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RIASSUNTO

“PSICOLOGIA CULTURALE E DISCORSIVA”


1. Nel mare del senso
Premessa
La semiotica, ovvero un’accurata riflessione sui segni. La psicologia dovrebbe riconoscere che gli
individui acquisiscono lo status di “persone” proprio dall’abitare diversi ambienti locali della
semiosfera. Le pratiche di ricerca psicosemiotica devono fronteggiare tre piani di discussione,
prospettati da Mecacci, e rispondere a tre domande di fondo:

1. La domanda epistemologica
2. La domanda teorica-metodologica
3. La domanda politica

Le prime due domanda inseriscono la psicologia nelle scienze umane; l’ultima domanda risponde
alla necessità di dare alla psicosemiotica un radicale orientamento critico. La psicosemiotica è una
psicologia culturale a indirizzo “discorsivo”.

1. La cultura come forma di vita umana


La psicologia è caratterizzata da ambivalenza. Wundt, dopo aver istituito il primo laboratorio di
psicologia sperimentale, si impegnò nella “psicologia dei popoli”, che attualmente si collora tra la
“psicologia sociale” e la “psicologia culturale”. Mentre la psicologia sociale specifica l’oggetto di
indagine, individuando un’area problematica (pregiudizio, aggressività, solidarietà), la psicologia
culturale caratterizza il “modo” o la natura dell’indagine, in quanto iscrive qualsiasi fenomeno
psicologico nell’ordine del simbolico proprio delle produzioni culturali. La psicologia culturale
rilancia un preciso indirizzo epistemologico indicato da Bachtin come approccio dialogico allo
studio della mente, il cui assunto fondamentale è la necessità dell’Altro perché si possa pensare il
Sé.

1.1 Per un’altra psicologia…


Il fascino del sapere psicologico è vertiginoso, attratto da un lato dal riduzionismo biologico,
dall’altro dalla dissoluzione semio-socio-storico-antropologica; tuttavia è ancorata fin dall’inizio
alle scienze naturale. Lo stato di crisi può trasformarsi in opportunità di crescita costantemente
rinnovata se la ricerca psicologica riconosce il suo radicamento semiotico (Mininni). Tale
prospettiva ha ricevuto riconoscimenti grazie allo sforzo di rinnovamento noto come
“costruzionismo sociale”, ovvero un paradigma funzionale a tutte le “proposte di un’altra
psicologia”, perché favorisce un’indagine tesa a rintracciare una intelligibilità dell’essere umano
complementare e alternativa a quella “sperimentabile” in laboratorio. Si parla di “psicologia altra”
o “scienza romantica” perché è ancorata al tema della intenzionalità umana. Benché ancorata alle
pratiche dell’agire intenzionale, la questione dell’intenzionalità è stata presa in carica dalla
psicologia culturale, la quale si propone come lo “studio dei mondi intenzionali”.

1.2 … adeguata al vortice della semiosfera


Da sempre l’umanità è assillata dalla “domanda di senso”, ma nel Novecento le scienze umane
capiscono di dover convergere verso l’analisi della comunicazione. Un indicatore di tale attrazione

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può essere lo sviluppo della semiotica, che da studio generale dei segni mira a proporsi come
teoria dell’enunciazione. I fenomeni che il lessico ci consente di distinguere in “significazione” e
“comunicazione” in realtà sono inseparabili. La significazione consiste in procedure
intraindividuali, e la comunicazione in procedure interindividuali, ma in realtà la significazione è
un “fenomeno social, dipendente dai sistemi culturali”, mentre la comunicazione, dovendo essere
intenzionale, richiede l’apporto, più o meno consapevole, di menti capaci di “stare al gioco”.
Nella teoria di Peirce la semiosfera è organizzata dalla tripartizione in indici, icone e simboli in base
alla natura del rinvio che il representamen (cioè la materia significante) fa all’oggetto attraverso
l’azione dell’interpretante mentale. Se egli opera mediante innesco di causalità tra l’oggetto e il
significante, sono indici (es. fumo quale segno del fuoco); se l’interpretante opera facendo appello
alla somiglianza tra l’oggetto e il significante, si parla di icone (es. foto sul mio passaporto); se
opera richiamando uno sfondo di convenzioni storico-sociali a supporto del nesso tra l’oggetto e il
suo representamen, si parlerà di simboli (es. risorse fonemiche organizzate dalle lingue storico-
naturali). Questa distinzione fornisce un criterio chiaro di classificazione dei segni e consente di
individuare alcune dinamiche psicologiche che permeano l’agire comunicativo. I sistemi di regole
hanno natura e origine sociali, ma diventano operativi grazie alla loro appropriazione da parte
delle menti delle persone. (!)
La valenza indicale delle procedure di significazione stabilisce che ciò che le persone fanno quando
comunicano dipende dalla relazione testo-contesto, sancendo una tensione referenziale.
La valenza iconica sfrutta il principio di analogia tra i contenuti intenzionati e le forme espressive,
che genera la sensazione di essere coinvolti in pratiche comunicative dirette, naturali. Il linguaggio
delle immagini ha un’efficacia argomentativa maggiore del linguaggio verbale; le immagini
producono degli autentici testi narrativi. I segni iconici richiedono che l’interprete sappia
individuare la somiglianza tra representamen e oggetto (cfr. stemma nobiliare o capire una
vignetta).
Il carattere creativo del linguaggio è dovuto dalla modalità simbolica delle procedure di
significazione. Anche il linguaggio verbale attinge alle risorse dell’iconismo in molteplici modi, sia a
livello del sistema (es. onomatopea), sia a livello di produzione enunciativa (es. figure retoriche).
Significare è re-interpretare. Il supporto multisensoriale è uno schema di sense-making che si
riproduce nel formato multicanale. Ogni tecnologia comunicativa ha reso sempre più ricco il
potenziale di reciproca interferenza e tra-dicibilità delle forme e dei modi di significare. Intreccio
tra i canoni analitici del “testo” e quelli sintetici dell’ “immagine” consentirebbe la comunicazione.
Le pratiche discorsive impegnano le persone in interazioni comunicative multimodali, a seguire la
catena sintagmatica delle parole e a interpretare l’uno l’immagine dell’altro. Le tecnologie hanno
ampliato diverse pratiche di costruzione di testi multimodali.
Il regime di comunicazione ipertestuale e ipermediale rende più facile la percezione della
procedura operativa che regge l’emergere di qualsiasi significato, e cioè le dinamiche di
traduzione. L’ordine della significazione è nella flessibilità dei passaggi, nelle differenze e nelle
variazioni.

1.3 Sulle tracce della psicologia culturale

La psicologia culturale ha la pretesa di costituire il più ampio quadro di riferimento teorico-


metodologico per tutte quelle direzioni di indagine che, impegnando la psicologia a evidenziare il
ruolo centrale del significato, la vincolano al rispetto e alla valorizzazione della diversità. Ci sono 3
macroimpostazioni:
1) la posizione più radicale assume come irriducibili le differenze fra le culture, proiettato verso
l’antropologia cognitiva;
2) posizione intermedia sviluppa la prospettiva “storico-culturale” di Vygotskij e Lurija,
incentrata sul concetto di “mediazione”. Il termine ‘cultura’ viene inteso come un sistema di

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artefatti che si è intrecciato alla biologia e alla organizzazione storico-sociale delle comunità
umane;
3) la posizione più moderata assegna alla psicologia culturale il compito di realizzare una
“seconda rivoluzione cognitiva” per spostare il focus di interesse alla “ricerca del significato”
(Bruner).
La psicologia culturale dà voce all’orientamento (auto)critico in psicologia. L’interlocutore
privilegiato deve essere l’antropologo, ma, come giustamente rileva Geertz, “far passare
l’antropologia attraverso la psicologia significa scombussolare le cose”. La psicologia culturale
delinea un profilo di operatore psicologico che si configura come esperto in comprensione,
appassionato di intelligibilità, specializzato nella cura dell’alterità.
La psicologia culturale addita allo studioso una “carriera morale”, sul piano formale deciso dal
“codice etico” e su quello sostanziale. Ci mostra perché possiamo/dobbiamo inserire nella
conversazione che è una più attenta riflessione sull’identità dell’altro, rispondendo al criterio di
riflessività.
La psicologia culturale rappresenta un’innovazione stilistica dei modi di fare indagine e di
riferirne. La principale procedura argomentativa è nel lavoro di re-interpretazione dei “modi di
fare significato” socialmente riconosciuti: “talk and text”, riti, miti.. ed è in piena sintonia con quel
mutamento teorico-metodologico che suggerisce una chiara opzione epistemologica a favore del
“socio-costruzionismo” (Mininni). Psicologo colloca le sue indagini lungo tre coordinate:
a. la cultura come mediazione mente-ambiente di vita;
b. cultura come rete di attivazione delle procedure di sense-making;
c. la cultura come cornice morale capace di far risaltare i valori.
Ritrovare l’alterità perfino nel progetto intenzionale dell’identità è la sfida che incombe sulla
psicologia culturale, interessata a trattare l’orizzonte del “thinking through others”.

