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I Custodi del Tempo

Stefano Civolani

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Copyright © 2007 Stefano Civolani All rights reserved
Fronte Copertina: Cielo stellato: elaborazione grafica di Stefano Civolani
Retro Copertina: Foto di Stefano Civolani

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A Lara per il suo amore
A Federico per il suo sorriso
A Sara per il suo sguardo

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N.B.
I fatti narrati in questo libro sono di pura fantasia. Ogni riferimento ad eventi, persone e
luoghi è puramente casuale.

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CAPITOLO I

04 gennaio 2001 Londra

E così il libro si richiuse, per sempre. L’anziana signora trasse


un lungo sospiro, disegnando i bordi delle pagine con le dita
ormai avvizzite. Era tardi. Il sole era già tramontato. Il sole:
erano ormai settimane che nient’altro che una livida palla
grigia velava distratta una spessa coltre di nuvole e nebbia.
Londra. Sospirò nuovamente. Lei odiava quella città, eppure…
Si avvicinò alla finestra. Una folata di vento sollevò le tende e
la fece rabbrividire. Accostò i vetri. Il vento aveva spazzato via
la nebbia e dalla luce proiettata dal lampione che le teneva
compagnia ogni notte si accorse che stava nevicando. Un
timido sorriso le increspò le labbra, si strinse il libro al petto, lo
appoggiò sul comodino e si infilò lentamente sotto le coperte.
Le ceneri del camino crepitavano ancora e lei si sentì avvolgere
da uno strano tepore. La sua fronte si distese pronta ad
accogliere il sonno e, lentamente, con un gesto meccanico e
inconscio, la mano destra cercò tra le coperte a fianco a lei.
Freddo. Erano ormai 30 anni che lui se n’era andato e lei, da
allora, tutte le sere compiva meccanicamente quel gesto e il
letto vuoto al suo fianco le trafiggeva ogni volta il cuore. Si
raggomitolò su se stessa e pianse. Poi si voltò e iniziò a fissare
la finestra e le ombre che il lampione proiettava nella stanza.
Neve. Poteva sentirne il rumore, sì, lo conosceva il rumore del
cuore che ti fa eco in ogni istante quando la neve intorno a te
attutisce ogni suono, ogni musica, ogni gesto. Adorava la neve:
era stata muta spettatrice di molti avvenimenti durante la sua
lunga vita e lei ora la sentiva cadere dentro di se e portarle alla
mente l’eco di ricordi lontani e le era grata anche se a volte
ricordare era molto triste e doloroso.

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E’ finita, pensò e trasse un lungo sospiro. In lontananza i
rintocchi sordi di una campana le ricordavano il tempo che le
sfuggiva dalle mani. Ma era davvero così? Una fitta le trafisse
il petto. No, non ora pensò, non qui in questa città senza tempo,
così paurosa perchè così conosciuta e allo stesso tempo velata,
trasfigurata, irreale. Il cuore incominciò a batterle forte, come
un tamburo selvaggio nel petto. No, non era la neve, non era la
paura, erano i ricordi che bussavano alla sua porta, che le
sussultavano nel petto per salirle alla mente. Si appoggiò con la
schiena alla spalliera del letto, allungò il braccio e trasse a se il
libro che era sul comodino, lo strinse e si coricò di nuovo. Il
cuore si placò. Chiuse gli occhi e la neve calò pian piano nella
sua mente, cullandola dolcemente…

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CAPITOLO II

16 luglio 1967 New York

Il sassofono era per terra al suo fianco. Due ance spezzate


rilucevano poco distanti. In preda a un dolore lancinante le
fissava immobile, riverso per terra, con la mano premuta sul
fianco.
“Non ho ancora finito!” pensò mentre il sudore gli salava la
bocca e il dolore cresceva “Non ho ancora finito!”.
Il dolore non cessava. Quello che fino al giorno prima era stato
un fastidio costante ma lontano era divenuto improvvisamente
un dolore insopportabile, lancinante, terribile. Voleva urlare.
Non era sicuro di non averlo già fatto prima, quando quel
dolore terribile si era manifestato all’improvviso mentre si
stava esercitando con il sax. Nessuno era accorso. A quell’ora
Alice era certamente in cucina a preparare la cena e quasi
sicuramente non si era accorta del suo grido. Anche il suo sax
gridava mentre si esercitava. Dei gridi quasi umani, come
quello che aveva lanciato poc’anzi ma …… anche se molti
sembravano ascoltare nessuno sembrava capire …
Lo specchio, pensò, devo continuare a pulire lo specchio,
rendere le cose più chiare, più trasparenti, ancora, ancora, non
posso cedere proprio adesso, a un passo dalla …..
La porta si aprì e, circondata da una luce irreale (lui
ultimamente voleva esercitarsi solo al buio, doveva essere
pronto continuava a ripetere) apparve Alice con il loro figlio
Ravi in braccio.
“John! John! Cos’hai fatto? Tutto bene?”
Provò ad alzarsi ma il dolore lo immobilizzava. Allungò la
mano fino a raggiungere il sax, lo trascinò vicino a se, alzò gli

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occhi su di lei e disse:
“Andiamo. Portami all’ospedale. Il momento è arrivato.”
Tremava e il sudore gli scendeva dalle tempie sugli zigomi.
Sembrava stesse piangendo.
Alice si chinò su di lui, lo guardò e annuì accarezzando il
piccolo Ravi che dormiva tra le sue braccia, ignaro di tutto. La
musica era cessata, quel costante torrente di note che sentiva
nella testa e che trasmetteva così facilmente alle sue dita
quando impugnavano il sassofono si era improvvisamente
interrotta. Il silenzio. Tanto odiato e tanto amato. L’antitesi
della musica, il suo naturale compagno. Musica e silenzio.
Erano stati tutta la sua vita. John non amava parlare. Era
sicuro: nella sua vita aveva suonato più note di quante parole
avesse pronunciato… e ancora ne sentiva di nuove. Lui
parlava suonando, recitava poesie con il suo sax, poesie
d’amore, violente invettive, dolorose accuse. Era una persona
silenziosa capace di suonare nella maniera più fragorosa e
devastante che si fosse mai udita nel jazz. Suonava la sua
anima, riproduceva ciò che sentiva nella sua mente e ora, ora
che era arrivato questo secondo silenzio, terribile, fatale, aveva
capito che era la fine.
Si appoggiò a una sedia e si alzò in piedi tremante. Mise il sax
nella custodia, si passò una mano sulla fronte per asciugare il
sudore e poi, con in una mano il sassofono e l’altra sul fianco
dolorante si avviò verso la porta ancora immersa nella luce.
“L’ospedale Huntington è il più vicino” disse Alice “Cerco
qualcuno che possa badare a Ravi e ti raggiungo
immediatamente.” Stava piangendo.
“Non piangere Alice. Io sono pronto. Solo ... La musica ... e’
finita … Non la sento più … questo silenzio... È … la …
fine… No, non c’è mai fine. Lo specchio Alice, devo ancora
pulire lo specchio …”
“Lo hai già fatto John, lo hai già fatto. Ora sta ad altri. Vai

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adesso. Arriverò presto.”
John chiuse la porta dietro di se. Buio. Silenzio.

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CAPITOLO III

03 gennaio 1889 Torino

Lo specchio rifletteva la sua immagine, il suo viso deformato


da un riso isterico, i lunghi baffi a nascondere quasi totalmente
le labbra, gli occhi spiritati, vuoti, miopi.
Scostandosi dallo specchio ritornò al tavolo, sul quale erano
sparsi decine di fogli colmi della sua grafia nervosa e
sfuggente. Sedendosi si osservò la mano destra. Era spaventato,
spaventato da quello che aveva scritto, spaventato da quello
che aveva in mente di scrivere. Si passò la mano sulla fronte
quasi a voler scacciare la paura.
Il crocifisso sul muro lo fissava. Si alzò e gli si pose di fronte.
“Io sono Dioniso, io sono il Dio della vita!!! Lasciami andare!
E’ il mio turno ora!! Tu sei morto, morto!!”. Iniziò a danzare,
una danza frenetica, in preda a un riso isterico che si trasformò
subito in una tosse irrefrenabile. Si girò di scatto. Da tempo
sentiva una specie di presenza alle sue spalle, la percepiva
distintamente, sentiva il suo sguardo su di lui ma non riusciva a
scorgerne il volto, la reale esistenza.
Ancora nulla. Eppure qualcuno dovrebbe aver già capito, l’eco
dei suoi scritti avrebbe già dovuto contagiare chiunque… Era
solo. Aprì le finestre. Un vento freddo entrò e un brivido gli
corse lungo la schiena. Torino. Da quando era giunto in quella
città tutto sembrava andare per il verso giusto. Le forti
emicranie che lo tormentavano da anni erano improvvisamente
scomparse e le idee gli affollavano la mente, finalmente libera
dal dolore, come mai fino a quel momento.
Aveva scritto, scritto febbrilmente, uno, due, tre libri in pochi
mesi. Si sentiva pieno di energie, spaventato da questo fluire di
idee dalla mente alla carta, spaventato dalla sua mano, dai suoi
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scritti ma non poteva interrompersi. Sentiva su di se il peso
della missione che ora gli era chiara nella mente dopo anni di
dubbi, tentennamenti, incertezze. Azzerare la storia. Punto e a
capo. Radere al suolo tutto ciò che dava certezza; demolire
ogni dogma, ogni valore, ogni suo valore. Sentiva tutto ciò e ne
era al contempo terrorizzato ed esaltato. Dioniso era di nuovo
sulla terra per proclamare il suo regno. Tutti si inchineranno
davanti alla sua presenza. Si sentiva Giulio Cesare, Napoleone,
Buddha, Shakespeare, Alessandro Magno, l’Anticristo, era
ogni nome nella storia, passata e futura. Sentiva fortemente di
essere lui la storia, di essere lui il principio e la fine. Eterno,
come i suoi libri.
Si sedette sullo sgabello del pianoforte e iniziò a suonare una
lenta melodia che aveva composto poco tempo prima,
cantilenando sommessamente.
Arianna. Cosima. Lou. I volti di queste donne gli si
presentarono nella mente mentre arpeggiava al pianoforte
trasportato dalla melodia. Pianse. Inconsapevolmente, come
sfogliando i ricordi di un sogno si ritrovò bambino in braccio a
suo padre, solo sulle montagne dell’Engadina, sul lungomare di
Nizza. Ritorna. Ecco il ritorno, pensò, l’eterno ritorno. Tutto si
compie.
Si alzò di scatto e raccolse i vestiti sparsi sul letto, prese il suo
bastone da passeggio e uscì dalla stanza. Discendendo le scale
incontrò il signor Fino che lo salutò come al solito.
“Buongiorno Herr Professor”
“Buongiorno a lei” rispose con il suo italiano rigido e
spigoloso.
Uscì di casa. Piazza Carlo Alberto. Si avviò a grandi passi
verso l’ufficio postale salutando con ampi gesti chiunque
incrociasse. La gente pareva sorridergli. La gente sapeva, tutti
sapevano. Tutti lo rispettavano ed erano pronti a seguirlo. Ora
ne era certo. Al bancone delle spedizioni c’era la solita fila di

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persone. Passò oltre. Non poteva attendere. La gente sapeva
della sua fretta. Non poteva non sapere. Gli sguardi torvi
divennero per lui sorrisi mentre si accostava allo sportello
consegnando all’impiegato una serie di lettere.
“Ne curi personalmente la spedizione. L’annuncio è stato dato.
Lei è stato tramite di un evento di portata storica. L’umanità le
sarà per sempre riconoscente.” Allungò del denaro allo
sconcertato impiegato e si avviò verso l’uscita fischiettando e
battendo il suo bastone da passeggio per terra. Girò l’angolo e
il sorriso che aveva stampato sul volto si spense.
Uno schiocco di frusta. Un nitrito. Urla.
Le immagini corsero rapide nella sua mente. Il dolore corse da
quell’animale inerme a lui. Sentì su di se quelle frustate, il suo
corpo nudo piagato dalla violenza di quel gesto. Le contò, una
ad una. Il dolore era insopportabile. Io sono lui.
Ritorna. Ritorna. Ritorna...
Corse verso il cavallo, piangendo e urlando. Lo abbracciò.
Cadde.

