
sguardo che mira fuori dalle sbarre, un’”occhio tagliato a strisce” 21
per attraversare le grate, l’evasione - codesta è l’in-fanzia, ciò che la
filosofia non detiene, ciò che è in potenza d’Altro, forse qualcosa di
molto prossimo a ciò che chiamiamo ‘poesia’.
Più volte, è capitato, e capiterà ancora, di sentir chiedere:
“perché i poeti?”, domanda che risuona ancora più inquietante,
fastidiosa come un pungolo, quando l’esitazione, il sospetto,
coinvolge un particolare poeta, nei cui versi ci è sembrato di scoprire
qualcosa che non sapevamo, e che tuttora ci sfugge.

20
G.K.Gibran, Il profeta – Il giardino del profeta,a cura di T.Pisanti, Roma, Newton Compton,
1989, p.28.
21
P.C., op.cit., II, p.19

197
Non possiamo accontentarci, in miseria dei nostri concetti, di
attribuire alla poesia, in particolare di Celan, il successo di
un’operazione di rimemorazione - Edipo poeta, sia pure nel rumorio di
assordanti marchingegni linguistici - di cui il pensiero sarebbe,
altrimenti, incapace. La poesia di Celan non ci racconta la sua
infanzia, ma è proprio nell’insistenza di quel “non”, nella persistenza
di un evento che sfugge a ogni dicibilità, a ogni coscienza, nella
sussistenza di un Es che non può essere ridotto a Io, in questa che
abbiamo chiamato con Levinas “resistenza etica”22, che essa ripone e
salvaguarda il suo mistero, il mistero che l’incontro - ad esempio
l’incontro e la prossimità di mani col figlio - custodisce e protegge
nell’amore, piuttosto che svelarlo e svilirlo nelle strette maglie della
conoscenza, sottoposto alla luce coatta dell’interpretazione.
Quando la poesia raggiunge la sua soglia, come accade
nell’opera di P.Celan, quando la poesia si fa essa stessa soglia,
passaggio criptato fra il noto e l’ignoto, fra il conscio e l’inconscio, fra
Io e Altri, fra nominazione e silenzio, allora la domanda su cosa sia la
poesia, ovvero su perché P.Celan è poeta, si manifesta in quanto
domanda che non si può evadere (sfuggire, ma neppure esaurire), e
tuttavia, domanda ineludibile: “interruzione dell’ordine ludico, del
bello e del gioco dei concetti e del gioco del mondo”23, come scrive
Levinas.
Domanda che interrompe la stretta di mani, innanzitutto quella
stretta di mani fra il padre e il figlio, di cui abbiamo detto prima - essa,
la questione su cosa sia la poesia, non appartiene alla poesia, così
come la domanda su perché Paul Celan sia poeta, non ha niente a che
22
E.Levinas, Totalità e infinito, cit., p.204.
23
E.Levinas, “De l’etre à l’autre”, in “P.C.”, <<Revue des belles Lettres>>, XCVI, 1972, 2-3.

198
fare con la sua poesia, ne resta ben lontano, ne mantiene e provoca le
distanze.
Forse c’è troppa serietà in questa domanda, un’inquietudine mal
sopportata, una fastidiosa e martellante coazione di luce, ed è
ricchezza e il lusso di uno slancio etico, se l’opera non vi corrisponde,
se non v’è traccia nell’opera di una risposta, a domande e inquietudini
come queste.
“Nessuno sa nulla di me”24: così recita Gracchus, il cacciatore,
nel racconto di Kafka che fu oggetto dell’ultimo seminario tenuto da
Celan all’università, poco prima di decidersi al suicidio. E’ al Nessuno
di ‘Psalm’, che corre il pensiero: “Noi siamo un nulla/(…)la rosa di
Nulla, la/ rosa di Nessuno”25. E’ nel nulla, che giace riposto il segreto
dell’opera, e tuttavia non si tratta di un mero niente, piuttosto, è un
nulla che appartiene a nessuno, che nessuno può rivendicare per sé, su
cui solo Nessuno può esercitare il suo potere. Volendo, potremmo
indagare psicologicamente fino a svelare, sotto le mentite spoglie di
‘Nessuno’, l’assassinio edipico della figura paterna, ma sarebbe
davvero un aver cara la pelle, troppo affrettato, troppo comodo.
Piuttosto, ci inoltriamo qui nei meandri dell’impensato,
dell’impossibile, della contraddizione pura - il cacciatore Gracchus è
un morto che tuttavia continua a vivere, vagando col suo battello
funebre - di cui la poesia si assume il compito, il fardello: “la poesia
si afferma al margine di se stessa”26, scrive Celan, essa non ha sede né
24
F.Kafka, Tutti i racconti, cit., p.258. Il cacciatore Gracchus, caduto in una rupe della Foresta
Nera mentre inseguiva un camoscio, ormai defunto non trova pace per le sue spoglie perché il
battello funebre, che dovrebbe condurlo alla sepoltura, subisce misteriose deviazioni ad opera delle
correnti, o forse del capitano. Anche la sosta a Riva del Garda, dove il battello infine approda
suscitando l’interesse del sindaco del paese, non si rivelerà definitiva: “il mio battello(…)va con il
vento che spira nelle regioni più basse della morte”(op.cit., ibidem), conclude il cacciatore. Cfr.
anche J.Felstiner, op.cit., p.283.
25
P.C., op.cit., I, p.225
26
P.C., op.cit., III, p.197.