2. Per un sapere interstiziale


La psicologia culturale sintetizza gli sforzi tesi a dare un assetto epistemologico adeguato all’obiettivo
di auto comprensione che impegna la specie umana. L’etichetta psicologia culturale è un “termine-
armadio” che copre molteplici tradizioni di ricerca. (Mininni)

2.1 Il “Mind-Culture-Problem”

L’apertura all’antropologia comporta la possibilità di correggere tre importanti deformazioni inerenti


alla concezione dominante della psicologia, e cioè:
1) la “venerazione della fisica” quale modello di scientificità,
2) l’etnocentrismo,
3) la credenza nella “razza”, derivante dall’accreditare l’esistenza di una matrice biologica per le
differenza riscontrabili nei macrogruppi umani.
Quando la psicologia raggiunge la consapevolezza di sentirsi “plurale”, ciò consente di valorizzare
l’estrema adattabilità delle cosiddette “psicologie indigene”. Il significato attuale di “psiche” è il
risultato di un confronto storico tra varie parole, per riferirsi all’esperienza umana di “esserci”. Ciò
che accomuna i cultori della psicologia culturale è l’intenzionalità antisistema, denunciare i limiti
della concezione dominante che riduce la psicologia a una scienza naturale. Si crea una differenza tra
“psicologia naturale” e “psicologia culturale”.
Quando l’uomo è interessato a capire se stesso può farlo su due fronti: “Body-Mind-Problem” e il
“Mind-Culture-Problem”. Entrambi fanno riferimento alla “mente”, intesa come l’effetto psicologico
dell’organizzazione biologica e come l’attivatore psicologico dell’organizzazione sociale. La mente è
“oggetto” di indagine della ricerca psicologica, orientata o verso la biologia o verso l’antropologia. La
mente non è spiegabile solo attraverso i processi causali dei sistemi viventi, ma si apre alle incertezze

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caotiche del divenire storico. La psicologia indaga i processi psichici ed installata nel Mondo 2 (Popper
e Eccles). Le realtà del Mondo 2 (fenomeni soggettivi del “percepire”, “sentire”, “ricordare”..) hanno
un duplice ancoraggio al Mondo 1 (processi fisici, chimici e biologici), che prende il nome di
“ominazione”, e nel Mondo 3 (i processi culturali, storico-sociali, organizzativi), ovvero
“umanizzazione”. La psicologia cultura indaga la loro consistenza nei formati costruiti dalle reti
culturali. Le pratiche della produzione culturale hanno fatto sì che l’attività mentale del cervello non
risponda più soltanto ai principi dell’elaborazione dell’informazione, ma richieda quelli ben più
complessi di tessitura di significato. Le procedure che articolano il piano cognitivo (le “credenze”) a
quello affettivo-motivazionale (i “desideri”) costituiscono il centro propulsore dell’attività mentale.
Principale oggetto di indagine è il “Mind-Culture-Problem”. La mente umana può svolgere la sua
funzione di mediazione tra “corpo” e “cultura” perché “noi siamo animali parlanti […], siamo
linguaggio”.
Due percorsi di ricerca a seconda che la cultura venga intesa come “sistema di significati”, e in questo
caso l’enfasi è sulla stabilità di certe regolarità, o come “processo di significazione”, dove l’enfasi è
sulla variabilità delle procedure con cui le persone interpretano i compiti. In entrambi i casi il cuore
pulsionale è nel fatto che “il linguaggio tra gli uomini è il discorso”. La mente discorsiva è
comprensibile solo discorsivamente (Mininni).
La psicosemiotica è pertinente all’interfaccia tra “psicologia culturale” e “psicologia discorsiva”, che
suggeriscono di porre l’enfasi sulla radicale pervasività dei fenomeni di sense-making e dei processi di
comunicazione per la comprensione dell’esperienza umana del mondo. La mente è incorporata
nell’ordine biologico e simbolico. Gli psicologi culturali tendono a evidenziare che “la mente è una
costruzione culturale”, mirando a far riconoscere la natura variazionistica, come regola istitutiva del
sistema da riconoscere. Gli psicologi discorsivi sottolineano che “ la mente è in costruzione culturale”,
perché a loro preme rimarcare la natura dinamico-processuale delle attività di sense-making. De
Saussure individuò un carattere “eteroclito e proteiforme” per sfrangiarsi in una fuga inarrestabile di
sfumature interpretative.

2.2 Le ragioni della psicosemiotica

Come operano le persone quando accedono ai modi del significare nella prassi multi sfaccettata del
comunicare?
Brentano, cercando di spiegare la natura intenzionale dei fenomeni psichici, si richiamava alla
procedura direzionale e costruttiva di rinvio ad altro da sé propria dei segni. Un evidente
orientamento semiotico è rintracciabile nella teoria storico-culturale dei processi psichici che vede la
mediazione segnica il principale dispositivo dell’operatività mentale. Un incontro tra semiotica e
psicologia è nel riconoscimento del racconto quale risorsa testuale generativa della cultura e
dell’identità. La semiotica narrativa nasce con Propp, il quale racconta come i racconti popolari siano
costruiti su una precisa scansione di funzioni narrative. I significati organizzati in una narrazione
possono essere colti attraverso la distinzione tra attori (personaggi che compiono le azioni) e attanti
(i ruoli assunti dai personaggi). I ruoli attanziali sono 6, articolati su tre assi oppositivi:
Soggetto/Oggetto, Destinatore/Destinatario, Aiutante/Oppositore. La psicologia narrativa ha avviato
recentemente numerose indagini su come le persone co-costruiscono i racconti con cui sono portati a
identificarsi nella mai completa elaborazione del Sé.
Lo scenario storico della semiotica novecentesca ha reso salienti due diversi percorsi di ricerca:
a) il versante sistematico che esplora la capacità modellatrice dei segni in termini di apporto
cognitivo, interpretativo e culturale;
b) il versante generativo che esplora la capacità organizzatrice dei testi in termini di dinamiche
enunciative, passionali ed estesiche.
Una prospettiva di indagine psicosemiotica sarà tanto più adeguata quanto più evidente sarà la sua
natura interdisciplinare, pragmatica e critica.

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2.2 La cultura vive di discorsi

“ Gli uomini e le parole si educano reciprocamente”. (Peirce)


Per misurare quanto il pensiero umano dipenda dal discorso non appare sensato ‘misurare’ l’attività
umana attraverso la durata. Mentre il modo in cui gli esseri umani camminano può essere compreso
in termini generali, così non è per quel complesso di pratiche in cui il discorso come “forma di vita”
viene acquisito ed esercitato, perché si inserisce in un ordito culturale, che determina sistemi di
regole condivise all’interno di specifici contesti.
Il discorso è un “meta-artefatto culturale”, perché modifica la natura stessa della socialità umana, che
richiede le dinamiche specifiche dell’ “essere l’uno con l’altro”.
L’analisi delle pratiche discorsive è lo strumento privilegiato per il controllo delle ipotesi della
psicologia culturale. La concezione narrativa della cultura e il suo richiamarsi alla “trama testuale”
suggeriscono di allestire le basi teorico-metodologiche di una proficua collaborazione con gli psicologi
discorsivi. Interesse condiviso per le strutture e le dinamiche del sense-making.

