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Agire insieme. Iltogether.

dubbio come motore della democrazia.


th
Aristotele,
Cfr.
Husserl
Aristotele,
Schmid
Husserl Edmund,
Politica,
Hans
Edmund, Politica,
La
Bernard,
I crisi
Die 2, 1253a
I 2,
delle
Krisis Being
1253a
27-29.
derscienze
well
7-8.Ed.
europee
it. a cura
europäischen eAristotle
ladifenomenologia
C. A.
WissenschaftenonViano,
joint
undactivity,
Rizzoli
trascendentale,
die plural
Libri S.p.A/
self-awareness,
transzendentaleed. Phänomenologie,
BUR
cit. p.Rizzoli,
53. and common
Torino 2017.
sense,
1959, ed. it. Proceedings
La crisi delleofscienze
the 37 europee e
International Wittgenstein
la fenomenologia Symposium,
trascendentale a cura Berlin, De Gruytier.
di E. Filippini, il Saggiatore S.r.L, Milano 2015. P. 51.

Nel secolo scorso, nella seconda metà degli anni ’30, Edmund Husserl tiene
alcuni cicli di conferenze tra Vienna e Praga; la pubblicazione del testo che
raccoglie i manoscritti in cui il fenomenologo raccoglie i temi di discussione
sono pubblicati postumi, nel 1959, con il titolo di Die Krisis der europäischen
Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie (ed. it. La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale). Interessante, però, è
soffermarsi sul titolo della conferenza tenuta nella capitale austriaca il 7
maggio 1935: La filosofia nella crisi dell’umanità europea.
Se l’umanità (europea) è veramente in crisi, perché un filosofo che è sempre
stato impegnato in difficoltà teoretico-metafisiche dovrebbe sentire l’urgenza
di affrontare questo problema che, tutto sommato, potremmo definire politico?
La risposta si trova nell’introduzione di questa stessa opera. Leggiamo, infatti,
che

L’umanità (Menschentum) in generale è per essenza un essere uomini


entro organismi umani (Menschheiten) generativamente e socialmente
connessi, e se l’uomo è un essere razionale (animal rationale), lo è
soltanto se tutta la sua umanità è un’umanità razionale 1,

vale a dire che nessuno può esercitare la propria razionalità di essere umano
se tenta di escludersi dalla rete di relazioni intersoggettive che costituiscono la
società umana, poiché è solo l’esser parte di quest’ultima che lo definisce
come animale razionale. Le radici di questa antropologia sono antiche, e
possiamo trovarle già nell’Aristotele della Politica, che sostiene che

Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di
nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un
dio2,

poiché l’uomo è zoon politikon3, l’animale più politico e socievole di qualsiasi


altro. Assumendo, allora, la vita dell’essere umano già da sempre la vita degli
esseri umani come plural subject4 di un agire collettivo e intenzionale, si
capisce come Husserl possa ritenere che il proposito delle sue ricerche fosse
d’interpretare la filosofia come un compito:

Noi siamo dunque – e come potremmo dimenticarlo? – nel nostro


filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per
il nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale,
include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità (corsivo
dell’autore)5.

2
3
4
5
Oggi questacome
espressioneallora,
sulla scorta essere
del significato«funzionari
Uso https://plato.stanford.edu/entries/collective-intentionality/
Cfr.
Ibidem. attribuitole da dell’umanità» vuolIndire
e https://isosonline.org/Info-on-social-ontology.
John Rawls in Political Liberalism (1993). confrontarsi
quest’opera, con
l’autore cerca di risolvere
la questione della compatibilità tra pluralismo e stabilità sociale posto già nel suo grande libro precedente, A Theory of Justice (1971). La soluzione
l’idea
viene cheda Rawls
individuata la socialità
nel consenso persia la caratteristica
intersezione (overlapping consensus), cioèspecifica e costitutiva
una forma di legittimazione dell’animale
di una società ben ordinata in cui
i cittadini aderiscono a una concezione politica liberale pur partendo da visioni comprensive differenti, poiché in ogni “visione del mondo” sarebbe
umano,
possibile trovareedelle
mettere in Illuce
ragioni per farlo. consensosecondo quali
ai principi liberali modalità
ed egualitari e politica
della giustizia in base a daquali
che risulta forme
questa ricerca di
sarebbe,
pertanto, di tipo morale, e non frutto di un compromesso superficiale e prudenziale, ossia un puro e semplice modus vivendi.
legittimazione questo vivere insieme (sia istituzionale che informale) sia
possibile e realizzabile alla luce principi razionali condivisibili a partire da un
consenso che non sia un passivo modus vivendi6, ma frutto di una critica
permanente che abbia come proprio obiettivo il continuo aggiustamento della
democrazia considerata non solo come forma di governo, ma come forma di
vita tesa a garantire che tutti gli esseri umani possano esprimersi in quanto
decisori dotati di ragione e fare la loro parte all’interno del gruppo-umanità.
Nel presente lavoro, cercherò di delineare all’interno della storia della filosofia
occidentale una linea di pensiero (fatta anche di discontinuità e confronti
serrati) che collega autori contemporanei influenti dell’ontologia sociale e della
teoria critica e comunicativa con capisaldi della tradizione filosofica,
accomunati, a mio avviso, dalla considerazione del dubbio come motore della
prassi democratica, al fine di far emergere spunti e punti di criticità di un
ambito tanto controverso in un contesto mondiale che ogni giorno deve
fronteggiare urgenze come la globalizzazione, l’immigrazione, il pluralismo
sociale, la distribuzione delle risorse, la svolta tecnologica
dell’ipercomunicazione pervasiva e la questione ambientale.

1. Ontologia sociale e intenzionalità collettiva.

1.1. Searle
Guardando al panorama filosofico contemporaneo, non c’è dubbio sulla
centralità del campo di ricerca dell’ontologia sociale. Essa si definisce come
«the field of philosophy that investigates the nature of the social world and how
it works»7: le analisi di ontologia sociale coprono vasti ambiti del mondo
umano, che vanno dalla questione basilare della costituzione della società ad
entità complesse come il denaro, le leggi e gli Stati.
Uno dei maggiori poli d’interesse dell’ontologia sociale è costituito dai gruppi
sociali, e tutti i problemi ad essi connessi: esistono? Se esistono, come si
creano? Che statuto hanno? Quali sono le proprietà dei loro membri? Possono
agire in qualche modo?8
Gran parte degli esponenti di rilievo della social ontology ha provato a dare
risposta a questi interrogativi, arrivando anche a conclusioni tra loro non
compatibili o per lo meno di difficile armonizzazione. Risulterà pertanto utile
scegliere come punto di partenza il pensiero del “padre fondatore”
dell’ontologia sociale, John Searle (Denver 1932 - ). Allievo di Austin a Oxford e
continuatore innovativo della sua teoria degli speech acts, dalla fine degli anni
cinquanta è professore all'Università di Berkeley in California.