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CAPITOLO IV

27 luglio 1890 Auvers sur Oise

I corvi e le cornacchie volavano alti sopra il campo di grano.


Poteva quasi sentire il loro battito d’ali. Lo scoppio le aveva
spaventate ma ora erano ritornate. La vista gli si annebbiava, i
colori perdevano di intensità. I colori si stavano spegnendo.
Non vedeva più quei raggi, quell’intensità di luce che gli
faceva spesso chiudere gli occhi per fissare le immagini nella
mente. Era tutto uniforme ora. Normale.
Sono guarito, pensò, lo sapevo, finalmente sono guarito.
Le spighe del grano gli accarezzavano il volto, mosse da una
leggera brezza. L’acre odore di polvere da sparo stava
svanendo. Il tramonto incendiava l’orizzonte. Rosso. Rosso.
Non era mai riuscito ad ottenere quella tonalità di rosso, non
era mai riuscito a dipingere nulla che riflettesse i colori che lui
vedeva. Non si potevano dipingere i colori che lui vedeva.
Si trascinò carponi verso un covone di paglia e vi si appoggiò
contro. Le spighe di grano macchiate del suo sangue gli
ondeggiavano davanti.
Ecco, pensò, ecco il rosso che mi serviva… il mio sangue,
dovevo dipingere con il mio sangue.
L’hai fatto, gli rispose una voce nella mente; l’hai fatto...
Ansimava e cominciava a sentire dolore. Si era illuso che fosse
facile spararsi e lasciarsi morire. Dopo lo sparo non aveva
sentito nulla ma ora il dolore si faceva strada e gli ingombrava
la mente.
Appoggiò la pistola di lato e si guardò il ventre. Il suo sangue
dava uno strano tepore. Si toccò la ferita e iniziò a fissare la sua
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mano sporca del suo sangue. L’orizzonte era in fiamme. La sua
pancia era in fiamme. Tutto pareva bruciare intorno a lui.
Rosso. Rosso. Rosso.
Non amava dipingere con il colore rosso. Non aveva mai
trovato il tono di colore giusto. Ora l’aveva trovato ma non
vedeva più quella luce. Non sapeva più se ne era contento o
rattristato. Per tutta la vita aveva combattuto contro quella
strana sensazione, quella luce e quelle ombre che lui solo
pareva vedere dietro le cose e le persone. Si sentiva maledetto
per questo e ora... Ora si sentiva solo, disperso. Gli mancavano
quella luce e quelle ombre. Si mise una mano in tasca e
estrasse un foglio. Con il dito insanguinato tracciò delle linee.
Osservò il sole, chiuse gli occhi e lo rivide come lo ricordava.
Il rosso era finalmente giusto. Ancora un po’ e avrebbe
terminato.
I corvi erano spariti. L’orizzonte era libero come la sua mente.
Ancora un attimo, un attimo. L’ho trovato, finalmente l’ho
trovato! Dio ancora un minuto…
“Vincent! Vincent!”
Era la voce del dottor Gachet. Un altro maledettissimo
appuntamento. Ma a questo non ci sarò, pensò, ho trovato io la
cura.
Il dottore smise di chiamarlo. Il silenzio. Gli sembrava di udire
il rumore del sole che ardeva, mentre con la mano tremante
finiva di tracciare l’orizzonte sul foglio. Alzò lo sguardo. Ecco,
pensò, ce l’ho fatta. Ora sono libero.
I corvi si alzarono in volo. Il vento scosse le spighe. Le nuvole
si abbassarono sul sole. L’oscurità inghiottiva ogni cosa.
Lentamente, con il ventre squarciato dalla pallottola si trascinò
a casa. Il foglio volò via. Una colomba insanguinata in mezzo a
corvi neri. Silenzio. Pace. Buio. Bianco.

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CAPITOLO V

03 Luglio 1971 Parigi

Si immerse nella vasca. Il tepore dell’acqua lo fece sospirare.


Vi si immerse completamente, i lunghi capelli a scompigliargli
il viso. Quello strano senso di oppressione al petto sembrò per
un istante scomparire. Appoggiò le mani sul bordo della vasca.
Si sentiva meglio. Si accese una sigaretta. Il cuore gli batteva
all’impazzata ma almeno il dolore al torace era cessato. Il
rumore delle strade di Parigi entrava dalla finestra socchiusa
del bagno. Parigi. Si era subito sentito a casa in quella città.
Poteva camminare per strada senza essere riconosciuto, poteva
scomparire tra la gente, respirare gli umori di quella città
magica senza essere continuamente importunato. Los Angeles
lo aveva respinto, per sempre. Non vi avrebbe mai più fatto
ritorno, pensò. Non sarebbe più tornato ad essere quello di
prima. Tutto ciò che voleva era scrivere, scrivere e dimenticare,
scrivere e purificarsi, lavarsi di dosso quella sensazione di
oppressione e di prigione che si portava dentro. Si sentiva in
gabbia nel suo ruolo di cantante, di sex symbol, di idolo pop.
Un colpo di tosse secco lo scosse e gli fece cadere la sigaretta
nell’acqua.
“Dannazione! Dannazione!” Si alzò, uscì dalla vasca e andò al
tavolo nella stanza di fianco. La polvere bianca era ancora
sparsa sul tavolo. “Al diavolo anche lei! E’ stata l’ultima volta,
l’ultima! Libero, libero anche da voi!” Scaraventò il tavolo per
terra, raccolse le sigarette e si sedette sul pavimento, la schiena
contro il muro. Il contatto con il freddo dei mattoni lo fece
rabbrividire. Accese la sigaretta e aspirò nervosamente. Un

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brusco attacco di tosse lo scosse nuovamente. Inarcò la schiena
come a volersi liberare dell’oppressione che sentiva
nuovamente al petto. In quel momento bussarono alla porta.
“Vieni avanti” disse tossendo. Era Pamela. Doveva essere
Pamela. Era stata in giro tutto il giorno con quel suo amico
francese, quella specie di conte. Ma tornava, lei tornava sempre
da lui. Anche lui tornava sempre da lei. Era la sua compagna
cosmica. Ora era giunto il momento di cambiare. Tutto doveva
cambiare.
Sentì la porta d’ingresso aprirsi e dei passi avvicinarsi alla
porta della sala attigua al bagno dove si trovava. Sentì
armeggiare dalle parti del mobile che conteneva il vecchio
giradischi che aveva acquistato qualche giorno prima in una
bancarella sul lungo Senna..
Sentì il tonfo sordo della puntina sul disco, le stanze riempirsi
di musica e subito un brivido lo percorse. Conosceva quella
melodia. E quella voce, la sua voce. The end. La fine.
Da quando l’aveva sentita per la prima volta nella sua testa,
risuonare insieme a mille altre melodie, l’aveva cantata e
suonata con i ragazzi del gruppo centinaia di volte ma non
aveva mai ascoltato la versione incisa sul loro disco di esordio.
Ricordava nitidamente la sera in cui l’avevano registrata e ne
aveva paura.
Quella sera le luci erano spente nello studio di registrazione,
solo quelle dei registratori emanavano un bagliore
intermittente. L’incenso bruciava innanzi a lui, allora come
adesso, di fianco a una candela. La stanza riverberava dei suoni
di John, Robbie e Ray e lui, quando incominciò a cantare, si
sentì come trasportato in un altro luogo. Cantava le sue parole
ma parevano provenire da altrove… This is the end...
L’autobus blu... Strane scene nella miniera d’oro... Pericolo al
confine della città … Cavalca il serpente … Gli stivali… La

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maschera… Padre… Madre… Uccidi… Scopa... La fine
delle notti in cui abbiamo cercato di morire…
Quando quella sera smise di cantare si era sentito vuoto, come
se la sua vita, il suo io fosse fuoriuscito insieme a quelle parole,
a quella musica, a quelle immagini. Era uscito dallo studio di
registrazione senza dire una parola, si era ubriacato e più tardi
vi aveva fatto ritorno, quando ormai non c’era più nessuno, e
aveva distrutto tutto. Non aveva però trovato quei maledetti
nastri. Voleva distruggerli. Erano suoi, era la sua voce, era la
sua vita, il suo io. Giurò a se stesso che non avrebbe più
ascoltato quella voce e quelle parole. Aveva paura. Sentiva che
sarebbe successo qualcosa se quelle parole gli fossero tornate
indietro. Non era pronto.
“Pam, spegni subito quella fottutissima musica! Paamm! Lo sai
che non la voglio sentire! Pam! Mi sono fatto metà della coca
che c’era sul tavolo… Non farmi alzare! PAAMM!”
La porta d’ingresso si chiuse con uno schiocco violento. Jim si
alzò scatto e corse verso la porta.
“Chi diavolo...” Si ritrovò faccia al suolo. Un dolore lancinante
al petto lo aveva fatto vacillare e cadere. La sua voce gli
rimbombava nel cervello… Questa è la fine...
Sì Jim, avevi ragione, questa è la fine. Tossì e un grumo di
sangue gli bagnò la mano.
Bisogna accoglierla degnamente, bisogna gustarsela, si disse.
Arrancò sul pavimento fino alla vasca, vi si aggrappò con uno
sforzo immenso e vi si gettò quasi dentro. Chi era alla porta?
….Cavalca il serpente…... Cosa succederà ora? ….. Fino al lago
antico…... Dio mio ho paura. …..L’assassino si svegliò prima
dell’alba……. Tosse, tosse e quel dolore al petto, alla spalla, al
braccio…… Gli era già successo altre volte ma …… Prese la
maschera dalla bacheca delle reliquie……... Stava arrivando per
lui. ……..Padre, voglio ucciderti!.......... Ansimava, la mano

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premuta sul petto. Dio un’attimo ancora, devo ancora scrivere,
ho tante parole, tante musiche, tante… Madre voglio scoparti! …
La sua voce gli trapanava le tempie. Una falena volò verso la
tenda di fronte alla vasca. Sentì uno strano sibilo. L’urlo della
farfalla!! E’ la fine. Sto sprofondando nel grande sonno… La
fine delle notti in cui abbiamo cercato di morire…. Appoggiò le
braccia sul bordo della vasca, reclinò il capo e con un filo di
voce cantò con la voce che proveniva dal giradischi. This…
is…. the … End!