2.3 Per una relatività culturale-discorsiva

Il legame che radica la cultura nel fenomeno linguistico è espresso in termini di “relatività” nell’
“ipotesi di Sapir-Whorf”. Gli Inuit possono rappresentarsi l’oggetto ‘neve’ in modo notevolmente
diverso da tutti gli altri popoli. Il fenomeno linguistico è etichettabile in inglese solo con “language”,
mentre in italiano, ad esempio, con “linguaggio” e “lingua”. Il grado di articolazione lessicale è
ritenuto un indizio attendibile di raffinatezza culturale. L’ “ipotesi di Sapir-Whorf” stabilisce che il
parlare lingue differenti comporta degli effetti decisivi sull’organizzazione dei processi cognitivi. Tale
ipotesi è articolabile in due assunti:
1) Il relativismo linguistico, secondo cui le lingue segmentano il mondo e si applicano agli oggetti
diversamente;
2) Il determinismo linguistico, secondo cui la forma e le caratteristiche del linguaggio determinano
il modo in cui pensiamo.
Aderire al relativismo, ma senza il determinismo, significa accettare una versione “debole” dell’
“ipotesi di Sapir-Whorf”. Ci si può avvalere della sintesi di “lingucultura” coniata da Agar. Per cogliere
la circolarità dei nessi generativi che fanno sì che ogni produzione culturale richieda l’attività mentale
e che ogni procedura mentale presupponga un quadro di riferimento culturale, è utile richiamare la
processualità della pratica discorsiva. La facoltà umana di parlare e le risorse a disposizione
rimangono mere disposizioni astratte finché non si verifica una “mise en discours”, ovvero finché non
riconoscono una situazione comunicativa. L’articolazione tra mente e cultura si rivela come forma di
vita umana nel “discorso”. L’effetto di costruzione della realtà prodotto dalla lingua come sistema di
segni è possibile grazie alla “mise en discours”, pertanto il rapporto è sempre filtrato dai vincoli e
dalle opportunità dell’impegno pragmatico dei soggetti, cioè dalla trama intenzionale e dagli
ancoraggi contestuali. Ogni cultura registra diverse condizioni di possibilità per la rete degli “eventi
verbalizzabili” (es. in alcune culture non è possibile formulare in modo indiretto “Puoi prendere il
sale?”, a causa del vincolo di sfondo di mettere in dubbio le abilità altrui).
Il relativismo discorsivo-culturale esige uno slittamento al piano dell’uso linguistico. Per agganciare il
“lavoro mentale” al “lavoro culturale” bisogna ricorrere alle pratiche discorsive situate che
organizzano le forme del “talk-in-interaction” (esperienza della scolarizzazione esplorata da Bruner).
Il nesso tra valori culturali e pratiche discorsive ha effetti rilevanti quando le persone sono sottoposte
a processi di valutazione in certi contesti multi-etnici.
Le pratiche discorsive organizzano i cicli della riproduzione culturale. Uno di tali cicli può essere il
costrutto di “visione del mondo”. Le persone sentono di appartenere a una determinata comunità

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culturale perché condividono una certa “world view”. Questa diventa esperienza vissuta grazie ai
discorsi.
Le lingue sono sistemi lessico-grammaticali che raccolgono l’esperienza storica che certe comunità di
pratiche discorsive hanno fatto della realtà nei discorsi. Se la cultura è la rete di significati è perché
attiva un legame vitale ispirato alle modalità aperte della testualizzazione. L’“uomo della possibilità”
è colui che “ si interessa all’altro in tutta la sua diversità perché attraverso l’altro può riconoscere l’
‘altro se stesso’”.
Per evitare il rischio di precipitare “nell’idealismo del discorso, secondo cui non esiste nulla al di fuori
del discorso”, conviene adottare un “relativismo critico”, secondo cui dobbiamo accettare l’esistenza
di una realtà esterna fuori di noi e indipendente dalle nostre concezioni.

3. La costruzione interattiva dei mondi di senso

Le persone partecipano all’attività costruttiva di “effetti di realtà” propria dei discorsi.


Interpretazione dei rapporti di potere in cui gli enunciatori si riconoscono reciprocamente. L’Analisi
Critica del Discorso mira a evidenziare tali nessi costitutivi, nell’ipotesi che l’effetto di realtà riguardi il
Sé e la sua relazione con l’Altro.

3.1 L’analisi del discorso come critica del potere

I discorsi impegnano gli interlocutori ad abitare specifici mondi di riferimento. Parlare è agire, quindi
ogni enunciato vale come un segmento di “agencità” (agency).

3.2 I media come interfaccia discorsivo-culturale

L’adesione al costruttivismo semiotico comporta che la psicologia culturale abbia un implicito assetto
discorsivo, che si rivela nel fatto che l’esperienza umana è in gran parte mediata, cioè prodotta da
artefatti capaci di regolare le pratiche di sense-making. Un campo di ricerca è quello definito
dall’azione modellatrice della mente svolta dai mass media (Mininni). L’esperienza che le persone
fanno della realtà è costruita sempre più grazie alla rete di tecnologie di comunicazione sociale, a
vantaggio delle modalità di interazione mediata. Una psicologia dei media a orientamento culturale
mira a comprendere e a valorizzare la pluralità dei mondi di riferimento che le persone abitano,
mirando ad un modellamento delle menti.
Le espressioni delle culture minoritarie entrano in una “spirale del silenzio” per lasciare spazio alle
culture che hanno maggiori chances di essere rappresentate nei discorsi mediatici. L’Analisi Critica del
Discorso mediatico può avvalersi dell’azione pioneristica svolta dai Cultural Studies che ha inteso
superare la dicotomia “apocalittici” e “integrati”, proponendo un assetto più complesso delle
pratiche di fruizione mediatica.

3.3 La traduzione come pratica di intercultura

Le due espressioni “ Just be yourself!” e “Behave just the way you are” (usati rispettivamente nel
contesto americano e in quello giapponese) non significano la stessa cosa (Kanagawa, Cross, Markus),
perché il contenuto del Sé è costruito in modo da marcare l’indipendenza nel primo caso e
l’interdipendenza nel secondo. Il fenomeno della traduzione è un tipo di attività che la psicologia
potrebbe legittimare come un livello di prassi ispirata all’orientamento critico e all’affermazione della
dignità umana. La traduzione comporta un vincolo morale di aderenza al testo di partenza, compreso
in tutta la complessità dell’intenzione sue intenzioni di senso. Il traduttore deve far valere i codici e i
sottocodici che lo generano, aver fatto propria la lingua del testo. La traduzione richiede un’apertura
all’altro. Esige il rispetto di sé e la stima dell’altro, vivendo nel paradosso di dover garantire insieme il

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più ampio apprezzamento dell’identità e la più alta valorizzazione dell’alterità. Obiettivo del
reciproco riconoscimento tra le identità culturali. Le pratiche della traduzione aprono le identità
culturali alla prospettiva dell’ “intercultura”.

4. Conclusione
La psicologia culturale soddisfa l’esigenza di tenere sotto controllo il rischio di autoalienazione cui
sono esposti gli esseri umani per il fatto che i prodotti della mente tendono a imporsi su loro stessi.
Problematiche ritenute marginali occupano l’attenzione della psicologia culturale. Ogni persona è
sempre “altra” da quel che crede di essere, perché il senso di quel che è viene inarrestabilmente
ridefinito nella rete di interazioni discorsive che fa di tante persona una comunità culturale.

2. L’approccio diatestuale alla psicosemiotica


1. Assi di ricerca psicosemiotica

Sul piano dei confini disciplinari essa spazia dalla filosofia alla massmediologia, perché attivabile ogni
qualvolta l’analisi di processi di sense-making. Modalità interpretative capaci di evidenziare:
a) La natura del significato come rete organizzativa di unità culturali,
b) La trama intenzionale dell’agire comunicativo,
c) Il carattere olistico dei testi e il carattere situato dell’interlocuzione,
d) Il vincolo contrattuale secondo cui i significati sono co-costruiti mediante una dinamica di
posizionamenti tra gli interlocutori.