6
7
8
Searle
Searle
Cfr.
Tale
Ivi,
Ivi, p.
ivi
normatività
pp.
P. 3. di
cura
adatta
29.
33.
34.
John
p. Ad
33.R.,
30-31
presupposizioni
(cioè S(p) Lucia,
s’interroga
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esempio
statisulle
nel casomodalità
intenzionali.dei desideri
Cfr. Searle in cui
e l’autoreferenzialità
(2010) glicausale
pp. 36-39. esseri umani
(cfr. tabella conciliano
2.1 dell’intenzionalità
a p. 47 op.cit.).
una realtà creata mentalmente (e che dunque comporta il suo sostegno al
realismo degli stati mentali) con un mondo che «consiste interamente di
particelle fisiche in campi di forza»9, ponendosi pertanto come obiettivo lo
stabilire in che modo quest’ultima sia costituita in quanto oggettività.
Allo stesso modo, nell’opera successiva, Making the Social World. The
Structure of Human Civilization (2010), Searle prende le mosse dalla
rilevazione della necessità di «una nuova branca della filosofia, che potremmo
chiamare “filosofia della società”»10 che renda conto del modo in cui viviamo
socialmente, ma sempre rispettando i “fatti di base” della teoria atomica della
materia e della teoria della biologia evoluzionistica e senza postulare una
tradizionale scissione tra mondo coscienziale e mondo fisico, e anzi
riconducendo tutti i fenomeni (fisici e coscienziali) a un solo e unico mondo. Su
quest’ultimo, gli esseri umani intervengono tramite una proprietà della mente
che, in dipendenza dagli stati neurali, le permette di rapportarsi con l’esterno
del suo interno. Searle la chiama – riprendendo attraverso Brentano la teoria
dell’intentio di matrice scolastica – ‘intenzionalità’, cioè «la capacità della
mente di essere diretta verso, o di essere a proposito di, oggetti e stati di cose
del mondo in modo indipendente da se stessa»11.
Non tutti gli stati mentali sono intenzionali, poiché gli stati intenzionali sono
sempre «a proposito di qualcosa»12: per precisare questo punto, è utile rilevare
l’isomorfismo che vige tra atti linguistici e stati intenzionali 13. Come negli atti
linguistici ( F(p) ) si distingue una forza illocutiva F e un contenuto
proposizionale p, gli stati mentali ( S(p) ) sono dire che sono, per così dire,
riempiti da un contenuto proposizionale p (“Credo che pioverà”, “Ho paura che
pioverà”, “Mi piacerebbe che piovesse”…) che possiamo distinguere dal tipo di
stato (modo psicologico) S che abbiamo (credenza, paura, desiderio…).
Inoltre, gli stati intenzionali hanno una direzione di adattamento o, con la
nuova terminologia che Searle introduce rispetto alle opere precedenti, «
“responsabilità” per l’adattamento»14: con questa espressione, l’autore si
riferisce al tipo di relazione che lo stato mentale istituisce tra la mente e il suo
oggetto, e che contiene una normatività intrinseca 15 che ci permette di
stabilirne le «condizioni di soddisfacimento»16.
Un particolare stato intenzionale è quello dell’intenzione nel senso comune del
termine, cioè il proponimento di raggiungere un fine, di fare qualcosa. Searle
distingue due categorie logiche a proposito di questi stati: le intenzioni
9
10

11
12

13
14
15
16
precedenti
Ivi, p.
Ibidem.
p.40.
p.44.
41. o piani (plans), che si formano prima dell’azione (ma non sono
necessari a tutte le azioni, per cui si può anche agire d’istinto, senza alcun
proponimento a guidarci), e le intenzioni-in-azione, cioè quelle intenzioni che
accompagnano l’azione in quanto sue componenti e che l’autore assimila alla
portata di senso del “provare” (to try): quando intendo compiere un’azione,
provo a svolgerla: «se l’azione è eseguita con successo, l’intenzione-in-azione
causa il movimento corporeo»17, altrimenti il mio tentativo non è riuscito. A
questo proposito, occorre considerare in che modo l’autore spieghi la struttura
delle «azioni complesse nelle quali si fa qualcosa compiendo qualcos’altro» 18,
come nel caso del voto per alzata di mano:

Queste non sono due azioni separate – alzare la mano e votare – sono
piuttosto due livelli di descrizione di due differenti aspetti di un’unica
azione. Alzare la mano destra in questa circostanza costituisce il votare.
Io voto con (by way of) l’alzare la mano.
Un altro tipo di azione complessa si ha quando qualcuno intenzionalmente
fa qualcosa che causa il succedere di qualcos’altro. Per esempio, quando
sparo un colpo di pistola per mezzo (by means of) della pressione sul
grilletto19.

Nel primo caso, si ha una relazione costitutiva: alzo la mano perché ho


l’intenzione di volerla alzare perché ho la consapevolezza che tramite la mia
alzata di mano costituirà (per me e per gli altri) il mio votare; nel secondo, si
stabilisce una relazione causale: premo il dito sul grilletto perché ho
l’intenzione di farlo perché so che la pressione esercitata causerà l’esplosione
di un colpo di pistola.
Entrambe queste categorie d’intenzione pongono come condizione di
soddisfacimento il loro «ruolo causale effettivo per la realizzazione delle
condizioni di soddisfacimento»20, cioè devono avere il carattere
dell’autoreferenzialità causale, devono produrre l’azione che intenzionano e
non vengono soddisfatte se quella stessa azione avviene senza il loro intervento
(ad es. se io, nell’ambito di un’assemblea, alzo il braccio nel momento in cui
viene enunciata la proposta a cui sono favorevole, ma lo faccio a causa di un tic
nervoso, non si potrà dire che la mia intenzione di votare per quella proposta
sia stata soddisfatta da quell’alzata inconsulta del mio arto). Avere successo
nella soddisfazione di un’intenzione significa impegnarsi in processo di
causazione continua per portarla a termine:

Si deve fare uno sforzo continuo. Così, vi sono almeno tre cesure o,
piuttosto, tre parti di un’unica cesura continua nell’azione intenzionale
tra i fenomeni intenzionale in ogni singola fase e la continuazione fino alla
fase successiva: la cesura tra ragioni e decisione (la formazione di
17
18
19
20
la un’intenzione
Ivi, p. 54.
Riporto
Ibidem. 50. definizione della Stanford precedente), la «This
Encyclopedia of Philosophy: cesura traintroduced
doctrine was decisione e messa
as a methodological inthe social
precept for attosciences by
Max Weber, most importantly in the first chapter of Economy and Society (1922). It amounts to the claim that social phenomena must be explained by
showing how dell’azione (intenzione-in-azione)
they result from individual actions, which in turn must bee,explained
per le azioni
through complesse,
reference la cesura
to the intentional states tra
that motivate the individual
actors» (cfr. https://plato.stanford.edu/entries/methodological-individualism/ ).
messa in atto dell’azione e la sua continuazione fino al suo
completamento. In filosofia c’è un nome tradizionale per questa cesura:
“libero arbitrio”21.