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CAPITOLO VI

05 gennaio 2001 Londra

Il suono del telefono si faceva insistente. Girandosi nel letto si


accostò al comodino e, aiutandosi con la flebile luce che
entrava dalle persiane accostate, sollevò il ricevitore.
“Signorina Morrison?”
“Si, sono io. Chi parla?”
“Sono il dottor Suzuki. Mi dispiace comunicarle che sua nonna
è…”.
Non sentì più nulla. Fece cadere la cornetta e si mise a sedere
sul letto. Una voce lontana sussurrava “Signorina, è ancora
lì??”.
Sono ancora qui? Che buffa domanda. Sì sono ancora qui, ma
la nonna… Si alzò in piedi asciugandosi una lacrima. Devo
andare da lei. Devo vederla ancora una volta. Non avevamo
ancora terminato. Si rivestì velocemente, mentre la testa le
girava all’impazzata, con una frenesia che le faceva battere il
cuore in gola. D’un tratto si fermò. Doveva calmarsi. Non c’era
più nulla che lei potesse fare per la nonna. Si accostò alla
finestra. La neve continuava a cadere imbiancando ogni cosa.
Alla nonna piaceva la neve. Aprì la finestra e trasse un
profondo respiro. Londra sembrava una città fantasma, nessun
segno di vita, nessun movimento se non il lento cadere di
fiocchi bianchi dal cielo. Le venne in mente un verso che la
nonna le ripeteva sempre:

“Il bianco manto della neve, che ricopre di silenzio ogni cosa,
si scioglie negli occhi di chi guarda. Che silenzio!”

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Non sapeva di chi fosse, ma ogni volta che lo ripeteva le
infondeva una strana calma, un distacco pacato e sereno.
Accadde anche questa volta. Richiuse la finestra, recuperò i
vestiti, li indossò e scese in strada.
L’hotel dove la nonna alloggiava era a poco meno di un isolato
e passeggiare sotto la neve le era sempre piaciuto, la aiutava a
pensare. La nonna era arrivata a Londra solo poche settimane
prima, da Parigi. Era arrivata di sorpresa, come suo solito,
senza alcun preavviso. Era sorridente come sempre, ma aveva
una strana fretta, come se sapesse di non avere tanto tempo a
disposizione. Aveva voluto vederla spesso in quelle poche
settimane, a cena, nel pomeriggio quando lei usciva dal lavoro,
dopo cena. Spesso stavano sedute davanti al caminetto della
camera dell’hotel dove alloggiava, in silenzio, ascoltando il
crepitio del fuoco per ore. Si sentiva a casa accanto alla nonna,
come con nessun’altro al mondo, amata, protetta. Era stato così
da sempre, sin da quando lei era piccola. E la nonna lo sapeva.
La sua serenità si poteva percepire e respirare standole accanto.
Pareva quasi brillare. L’ultima volta che l’aveva vista invece
pareva turbata, scossa da un qualcosa, impaziente e nello stesso
tempo impaurita.
Era stata da lei giusto quella sera. Si erano accomodate una
accanto all’altra sul grande divano Luigi XIV della suite dove
la nonna alloggiava; era solita alloggiare sempre nella stessa
camera sin da quando Isobel si era trasferita a Londra per
lavoro e la nonna la veniva a trovare. Diceva che le era
affezionata, e ogni volta che glielo ricordava chiudeva gli
occhi stretti stretti come per ricacciare indietro i ricordi.
La sera scorsa, davanti al caminetto, a differenza di molte altre
sere, si erano messe a parlare. La nonna era stranamente
loquace. Le fece un mucchio di domande, anche personali, su
argomenti che raramente avevano trattato insieme in quel
modo: religione, fede, amore, morte. La morte soprattutto

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sembrava essere il chiodo fisso della nonna, quella sera. Le
chiese se ne aveva paura. Lei rispose che si, ne aveva ma che
preferiva non pensarci. La nonna l’aveva guardata con un
sorriso luminoso sul viso e le aveva detto, prendendole il volto
tra le mani:
“Ricordati del bruco… Non finisce mai Issi, io non finisco qui,
tu non finisci qui, noi non siamo solo noi…”.
Lei si era allontanata spaventata. La nonna aveva sempre avuto
la passione per un certo misticismo orientale, per quelle
filosofie che vedevano l’uomo come parte di un tutto armonico
dell’universo. Ne avevano parlato a volte, ma la nonna era
sempre stata vaga e colma di ironia a riguardo. Ogni tanto le
citava proverbi, frasi celebri di maestri dell’Oriente, ma sempre
con parsimonia e facendoli seguire da battute e da facezie.
Quella volta sembra molto seria, molto convinta. Sapeva anche
che nella sua giovinezza aveva conosciuto una persona che
l’aveva introdotta e interessata a quella materia, ma ogni volta
che aveva provato a chiedere qualcosa su questa persona la
nonna aveva sempre cambiato discorso, infastidita.
“Sai” le disse” proprio stamane ho ricevuto per posta un libro,
un libro che ormai consideravo perduto da tanto tanto tempo.
E’ come se qualcuno me lo avesse spedito dal passato. Questa
sera lo voglio leggere, ma prima di ripartire te lo darò Issi.
Dovrai trattarlo con molta cura e non darlo mai a nessun’altro
fino a quando… lo capirai da te quando sarà il momento.”
La trasse a se e la abbracciò, con una forza che le fece per un
attimo mancare il fiato.
“Addio Issi, domani me ne vado, torno a casa…” le disse con
gli occhi lucidi. “Abbi cura di te.”
Erano le ultime parole che aveva sentito da sua nonna. E quella
mattina, appena aveva sentito suonare il telefono, aveva capito
che la nonna era morta. Capito non era la parola esatta, ma
come diceva spesso la nonna, le parole non sono mai esatte,

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sono imperfette, semplificano, banalizzano, circoscrivono,
limitano. La sera precedente le aveva lasciato questa
consapevolezza inconscia che Isobel era riuscita a mettere a
fuoco solo al suono del telefono che l’aveva come svegliata da
più stati di torpore: dal sonno e dall’oblio che la serata
precedente aveva fatto scendere sul suo cuore. Se ne era andata
dalla stanza della nonna con una strana sensazione che solo
quella mattina era riuscita a comprendere: la nonna le stava
dicendo addio. E lei, una parte di lei, lo aveva percepito e ne
era rimasta segnata.
Era ormai giunta all’hotel. Il lampeggiante dell’ambulanza
parcheggiata di fronte alla hall tingeva di blu la neve
circostante, dando alla strada un’aspetto inquietante. Entrò
nella hall, fece un cenno al ragazzo dietro il bancone
principale, che oramai conosceva dalle numerose visite
precedenti e salì le scale. La porta della camera della nonna era
aperta e un capannello di persone confabulava davanti ad essa.
Con il groppo in gola si sistemò i vestiti, si fece forza e avanzò
con passo deciso.

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CAPITOLO VII

05 gennaio 2001 Londra

La camera era in penombra, il camino spento. La nonna era sul


letto. Pareva dormisse. Gli occhi chiusi, un leggero sorriso
sulle labbra. Solo il pallore del viso e le labbra esangui davano
notizia che non c’era più. Le coperte erano diritte come se il
letto fosse appena stato rifatto, come se la nonna non vi
riposasse sopra, come se non fosse lì. Non c’era, non più.
Isobel voleva piangere. Si avvicinò alla nonna in punta di piedi,
come per non disturbarne il sonno. Le guardò il viso; sembrava
sereno, aperto, nessun segno di sofferenza, di dolore. Aveva le
braccia incrociate sul petto, come a nascondere e a cullare
qualcosa. Il libro! Era il libro di cui le aveva parlato, ne era
certa. Si chinò su di lei e le diede un bacio, sussurrando quasi
automaticamente “Ciò che il bruco chiama fine del mondo il
resto del mondo chiama farfalla”. Era quello che la nonna le
avrebbe detto se fosse stata lì. Sin da bambina quando, seduta
sulle sue ginocchia piagnucolando le chiedeva spiegazioni sulla
morte di alcuni personaggi delle fiabe che le stava leggendo, la
nonna le rispondeva sempre con quella frase, per poi
aggiungere: “Ricordatelo Issi, ricordatelo sempre.” E lei
immaginava una farfalla blu che si alzava dal cuore del
personaggio morto volando di fiore in fiore. Aveva immaginato
centinaia di farfalle. Aveva anche catturato alcuni bruchi, li
aveva visti morire crisalide e li aveva visti rinascere farfalle.
Allora aveva capito.
Quando i suoi genitori erano morti in un incidente stradale, lei
aveva 13 anni, aveva voluto essere condotta in un campo,
aveva catturato due farfalle e le aveva liberate nella chiesa
prima del funerale. Solo allora aveva smesso di piangere.

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Il lampeggiante blu colorava la camera e a Isobel parve di
scorgere una farfalla blu che usciva dalla finestra socchiusa. Fu
solo un’attimo.
La sua attenzione fu attratta dal libro che la nonna ancora
stringeva al petto. Era un grosso libro, bordato d’oro, con la
rilegatura di pelle consunta. Non riusciva a leggerne il titolo.
Scostò un braccio della nonna, ma si ritrasse sentendo il freddo
di quelle mani che la sera prima erano a lei così care e calde.
“Lasci fare a me signorina” disse una voce alle sue spalle.
“Sono il dottor Suzuki, sono stato io a darle la notizia poco fa
al telefono.”
Il dottore era fermo sulla soglia, ma subito entrò, si accostò al
letto, prese delicatamente la mano della nonna e la distese
lungo il fianco.
“Ecco, ora lo può prendere.” Disse quasi sussurrando.
Isobel prese il libro fra le mani e lo mise immediatamente nella
borsa, con un gesto rapido che fece inarcare le sopracciglia del
dottore.
“Non ha sofferto?” chiese scostandosi dal letto.
“No, se ne è andata nel sonno, serenamente. Il cuore si è
fermato. Uno dei suoi soliti attacchi. L’ultimo purtroppo.”
Sembrava commosso.
Il dottor Suzuki aveva avuto modo di visitare in passato la
nonna. Era il medico dell’hotel ed era stato chiamato diverse
volte per dei controlli dopo che la nonna aveva avuto uno dei
suoi periodici attacchi di angina. Lei non voleva essere visitata,
ma il direttore dell’hotel non aveva voluto sentire ragioni. Alla
fine aveva stretto un rapporto di amicizia con quel dottore di
origini giapponesi, con il quale si intratteneva dopo le
periodiche visite di controllo in lunghe conversazioni sulla sua
terra d’origine. Isobel sospettava che quella fosse l’unica
ragione per cui la nonna accettasse di sottoporsi ai controlli.
“Grazie dottore, grazie per tutto quello che ha fatto.”