1.1 L’enunciazione come matrice della soggettività

Un approccio psicosemiotico è interessato a rilevare le marche di enunciazione del senso, intensa


come “il luogo in cui si esercita la competenza semiotica” e come “un’istanza di mediazione che
produce il discorso”. Inoltre, esso si fa carico di esplorare le procedure discorsive di costruzione della
soggettività, che legittimano la pretesa degli esseri umani di valere come soggetti.
L’enunciatore opera per “debrayage” quando il testo oscura ogni riferimento all’ “io-qui-ora”, per
produrre un effetto di senso oggettivo. L’enunciatore opera per “embrayage” quando il testo esalta
la matrice soggettiva che lega i significati del “io-qui-ora”, per produrre effetti coinvolgimento.
Decidono il loro potenziale di senso in base al contesto effettivo in cui operano. Esempio: in un litigio
si può adottare sia l’embrayage (“la differenza tra me e te è…), sia il debrayage (il mondo si divide in
due: da una parte.. dall’altra…), il quale produce un distacco che induce l’interlocutore a pensarsi
come il responsabile dei problemi, senza averlo esplicitato.

1.2 Il legame enunciativo “testo-contesto”

Qualsiasi costruzione di senso è vincolata alla trama del testo, inteso come unità complessiva e
stratificata di significati, prodotta in una situazione di enunciazione. I testi rendono operativi i loro
significati soltanto all’interno di contesti d’uso. Il “contesto” incardina nell’orizzonte della pragmatica
il possibile incontro tra la semiotica e la psicologia culturale. Distinzione tra “cotesto” (incontro
linguistico che racchiude un determinato segmento testuale) e “ambiente extralinguistico” (cornice
in cui si produce un dato evento comunicativo). L’incontro delle relazioni “testo-contesto” è reso
dinamico dalla nozione di “diatesto”, che descrive “il ‘contesto’ visto dagli enunciatori del ‘testo’, così
come essi se lo rappresentano e mostrano di tenerne conto” (Mininni). Nel loro tradursi in eventi
comunicativi, i testi sono diatesti per due ragioni: 1) il senso attraversa i testi per effetto dell’azione

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congiunta dei loro enunciatori, che consiste nel negoziare il quadro della situazione; 2) dare
operatività psicologica alla teoria dell’eteroglossia proposta da Bachtin, perché mirano a individuare
le dinamiche di “messa in discorso” di quegli aspetti del significato che gli interlocutori negoziano
come derivanti dal loro contesto di interazione.

1.3 Il modello SAM dell’Analisi Diatestuale

L’indagine diatestuale presuppone che il senso di un discorso e le dinamiche del sense-making siano
rilevabili lungo 3 dimensioni: Soggettività, Argomentatività e Modalità.
La soggettività risponde alla domanda “Chi lo dice?” e tesse il legame complesso e modulato con
l’immagine che l’enunciatore elabora di Sé e del suo allocutore. I tratti di soggettività sono:
a. i marcatori di agenticità;
b. i marcatori di affettività;
c. i marcatori di embrayage/débrayage.
L’argomentatività risponde alla domanda “Perché lo dice?” e individua un’asse di pertinenza
semiotica che consente al discorso di articolare le ragioni, di dar voce ai motivi per cui l’enunciatore
dice quel che dice. I tratti di argomentatività sono:
a. i marcatori di “enjeu”
b. la rete di logoi/antilogoi attivati
c. i marcatori metadiscorsivi.
La modalità risponde alla domanda “Come lo dice?” e rende saliente l’articolazione del “dictum” al
“modus” in base alla quale il senso prende “forma”. I tratti della modalità sono:
a. i marcatori di narratività;
b. i marcatori di genere discorsivo;
c. i marcatori di opacità.

1.4 Il quadrato semiotico-enunciativo

Il “quadrato semiotico” è la “rappresentazione visiva dell’articolazione logica di una categoria


semantica qualunque” e ha la capacità di mettere in scena la logica opposizionale inerente a qualsiasi
sistema di produzione di senso. Il quadrato semiotico è utile a individuare una prima trama di
differenze nelle posizioni enunciative di una serie di testi ascrivibili a un universo di discorso.
Sul modello del quadrato semiotico si può elaborare il “quadrato enunciativo” , che organizza in
modo semantico le pratiche di enunciazione in base alla matrice di riferimenti personali.

2. Procedure di Analisi Diatestuale

Le persone producono senso trasformandosi da “intralocutori” in “interlocutori”. Gli indicatori di tale


trasformazione sono:
1) le tracce di intenzionalità che consentono di definire la scelta azionale realizzata nei testi,
2) la tracce di modalizzazione che consentono di reperire sia l’assetto cognitivo che il vissuto
emozionale affidato ai testi,
3) le tracce di retoricità che consentono di cogliere l’interesse per il modo in cui il senso prende
forma nei testi.

2.1 Generi discorsivi e metadiscorso

È utile rilevare i vincoli situazionali derivanti a un concreto evento comunicativo dal suo appartenere
a un particolare “genere”. Quand’anche venisse formulata una teoria con le stesse parole, perfino

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essa muterebbe il suo significato in base al contesto, perché lo scenario interlocutorio (o “genere
discorsivo”) autorizza le persone a perseguire scopi diversi.
La nozione di “metadiscorso” si riferisce a tutti gli aspetti non processionali del discorso, che
facilitano l’ascoltatore a organizzare il testo in modo coerente e a cogliere la personalità e la
credibilità dell’enunciatore, così da modellare la loro relazione. Due tipi di indici:
1) Il “metadiscorso testuale” consiste in tutte quelle espressioni linguistiche che mirano a esplicitare
l’interpretazione più idonea;
2) Il “metadiscorso interpersonale”, espressioni che orientano sull’assetto della relazione da
validare come idonea per gli interlocutori.
Microespressioni che possono servire a chiare le connessioni logiche, e a costruire n clima di
affidabilità reciproca.

2.2 Programmi narrativo-argomentativi

La nozione di “programma argomentativo” opera tra il livello macro dei “contesti argomentativi”
proposti nell’approccio retorico della psic. Sociale e il livello micro dei “modelli argomentativi”
proposti dall’approccio contrattuale della psicologia sociale. Ogni questione mette in scena un
confronto tra “logoi” e “antilogoi”. Ogni enunciato può essere interpretato solo nel suo contesto
argomentativo.
I “modelli argomentativi” sono delle forme generali di classificazione dei legami tra i Referenti-Nodo
di un discorso i predicati proposizionali.
L’operazione centrale per l’interpretazione di un testo prevista da Ghiglione è l’attribuzione di ogni
proposizione a uno dei tre schemi argomentativi possibili in base alla natura del verbo, che può
essere “fattivo” (area semantica del fare), “stativo” (essere) o “dichiarativo” (dire). La produzione di
un determinato testo assume il proprio programma argomentativo in base all’intrecciarsi delle
operazioni seguenti:
1. Costruzione del mondo di riferimento mediante indici valutabili in termini di “certo vs incerto”;
2. Costruzione della relazione mediante indici valutabili in termini di assertività vs disponibilità.
Per rintracciare i programmi narrativo-argomentativi l’analista può trovare utile rilevare i “repertori
interpretativi” ad implicita valenza semiotica, giacché rende pertinente un insieme di parole,
locuzioni e metafore che ricorrono sistematicamente.

2.3 Retoriche socio-epistemiche

Una procedura di analisi importante è il filtro retorico sul due piani; un’asse argomentativo e un’asse
figurativo. Gli indicatori più efficaci sono le figure retoriche. Il costrutto “retorica socio-epistemica”
consente di tener conto di entrambi i piani. A livello di macroanalisi, la caratteristica retorica di un
discorso è la sua proprietà situazionale, ovvero saper adattare ciò che si dice al contesto; a livello di
microanalisi una determinata figura retorica può racchiudere il nucleo generativo del senso di un
intero discorso. L’analista pone attenzione alle “metafore archetipiche”, quadri analogici che
illuminano un intero segmento di discorso. Se caricati tanto simbolicamente da fornire supporto per
identificare intere comunità, si parla di “metafore culturali”.