La “cesura” divisa in più parti a cui si riferisce Searle come “libero arbitrio” è
lo spazio in cui si esercita la razionalità dell’individuo, il momento del vaglio
critico. È l’ambito del dubbio e della determinazione dei mezzi per conseguire
l’azione. La libertà davanti a cui ci si trova al momento di prendere una scelta
pone non pochi problemi, soprattutto se facciamo riferimento a situazioni in cui
non agiamo da soli, ma come parte di un gruppo. Infatti, è importante notare
che «mentre si può ordinare a qualcuno di fare qualcosa, non si può ordinare a
qualcuno di avere un’intenzione precedente» 22: anche all’interno di un gruppo i
cooperatori non possono, a parere dell’autore, causare individualmente le
intenzioni degli altri partecipanti, il che costituirà un’ulteriore “spaccatura”
che risulterà colmabile solo attraverso la credenza che gli altri abbiamo
intenzione di collaborare.
Per rendere conto della portata di tali difficoltà, occorre introdurre la nozione
d’intenzionalità collettiva (we-intentionality). Essa racchiuderebbe tutte le
«forme d’intenzionalità alla prima persona plurale» 23, e sarebbe la stessa
capacità della mente di orientarsi verso qualcosa, ma avendo un “noi” come
soggetto che intende compiere tale azione o che crede in tale cosa.
Questa definizione, però, non basta ad esaurire il senso della we-
intentionality:anche prendendola per buona e scartando la possibilità di
teorizzazione di una mente di gruppo poiché non supportata da alcun fatto di
base, non si capirebbe come una pluralità di persone possa causare
autoreferenzialmente un’azione collettiva (e quindi muovere diversi corpi)
tramite un’intenzione-del-noi alla stessa stregua di come un singolo individuo
causa la sua azione attraverso la sua stessa intenzione ad agire, soprattutto se
abbiamo assunto come principio-guida l’inviolabilità del fatto di base per cui
l’intenzionalità risiede in un determinato cervello ed è causata da precisi stati
neuronali. Searle si scontra pertanto con le difficoltà derivanti dall’aderire a
una posizione d’ individualismo metodologico24, per cui «il pensiero è tanto
naturale quanto lo è il digerire» 25, ma di essere anche assertore
dell’irriducibilità del “noi” all’ “io”.
Egli argomenta che generalmente la posizione riduttivista è invece accettata
dai teorici dell’ontologia sociale, che per schivare lo spettro della mente di
gruppo attuerebbero una forma di riduzione per cui «tutti gli enunciati nella
forma del “noi intendiamo” fatti da tre persone qualsiasi A, B e C si debbano
21

22
23
24
25
ridurre
Cfr.
Ivi p.
Cfr.
Un
Ivi, esempio
ivi
p.
p.63.
Searle
59.
60.
61.
p.66.John
Phenomenon”,
mezzo (by means
aR.,of)“io,
controverso
Searle propone
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Studies
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pp.60-61.
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pp. 1-14.
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che evocano Bun’idea
unepianista

forte26 . obblighi
ediun Questa
violinista, con (operazione,
e vincoli,
bychiedere al proprio per
way of) l’esecuzione
compagno
delle loro parti,
di passeggiata
fanno un duetto.
di rallentare un po’ sia accompagnata da buone ragioni.
Searle, non è richiesta per rendere conto di una we-intention, perché nessuno
tra i fatti base sembra contraddire che sia possibile avere delle intenzioni-del-
noi, seppur sempre accompagnate da I-intentions affinché questa intenzione
possa effettivamente muovere i singoli corpi. Il «controesempio generale
contro tutti i tentativi [a me] noti di ridurre l’intenzionalità collettiva
all’intenzionalità individuale»27 che fornisce Searle è quello dei laureati della
Harvard Business School28. Per semplicità, mi limiterò a indicare che la
differenza tra i due esempi è che se nel primo i laureati decidono di mettere in
pratica la teoria della mano invisibile di Smith per fare del bene all’umanità
ognuno indipendentemente dall’altro, senza alcuna cooperazione, nel secondo
caso i laureati giurano di agire nel modo più egoistico possibile con un patto
solenne che li vincola gli uni agli altri sia per le modalità di questa azione
(egoismo secondo la teorizzazione smithiana) che per il fine (provare ad aiutare
l’umanità):

C’è una differenza enorme tra i due casi poiché nel secondo c’è un
obbligo assunto da ogni singolo individuo. Nel primo caso, gli individui
non fanno alcun patto o promessa per agire in questo modo. Se qualcuno
cambia idea, questa persona è libera di mollare in qualsiasi momento e
andare a fare volontariato. Invece, nel secondo caso, c’è una promessa
solenne (demand) fatta da ognuno a tutti gli altri29,

promessa che crea delle aspettative e degli obblighi che i laureati dovranno
rispettare e che, a seconda della natura del patto, potrebbe anche mettere gli
altri nelle condizioni di chiedere ragione 30 per un eventuale abbandono
dell’intenzione-del-noi. Questo è un alto livello di cooperazione, ma ne esistono
anche di meno forti che non fanno capo ad alcuna promessa, ad esempio la
«forma prelinguistica di intenzionalità collettiva»31 che ci permette di
scambiare domande e attenderci delle risposte sensate in una contesto
conversazionale.
Come individualmente riusciamo a compiere azioni, allo stesso modo riusciamo
a fare qualcosa anche collettivamente, sia istituendo relazioni causali sia
relazioni costitutive. Nella vita quotidiana gli esempi sono innumerevoli 32, ma
in ognuno di essi ciò che va tenuto presente è che

Dire che l’intenzionalità è collettiva è dire che ogni agente deve assumere
che gli altri membri del gruppo stiano facendo la loro parte. […] Vuol dire