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“Dovere” rispose con un mezzo inchino. “Mi segua, il direttore
dell’hotel desidera parlarle”
Isobel accarezzò delicatamente il viso della nonna, trasse un
respiro profondo e si avviò verso la porta.

*****

Nevicò per tutta la giornata. Isobel rientrò in casa verso sera


stordita ed esausta. Aveva tanti pensieri che le giravano per la
testa ma non riusciva a metterli a fuoco. Si sedette sul divano e
le parve come se un enorme macigno le si fosse tolto dalle
spalle. Si spogliò ed entrò nella doccia. Mentre l’acqua le
accarezzava la pelle e un caldo tepore le si diffondeva per tutto
il corpo, sentì come un qualcosa sciogliersi dentro di lei. Si
raggomitolò su se stessa e proruppe in un pianto sfrenato,
liberatorio. Le venne in mente una frase della nonna: se piangi
sotto la pioggia non sentirti sola, qualcuno sta piangendo con
te.
Pianse. Pianse il suo dolore, pianse l’assenza, la rabbia,
l’impotenza, la solitudine. Era sola. Si sentiva sola, indifesa, in
balia del mondo e degli eventi, privata delle sue radici, del suo
passato.
Quando si fu calmata uscì dalla doccia, si vestì e si sdraiò sul
letto. Fissando il soffitto ripensò alla giornata. La telefonata, la
camminata nella neve, l’hotel , la nonna che pareva dormire, il
suo ultimo sorriso, il libro, il dot… Il libro!! Come aveva fatto
a dimenticarsene? Lo aveva infilato nella borsa poi, presa da
mille tristi incombenze, ne aveva dimenticato l’esistenza. Si
alzò di scatto, recuperò la borsetta, estrasse il libro e si sedette
sul letto rigirandoselo tra le mani.
Era un libro vecchio, con la copertina in pelle consunta e
logora, le pagine bordate di una filigrana dorata così come il
dorso. Sulla copertina non vi era nessuna scritta. Lo aprì e il

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frontespizio, anch’esso bordato d’oro, riportava la seguente
scritta che lei identificò come il titolo:

I MISTERI DELLE ESULI


(14-18-15-17-16-19)

Più in basso, vergata con un inchiostro ormai sbiadito dal


tempo e con una grafia che sembrava appartenere alla mano di
un antico scriba, era riportata la seguente frase in latino, scritta
di traverso rispetto al foglio:

Et Lucem Etiam Ubi Sempiterman Ioventute

Sembrava non esserci alcun autore. Sfogliò rapidamente il


libro. Era stampato in caratteri molto fitti, le pagine anch’esse
logore, pur essendo di una carta spessa e ruvida. Era scritto
prevalentemente in greco ma vi erano pagine sul cui retro una
paziente mano aveva riportato la traduzione in inglese. I
numeri delle pagine, scritti con i caratteri romani erano di uno
strano colore blu cobalto che risaltava sul bianco giallastro
delle pagine e sulla doratura della filigrana. All’interno trovò
alcuni fogli fitti di scrittura. Riconobbe la grafia della nonna
ma, nonostante fosse tentata, li mise da parte senza leggerli e
proseguì a sfogliare il libro. Giunta a pagina CXLIV le pagine
stampate finivano, ma vi erano ancora una ventina di pagine
lasciate bianche e vuote. Poi, nelle ultime due pagine, con
grafie diverse, erano riportati strani simboli e alcune frasi in
diverse lingue:

P.T. epopteuos thaumaston teleiotaton mystêrion


P. E. είµαστε αιώνιοι και αιώνια είµαστε

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Z. E. enthousia
M.T.C. Alterius non sit qui suus esse potest.
P. ένας
icniV ad L.
M.E. !!!
J.S.B. Et Lucem Etiam Ubi Sempiternam Ioventute
J.H. The bottom of a damaged bucket
I.K. La realtà in se
V.V.G. om eindeloze te schilderen
A.R. Elle est retrouvèe. Quoi? L’Eternitè
F.W.N. Astu
C.G.J. NAHTRIHECCUNDE GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH ZUNNUS
A.E. E= mc2 T=∞ ? T=0 ?
K. G.

J.C. F G Ab Bb C
J.D.M The scream of the butterfly
G.G. Slowly fading in the north, the ice, the night. What a silence… What a
music…
T.M. Icci, segui chi mi ha preceduto!

Riconobbe immediatamente nell’ultima riga la grafia della


nonna. Che strana frase, con quell’esortazione in francese.
Segui chi mi ha preceduto….. Sembra un invito, una richiesta.

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Si distese sul letto. Aveva sonno. Lasciò il libro al suo fianco e
si immerse nel caldo tepore delle coperte. Senza accorgersene
scivolò in un sonno profondo.

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CAPITOLO VIII

27 maggio 1957 Philadelphia

Appoggiò la custodia del sax sul letto tremando. Ancora quel


maledetto tremore. Era incominciato poco prima che lui, Mcoy
e gli altri iniziassero la loro esibizione. Erano alcune settimane
che avevano un contratto fisso per suonare al Red Rooster, un
piccolo locale jazz vicino a Downtown. Quella sera aveva
suonato orribilmente e ne era consapevole. Aveva i tremori e le
sue dita erano come di legno, non sapevano come muoversi,
sembravano estranee allo strumento che suonavano da una vita.
Si sedette sul letto e accarezzò con una mano i contorni della
custodia. Sentiva come degli spilli conficcarsi nella schiena.
Conosceva quella sensazione. Era lei che reclamava ancora una
volta il suo spazio. Anche i tremori erano un segnale.
Fortunatamente il gestore del locale gli aveva pagato la
settimana anticipata, così aveva i soldi per comprarsi qualche
dose. Aprì lo sportello del comodino e estrasse una bottiglia di
whisky. Bevve avidamente. Per calmare il tremolio, pensò. Si
sdraiò sul letto, lo sguardo fisso sul lampadario, la testa che
rimbombava. Come ogni sera cercò di ripassare mentalmente i
pezzi che aveva suonato, ma riusciva a stento a ricordarsene un
paio. Sua moglie Naima era tra gli spettatori quella sera e,
mentre tornavano a casa in auto, quando le aveva chiesto, come
suo solito, come le era parsa la serata, lei aveva abbassato lo
sguardo e non aveva risposto. Lui lo sapeva, sapeva anche se
non si ricordava nulla. Era stato orribile. Lo sentiva dalle sue
dita, intorpidite e insensibili, e dalla sua mente, annebbiata e
distante. Si alzò di scatto dal letto e si mise davanti allo
specchio; la barba di alcuni giorni, le pupille dilatate, gli occhi

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arrossati, le guance scavate. Il viso che osservava nello
specchio pareva un fantasma, aveva gli stessi occhi che aveva
visto a Bird l’ultima volta che lo sentì suonare, poco prima che
morisse: occhi persi, distanti, opachi, che trasparivano la
nebbia e il torpore della mente. Di lì a poco Bird era morto. Era
stato ed era ancora il suo idolo: grazie a lui aveva deciso di
vivere per la musica, e a causa sua aveva eletto l’eroina a sua
compagna di viaggio. Come tanti jazzman aveva pensato che se
Bird la usava ed era Bird, allora anche lui avrebbe dovuto, per
essere simile al suo idolo. Ma lo specchio gli stava raccontando
un’altra storia. John, tu stai morendo, ti stai uccidendo come
Bird, senza mai essere diventato un vero musicista come lui.
Dov’è la tua musica John? Questa domanda gli rimbombava
nella testa. Era stato un vecchio frequentatore del locale dove
aveva suonato a chiederglielo, uno strano vecchietto che aveva
visto più volte le serate precedenti seduto in un tavolo, in
disparte, sempre da solo, avvolto dal fumo di sigarette che
accendeva una dopo l’altra. Quella sera, mentre stava uscendo
dal locale insieme a Naima, si era sentito tirare per un braccio,
si era voltato e aveva visto il volto sorridente di quel vecchio,
con la sigaretta che gli pendeva dal bordo delle labbra. Prima
che gli potesse chiedere spiegazioni il vecchio gli disse: “Per
chi stai suonando giovanotto? Puoi fare di meglio! Per chi
suona la tua musica? Da dove viene la tua musica? Da un
brutto posto a giudicare da questa serata! E anche quelle
precedenti non erano state diverse. E’ davvero questa la tua
musica?” Avrebbe voluto rispondere anche se non sapeva
come, ma Naima glielo aveva impedito strattonandolo e
spingendolo verso il parcheggio. Qual’è la tua musica John,
sussurrò. Si passò le mani sul viso. La sua immagine riflessa
era come avvolta dalla nebbia. Passò una mano sullo specchio
come per togliere da innanzi a se quell’alone che annebbiava i
suoi contorni. Niente. La passò di nuovo. Non accadde nulla. I

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tremori aumentarono improvvisamente. Si diresse verso il letto
e prese in mano la bottiglia di whisky. Dov’è la tua musica
John? Fissò la bottiglia. Annegata qua dentro e in una
maledetta siringa si rispose inconsciamente. Si fece forza e
riappoggiò la bottiglia sul comodino. Il tremore non cessava.
Cercò di aprire la custodia del sax, ma i suoi movimenti erano
impacciati. Finalmente ci riuscì. Lo afferrò quasi con violenza,
il freddo del metallo ridiede per un’attimo sensibilità alle dita
intorpidite. Portò lo strumento alla bocca, trasse un profondo
respiro e soffiò con quanta forza aveva. Una nota stridula uscì
dal sassofono. Non la pioggia di note che aveva in quel
momento pensato di suonare. Una sola nota, suonata con
quanto fiato aveva, le dita immobili sulle ance. Un’urlo nel
sassofono. Era quella la sua musica? Urlò quella nota fino a
tossire per la mancanza di fiato, poi si gettò sul letto ansimante.
Non tremava più. Sentiva il suo cuore battere e il suo respiro
affannato. E’ questa la mia musica, si disse. Aveva la mente
sgombra ora. Quando il respiro tornò normale si alzò dal letto,
prese la bottiglia di whisky e andò a versarla nel lavandino.
Mentre il whisky gorgogliava nello scarico alzò gli occhi sullo
specchio e vide sul suo volto un piccolo sorriso. Da quanto
tempo non si vedeva sorridere. La sua immagine riflessa aveva
ancora i contorni annebbiati ma quel sorriso spuntato da chissà
dove fece sparire quell’insistente voglia di affondare una
siringa in quella nebbia per dileguarla, almeno per un po’. E’
giunto il momento di farla finita, si disse. Riempì la bottiglia di
whisky con l’acqua del rubinetto e si chiuse a chiave in camera.
Il silenzio fu rotto da una lunga nota di sax che fece vibrare
l’oscurità notturna.
Urla nel silenzio.