3. Psicosemiotica in azione

L’approccio diatestuale condivide l’impianto epistemologico e metodologico di varie correnti di


Analisi del Discorso. Ciò che viene richiesto è “esaminare il discorso creativamente in tutti i suoi vari
aspetti e l’apertura mentale di contemplare molteplici possibilità”.

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3.1 Come si fa?

L’analista diatestuale deve:


1) Porsi interrogativi pertinenti i testi in quanto tali;
2) Selezionare un corpus testuale da analizzare, raccogliendo documenti “naturali”. Talvolta può
essere utile la trascrizione;
3) Individuare regolarità: l’analista riconosce certi segmenti o aspetti ricorrenti;
4) Elaborare delle ipotesi capaci di far comprendere il senso di tali regolarità. Fase decisiva in cui
non è possibile preferire un modulo generalizzabile e dagli esiti certi;
5) Redigere il testo nella consapevolezza che dovrà convincere il lettore con la coerenza degli
argomenti e con la forza di attrazione di un racconto ben congegnato.

L’approccio diatestuale mira a:


a. evidenziare le specifiche modalità con cui ogni testo mette in scena un dialogo costruttivo di
soggettività;
b. ritrovare nei testi l’immagine degli enunciatori;
c. cogliere il programma narrativo sotteso ai “testi-in-interazione” di cui si occupa.
Un’altra procedura di analisi è il filtro patemico. I programmi di enunciazione di Sé o di costruzione
della soggettività propria e altrui lasciano trace nella tessitura emozionale del testo.

3.2 Dire senza dire

Una strategia interpretativa consiste nel rilevare l’assenza, nell’ipotesi che almeno in alcuni eventi
comunicativi possa risultare significativo proprio quello che non c’è. Controllare la responsabilità di
cui l’enunciatore si carica nel dire una cosa in un modo piuttosto che in un altro. Es. “tua madre” e
“mamma” hanno un unico raggio denotativo, ma una diversissima proiezione connotativa.

3.3 A mo’ di esempio

Il processo di sense-making richiede che l’attività di enunciazione passi attraverso almeno un testo in cui si
realizza la trasformazione dei soggetti da “intralocutori” a “interlocutori”. Ogni diatesto si configura come atto
creativo situato, capace di innescare un percorso inarrestabile di sense-making. Es. la “creazione di Adamo” di
Michelangelo, contornato dalle stelle dell’UE, è entrato nella fase di gestazione del sito Internet “Università
italo-francese”. Creare è integrare.

3.4 Limiti dell’Analisi Diatestuale

Il diatestualista sa che l’organizzazione dei risultati della sua interpretazione è solo una delle tante
possibili. Di conseguenza, l’approccio diatestuale non ha una soluzione predeterminabile al problema
di definire la sua unità di analisi né è in grado di proporre criteri validi per stabilire l’estensione di un
corpus di testi da analizzare per affrontare una determinata questione. Inoltre, la prospettiva
psicosemiotica non offre antidoti al pericolo di sopravvaluta la portata esplicativa della
riformulazione. Infine, criteri di validazione dei risultati dell’analisi diatestuale contengono un
richiamo all’orientamento soggettivo nel giudizio, che difficilmente può rispondere al bisogno di
indicare certezze.

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4. Conclusione

L’approccio psicosemiotico mira a mostrare come le pratiche discorsive delle persone e dei gruppi
consentano la reciproca congruenza tra la culture come reti di sense-making e le menti come
programmi di intenzionalità. L’analista diatestuale mette in evidenza:
1) la natura pratica del sense-making;
2) l’impianto dinamico del sense-making (attivi costruttori di mondi di riferimento);
3) matrice situata del sense-making;
4) il vincolo negoziale del sense-making: i testi sottopongono le intenzioni di senso a “contratti di
comunicazione” che danno consistenza alle interazioni interpersonali;
5) la trama mobile e imprevedibile del sense-making.
La psicologia culturale deve rendere conto delle mutevoli condizioni in cui operano le procedure
mentali. La rinuncia alla pretesa di oggettività e al fascino della generalizzabilità dei risultati è
compensata dalla responsabilità per le conoscenze prodotte nel vivo dell’interazione intersoggettiva
in un preciso contesto di ricerca. La psicologia discorsiva ha come presupposto la costituzione
contestuale e dialogica di ogni costrutto di rilevanza psicologica, supportando la natura “situata” e
“intersoggettiva” della psicologia culturale.

3. Tra il Sé e l’Altro
La metafora del “testo” comporta che la psicologia si impegni a illustrare in che modo è anzitutto il
linguaggio a inserire la “cultura” nella “natura” umana.

1. La sfida della pluralità nell’identità

L’elaborazione mentale delle informazioni manifesta i vari programmi narrativi che tessono il Self.
La psicologia è costitutivamente “per l’identità”. Senso di sicurezza implicito nel campo semantico
di tale concetto, e cioè:
a) l’immagine di coerenza e di compattezza richiamata dall’unità-rietà del Sé;
b) l’immagine di conformità a un modello standard che si ripete nella sua “stessità”.
Consapevolezza della natura discorsiva dell’identità: ciò che “io sono” è deciso dal mio
posizionamento nella serie di pratiche discorsive che la mia cultura mette a disposizione. Il nesso
tra “discorso” e “identità” è duplice:
1) sul piano del contenuto, si dà costruzione discorsiva dell’identità: io sono gli argomenti di
cui mi faccio carico;
2) sul piano dell’espressione, si dà costruzione di identità discorsiva: io sono il ruolo
enunciativo che svolgo.
Le relazioni che le persone stabiliscono con il loro ambiente di vita sono estranee al linguaggio in
cui sono formulate, anzi sono costituite proprio dai “modi di dire” selezionati nel parlare comune.

2. La trama discorsiva della variazione culturale: il fattore D

Il “fattore D” è il cardine teorico della psicologia culturale semioticamente ispirata. Esso è un


quadro di condizioni etichettabili con parole che iniziano con la lettera “d”. il “fattore D” si può
specificare come “Discorso”, che contiene riferimenti a “Dramma” e “Dominio”. Seconda
accezione del “fattore D”, che rinvia alla valorizzazione della Differenza. La psicologia culturale a
indirizzo discorsivo è in sintonia con il “differenzialismo”.

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2.1 Differenza come alterità

La psicologia culturale raccomanda la pertinenza alla nozione di “alterità” intensa come l’Altro
particola rizzato ed emergente in specifici contesti. La psicologia culturale è “un’impresa
interpretativa” volta al affrontate “il processo di ‘pensare attraverso gli altri’” (Shweder). Quattro
diversi significati per questa espressione (“thinking through others”):
1. Pensare per mezzo dell’altro;
2. Prendere la posizione dell’altro;
3. Andare oltre l’altro;
4. Impegno con l’altro.

2.2 Differenza come ineguaglianza

Il termine “differenza” occupa il centro di un campo semantico, poiché istituisce il suo significato
sia nel far valere una distanza dall’ “identità”, intesa come “stessità”, per cui “differenza” è novità,
originalità, sia nel contrastare la “parità”, intesa come “eguaglianza”, per cui “differenza” è
impurità, squilibrio. La differenza tende a istituire un’asimmetria discorsiva, che può degenerare
in conflitto aperto. Esempio del verduraio.

2.3 Differenza come non contemporaneità

Tale approccio ha il vantaggio di depotenziare la carica di conflittualità incombente sulle


comunicazioni. L’esperienza che i soggetti possono fare del loro incontro nel tempo costituisce le
culture come “non contemporanee” tra loro. L’attuale distribuzione paritaria dei diritti e dei doveri
tra i generi è superata dalla possibile legittimazione di una diversa asimmetria, nel corso del flusso
storico. Effetto di affinità per contemporaneità è dovuto alle occasioni di scambio e di reciproca
influenza registrabile nel flusso storico. Quando percepisco una diversità, posso interpretarne il
senso in base allo scarto temporale che istituisce rispetto alla mia identità, nonostante essa non
sia esente da giudizi impliciti di valore, cioè non neutralizza il potenziale impatto minaccioso.
Esempio dell’anziana e della ragazza che fanno il segno della croce nell’autobus. Vecchietta
incurante del fatto che la sua condotta non sia affatto condivisa dagli altri; ragazza di vent’anni
tentava di nascondere una condotta compulsiva, seguendo un ritmo di senso ossessionato dalla
paura dell’esclusione.