199
centro, essa è periferia, girare intorno, una modalità dell’aggirare. “Il
margine è il luogo della poesia”27, chiosa Vitiello: quando insorge il
sospetto su chi sia, e perché, il poeta, è al margine del nostro sapere,
che dobbiamo condurci, lì dove lo spettro dell’in-fanzia, di quel nulla
per cui non abbiamo parole e che tuttavia sappiamo essere ben più che
ni-ente, ci costringe a balbettare comunque una risposta - una risposta
che non potrà che essere evasiva, perché è dell’evasione stessa, che si
parla.
“Le ultime lezioni, lo sapete, sono già state fatte, da sempre” 28,
così si espresse Deleuze, avviando la sua ultima lezione universitaria.
C’è un insegnamento paradossale, in queste parole, che forse
dobbiamo tenere presente, avviandoci alla conclusione: ciò che il
pensiero non può insegnare, se non abdicando a sé stesso, giace
riposto nell’inizio, nel cominciamento, in quello slancio che è il
cominciare - e che è uno slancio etico, un moto del desiderio, il modo
del nostro soggiornare. E’ la creatività, l’innocenza del divenire, regno
di un eracliteo gioco infantile, ciò che non si insegna, ciò in vista del
quale ogni insegnamento e ogni educazione trova il suo senso e il suo
limite.
E’ il fasto e l’eccedenza di quest’innocenza, ciò che nessuna
pedagogia può insegnare - quello sporgersi oltre il limite della
ringhiera, che ogni genitore teme per il proprio figlio. Ma la poesia è
proprio la voragine dell’inizio, la vertigine che prende quando non c’è
più limite al senso e cessa ogni senso del limite, quando la parola è

27
V.Vitiello, Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, cit., p.112.
28
Cfr. C.Arcuri, “Le ultime lezioni sono già state fatte, da sempre”, in G.Deleuze; F.Guattari, Che
cos’è la filosofia, cit., p.243.

200
spinta all’eccesso, come ci sembra che accada, appunto, nella poesia
di Celan.
“Inizio di tutto ciò che è [è] il Senza-limite”29, afferma il più
antico dei detti filosofici; ed è solo nella vitalità di un amore
eccessivo, che possiamo operare quel salto nell’inconscio che ci
conduce presso i nostri figli - presso l’in-fante che noi stessi siamo, in
prossimità di quell’in-decifrabile che è potenza del nostro divenire, la
cifra che non è numerabile. Giacché “Noi amiamo in noi non uno
solo, un che/di futuro, ma/ l’innumerabile fermento”.30
Non riuscì, a Celan, esistentivamente, quel salto - che si
convertì piuttosto nel tragico tuffo nella Senna, con cui egli pose fine
ai suoi giorni.
E tuttavia, una poesia, una limpida testimonianza d’amore, ci
mostra come in lui fosse viva quest’esigenza, l’amore per il senza-
limite, che eccede ogni pedagogia e ne è la verità, e che forse gli
permise di proteggere, se non la propria, l’infanzia innocente del figlio
Eric, di incontrarlo davvero in quella stretta di mani piena di segreto,
che è la poesia.
“HO TAGLIATO BAMBU’:
per te, figlio mio.
Ho vissuto.

Questo rifugio, che domani


sarà spostato, pure
regge.

29
Si tratta del fr. DK12-B1, cit. da Talete, Anassimandro, Anassimene, I frammenti, a cura di
S.Martinelli Tempesta, Marcos y Marcos, Milano, 1992, p.50, traduz.nostra.
30
R.M.Rilke, Elegie Duinesi, trad. di E. ed I.De Portu, Torino, Einaudi, 1978, p.21, trad.nostra.

201
Io non lo costruii con te: tu
non sai in quali
vasi io misi la
sabbia circostante, anni fa, per
ordine e decreto. La tua
sorge dalla libertà – e resta
libera.

La canna, che qui ha attecchito, domani


starà pur sempre in piedi, ovunque
l’anima ti conduca nel Non-
-limitato.”31

31
P.C., op.cit., I, p.264.

202
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all’opera omnia, cui abbiamo fatto riferimento nel nostro lavoro. Si fornisce, inoltre, un elenco
completo delle traduzioni italiane finora edite.
Per quanto riguarda gli studi critici, la bibliografia – soprattutto quella in lingua- su Paul Celan è
ormai sterminata; si è preferito, pertanto, indicare i soli titoli di cui ci siamo serviti, nelle edizioni,
italiane o in lingua, da noi utilizzate. Si rimanda, per una più ampia bibliografia, a P.C., Poesie, a
cura di G.Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p.1399-1441.

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