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CAPITOLO IX

6 agosto 1881 Sils Maria Alta Engadina

Il sentiero si faceva sempre più ripido. Si fermò per asciugarsi


il sudore che gli imperlava la fronte. Era mattino ma,
nonostante il sole non fosse ancora alto nel cielo, il caldo si
faceva sentire. Si appoggiò al suo bastone da passeggio e alzò
lo sguardo verso i monti circostanti. Lo spettacolo era davvero
incantevole. Si trovava su di un immenso prato circondato da
boschi, solcato da diversi ruscelli che rendevano frizzante l’aria
mattutina, il tutto incorniciato da splendide cime alpine in parte
ancora innevate nonostante l’estate avanzata. Il piccolo sentiero
che stava percorrendo partiva dallo chalet dove aveva affittato
la stanza in cui alloggiava e si snodava tra malghe e boschi per
giungere al lago di Surlej Felsen. Non era la prima volta che
percorreva quel sentiero, anzi era il suo preferito. L’aveva già
percorso diverse volte e ogni volta si stupiva della bellezza dei
luoghi che lo circondavano. Si concedeva però poco tempo per
lo stupore e la contemplazione della natura. Si era assegnato un
compito e doveva portarlo a termine. Si accarezzò i lunghi
baffi e si rimise in marcia. Camminare aiuta a pensare,
schiarisce le idee e io come i miei pensieri devo salire, salire,
continuare a salire, si disse. Ogni traguardo deve essere nuova
partenza, non ho tempo per indugiare.
Il sentiero, dopo il tratto in salita, si snodava su di un falso-
piano dove pascolavano placidamente alcune mucche. Erano i
soli esseri viventi che di solito incontrava su quel sentiero. Ne
era quasi compiaciuto, del resto la solitudine era
indispensabile: nessuna distrazione, nessuna perdita di tempo.
Un’aquila lanciò il suo grido acuto e agghiacciante. Friedrich si
fermò ad osservarne il volo. Di quali altezze, di quale beata
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solitudine doveva godere quell’aquila, e di quale prospettiva
inedita all’occhio umano; tutto il pensiero umano era stato
finora un pensiero terrestre, un pensiero volto a spiegare,
razionalizzare, sezionare, dividere in parti sempre più piccole
senza una spinta che lo lanciasse aldilà degli schemi noti e
imposti. Volare. Un bel cambio di prospettiva, pensò. Esplorare
le altitudini, pensare altitudini, raggiungere le altezze
vertiginose del pensiero dove l’aria è rarefatta ma
estremamente benefica, dove i pochi che vi approdano hanno in
premio la visione di un mondo come trasfigurato dall’altezza e
dalla carenza di ossigeno, un mondo diverso, forse più vero. Si
strinse nelle spalle. Presto, è ancora presto si disse. Non
esistono orecchie per queste mie parole, forse neppure le mie.
Riprese il cammino. Percorse un centinaio di passi quando il
suo sguardo fu attirato da una figura presso un ruscello poco
distante, che, agitandosi, correva dimenando un bastone. Gli
passò vicino, intenzionato a proseguire, ma il ragazzo, si
trattava probabilmente del guardiano delle mucche, lo chiamò a
se:
“Signore, mi scusi signore, mi può raggiungere?”
Senza rispondere Friedrich lasciò il sentiero e, costeggiando il
ruscello, arrivò nei pressi del ragazzo. “Si fermi, stia
immobile, può essere pericoloso. E’ lì sotto!” Si fermò
all’istante. Il ragazzo stava indicando col bastone una pietra
poco distante da dove si trovava. Era un ragazzo sui 15-16
anni, biondo ma con la pelle resa bruna dal sole della
montagna. Era sudato e pareva molto agitato.
“Una vipera signore, proprio sotto quel sasso. Alcune settimane
fa ha morso una mia giumenta incinta. L’ha uccisa. Ora io devo
ucciderla. Mi aiuti la prego. Tenga questo bastone, io solleverò
il sasso e, non appena la scorgerà o tenterà di fuggire lei la
colpisca.”

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Non riuscì a replicare in tempo. Il ragazzo si avvicinò e con un
rapido movimento afferrò il sasso e lo sollevò. Friedrich vide
per un istante la vipera, ma non fece il tempo a vibrare il colpo
che questa si era dileguata in una fenditura di un grosso masso
vicino. Dispiaciuto allungò il bastone al ragazzo.
“Non si preoccupi, non è facile. E’ così tutti i giorni. Tutti i
giorni io le do la caccia, la trovo, la inseguo e lei mi sfugge.
Ormai credo che andrà avanti per sempre. Forse l’unico modo
per prenderla è farmi mordere.. La ringrazio comunque e mi
scuso ancora per il disturbo.”
Friedrich fece un cenno di saluto, abbozzò un sorriso e si
diresse verso il sentiero; poco distante dal ruscello esso si
inoltrava in un fitto bosco di conifere che diedero ristoro con
un po’ di penombra alle membra accaldate e agli occhi
affaticati del professore. Si sedette su un tronco reciso mentre
le parole del pastore continuavano a girargli nella testa. E’ così
tutti i giorni. Tutti i giorni uguali. Per sempre. Farsi mordere.
Cambiare prospettiva. Il serpente. Il pericolo. La possibilità di
cambiare i giorni uguali. L’aquila. Elevarsi al di sopra di ogni
cosa, al di sopra del quotidiano, dello scontato, del già visto.
Occhi nuovi, diversa prospettiva, diversi orizzonti. Lasciarsi
mordere. Morire per spezzare le catene. La testa gli doleva.
Uno dei soliti attacchi di emicrania, pensò. Si alzò in piedi.
Manca ancora poco al lago, si disse e riprese il cammino. Il
sentiero proseguiva nel bosco quasi in linea retta, per poi
svoltare bruscamente sulla sinistra. Percorse un centinaio di
metri quasi in discesa e giunse sul limitare del bosco. I raggi
del sole penetravano tra le fronde degli alberi sempre più radi e
sullo sfondo intravide il barluccichio delle acque del lago di
Silvaplana. Uscì dal bosco e fu investito e accecato dalla luce.
Quando gli occhi si riabituarono potè ammirare lo spettacolo
del lago e delle cime innevate che lo contornavano e vi si
specchiavano. Sospirò. Era uno spettacolo magnifico.

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Incominciò a scendere lentamente per il sentiero che,
costeggiando un piccolo ruscello conduceva al lago. Una
leggera brezza muoveva le fronde e rinfrescava l’aria. Si
trovava nei pressi di un gigantesco masso a forma di piramide
quando sentì nuovamente l’urlo dell’aquila. Alzò lo sguardo.
All’altezza delle cime innevate vide il rapace, imponente,
altissimo, le ali spiegate a contrastare le correnti in quota. Stava
lentamente planando. La sua immagine diventava sempre più
nitida. D’un tratto scorse un qualcosa che pendeva dalle zampe
del rapace, divincolandosi. Una preda. La riconobbe: era una
serpe, che si avvinghiava alle zampe del rapace in un disperato
tentativo di liberarsi da quella presa mortale, anche se questo
avrebbe voluto dire precipitare nel vuoto. Friedrich rimase
come pietrificato. Aquila. Serpente. Mordere. Volare. Spazio.
Tempo. Eternità. Attimo. Un dolore lancinante alla tempia. Un
lampo di luce. Comprese. Tremò. Pianse. L’aquila sfuggì al
suo sguardo, ma egli non la vedeva più. Friedrich era già molto
più in alto di lei.

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CAPITOLO X

24 dicembre 1888 Arles

Il sole stava tramontando. L’immenso globo infuocato


sembrava sciogliersi sulla linea dell’orizzonte. La sagoma del
contadino si muoveva ritmicamente, quasi danzando in
controluce. Vincent aggiustò la tela sul cavalletto. Chiuse gli
occhi per fissare quell’immagine nella sua mente. Il sole, i
campi, il seminatore, il tronco d’albero presero nuova vita. I
loro contorni sfumarono gli uni negli altri, le ombre
inghiottivano le ombre, la luce illuminava la luce. Nulla era più
distinto nella sua mente. Il colore del sole era il colore del
cielo, la posa del seminatore replicava l’albero al suo fianco,
era il tronco nodoso di quell’albero, il verde dei prati correva
all’infinito nel cielo dell’orizzonte. Il tutto era compreso nel
tutto. Questo era ciò che egli vedeva ogni volta che si trovava a
tradurre su tela le immagini che la sua mente gli rimandava dei
paesaggi che sceglieva di dipingere. Tutto era come indistinto,
le immagini si fondevano le une nelle altre. Il campi erano il
cielo, il seminatore era il tronco d’albero. Eppure persisteva tra
di esse un contrasto: l’ombra era luce, ma allo stesso tempo
l’ombra si opponeva alla luce, il seminatore sfidava il globo
infuocato del sole, l’orizzonte era ferito da una linea netta che
separava il medesimo colore di cielo e di terra. Una tensione
alla riunificazione di ciò che pare diviso: questo vedeva nei
paesaggi, soprattutto al tramonto, l’ora suprema in cui i
contorni si attenuano, i contrasti si sfumano, le differenze
tendono al nulla dell’oscurità, in cui il giorno scivola nella
notte. Avvertiva il pericolo. L’oscurità è indistinzione non
unione. Riaprì gli occhi. Il seminatore continuava la sua lenta