2.4 Differenza come incommensurabilità

Le pratiche discorsive possono rintracciare il significato dell’ “incommensurabilità”; significa che


“tra culture, linguaggi , teorie non si tratta di rapporti metrici, ma qualitativi”. Ogni differenza
culturale è un potenziale discorsivo che arricchisce l’esperienza del mondo, proprio perché può far
valere la singolarità del suo apporto.
L’impressione di perdere qualcosa in ogni operazione traduttiva e insieme la consapevolezza che
sono possibili molteplici traduzioni di uno stesso testo avvalorano l’ipotesi che i sistemi culturali
non siano del tutto permeabili tra loro. Le persone così si trovano impigliate in “forme di vita”
talmente eterogenee da richiedere il supporto di saperi sensibili alla mediazione simbolica.

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3. Negoziazione e rispetto

In che modo le pratiche e i vissuti delle persone stabiliscono gradi differenti di accordo tra loro
nella conoscenza della realtà oggettiva. Confine ideale che separa l’ “ingroup” dall’ “outgroup”. Ciò
che è detto dallo “straniero” sfugge alla trama di ciò su cui si può convenire, per cui pare che non
abbia presa sulla realtà oggettiva. Processi che impegnano le persone a giustificare la propria
posizione nell’intrico di questioni molto concrete.

3.1 La valenza politica del riconoscimento Sé-Altro

Le culture organizzano delle risorse di senso che consentono alle persone e alle comunità di
sperimentarsi come soggetti dotati di “agency”. Le persone impegnano la natura intenzionale della
loro “agency” nelle dinamiche dell’intersoggettività. La forza enunciativa di senso
dell’intersoggettività innesca anche processi ispirati a “interoggettività”, cioè su come le persone
arrivano a concordare che le cose stanno così e così. Rende così saliente la distribuzione delle
risorse simboliche disponibili in una determinata situazione e la competizione al potere; evoca,
inoltre, la tendenza naturale del potere ad esercitare la sua forza di far apparire il mondo nella sua
versione oggettiva. La “lotta per il significato” è guidata dallo scopo di far assumere una certa
visione del mondo “oggettiva” condivisibile. La costituzione enunciativa dello status di “individuo
dominante” o di “individuo dominato” fa sì che mentre il primo considera vantaggioso puntare sui
“doveri” degli altri, il secondo punta sull’espressione dei propri “diritti”. Distribuzione diseguale di
diritti e doveri. L’intersoggettività come procedura generativa dei copioni culturali è inserita in
forme di vita capaci di impegnare le persone in pratiche sia di riconoscimento reciproco che di
misconoscimento.

3.2 La costruzione polifonica del “sé glocale”

Il vissuto di Sé rappresenta l’interpretazione in soggettiva dell’operare della mente. “Identità


culturale” può essere riferita alle persone o alla comunità, mutando leggermente di significato. Ad
esempio, ci sono tratti che delineano l’identità culturale del docente universitario; ci sono tratti
che delineano l’identità culturale della comunità italiana. L’identità culturale delle persone è un
posizionamento discorsivo multi-livello che rende di volta in volta riconoscibile il processo di
costruzione argomentativa dei modi in cui una comunità stabilisce cosa è bene/male,
giusto/ingiusto. Ma l’identità non è riconoscibile senza l’alterità, perché è l’esito sempre parziale e
provvisorio di scambi, confronti, negoziazioni. La “globalizzazione” impegna le persone a
riconoscere che la loro “identità culturale” si produce in un continuo attraversamento di confini.
Le persone possono scoprire ogni giorno che i significati di cui vivono provengono dai racconti di
innumerevoli Altri, grazie ai quali prende consistenza la loro identità “glocale”. Tradizioni locali
sono intrecciate alle opportunità delle aperture globali. Il “Sé glocale” può generarsi grazie all’ “io
semiotico”: l’estraneità degli altri può interessarmi perché posso riconoscermi come funzione
segnica. L’ “io semiotico” è una procedura concreta che risponde alla domanda di senso innescata
da ogni costruzione culturale.
Il Sé glocale è oggi necessariamente “interclulturale”. L’ “io interculturale” fornisce contenuti alla
serie di pratiche interpretative con cui ci identifichiamo e rende concretamente operativa la
capacità di riconoscere segni. Le potenzialità sistemiche dell’ “io semiotico” si rendono percepibili
nelle potenzialità procedurali dell’ “io dialogico”. Teoria del “Dialogical Self” propone
un’organizzazione spazio-temporale dell’identità personale che risulta operante mediante un
Repertorio di Posizionamenti. L’io si configura come una costellazione di voci situabili nel
cronotopo cui ogni persona ancora la sua esistenza. Le voci assertive devono agire secondo il

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“paradigma di riconoscimento”. “L’essere riconosciuti è la precondizione senza la quale non è
possibile che si formi una soggettività non distorta”.
L’io dialogico si concretizza in una matrice di processi enunciativi che configurano l’ “io
diatestuale”, istanza di senso che la persona si attribuisce riconoscendosi come “agente” in una
situazione e avendo a disposizione risorse per interagire nella realtà. Risponde all’esigenza di
mettere insieme i bisogni di coesione e coerenza. L’ “io glocale” è in “testo di identità” che
organizza quanto la persona dice del mondo e di Sé.

3.3 Come te stesso?

In “Ama io tuo prossimo come te stesso” ci sono 3 nuclei sintagmatici che rispondono a tre mosse
argomentative:
1) Emozionalizzazione del rapporto: rapporto che l’Altro esige deve essere assimilato
all’amore;
2) Territorializzazione: l’Altro è spazializzato;
3) Metaforizzazione dei relativi: prendi te a misura di tutti i rapporti.
Incertezza su chi possa essere il prossimo, ma si sa tutto sulla procedura analogica dell’esperienza
umana. Oggi, invece, le condizioni reali dei flussi migratori e la loro rappresentazione massmediale
ci fanno assumere per scontato che abbiamo sufficienti conoscenze su chi sia il nostro prossimo.
Quello che non sappiamo è quale “me stesso” valorizzare. Altruismo: prendersi cura dell’Altro a
partire dal Sé. Qui si intende valorizzare l’opportunità di un rovesciamento: se ci possa prendere
cura del Sé a partire dall’Altro. A tale modello psicosociale va l’etichetta di “altruità” e significa
riconoscere all’Altro diritto di proprietà, valorizzare la cultura di riferimento.

4. Conclusione

“Psicologia culturale” e “psicologia discorsiva” tendono a condividere un orientamento


(auto)critico nella tradizione pratico-operativa per proprio sapere. Condividono quindi anche una
tensione semio-etica. Fanno prevalere la pervasività delle pratiche di sense-making per gli essere
umani, i quali rimangono “impigliati” nella trama culturale e in regimi discorsivi.

4. ll tessuto discorsivo della fiducia


Il termine “verità” indica il desiderio di ciò che di per sé sfugge agli esseri umani e li attira come
meta da conquistare; la “fiducia” evoca “il sentimento senza il quale l’intero edificio del pensiero si
abbate”.

1. Una virtù a rischio

L’era postmoderna appare marcata da una diffusa aspettativa di sfiducia generalizzata. Nessuno
può avere fiducia nemmeno in se stesso. La pratica di inganno è talmente pervasiva da rendere
irragionevole l’attesa fiduciale. Il dilagare della sfiducia è un effetto di “passioni tristi”, che
caratterizzano il tempo in cui le generazioni umane che vi si incrociano. La negativizzazione del
futuro comporta una minaccia di svalorizzazione per tutte le forme di vita che vi sono connesse. La
fiducia è stata definita come l’attivazione di un percorso di senso teso a ridurre la complessità. La
forma di vita resa disponibile alle persone nell’era postmoderna è incardinata è incardinata
sull’esaltazione della complessità e dell’intricatezza. Se l’incertezza diventa più tollerabile e la
complessità si fa meno minacciosa, si avverte sempre meno l’opportunità di condotte innescate
dalla fiducia.