26

27
28

29
30
31
32
Per Johnche
Ivi,dovere
Ibidem.
Searle
p. 71.
66. diR., Laognuno
cronaca
Creare
costruzione
preciso
il mondo
chedeve
della
sociale,
nel realtà assumere
paragrafo
ed.cit. p. 6.ed. cit. p. che
sociale,
“L’IMPOSIZIONE 38. DIgli altri abbiano
FUNZIONE” (Searle John R.,un’intenzione-in-azione
Creare il mondo sociale, ed.cit. pp.74-76), Searle
si occupa in generale delle funzioni agentive, cioè quelle che impongono agli oggetti una funzione quando vengono usati per uno scopo, abilità
comune anche che hafamiglie
a certe lo stesso
di animali scopo,
non umani. In laquesta
stessa
sede mi“B collettiva”,
concentro mentre
solo su quelle di la allontanarmi
status per non singolatroppo A può dagli argomenti
in esame. 33
essere differente perché ogni persona può eseguire solo la sua azione A .

Emerge da questa citazione l’urgenza avvertita da Searle di smarcarsi dal


pericolo di cadere in fraintendimenti che farebbero apparire la sua visione
della collaborazione come una deriva totalitaria. Questa preoccupazione sorge
anche a causa delle critiche che racconta di aver ricevuto nella sua prima
formulazione di queste analisi, e sembra che egli la risolva sottolineando
ancora una volta che l’azione A, come la sua intenzione-in-azione, è individuale
e non può essere causata dagli altri membri cooperanti, i quali devono
reciprocamente credere che se uno fa la sua parte per soddisfare l’intenzione
collettiva (che funge da ragione per l’azione o da pianificazione), gli altri
faranno la loro.
Le intenzioni individuali dell’agente su come fare la propria parte, pertanto,
non sono da considerarsi estese fino ai comportamenti delle altre persone con
cui collabora: addirittura, non è nemmeno necessario conoscere quali siano le
intenzioni individuali dei miei compagni, né utilizzare gli stessi mezzi per
raggiungere l’obiettivo. Ciò che conta è partire tutti dalla stessa intenzione-in-
azione collettiva e avere la credenza che anche gli altri lo stiano facendo:
l’intenzione collettiva, dunque, è un “gioco”, per così dire, di credenze e
aspettative sul comportamento altrui che di volta in volta vengono rispettate o
tradite, determinando il successo o il fallimento non del nostro provare
collettivo, ma del raggiungimento dell’obiettivo.
Queste considerazioni diventano ancora più rilevanti se da queste forme di
«cooperazione vera e propria»34, cioè in senso forte e paradigmatica (una
coppia, un duetto, una squadra pallavolistica, un team di cuochi…), ci
spostiamo a «forme molto più deboli di atteggiamenti cooperativi» 35, nel senso
di una cooperazione molto più allargata e diluita come può essere vivere in uno
Stato e accettare le sue istituzioni.
Occorre precisare, anzitutto, che Searle sostiene che le istituzioni della realtà
sociale vengono create dagli esseri umani attraverso il meccanismo linguistico
dell’attribuzione di funzioni di status36 (nella formula delle regole costitutive
già illustrato nel libro del 1995, per cui «“X conta come Y in un contesto C”» 37)
a oggetti o a persone che «non possono svolgere quelle funzioni soltanto in
virtù della propria struttura fisica»38, e che implicano l’attivazione di poteri
deontici:

33
34

35
36
37
38
Ibidem.
Ivi, p. 72.
p.73.
8.
75.
73. I poteri deontici hanno una caratteristica unica, non comune e forse
sconosciuta nel regno animale: una volta riconosciuti, ci forniscono
ragioni per l’azione che sono indipendenti dalle nostre preferenze o dai
nostri desideri39,

cioè stabiliscono degli schemi di comportamento che regolano il nostro vivere


insieme e che comportano il riconoscimento di diritti e doveri, obblighi, titoli,
restrizioni e permessi, e dunque anche la possibilità di utilizzo di un «lessico
normativo»40 che ci permette di valutare, in base al riferimento ad un insieme
di valori della forma di vita a cui apparteniamo, la funzionalità di un’istituzione.
I valori sono, nel caso umano, degli scopi che «devono arrivare da qualche
parte e, in questo caso, sono dovuti agli esseri umani» 41: per cui, per esempio,
parliamo di Presidente della Repubblica italiana e consideriamo l’offesa rivolta
al soggetto di questo titolo come vilipendio al Capo dello Stato, e ci appelliamo
alla Corte costituzionale quale garante della conformità alla legge
fondamentale dello Stato delle leggi votate dal Parlamento e promulgate dal
Presidente della Repubblica.
Le funzioni di status, però, non esistono se non in riferimento all’intenzionalità
collettiva sia al momento della loro creazione che per il loro mantenimento,
declinandola in quest’ultimo caso nell’accezione di «riconoscimento o
accettazione collettiva […] che indica un continuo che va dal sostegno
entusiastico fino al semplice assecondare la struttura» 42. È da notare che
l’intenzionalità cooperativa collettiva in senso forte è necessaria solo per dar
vita a un’istituzione, mentre perché essa continui a vivere non è necessario
alcuna cooperatività, se non quando avvengono delle transazioni particolari
all’interno di questa istituzione: «così una coppia che sta decidendo di sposarsi
accetta l’istituzione del matrimonio prima di essere effettivamente sposata» 43,
dove l’atto vero e proprio di contrarre il matrimonio richiederà da parte loro
un’intenzione-in-azione di tipo cooperativo (assumere i diritti e i doveri
conferiti da questo nuovo status), mentre il fatto che riconoscano l’istituzione
del matrimonio è un atteggiamento che precede le nozze e che continuerà
anche in seguito, ma non comporta alcun tipo di attività cooperativa da parte
dei futuri coniugi.
Questo è un esempio lieto, ma Searle ne propone anche uno di forte impatto
morale: quello del Terzo Reich44. Alcune frange della popolazione dell’epoca lo
sostenevano pur non ricoprendo alcuna posizione istituzionale, ma d’altro
canto esistevano parecchi cittadini tedeschi che, pur non approvandone le
istituzioni, continuavano ad «averci a che fare per questioni di nazionalismo,