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danza con il vento, perpetuando inconsapevolmente un’antico
rituale pagano di saluto al sole che tramontava. Il pennello
corse veloce dalla tavolozza dei colori alla tela, una danza
frenetica, per non perdere l’immagine che aveva dentro di se.
Si sentiva una specie di febbre quando dipingeva, dovuta al
desiderio sempre frustrato di far corrispondere i colori sulla
tela a quelli che egli vedeva; quel giorno però, oltre alla
frenesia aveva anche rabbia, rabbia e paura. Era reduce
dall’ennesima discussione con Paul. Ne era uscito sgomento.
Paul voleva andarsene. A quella notizia aveva avuto uno scatto
d’ira. In quel momento aveva provato il desiderio di fargli
male, per strappargli di dosso le sue regole, quella
insopportabile compostezza e quel sorriso di velata critica che
ogni tanto gli appariva in volto quando osservava le sue tele.
“Devi dipingere ciò che vedi, non ciò che è! Ci vuole metodo,
rigore” gli aveva detto. Come faceva a spiegargli che non
esistevano colori che potessero riprodurre le tavolozze della
sua mente; come spiegargli che la luce che di quando in
quando vedeva circondare oggetti, volti, paesaggi era così
accecante che nemmeno lasciando la tela bianca ne avrebbe
potuto riprodurre l’intensità. Cosa poteva dipingere, cosa
poteva creare che riflettesse se stesso, la sua visione delle cose.
Era arrabbiato e nello stesso tempo si sentiva in colpa e voleva
farsi perdonare. Doveva farsi perdonare. Doveva punirsi per
quel vergognoso scatto d’ira e allo stesso tempo doveva
dimostrare la sua verità, la sua integrità. E poteva farlo solo
disgregando un pezzo di se, donando al nulla un brandello della
sua verità. Lui era la sua arte. Quando finì di dipingere, ripiegò
il cavalletto e si avviò verso casa. Aprì la porta, salì le scale,
entrò nella sua camera e ripose la tela a fianco di quelle dipinte
negli ultimi giorni. Fissò i suoi quadri; il suo sguardo cadde su
di uno dal soggetto del tutto simile a quello appena dipinto: un
seminatore in un campo al tramonto. I colori erano vivaci

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brillanti, nessun contorno netto, tutto sfumato, nessuna ombra a
contrastare il sole, tutto era indistinto, in un’apoteosi di colori.
La serenità e il tormento. Avrebbero dovuto essere accostati
questo quadro e quello appena dipinto. Lo fece. Si sedette sul
letto a fissarli, immobile, rapito dalle sue stesse visioni, dalle
sue stesse opere. Sono pazzo, si disse. Non ascoltare Vincent.
Non devi più ascoltare nessuno, né Paul, né Theo, nessuno!
Impedisciti di ascoltare. Si alzò di scatto e si diresse verso il
bagno. Lo specchio rimandava la sua immagine, circonfusa da
una luce che sembrava partire dalla sua mente, dal centro della
sua fronte. Fissò l’orecchio destro. La lama del rasoio brillò.
Finalmente il Silenzio. Finalmente il dono. Finalmente
l’espiazione. Era in pace.

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CAPITOLO XI

Settembre 1967 Los Angeles

La visione arrivò improvvisa. Era sdraiato sulla spiaggia e


stava osservando le nuvole che passavano veloci nel cielo,
tingendosi dei colori del sole che già incominciava a
immergersi nell’oceano innanzi a lui. D’un tratto vide la rossa
palla del sole pulsare, come se respirasse. Si contraeva e si
espandeva al ritmo del battito del suo cuore. Si mise seduto
continuando a fissare l’orizzonte. Vide il sole scendere verso
l’oceano accompagnato da una soave melodia che sembrava
provenire dal cielo. D’un tratto un’esplosione di luce lo accecò
e lo fece cadere a terra., come se il sole lo avesse inghiottito o
fosse improvvisamente esploso. Sentiva il calore sulla pelle, un
calore che sembrava però venirgli da dentro. Si raggomitolò su
se stesso in posizione fetale e attese che quel calore e quel
bagliore finissero. Si sentiva come cullato e il caldo che
percepiva lo faceva sentire al sicuro. Provò ad aprire gli occhi.
Era sulla spiaggia, il sole stava tramontando. Appoggiò la
mano sulla sabbia, ne raccolse una manciata, si sedette e prese
ad osservarla. Miliardi di minuscoli granelli luccicavano alla
luce del sole sul palmo della sua mano. Li osservava come mai
aveva fatto prima. Uno diverso dall’altro, ognuno con un suo
colore, una sua forma, ognuno a suo modo perfetto e unico
eppure parte di quell’immensa distesa, plasmato come gli altri
dal vento e dall’acqua. Con un soffio liberò la mano dai
granelli di sabbia, si alzò e si diresse verso l’oceano. Appena il
suo piede ne sfiorò la superficie un brivido lo percorse. Non era
dovuto al freddo, in realtà non sentiva freddo, piuttosto alla
gioia che quel contatto gli aveva procurato. Gli pareva di
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sentire ogni singola goccia di quell’acqua che gli lambiva i
piedi, di percepirne la consistenza, la leggerezza. Si sedette sul
bagnasciuga osservando il rincorrersi delle onde, cullandosi al
ritmato fragore del loro infrangersi sulla spiaggia, osservando il
loro spumeggiare minacciose fin dal largo, il loro annunciarsi
con un rombo sordo, il loro inseguirsi eterno senza mai
raggiungersi. All’improvviso sentì la forza della risacca che gli
strappava la sabbia da sotto i piedi e il panico lo assalì,
realizzando o meglio sentendo distintamente l’enorme forza
che si celava in quella placida distesa azzurra. La sabbia gli
mancava da sotto i piedi e lui si sentì trascinare verso l’oceano,
paralizzato dal terrore. Il rombo che prima lo cullava ora lo
terrorizzava, gli schizzi di schiuma che prima gli rinfrescavano
il viso ora erano come aghi che gli penetravano la pelle. Chiuse
gli occhi e urlò, urlò con quanto fiato aveva in gola. Il suo urlo,
distorto dal mugghiare delle onde, si tramutò in un lungo
vagito. Si addormentò. Svenne. Morì. Annegò.
Si risvegliò disteso sulla sabbia, con le onde che gli lambivano
i piedi, a gambe e braccia aperte. Si guardò intorno. Tutto era
come prima, tutto diverso, lui era diverso. Si sentiva come
rinato e una strana melodia gli riempiva la mente. Si alzò e
iniziò a correre sulla riva gridando, danzando, urlando, ridendo,
piangendo. Sentiva la salsedine del mare dentro le narici, il
sapore della sabbia sulle labbra, il fresco refrigerio dell’acqua
fra i capelli. Si tuffò, possedette l’immensità dell’oceano e
percepì se stesso come sua goccia infinitesima e irrinunciabile.
Era parte dell’oceano, della sabbia della riva, della schiuma
sulla cresta delle onde. Si sentiva in sintonia con ciò che lo
circondava anche se la sensazione di panico che lo aveva colto
poco prima non lo aveva abbandonato. Anch’essa era parte di
quell’armonia, parte di quel mondo a cui lui si sentiva rinato e
del quale sentiva in se la disarmante bellezza. La musica nella
sua mente continuava. Erano migliaia di melodie che si

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intrecciavano l’una con l’altra restituendo una musica sublime.
Provò ad associare ad alcune di esse delle parole che gli
sgorgavano improvvise. Le annotò su un notes che portava
sempre con se, per non dimenticare quel fantastico concerto
che si stava svolgendo nella sua mente. Scrisse pagine e pagine
di parole, ognuna delle quali aveva un suono, un’armonia, una
melodia.
D’un tratto sentì una voce che lo chiamava. Jim! Jim! Era Felix
preoccupato della sua assenza. Appena lo vide gli corse
incontro.
“Jim, brutta testa di cazzo, dov’eri finito. Lo sai che quando si
prova quella roba, soprattutto la prima volta, bisogna essere in
compagnia, non si sa in che viaggio di porta. Jim, mi stai
ascoltando? L’LSD non è uno scherzo. Jim! Oh, al diavolo!”
E, imprecando contro di lui, ritornò da dove era venuto. Jim
rideva, una risata limpida e cristallina. Rideva di se,
dell’amico, del mondo, del tramonto, dell’eternità. Si passò la
mano tra i capelli. La musica e le parole continuavano ad
attraversargli la mente. Era pronto. Siete riusciti a entrare? La
cerimonia ha inizio!

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CAPITOLO XII

06 gennaio 2001 Londra

Quando Isobel riaprì gli occhi la luce di un pallido sole


penetrava dalle finestre. Stropicciandosi il viso si alzò dal letto
e si diresse verso la finestra, la spalancò e trasse un profondo
respiro. Per strada il traffico era già caotico nonostante fosse
sabato e della fitta nevicata del giorno precedente non rimaneva
che qualche cumulo di neve grigia sul lato dei marciapiedi. La
città aveva ripreso il suo aspetto consueto. Lo sciogliersi della
neve le metteva sempre un filo di malinconia che divenne più
marcata quando la sua mente riannodò i fili degli eventi della
giornata precedente spezzati e sparpagliati dal sonno. La
nonna. Senza badarci portò la mano sulle labbra e soffiò un
bacio verso il cielo. Trattenne a stento le lacrime. Era accaduto
tutto così velocemente che non aveva avuto il tempo di rendersi
conto di nulla. La nonna non c’era più. Non avrebbe più
passato le serate con lei nel silenzio della sua camera, davanti
al camino acceso, con quella sensazione di calore nel cuore, di
sicurezza, di casa. Non avrebbe più ascoltato i suoi racconti, le
sue storie, i suoi ricordi; non avrebbe mai più sentito la sua
voce! Sentì un nodo serrarle la gola. L’assenza. Il vuoto. Il
silenzio. La solitudine. Si sentiva sola, maledettamente sola.
Tutte le persone a lei care l’avevano lasciata sola in questo
freddo, inospitale, ostile mondo. Si sentiva abbandonata,
naufragata ancora una volta in una vita vuota e ostile, senza
nessuno al suo fianco a indicarle la via di casa. Dov’era la sua
casa? Dove un luogo in cui sentirsi al sicuro, protetta, serena?
Si sedette abbandonandosi sul letto. Il libro cadde,
sparpagliando dei fogli sul pavimento. Si chinò e li raccolse.
Era la calligrafia della nonna. Li sistemò sul letto, aprì il libro
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e rilesse quella strana frase che era scritta in fondo: T.M. Icci,
segui chi mi ha preceduto!
T. M. erano le iniziali della nonna, ed erano scritte con la sua
inconfondibile scrittura, poi quello strano errore di ortografia,
un’esortazione scritta in francese, Ici, qui, scritta con una c di
troppo e l’invito a seguire chi l’aveva preceduta. Non era della
nonna fare un’errore di ortografia del genere, soprattutto se
scriveva nella sua lingua prediletta, il francese. Scorse le altre
frasi scritte prima di quella della nonna, con le più varie
calligrafie, in lingue per lei sconosciute. Riconobbe caratteri
greci, scritte in latino, strane formule, lingue, idiomi e
simbologie oscure. C’erano anche frasi in inglese, come quella
scritta da J.D.M., abbastanza inquietante, l’urlo della farfalla, o
questa di GG, più rasserenante, svanire lentamente a nord, il
ghiaccio, la notte… Ma di cosa stavano parlando tutte queste
persone? Chi erano? Pensò subito che potessero essere
commenti al libro, ma quante persone lo avevano letto, che
peregrinazioni per il mondo aveva fatto questo libro? Cos’era
questo libro? Aprì la prima pagina, e rilesse il titolo: il mistero
delle esuli. Di cosa poteva parlare un libro del genere? Iniziò a
leggere la parte in inglese:

“Fermati lettore, e prona il capo dinnanzi alla grandezza e alla sapienza di


colei che risorge dagli inferi e dona a noi le gioie delle stagioni, della rinascita,
della vera vita. Loda colei che toglie il velo dai tuoi occhi bagnandoli di
lacrime di riconoscenza, colei che disvela il cerchio della vita e della morte, di
colei che, sposa suprema e suprema regina, offre la più grande consolazione,
la consapevolezza …”.