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Nella prospettiva della psicologia culturale, la fiducia è UNA RISORSA DI SENSO ATTIVABILE DALLA
MENTE INDIVIDUALE PERCHÉ È UN BENE COMUNE “A DISPOSIZIONE” DELLA MENTE COLLETTIVA,
CHE VIVE NELLE RISORSE SIMBOLICHE PRODOTTE DALLA STORIA DELLE COMUNITÀ UMANE, A
PARTIRE DALLA LINGUA.

2. La fiducia come bene comune

Il linguista francese Benveniste chiarisce il significato della parola latina “fides”, soffermandosi
sulla costruzione sintattica “mihi est fides”. Se la traduciamo “ho fiducia in te” arriviamo
all’opposto del senso. La traduzione adeguata è “io ho credito presso qualcuno” resa anche come
“io gli ispiro fiducia” o “egli ha fiducia in me”.
Si crea una “relazione inversa” tra fides e fiducia, in quanto nell’espressione “ho fiducia in
qualcuno” è qualcosa che metto a disposizione dell’altro; nell’espressione latina, invece, è l’altro
che mette a disposizione la sua fiducia per me. Come si può “dare” e “avere” una cosa allo stesso
tempo?
Questo accade perché la si può “dire”, cioè nella misura in cui chi traffica questo bene simbolico è
ritenuto “credibile” nelle sue pratiche discorsive. Il passaggio dal “credito” alla “fiducia” è retto
dalla “credibilità”. L’ancoraggio discorsivo della fiducia permette di coglierne due aspetti rilevanti:
a. natura sociale di “atto iscritto”, in quanto svela perché la fiducia postula tutta una serie di
tracce e di documenti che ne autorizzano la legittimità e la validità;
b. la dicibilità della fiducia lascia trasparire l’insormontabile asimmetria che essa proietta
nella trama delle relazioni umane.
“Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo ha quest’uomo in suo potere. […] queste
relazioni comportano reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava in cambio la sua
garanzia e il suo appoggio. […] è un’autorità che si esercita contemporaneamente a una
protezione su colui che vi si sottomette, in cambio e nella misura della sua sottomissione.”
Scarto lessicale tra i termini latini “fides” e “foedus”. Le persone si parlano grazie alla condizione di
fides reciproca nella possibilità di capirsi, riconoscendo le clausole di un foedus (patto) che le
impegna a collaborare pur nelle diversità dei ruoli.
Alla base del “credito” c’è una pulsione di ordine religioso rintracciabili nella “fiducia” che il fedele
ripone negli dei. L’esperienza della “fiducia” si costituisce come effetto di una scelta ed è indice dei
limiti della libertà umana; essa segnala che le forme di vita accessibili alle persone non sono sotto
il loro unico controllo. Molti contesti religiosi definiscono la fiducia come reazione a “un conflitto
tra gli dei […] per dare più forza a un dio che hanno scelto di sostenere e da cui ci si aspetta la
restituzione”.

3. La costruzione discorsiva della fiducia

La fiducia è un bene simbolico che viene trattato in specifici ambiti discorsivi. I significati del
termine fiducia alimentano due retoriche socio-epistemiche incentrate sull’asse dell’agenticità
(agency) e su quello dell’enunciazione. Un orientamento discorsivo reificante porta a pensare la
fiducia come un oggetto che può essere “dato”, “tolto”, “preso”. Un orientamento discorsivo
processuale presenta la fiducia come una relazione che può essere “rivelata”, “minacciata” o
“confermata”.
Quando le persone si impegnano in programmi narrativo-argomentativi contenenti enunciati del
tipo “Ho perso ogni fiducia in te”, modellano un atto di sense-giving improntato sulla
irrimediabilità. Quando il programma narrativo-argomentativo procede con enunciati del tipo “Ciò
lede la fiducia tra noi”, si mette in risalto l’andamento dinamico del legame. La fiducia è un chiaro
indicatore della relazione di potere che lega le persone e/o le comunità tra loro in posizionamenti

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ascendenti o discendenti. La fiducia riposta in un superiore modella pratiche discorsive focalizzate
su uno scambio tra offerte di fedeltà e promesse di sicurezza. La fiducia riposta in un inferiore
postula pratiche discorsive modellate su dinamiche negoziali tra timori di delusione e sforzi di
legittimazione, minacce di revoca e attese di riconferma. Regime discorsivo modulato da un ritmo
che prevede l’alternarsi di ostentazione e fierezza. Esprimere fiducia innesca un circuito di
valutazioni affettive che dall’empatia trascolorano del distacco, alimentando intricate procedure di
identificazione, di affiliazione e di protezione valoriale.

4. La fiducia ci viene dagli altri

Gli esseri umani hanno la capacità di sostenersi reciprocamente, e ciò consente loro di gestire un
mondo di riferimento comune, condividendo credenze e risonanze affettive. Tale sistema prende il
nome di “fiducia”, ovvero una virtù sociale che emerge come “figura” da uno “sfondo” di
incertezza nelle relazioni e/o nelle interpretazioni e capace di sottrarre alla comunità la sensazione
di caos e di imprevedibilità.
La dinamica della fiducia consiste nell’attivarsi di:
1) processi “epistemici” (relativo al processo di costruzione della conoscenza) con
implicazioni di coerenza;
2) processi “attribuzionali”con implicazioni di efficacia;
3) processi “decisionali” con implicazioni di responsabilità.
L’intreccio tra l’asse cognitivo, asse emotivo e asse motivazionale permette di considerare la
fiducia come un vero stato psicologico. La fiducia è una relazione di empowerment, cioè un
accreditamento di capacità, un’attribuzione di potere che dall’Altro tracima verso il Sé. La fiducia
di cui gli altri ci fanno dono comporta la stessa possibilità di credersi un “io” capace di essere
all’altezza delle loro attese e di dirigere le proprie.

5. La fiducia del Sé

L’epoca moderna ha reso pertinenti nuovi livelli di riflessività, intesa come capacità dell’io di
monitorare costantemente i processi sociali e culturali della sua stessa costituzione. “Sé riflessivo”
che guida consapevolmente la comprensione del mondo esterno e giustifica l’assetto del mondo
interno.
Ognuno può provvedere a se stesso attingendo alla “fiducia generalizzata” che consente di
ancorare la realtà al resoconto cognitivo e affettivo riconosciuto come affidabile già nelle
esperienze della prima infanzia. Le pratiche di accadimento coltivano una disposizione della mente
a ritenere che il mondo circostante ha aspetti di continuità, stabilità e comprensibilità. Questo
consente di elaborare un’immagine di sé “coerente”, capace di inserirle in un mondo almeno
prevedibile. L’epoca moderna ha introdotto la dicotomia tra contingenza e calcolabilità , cosicché
le persone tendono ad inquadrare gli accadimenti della loro vita o riconducendoli al caso o tra ciò
che è programmato da qualcuno.
Le persone devono sviluppare l’iniziale “fiducia generalizzata” secondo una nuova configurazione
di “fiducia attiva”, alimentando consapevolmente e ininterrottamente “un processo di reciproca
narrazione e apertura emozionale”. Ciò nondimeno, anche le persone più capaci di ispirare le
proprie condotte nella direzione riflessiva tendono ad affidarsi al fato, lasciando trasparire voci del
Sé più arcaiche. Nel sistema psichico sono così evidenti le contraddizioni epistemiche.