39
40

41
42
43
44
indifferenza,
Cfr.
Tuomela
Ibidem.
Ivi,
Faccio
Emergenza:
p.
pp.82.notare
quest’opera
Searle
in his 1875
4-5.
op.
Raimo,
cit.,
«A
ha inteso
chevariety
dove
Social
Problems
verranno
Tuomela
la sua
da
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Tuomela
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Ontology.
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9-10
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cit. una
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We can
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d’individualismo
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Agents,
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Oxford
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consists
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45University
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al mondo è ilNew
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George
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che grado
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York
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almeno
Lewes
2013.diLe responsabilità
sociali.
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citazioni
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modo
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cui
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fundamental physical
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presuppose,
to them». O,Cfr.per
irreducibile socialrendere
Stanford
groups, or groupancora
Encyclopedya properties».
of Philosophypiù
Se
intendiamo come proprietà di un gruppo la capacità dei
(https://plato.stanford.edu/entries/properties-emergent/ ) suoi membri di avere un’intenzione collettiva, allora Tuomela dovrebbe rivedere questa
evidente
definizione alla lucel’urgenza di affrontare questo tipo di discussioni: qual è la
di Creare il mondo sociale.
responsabilità che noi cittadini dell’Unione Europea abbiamo nei confronti
delle politiche inumane recentemente attuate per quanto riguarda
l’accoglienza (mancata) dei migranti o la crisi ambientale e climatica?

1.2. Tuomela

Va riconosciuta l’esplosione di queste problematiche all’interno della filosofia


analitica, perché cercando di stare al passo con un pionieristico Searle, che
procede a volte a tentoni, altre volte speditamente, ma che raramente si
sofferma tanto a lungo da poter tirare tutte le conclusioni possibili, si
affaccenda una vasta comunità di studiosi che invece svolge questo lavoro di
analisi approfondite di vari aspetti della realtà sociale. È, ad esempio, il caso di
Raimo Tuomela (Helsinki, 1940 - ), il quale, con Social Ontology. Collective
Intentionality and Group Agents46 (2013), si concentra sullo studio dei group
agents e della we-intentionality partendo dalla constatazione naturalistica che
gli umani sono esseri sociali adattati47 a vivere in gruppo e «spesso inclini a
pensare in termini di “noi” al loro gruppo» 48, e che dunque occorrerà far luce
sul problema centrale di come e fino a che punto la descrizione del
comportamento di un gruppo possa essere ridotto alla descrizione di un
comportamento intenzionale individuale. La risposta dell’autore sarà che

In ultima analisi, la tesi di questo libro considera ontologicamente gli


individui come i soli “motori d’avviamento” del mondo sociale, anche se i
gruppi sociali esistono oggettivamente (e spesso irriducibilmente) come
sistemi sociali49.

La posizione di Tuomela è molto vicina a quella di Searle 50, poiché anche lui
ritiene che non sia possibile ridurre tutti gli stati mentali collettivi espressi
nella forma del we-mode, secondo la sua terminologia, a stati mentali
individuali I-mode, ma che questi ultimi abbiano priorità ontologica (per il
principio per cui tutte le intenzionalità risiedono in un cervello) e che
costituiscano la condizione di esistenza del we-thinking e we-acting, così come
delle we-intentions: questi stati we-mode, però, una volta emersi51, saranno
irriducibili alle singole intenzionalità I-mode. Né l’individualismo né il
collettivismo, dunque, sono sufficienti a descrivere tutta la realtà, ma

45

46
47

48
49
50
51
adeguatamente
Ivi,
Cfr.
Cfr.p.
Rousseau
Ivi,
Tuomela,
Ibidem.
Tuomela,
p.
p.97.
op.47.
13.
47.
26.
che esiste
Milano
group
Cfr.
cit.
agent
Cfr.
op.
Jean-Jacques,
Tuomela
2017.
pp.
con
cit.
op.
anche
94-95.
soltanto
with
Tuomela
P.80.
p.
cit.aggiunge
94.
which
con
p. 93.
Du
Searle
perchéthey
2013,integrati
contrat
anche
2015,
noi come
p. 22:
pensiamo
questo
social,
p.«If
49:aèou
to identify
group
che esiste
possono
«L’immaginazione
compatibile
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is regarded
richiede
du
con
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una
a avrà
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politique,
«liberal
un adopting
itentional
un ruolo
certo grado
itin
communitarian
1762.
nella
group
Ed.
nostra
agent, ittoto
Il contratto
its d’immaginazione».
view».
teoria
is based il itsmondo
dell’ontologia
sociale
on trad.
members’
sociale sociale.
da J. Bertolazzi,
regarding
poiché la creazione
and Questo
Feltrinelli
constructing
diEditore,
una realtà
goals, views, and norms as their own and, so to speak, living up to the group,
it as a

punto
when functioningdi asvista, chepartloof their
group members, stessoneutral deautore
facto authoritydefinisce «collettivismo
to act. They function as if they were limbs ofdebole»
a collective body, , è un
52 to adopt an
apt metaphore».
collettivismo concettuale , che vede i gruppi come 53

dipendenti dalla mente […] ma epistemicamente oggettivi e come agente


estrinsecamente intenzionale […] che esiste anche causalmente in quanto
sistema sociale capace di produzioni causali di risultati nel mondo in virtù
del we-thinking e del we-acting dei suoi membri54.

I gruppi sociali, cioè, pur non esistendo ontologicamente come un corpo o


un’entità definita, esistono nell’ambito della causalità attraverso alcune
«caratteristiche fittizie»55 analoghe a quelle degli agenti individuali che
dipendono dalla mente dei loro membri in quanto frutto di «immaginazione
collettiva, idealizzazione, e costruzione»56 e che sono riconosciute anche da
coloro che non vi appartengono perché, attraverso i loro membri che agiscono
come se fossero delle parti di un unico corpo, possono intervenire e modificare
la realtà; esistono, inoltre, epistemicamente perché riducono la complessità del
reale permettendoci, ad esempio, di parlare di Stati e non di ogni singolo
cittadino che vi abita.
Ma che cosa significa “agire come un unico corpo”? È significativo che
Tuomela leghi il proprio pensiero a quello del Rousseau 57 de Il contratto sociale
(1762). In quella sede, il ginevrino descrive il popolo sovrano come «persona
pubblica, che si forma mediante l’unione di tutte le altre»58 a cui ogni
individuo, tramite il patto sociale, ha alienato (ha messo in comune) la propria
persona e le libertà del supposto stato di natura, ricevendole indietro
potenziate nella forma della volontà generale: «e noi in quanto corpo politico
riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto» 59. All’interno di
questa associazione, però, ogni individuo mantiene i propri interessi privati,
cosicché esisterebbe anche una «volontà di tutti […] che è una somma di
volontà particolari»60. Nella lettura che Tuomela dà di questi passi
rousseauiani, egli nota «una distinzione rudimentale» 61 tra ciò che egli chiama
«pro-group I mode e we-mode thinking e acting»62. I-mode, I-mode pro-group e
we-mode sono tre atteggiamenti intenzionali che Tuomela utilizza come griglie
d’intelligibilità per stabilire quali tipi di rapporti intercorrano tra gli individui e
il mondo sociale. Vediamo in che termini una comparazione con i tre tipi di
volontà distinti da Rousseau sia sostenibile.
52