Fu interrotta dal suono del campanello. Si alzò di scatto, si


vestì velocemente con i primi abiti che trovò e corse alla porta
di casa. L’aprì e si trovò davanti un cameriere con la livrea
dell’hotel dove era alloggiata la nonna.

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“Buongiorno signorina Morrison, il direttore si scusa, ma la
suite dove alloggiava sua nonna è stata sgomberata per l’arrivo
di una importante personalità d’oltre Manica che aveva
prenotato l’appartamento da tempo. Le abbiamo portato gli
effetti personali e le valige della signora.”
“Prego, accomodatevi” rispose “potete appoggiarle nella mia
stanza. Vi faccio strada.”
Il cameriere entrò seguito da due garzoni che spingevano un
carrello con sopra due pesanti valige. Entrarono in camera e le
deposero sotto la finestra.
“Abbiamo controllato e ricontrollato. Non dovrebbe mancare
nulla. Per qualsiasi problema comunque può contattare
direttamente il direttore. Questo è il biglietto da visita che mi
ha pregato di consegnarLe rinnovandole le più sentite
condoglianze.”
“Ringrazi il direttore da parte mia. Vi accompagno all’uscita.”
Così dicendo si avviò lungo il corridoio, facendo loro strada.
Una volta chiusa la porta ritornò in camera e si sedette
nuovamente sul letto. Le valigie della nonna. Pelle ormai
logora dal tempo e dai viaggi. Adesivi che rimandavano a
viaggi nei paesi più disparati: Cina, Giappone, India,
Argentina, Stati Uniti, Australia, Canada. Ogni adesivo un
viaggio. Ogni adesivo un racconto della nonna che le
riaffiorava alla mente come se lo stesse ascoltando proprio in
quel momento. Tirò verso di se la prima delle due valige e la
aprì. Era estremamente pesante. Al suo interno, sistemati alla
rinfusa, libri e compact disc. La bibbia, una biografia di Bach,
un libro di ricette cinesi, un libro di Nietzsche, Sulla strada di
Keruac, una raccolta di poesie haiku giapponesi, una biografia
di Gandhi, Siddharta di Hesse, il Corano, un libro di leggende
tibetane, biografie di Jim Morrison, Van Gogh e Einstein,
alcuni libri di Luis Borges, un trattato sul pensiero di Jung e
uno sull’inconscio collettivo, compact disc di Beatles, dei

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Doors, le Variazioni Goldberg di Glenn Gould, L’arte della
Fuga di Bach, alcuni dischi jazz di John Coltrane. Riconosceva
gli argomenti che avevano appassionato la nonna per una vita.
Le religioni, le filosofie orientali, la musica. C’erano decine di
libri e decine di compact disc. La nonna era solita viaggiare
con libri e dischi, questo lo sapeva. Era sempre alla ricerca di
qualcosa e il suo terreno di ricerca preferito erano le librerie, le
biblioteche, i negozi di dischi. Si ricordava di un giorno in cui
l’aveva accompagnata a fare un giro nel centro di Londra.
Avevano passato la giornata tra negozi di dischi e librerie,
senza interrompersi per il pranzo. Ricordava il viso della
nonna: era felice come una bambina. Girava sempre con dei
libri nella borsa, ma una valigia piena le sembrava troppo.
C’erano tutti i suoi libri preferiti, certo una parte esigua rispetto
a tutti quelli che riempivano la sua casa a Parigi, ma erano
davvero tanti per una gita di un paio di settimane a Londra per
salutare la nipote. Continuò a rovistare nella valigia. Libri, cd,
solo libri e cd ovunque. Sul fondo della valigia c’era un plico
aperto, era una di quelle buste per la spedizione dei pacchi
postali. Era vuota. Il timbro postale riportava “Toronto 29
giugno 1981” e quello di Londra 3 gennaio 2001. Si ricordò
delle parole della nonna “Stamane ho ricevuto per posta un
libro. E’ come se qualcuno me lo avesse spedito dal passato.”
Dunque non stava scherzando, non stava esagerando, era
davvero arrivato dal passato: vent’anni erano trascorsi tra la
data di spedizione e quella di ricezione. Ma chi era il mittente?
Si alzò e andò verso il letto per recuperare il libro. Era sicura di
averlo lasciato sul letto. Non c’era. Guardò in giro per la
stanza. Nulla. Sul letto c’erano solo i fogli sparsi tra le lenzuola
fitti della grafia della nonna. Cercò per tutta casa, controllò che
non fosse finito tra i libri della nonna. Niente da fare: il libro
era scomparso. Il cameriere dell’hotel! Non poteva essere stato
che lui o il garzone che l’accompagnava, ma perché?

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Si sdraiò sul letto. I fogli si accartocciarono sotto la sua
schiena. Li prese in mano e iniziò a leggerli. Riportavano
appunti, note della nonna, citazioni da libri. Poi, su di un foglio
accartocciato, di nuovo quella serie di frasi, ricopiate dalla
nonna, e la sua, posta in fondo: Icci segui chi mi ha
preceduto!!!!! Questa volta la frase era sottolineata due volte e
rafforzata da tanti punti esclamativi, come a evidenziarne
l’urgenza. Segui chi mi ha preceduto. A chi sta parlando la
nonna? Non era un’esortazione generica, non aveva scritto
seguite ma segui. Si stava rivolgendo a qualcuno. Ma chi? Chi
è che ti ha preceduto nonna? Chi si deve seguire? Era confusa,
quella frase continuava a rimbombargli nella testa, soprattutto
la prima parola, quella sbagliata Icci… Icci… Icci…sentiva la
voce della nonna. Disse la frase ad alta voce e ... capì. Sentì la
nonna che la chiamava. Icci, Issi, la pronuncia era la stessa,
leggendola mentalmente non se ne era resa conto, ma il suono
era quello del suo soprannome, quello con cui la nonna l’aveva
sempre chiamata, fin da piccola.
Issi, segui chi mi ha preceduto. Issi, segui chi mi ha preceduto!
Era per lei, quel messaggio era per lei. La nonna lo aveva
scritto per lei. Ora ne era certa. Segui chi mi ha preceduto…
Chi ti ha preceduto nonna? Chi devo seguire, dimmelo? Cosa
vuoi da me?
Prima la scomparsa del libro, ora la scoperta che la nonna le
aveva lasciato un messaggio. Si sentì prendere dallo sconforto,
gettò via il foglio che stringeva in mano, si vestì velocemente e
uscì per strada. Aveva bisogno di riflettere, e camminare la
aiutava a distendere i nervi e a pensare in maniera più serena e
distaccata. Si diresse verso Hide Park. Il traffico del sabato era
comunque caotico e il suo frastuono incessante la accompagnò
per tutto il tragitto: su di esso, come una litania, una ninna
nanna, un’ossessione, la voce della nonna le ripeteva: Issi,
segui chi mi ha preceduto! Doveva riflettere. Doveva calmarsi.

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Doveva capire, doveva esaminare gli eventi degli ultimi giorni,
dargli un’ordine, un senso. L’arrivo della nonna, la sua morte,
la scoperta del libro, la sua sparizione, la frase scritta dalla
nonna in fondo al libro, il suo significato. Riflettere, doveva
riflettere.
Arrivò a Hide Park. Un pallido sole scioglieva ciò che restava
della nevicata del giorno prima. Due bambini si rincorrevano
tra gli alberi, un cane si rotolava in un cumulo di neve sotto un
boschetto davanti allo sguardo divertito del suo padrone, che
lo osservava seduto su di una panchina. Un gruppo di passerotti
cinguettava sul prato bagnato dalla neve appena sciolta,
accalcandosi sulle briciole di pane che un’anziana signora
aveva appena gettato. Isobel si sedette su una panchina tra due
immensi olmi, le cui chiome spoglie lasciavano filtrare i raggi
del sole. La neve ancora sui rami si stava sciogliendo
velocemente, in un ticchettio di gocce che le cadevano intorno.
Isobel si strofinò le mani per riscaldare le dita intirizzite dal
freddo. Cosa vuole da me la nonna? Chi devo seguire? Cosa
era quel libro? Per quale motivo l’avevano rubato? Di cosa
parlava? Si sforzò di ricordare le poche righe che aveva letto
prima di essere interrotta dal suono del campanello, ma non
riusciva a ricordare niente di particolare, solo una specie di
esortazione e di ringraziamento a una donna che risorge
dall’inferno; un po’ poco per capire. E quelle scritte alla fine
del libro? Era sicura che fossero importanti, ma non capiva in
che modo; segui chi mi ha preceduto. Decise di ubbidire alla
nonna. Doveva andare all’hotel e cercare di rintracciare il
cameriere. Doveva sapere se era stato lui a prendere il libro.
Doveva trovarlo. Doveva seguirlo.
Si alzò, uscì da Hide Park e si diresse quasi correndo verso
l’Hotel. Che stupida, pensò, dovevo andarci subito, ho perso
del tempo prezioso.