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6. La fiducia in Sé

Un aspetto della fiducia si rileva anche quando essa è indirizzata al Sé. Il costrutto di “fiducia
basale” evidenzia “tratti della personalità” che configurano il modo di essere e di agire di ogni
singolo membro.
L’esperienza del bambino si poggia da subito sull’attesa di affidabilità delle persone. Bowlby,
Ainsworth e Stein richiamano il potere strutturante del legame di attaccamento tra il bambino e il
caregiver quale fonte di rassicurazione e fiducia. Esso alimenta i modelli operativi interni che
orientano la storia relazioni delle persone lungo tutto il ciclo della loro vita. La condizione di fiducia
basale consente alle persone di superare l’angoscia nelle fasi critiche del ciclo di vita. Essa si
costituisce per accumulo e integrazione di risorse cognitive e affettive che si generano nelle forme
degli “attaccamenti multipli “. La fiducia in sé è una risorsa di cui la mente si avvale per
fronteggiare l’esistenza quotidiana. Essa non va confusa con l’autostima. L’autostima è un
gradiente di attribuzione di valore che ogni essere umano determina per una serie di competenze
pratiche, cognitive, emotive e internazionali socialmente rilevabili. Il benessere soggettivo delle
persone scaturisce anche da una valutazione adeguata del proprio potenziale, che eviti sia
l’insensatezza del banale che l’assurdità dell’irraggiungibile, delineando un tracciato di
autorealizzazione. Un indicatore di corretta autostima è l’ “autoefficacia percepita”, che comporta
la sensazione che si stia facendo il miglior uso di sé. Autoefficacia favorisce l’effettivo
perseguimento dei risultati programmati (self-fulfilling prophecy). Il modello circomplesso della
personalità consente di rilevare che la fiducia è attivata sull’asse che oppone i tratti
dell’accoglienza e del dominio (persona ingenua e permissiva vs persona arrogante e calcolatrice,
capace di incanalare la fiducia verso di sé).

7. La fiducia come meta-relazione

Tutte le principali teorie sulle relazioni interpersonali si richiamano alla nozione di fiducia,
nonostante non ci siano adeguate promozioni empiriche. Le ragioni sono molteplici: 1. La fiducia è
un costrutto complesso e multidimensionale, cosicché risulta difficile da operazionalizzare e da
misurare; 2. non c’è sufficiente accordo su cosa si debba intendere per “fiducia”; 3. ha un’elevata
sensibilità ecologica, in quanto emerge e opera in situazioni specifiche.
La fiducia è ritenuta un sicuro predittore del successo di una relazione intima. Analisi statistiche
hanno validato una “scala di fiducia”. Il costrutto di fiducia interpersonale scaturisce
dall’interazione di tre fattori principali: la prevedibilità (7 enunciati), la propensione a dipendere (9
enunciati) e la fede (10 enunciati). L’attivazione della fiducia correla con specifiche personalità.
Quanti hanno strutturato un legame di attaccamento insicuro e hanno gradi minori di autostima
ed hanno un concetto di sé meno coerente ed equilibrato fanno più fatica a fidarsi dei loro partner
relazionali (Simpson). La fiducia interpersonale è rilevabile mediante 4 principi:
1) “diagnosticabilità” della fiducia mediante la sensibilità alle situazioni “a prova di tensione” :
disponibilità ad andare contro i propri interessi;
2) “controllabilità”: le persone possono generarne deliberatamente altre, mirate a verificare
l’affidabilità dei loro partner;
3) “rilevanza” delle differenze individuali ;
4) “reciprocità”: considerando quel che entrambi i partner fanno nella coppia.
I contesti che rendono saliente l’atteggiamento psicologico della fiducia innescano due processi di
elaborazione mentale, caratterizzabili come sensazioni di vulnerabilità e aspettative sulle eventuali
modalità di condotta degli altri. “Situazioni di fiducia” si configurano sulla base di un’elevata
interdipendenza tra le persone, in quanto ciò che l’una fa ha un forte impatto sulla vita dell’altra.

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Il principio di reciprocità induce ad avvalorare il “Modello Diadico della Fiducia” elaborato di
Simpson, che collega le disposizioni di entrambi i partner a ognuna delle cinque componenti
normativi necessarie ad attivare una configurazione di fiducia, e cioè:
1. situazioni di controllo della fiducia;
2. decisioni congiunte rispetto alla trasformazione dei motivi;
3. attribuzioni, emozioni, aspettative;
4. percezione di fiducia;
5. percezione di sicurezza provata.
Questo modello prevede che le persone siano disposte a correre rischi e che siano inclini a
modificare i loro piani motivazionali a vantaggio della relazione e che le emozioni si traducano in
un aumento della sicurezza.
Non sono le persone ad essere fiduciose o sfiduciate, ma sono le loro relazioni a modellarsi nel
tempo in modo tale da indurre uno specifico stato mentale che fa essere le persone ben disposte
ad interagire nell’interesse del benessere della relazione stessa. La fiducia è una “meta-relazione”
che ha come obiettivo la cura del legame con l’altro e insieme ne controlla le condizioni di
possibilità.

8. Il ruolo della fiducia nei contesti organizzativi

La fiducia comporta una serie di benefici per il funzionamento delle organizzazioni. Correlazioni tra
il clima di fiducia e la soddisfazione per il lavoro, la perfomance del compito, l’apertura nella
comunicazione infragruppo, il senso di appartenza e di coinvolgimento istituzionale, la
negoziazione dei conflitti. Due diversi approcci: il Modello dell’Effetto Principale e il Modello
dell’Effetto Moderatore . Differenza tra i due approcci è una radicale divergenza
nell’interpretazione dell’andamento performativo della fiducia.
MEP: nesso diretto tra la fiducia e determinate condizioni inerenti agli ambienti organizzativi in cui
le persone vivono.
MEM: la fiducia non comporta di per sé specifici effetti nei contesti operativi, ma interviene su
alcuni fattori decisivi per il loro assetto, facilitando l’innesco di certi effetti e/o ostacolano
l’emergere di altri. Grande potere modulatorio delle determinanti attitudinali che avvicinano le
persone alle organizzazioni. La fiducia modella le condizioni di cultura organizzativa in cui è
possibile registrare quegli efetti.
L’effetto moderatore della fiducia si manifesta su due versanti:
1. il piano che lega le motivazioni alle condotte organizzative;
2. il piano attribuzionale che lega l’interpretazione dell’azione degli altri alla pianificazione
delle proprie risposte.
Risulta a volte che la fiducia sia una condizione necessaria ma non sufficiente a determinare
l’impegno alla cooperazione. MEP e MEM possono essere entrambi validi, cosicché la fiducia
può talvolta provocare direttamente effetti rilevanti e talaltra operare indirettamente,
incidendo sulle procedure istitutive delle pratiche organizzative. Per stabilire quale dei due è
capace di spiegare il ruolo della fiducia ci richiamiamo al costrutto di “forza istituzionale”.
Le situazioni sono “forti” quando forniscono alle persone una guida e degli incentivi per
comportarsi in un determinato modo; sono “deboli” le situazioni che lasciano le persone nella
fluidità delle interpretazioni. Situazioni forti-MEM; situazioni deboli-MEP.

9. Conclusione
Le persone o le organizzazioni sono disposte a riconoscere alla fiducia un alto potere attivatore di
legami, perché questo processo psicologico è fondato “sulla parola”. La fiducia, quale forma sana
di connivenza, può contrastare la generale indifferenza, perché valorizza la speciale “complicità”

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che gli esseri umani tendono a realizzare per il fatto di essere abitati dal potere fragile ma
irrinunciabile della parola.

5. Risorse di senso per l’identità storica


L’ “identità storica” è quella parte dell’ “identità sociale” che definisce il senso di appartenenza ad
un gruppo del quale si condividono le origini e i destini, la gloria e i crimini. Le commemorazioni
rappresentano l’occasione in cui costruire l’immagine di sé sulla base di due tipi di situazioni del
passato: eroi o vittime innocenti. L’opinione istituzionale entra nel circuito del discorso sociale
attraverso il filtro dell’obbligo di dar voce ad una funzione di delega o rappresentanza. L’opinione
pubblica si genera attraverso le proprie procedure , a cominciare da quelle richiamate nella teoria
della “spirale del silenzio”.

6. Retoriche dell’identità organizzativa


Il cambiamento organizzativo è inteso come un processo pianificato di trasformazione che
l’organizzazione mette in atto per favorire lo sviluppo della propria identità in coerenza con le
esigenze manifestate dal mercato. L’identità organizzativa è il modello mentale che consente agli
individui inseriti in un contesto organizzativo di condividere con gli altri membri valori, norme,
significati utili a dar senso alla propria appartenenza ed alla propria identità professionale.

7. L’esperienza religiosa nel ciclo di vita

8. Quando i volti parlano nel velo

9. Miraggi della memoria e traiettorie della speranza

10. “Tornano a confortarmi le parole”. Un’analisi psicosemiotica


di alcune poesia di Carlo Levi

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