53
54

55
56

57
58

59
60
61
62
Ciò
Ivi,
Rousseau, che
p.p.6.24.
Searle
Tuomela,
Ivi,
Ibidem. Johnop.
R.,
op. Rousseau
cit.
Creare
cit.p.p.6.97il designa
. mondo sociale, come volontà particolare, cioè quella a difendere i
ed. cit. p. 60.

propri interessi privati, è per Tuomela l’I-mode, cioè «il senso più debole
dell’intenzionalità collettiva»63, che richiede semplicemente che «gli agenti
abbiano una disposizione con lo stesso contenuto e che credano
reciprocamente di averlo»64: ogni individuo ha dei propri scopi e obiettivi, e
crede che anche gli altri abbiano i loro; nonostante questa credenza reciproca,
non c’è alcuna messa in comune di tali fini, non c’è alcuna azione a favore del
gruppo, per cui siamo di fronte a quello che potremmo definire un
atteggiamento egoistico e privo d’intenzionalità collettiva o, per richiamare
l’esempio searleano, a un atteggiamento analogo a quello del primo caso dei
laureati della Harvard Business School65.
La mera somma delle volontà particolari è per Rousseau la volontà di tutti, con
la precisazione che «togliete da queste stesse volontà il più e il meno che si
annullano reciprocamente, resta, come somma delle differenze, la volontà
generale»66: così si specifica che essendo parte di una volontà generale, al di là
delle piccole o grandi differenze tra i cittadini, esiste un “fondo” di principî a
cui tutti aderirebbero e che sono appunto alla base del loro vivere in comune.
Tuomela sembra accostare, seppur con le dovute cautele, la sua concezione
dell’I-mode pro-group a questa volontà di tutti: questo tipo debole
d’intenzionalità collettiva « consiste nel funzionare come una persona “privata”
ma almeno in parte per il gruppo quando è in un contesto di gruppo» 67, e
potrebbe essere espresso linguisticamente come«“Io farò la mia parte per la
nostra azione congiunta X”»68, ma senza una piena adesione alle ragioni di
gruppo, cioè quelle motivazioni per l’azione che emergono dall’intesa dei
membri del gruppo e che, dunque, non sono riducibili alle semplici ragioni
individuali, ma acquistano autoritarietà dal loro essere in concettualmente in
direzione top-down (dal livello del gruppo a quello dei singoli membri), anche
se ontologicamente esse sono bottom-up.
Tuomela scrive che gli I-moder pro groups non hanno «la piena “togetherness-
we” che soddisfi la collectivity condition ed esprima l’identificazione sociale dei
membri con il gruppo a cui ci si riferisce» 69: partecipano all’azione collettiva,
ma lo fanno anche per motivazioni personali, senza sentirsi vincolati alla
soddisfazione di tutti i membri del gruppo al compimento dell’azione. Occorre
notare che per Searle questa sarebbe una condizione di soddisfacimento
sufficiente per l’intenzionalità collettiva: faccio la mia parte credendo che gli
altri faranno la loro, per cui il secondo caso dei laureati della Business School
sarebbe forse assimilabile a questo atteggiamento nei confronti del gruppo.

63

64
65

66
67
68
69
Tuomela,
Ibidem.
p. invece, intende la collectivity condition in un senso ancora più forte:
Ivi, p.86.
p.42.
40.
85.
27.
43.

essa esprime la precisazione di questa forte togetherness-we per cui

in caso di membri che stiano intenzionando collettivamente, la loro


intenzione non può essere generalmente soddisfatta separatamente –
deve concettualmente essere soddisfatta per tutti i membri
collettivamente e simultaneamente70,

cosicché all’interno della collectivity condition possiamo distinguere un aspetto


obiettivo, per cui ognuno è soddisfatto nell’obiettivo di gruppo (ottica
distribuitiva) se e solo se anche gli altri lo sono simultaneamente (ottica
collettivista), e un aspetto intersoggettivo, per cui «i membri credono
reciprocamente a questa soddisfazione»71.
L’insicurezza che ho espresso nel mettere al paragone il caso 2 della Business
School con l’I-mode pro group deriva da una difficoltà rilevata dallo stesso
Tuomela, che sostiene che «ciò che lui [Searle] chiama we-intentionality (e
similmente “collective intentionality”) possa essere esemplificato sia dal we-
mode we-intentionality che dalla pro-group I-mode we-intentionality»72. Ciò che
l’autore lamenta, insomma, è il semplice abbozzo di un argomento contro la
riducibilità della we-intentionality, che dunque verrebbe completata dalla sua
analisi. In parole povere, mi sembra che Tuomela reclami per
l’autoreferenzialità causale della we-intentionality un’aggiunta alla
formulazione searleana: a “Intendo fare la mia parte nell’azione X” occorre
aggiungere “in quanto membro del gruppo g”, per conferirle un vero e proprio
statuto epistemico, concettuale e causale .
Infatti, insieme all’adesione a un ethos di gruppo – cioè aver adottato
l’insieme di proprietà costitutive, credenze, valori e obiettivi di un gruppo
«almeno in parte»73 perché il gruppo lo ha accettato come suo ethos e
impegnarsi nella promozione di quest’ultimo secondo obbligazione normativa
intrinseca al gruppo stesso – e al collective commitment – cioè aver assunto un
impegno nei confronti del gruppo, del suo ethos e dei suoi membri, impegno
che comprende diritti e obbligazioni e che «un membro non può revocare
unilateralmente […] senza il permesso degli altri»74 perché oltre che rischiare
di compromettere il raggiungimento di eventuali obiettivi, minaccerebbe la
stabilità creatasi nel momento in cui ogni membro ha «ceduto parte della sua
autorità sulle sue azioni al gruppo»75 – la collectivity condition delinea
l’account di Tuomela dell’intenzionalità we-mode di un gruppo democratico,
che talvolta può anche essere posizionale, con «una struttura di potere
gerarchica e normativa»76 in cui i position-holder sono autorizzati a prendere
70

71
72

73
74
75
76
decisioni
Ibidem.
Ivi, p.63.
p.65.
p. 40.
62.
73.
74. che gli altri membri devono rispettare o per lo meno «accettare» 77
(con la precisazione che è sempre possibile cambiare idea e abbandonare il
gruppo previa approvazione degli altri partecipanti).
Essere we-moder all’interno di un gruppo significa «essere sulla stessa
barca»78, cioè condividere obiettivi, successi e insuccessi, ma anche essere
legati da un principio di solidarietà per cui si è «tutti per uno, uno per tutti» 79,
pensare in termini di collettività e creare le condizioni affinché il gruppo
continui ad esistere e a rimodularsi ogni qual volta se ne presenti la necessità.
In queste condizioni, pur non essendo se non concettualmente un solo corpo, è
possibile avere un’intenzione collettiva. Tuomela recepisce la formulazione
searleana dell’intenzionalità sia per quanto riguarda l’autoreferenzialità
causale (scrive che «serve a iniziare, controllare e guidare l’azione» 80), sia per
quanto riguarda l’aspetto fallibilistico del “provare”, sia, infine, per la
suddivisione interna tra intenzione precedente e intenzione-in-azione.
Traslando questa descrizione sull’intenzione collettiva, Tuomela afferma che
essa connette tutti i we-thinking e i we-intending dei membri del gruppo come
fosse un «ponte concettuale e metafisico»81 e che

Attraverso la sua trasformazione in “presa decisione” o “intenzione-in-


azione” serve […] nel caso di un’ intenzione-collettiva-in-azione, a
garantire il grado richiesto di coordinamento interpersonale 82.

Anzitutto, occorre rilevare che la we-intention «comprende un’intenzione del


partecipante a partecipare alla realizzazione di un’azione X insieme – sia in un
senso che ha a che fare con l’azione sia in quello di prendere parte nella
responsabilità collettiva per X del gruppo, la “nostra”» 83: il gruppo agente è
formato proprio a partire da questa accettazione della responsabilità collettiva,
per cui la scelta dei mezzi per soddisfare uno scopo di gruppo sarà una scelta
democratica in cui i membri dovranno rispondere alla domanda « “Cosa
dovrebbe fare il nostro gruppo?” o “Cosa dovremmo fare in quanto
gruppo?”»84, cosicché dal loro confronto possano emergere soluzioni da
mettere in atto non come vittoria dell’opinione più forte o più persuasiva, ma
come raggiunta intesa tra i corresponsabili dell’intenzione collettiva e
dell’azione che ne conseguirà.
Il senso che Tuomela dà alla we-intention, cioè,

non è meramente uno stato soggettivo di un individuo, non è soltanto


qualcosa nella “testa individuale”. Piuttosto è uno stato relazionale, in

77
78

79
80

81
82
83
84
Ivi, p. 18.
Searle,
Bratman
Bratman,78. qualche
Creare
Michael
op. cit.
il mondo
p.E.,341. modo
“Shared
sociale, una
Cooperative
ed. cit. parte
p. 69.
Activity” formalizzata
in The o Vol.
Philosophical Review, “fetta”
101, Issuedell’intenzione collettiva
2, pp. 327-341, Cornell University 1992.

dei partecipanti85.

Non mi pare che una concezione del genere possa condurre a gruppi totalitari,
e anzi trovo che Tuomela riesca a cogliere una delle principali urgenze della
nostra attualità, cioè quella di educare 86 sin dalla prima infanzia alla
cooperazione e alla condivisione di idee come strumento per arrivare a
produrre soluzioni innovative in grado di tenere testa alle grandi sfide dei
nostri tempi; nonostante questo, la teorizzazione dei gruppi agenti che egli
fornisce potrà senz’altro apparire molto forte a rigidi sostenitori di posizioni
individualistiche e neoliberali.
D’altronde, il richiamo al coordinamento interpersonale è un punto di
discontinuità con la teorizzazione searliana, che non sembra prevedere, se non
a livello di planning, la possibilità d’ingerenza da parte dei partner dell’azione
nella realizzazione di quest’ultima: Tuomela, invece, sostiene che una
collaborazione nel senso forte del termine vada mantenuta anche per
l’intenzione-in-azione, che consideriamo seguendo anche Searle come una
componente dell’azione stessa. Se, per fare un esempio pratico, Searle scrive
che nel gioco del football87 l’uomo della linea offensiva non ha bisogno di
sapere di quanti passi si muoverà il quarterback prima di far partire il
passaggio, ma che farà il suo compito credendo che gli altri abbiano queste
aspettative su di lui, Tuomela potrebbe rispondere che nulla vieta al giocatore
di urlare ai compagni quale schema (già pensato e provato mille volte durante
gli allenamenti) stia pensando di applicare in modo che tutti possano disporsi
in campo nelle corrette posizioni e, come un organismo ben funzionante,
permettere al quarterback possa correre a fare meta, cioè fare in modo che
possa concretizzare l’obiettivo di tutta la squadra con la conseguente
soddisfazione collettiva.

1.3. Bratman
Le analisi di Tuomela e Searle che abbiamo partono dall’assunto che la
riducibilità concettuale della we-intentionality sia, da un lato impossibile,
dall’altro non necessario. Di diverso avviso è Michael Bratman (1945- ), che in
Shared Cooperative Activity88 (1992) proclama che il suo account della SCA ha
«uno spirito diffusamente individualistico; perciò prova a capire cosa sia
distintivo della SCA in termini di atteggiamenti e azioni degli individui
coinvolti»89. Certo, se è possibile effettuare riduzioni su gruppi che constano di
due o tre elementi, non si è in grado di dire fino a che punto questo metodo di
analisi sarebbe potuto risultare adatto a rendere conto dell’attività di
un’istituzione o di uno Stato, ma le considerazioni di Bratman sulle SCA di un
85

86
87
88
89
paio
Ivi,
Ivi,p.
Ibidem. di individui
p.328.
pp.331-332.
p.332.
330. risultano utili per approfondire ulteriormente la descrizione
del mondo sociale.
Iniziamo da una difficoltà già riscontrata in Searle. Si dia il caso che due agenti
abbiano entrambi una qualche ragione che li spinge ad avere un’intenzione a
favore di un’azione da fare insieme. Bratman sostiene che

Dire che ho l’intenzione che noi eseguiamo un joint-act-type J può ancora


sembrare sospetto. Io non posso, dopotutto, provare a eseguire la tua o la
nostra azione. Ma se questo è vero dei tentativi, non è vero anche per le
intenzioni? Ciò che s’intende non è un’azione privata? E se è così, come
possiamo dare un senso all’istanza della mia intenzione che noi J?90

Anche Bratman, quindi, si scontra con il dato biologico per cui non è possibile
che un corpo venga mosso se non dall’intenzionalità che superviene dal suo
cervello. Tuttavia, le azioni e le restrizioni sono a a suo parere 91 sottoposte a
vincoli diversi e, come anche Searle e Tuomela, Bratman accetta la scansione
interna all’intenzionalità (intenzioni-precedenti o piani, intenzioni-in-azione e
azione), e ammette che almeno nella dimensione delle «future-directed
intentions in quanto elementi di piani parziali» 92 sia possibile che un individuo
pianifichi una joint action con un altro: in questo senso, una delle
caratteristiche che Bratman elenca tra quelle della SCA è «l’impegno a favore
della joint activity»93, vale a dire un interesse ad agire cooperativamente e
almeno un senso (quello del planning) in cui è possibile una tale attività.
Ad accompagnare l’intenzione della joint activity, però, possono esserci dei
subplans, cioè delle intenzioni che sono personali e hanno a che fare con i
mezzi con cui si vuole realizzare l’attività congiunta: « Ciò potrebbe
suggerire che la SCA richieda accordo nei subplans degli agenti. Ma questo è troppo
forte»94. Per Bratman, infatti, ci sono dei subplans che semplicemente non
possono coesistere, perché

I nostri subplans individuali a proposito della nostra joint activity si


armonizzato (mesh) solo nel caso in cui ci sia un modo in cui possiamo
svolgere questa attività che non violi nessuno dei nostri subplans ma che
comprenda, piuttosto, l’esecuzione riuscita di quei subplans 95.

Anche in questo caso, è evidente che la preoccupazione dell’autore ricada sulla


salvaguardia dell’individualismo, che sembra assunto a valore fondamentale e
che guarda all’accordo come ad un «obiettivo più complesso» 96 del semplice
agire insieme. Per usare la terminologia di Bratman, a me sembra che questa
teorizzazione sia troppo forte. Anzitutto, costituire un gruppo democratico
90

91
92

93
94
95
96
(anche
Tuomela,
Cfr.
Ivi, p.
Bratman
337.op.
Bratman, formato
op.cit.
p.
cit.335.
p.
p.48.
328. da due elementi minimi) che rispetti i subplans dei suoi membri
significa anche concedere a questi ultimi lo spazio necessario per mettere in
dubbio e ridiscutere le loro “intenzioni di partenza” sulla base della nuova
condizione che li vede parti di un gruppo. Trovo, in questo senso, molto più
convincente la posizione di Tuomela, il quale sostiene che

Quando i membri di un vero gruppo we-mode (o un gruppo che gli


individui intendono far diventare we-mode) fanno individualmente le loro
proposte we-mode su ciò che il gruppo dovrebbe fare e quali
atteggiamenti dovrebbe avere, il risultato della discussione del gruppo
potrebbe essere che delle combinazioni emergenti di proposte vengano
accettate come comportamenti del gruppo97.

Inoltre, questa strenua difesa dei subplans, che forse in linguaggio


habermasiano potremmo tradurre con “interessi”, non sembra tenere in
considerazione la legittimità o non legittimità di questi ultimi, e quindi la
validità di questo schieramento rigido: sarebbe un peccato, oltre che davvero
improbabile, abbandonare l’idea di ridipingere una casa solo perché io voglio
tutte le pareti rosse e tu tutte blu: potremmo alternare i due colori, o scegliere
un tono che piace a tutti e due, o mischiarli e ottenere un elegante viola!
A dispetto di questo accento fortemente egoistico per quanto riguarda le prior
intentions individuali, Bratman individua altri due caratteri di una SCA riuscita
nella responsività reciproca (mutual responsiveness) e nell’impegno al
supporto reciproco (commitment to mutual support), nozioni che rendono
molto più realistico (molto più riferibile al mondo umano) il suo account di
azione cooperativa.
Essere vicendevolmente responsivi significa che «ognuno prova a guidare il
proprio comportamento con un occhio al comportamento dell’altro, sapendo
che l’altro proverà a fare lo stesso»98, cioè avere un controllo regolativo della
proprio comportamento che abbia come metro di paragone quello del partner
dell’azione in questione: in questo senso, le intenzioni di ognuno dei
partecipanti (oltre ad essere volontarie) sono interdipendenti 99 o, con una
locuzione ripetuta più volte nel libro di Tuomela, gli agenti sono “sulla stessa
barca”.
Proprio da questa interdipendenza delle intenzioni, e dunque anche della
riuscita dell’attività cooperativa, deriva un terzo elemento, quello dell’impegno
a supportarsi a vicenda in caso di bisogno: tale impegno comprende anche
«che ci siano almeno delle circostanze rilevanti nella cooperazione in cui io
sarei preparato a fornirti l’auto necessario. E lo stesso per te» 100, cioè l’attività
che svolgiamo insieme deve essere tale che possano presentarsi delle
circostanze che siano minimamente stabili in cui singolarmente non si
97
98
99
100
riuscirebbe ad avere successo (Bratman propone l’esempio del duetto canoro).
E questo non potrebbe voler dire, almeno in parte, che nell’azione cooperativa
si deve pronti ad essere “tutti per uno, uno per tutti”?
Alla luce di questi due ultimi punti, da un lato mi chiedo fino a che punto la
dichiarazione d’individualismo di Bratman possa essere irrevocabile, e se il
fatto che la sua descrizione della shared cooperative activity comprenda questi
impegni tra le parti non implichi una normatività che emerga dall’agire
condiviso delle parti che non possa più essere ridotta ai singoli agenti,
dall’altro mi domando quanta forza vincolante possano avere le clausole
discusse a proposito dei subplans in una possibile valutazione razionale di
legittimità delle pretese avanzate dai partecipanti per giungere a un accordo.
Riferimenti bibliografici

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Torino 2017.

Bratman Michael E., “Shared Cooperative Activity” in The Philosophical Review, Vol. 101, Issue 2,
pp. 327-341, Cornell University 1992.

Husserl Edmund, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die


transzendentale Phänomenologie, 1959, ed. it. La crisi delle scienze europee e
la fenomenologia trascendentale a cura di E. Filippini, il Saggiatore S.r.L,
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Rousseau Jean-Jacques, Du contrat social, ou principes du droit politique, 1762.


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Searle John R., Making the Social World. The Structure of Human Civilization,
2010. Ed. it. Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana a cura di
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Tuomela Raimo, Social Ontology. Collective Intentionality and Group Agents,


Oxford University Press, New York 2013.

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