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CAPITOLO XIII

Toronto, 4 ottobre 1982

Il ronzio non cessava. Glenn riattaccò il telefono con un gesto


di stizza. Questo maledetto non funziona. E il mal di testa non
accenna a diminuire. Si sedette sul divano, le spalle curve
appoggiate alla pelle scura e logora. La vista era annebbiata, la
mano destra gli formicolava, si sentiva stanco ed euforico allo
stesso tempo. Si alzò e andò verso il pianoforte. Il vecchio
Steinberg 318 era impolverato, ricolmo di carte, spartiti sparsi,
penne, libri. Si sedette sul vecchio sgabello dalle gambe segate
e dal sedile sfondato, si fece largo con le mani e liberò la
tastiera di tutte le carte buttandole a terra, soffiò via la povere
dai tasti e ne accarezzò la fredda bellezza con i polpastrelli
tremanti. Poi affondò le dita nelle note. Prima uno stillicidio,
un lento gocciare di note, come pioggia leggera sui vetri in
autunno, poi, mentre il suo cuore si rinfrancava e le sue dita
recuperavano memoria, la pioggia divenne torrente, poi fiume
in piena, in una frenesia parossistica di legati e contrappunti,
fino all’apice, alla foce del fiume, fino all’immergersi di ogni
cosa nell’oceano della musica assoluta, nel più completo
silenzio, calma piatta, risacca lontana, vociare di balene,
richiami di sirene, ghiacci, iceberg, freddo, solitudine. Le note
tornarono ad essere distanti, fredde, solitarie, aprivano squarci
nelle correnti oceaniche, le dirigevano, ne cambiavano il verso,
la potenza. Lui vagava con la mente, accompagnando le note
con un mugolio di estasi e di dolore, di gioia e di sofferto
trasporto.
Stava lasciando la riva, stava salpando per il nord, il suo nord,
il nord della sua esistenza. Stava salendo, in un vortice di note,
per raggiungere l’immobilità, l’algida bellezza, la perfezione

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astratta e intoccabile del ghiaccio puro, che raffredda mentre
brucia, che ustiona mentre gela. Era da sempre affascinato dal
nord. Amava e odiava il freddo. Si ricopriva di tre cappotti per
paura del freddo e contemporaneamente sognava di passeggiate
infinite nei ghiacci ascoltando una musica che solo lui sapeva
di poter suonare. D’un tratto si interruppe, l’indice della mano
destra fermo a mezz’aria, impossibilitato a calare sul tasto,
impossibilitato vibrare su quella nota. Si alzò in preda al
panico, la testa annebbiata e confusa dal brusco rientro nel
quotidiano esilio. Lui si sentiva esiliato e si autoesiliava per
spingere alle estreme conseguenze il suo dolore. Si avviò
barcollando verso il bagno, il dito ancora rigido e immobile,
aprì lo stiletto delle medicine e ingoiò due ansiolitici. Un
dolore acuto gli trapanava la tempia sinistra. Ritornò verso il
telefono. Silenzio. La linea era muta, il cordone ombelicale con
la vita di tutti i giorni reciso. Non poteva far altro che
attendere. Stava arrivando. Andò al suo giradischi, vecchio e
impolverato, lo accese e si fece ricolmare della sua musica.
Bach. Lentamente scivolò sulla bianca superficie trasparente
della vita, dall’altra parte del ghiaccio, sotto una coltre
trasparente, finalmente intoccabile, finalmente protetto,
finalmente libero, eternamente libero, su, più su, al nord di ogni
nord, immobile, freddo.

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CAPITOLO XIV

Marsiglia 10 novembre 1891

Un’odore nauseante riempiva il grande stanzone, sovrastando


l’intensità e l’insistenza dei gemiti che si sollevavano da ogni
parte. L’inferno. Ecco l’inferno, si disse fissando il soffitto
giallastro sopra la branda malferma. Sputò una bestemmia
mentre, cercando di girarsi su di un fianco urtò con la gamba il
telaio del letto. Stringendo i denti si puntellò con i gomiti e
alzò il capo. Tutt’attorno a lui vi erano decine di persone
gementi, urlanti, morenti, già trapassate, e persone col camice
bianco che passavano tra di loro, veloci, indifferenti, quasi
timorosi di sfiorare quelle carni, di farsi prendere da quelle
membra irrigidite nella inutile resistenza al dolore e alla morte.
Il tremore della febbre gli scuoteva le membra. Il dolore alla
gamba era insopportabile. Gamba? Quale gamba? Lui non
aveva più la gamba, gli era stata amputata alcuni mesi prima.
Cancro. Ricordava ogni cosa: il dolore, il sangue, l’oblio
dell’etere. Ed ora era lì in attesa, in quell’immensa sala di
aspetto per il viaggio di sola andata, il più importante. Era
giovane Arthur, ma in trentasette anni aveva girato il mondo,
combattuto, ucciso, scritto … Scrivere: da quanto tempo non
riprendeva in mano un taccuino e dava il via alle sue parole,
alle sue visioni. Aveva deciso di non scrivere mai più, dopo la
sua stagione all’inferno, quando a soli vent’anni era reputato il
nuovo grande poeta. Di lì a poco tutto era crollato
miseramente. Tutto bruciò. Fu lui ad appiccare l’incendio, e lo
stesso fuoco ora se lo sentiva bruciare nelle viscere,

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divorandogli il cuore, la mente, i pensieri. Distillare ogni
veleno per serbarne l’essenza: così aveva scritto quando era
ancora giovane e incosciente. Ma l’essenza del veleno era la
morte, ora lo sapeva. E sapeva che la distanza che separa la vita
dalla morte era labile, breve come uno scoppio di rivoltella,
come uno scintillio di lama, come una vocale urlata nel vento.
Il tremore si fece ossessivo, reclinò il capo e urlò il suo dolore.
Si sentì trasportare via, galleggiando su di un fiume placido, un
battello ebbro, una nenia stanca, un lento sciabordio. La sua
ultima bestemmia. La sua prima preghiera. Allah Karim. Dio lo
ha voluto.

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CAPITOLO XV

29 maggio 1997 Memphis

La luna si frantumava in mille cristalli d’argento, in mille


riverberi liquidi, pallidi, abbaglianti, trasformando l’acqua del
fiume in un tappeto di seta increspato. Guardò ancora una volta
il cielo. Stelle crudeli fissavano i suoi occhi, penetrandogli nel
cuore, illuminandogli i pensieri. Una melodia triste gli
attraversava la mente, cullandolo come foglie sparse tra le onde
del fiume. Lasciò la chitarra sui sassi della riva e avanzò verso
l’acqua. I wanna whole lotta love... I wanna whole lotta love
ripeteva la voce strillata dello stereo. I Led Zeppelin. Jeff si
fermò, come rapito da un pensiero. Si voltò, sorrise a Keith e si
immerse nelle acque del fiume. I vestiti bagnati gli aderirono
alla pelle facendolo rabbrividire. Per scaldarsi aumentò il passo
e si mise a correre. Quando la terra gli mancò sotto i piedi si
immerse e l’oscurità lo avvolse. Ebbe paura e riemerse
ansimante. I wanna whole lotta love. La musica arrivava fino a
lui, frammenti di suono che si ricomponevano nella sua mente.
Iniziò a cantare. I wanna whole lotta love. Si immerse
nuovamente. Buio, poi d’un tratto, nell’oscurità una luce, un
fremito. Riemerse per respirare. I wanna whole lotta love. Si
rituffò. Il silenzio riannodò il filo dei suoi pensieri. Doveva fare
meglio, poteva fare meglio. Domani sarebbero arrivati i
ragazzi, con loro sarebbe riuscito a suonare quella melodia, a
cantare quelle parole. Ancora quella luce. E un fischio
assordante, un urlo. Riemerse. Era ormai distante dalla riva, i
vestiti inzuppati, le scarpe pesanti. La musica era coperta dal
rombo della corrente. Il Wolf River ululava intorno a lui. In
quel rombo sentì una musica, una melodia che conosceva e che

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aveva cercato di preservare nel suo cuore. Era come un
richiamo: la canzone delle sirene. Le sue labbra sussurrarono
un nome, mentre il rombo tutto intorno sembrava il sottofondo
di quelle parole. …Naviga da me, naviga da me, lasciati abbracciare *.
Lasciarsi abbracciare, lasciarsi andare alla deriva, come una
foglia in balia delle onde, libero, finalmente libero, senza
direzione, senza meta. Vide i pilastri del ponte. Naviga da me,
naviga da me. Arrivo, pensò. Nuotò verso il ponte, lo raggiunse e
si aggrappo al grigio cemento. Un lontano richiamo. Era Keith.
Stava urlandogli qualcosa. Tese l’orecchio. Un rombo sordo
pareva avvicinarsi, sempre più, sempre più… Si voltò.
L’ombra di un battello lambì il pilastro. Un attimo di silenzio
irreale, poi l’onda lo travolse, improvvisa. Trattenne il fiato.
Nero. Sommerso provò a riaffiorare, ma la corrente lo
trascinava verso il basso. …E non potevo svegliarmi dall’incubo che mi
risucchia e mi trascina in basso **… La sua voce urlava nella sua
mente. Panico. Le scarpe piene d’acqua erano macigni che lo
inchiodavano tra quelle mura di pece nera. Era la fine.
Sballottato perse l’orientamento. Dove il basso? Dove l’alto?
D’un tratto tutto tacque, la corrente si placò. Sfinito sentì la sua
voce chiamare il suo nome, chiuse gli occhi, mandò
un’invisibile bacio. Non ho paura. Sono pronto. ..e li sento
affogare il mio nome così facile da ricordare e da dimenticare con un bacio,
non ho paura di andarmene, ma è così lento***... Lasciami dormire
ora… Ah, la calma sotto quel selvaggio fiume velenoso****… La sua
voce lo avvolse e lo cullò fino a riva. Nascondeva una foglia
tra le mani.
_________
*… Sail to me, sail to me, Let me enfold you… (da Song to the siren – Tim Bucley)
**… And I couldn’t awake from the nightmare that sucked me in and pull me under, pull me under… (da So
real – Jeff Buckley)
***… and I feel them drown my name so easy to know and forget with this kiss I'm not afraid to go but it
goes so slow… (da Grace – Jeff Buckley)
****… Ah, that calm below that poisoned river wild… (da You & I – Jeff Buckley)

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Il lupo aveva affondato le sue zanne su di lui, la foglia era
salpata, la mente era sgombera, finalmente. Voci di angeli,
canzoni per sirene, melodie del cuore; un pensiero, una
preghiera, la più alta mai udita. Un sussurro di vento su un
petalo di rosa.

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CAPITOLO XVI

14 gennaio 1978 Princeton

Vi erano dei tubi che uscivano dal suo corpo, dal naso, dalla
bocca mentre una macchina sopra la sua testa emetteva un bip
continuo e snervante, quanto avrebbe voluto che smettesse,
anche se era consapevole che voleva dire morire. Kurt fissò la
macchina: tu sei mia, pensò, sei frutto anche dei miei studi e sei
incompleta, come tutti. Prese a pensare all’ironia della
situazione: voleva scomparire ma una macchina del cui
funzionamento lui era indiretto ma fondamentale responsabile
lo tratteneva. Dov’era l’errore? Lui sapeva che c’era, ogni cosa
incompleta è errata, ogni teoria, ogni organismo ha la sua
uscita di sicurezza, per non renderlo assoluto, vero, completo.
La completezza era bestemmia, era una offesa alla maestà
divina. Rise, come non faceva da anni, di quella situazione,
della sottile vendetta che qualcuno si stava prendendo su di lui.
Tra poco arriveranno i medici, pensò; ma quando? Se il tempo
non esiste, se ogni istante è assoluto potrei rimanere congelato
in questo istante per sempre.
La non esistenza del tempo: la sua scoperta più sconvolgente,
lui che era abituato a ricercare l’assoluto formale pur lasciando
a Dio il compito di svelarlo. Nessuno si era accorto di quale
implicazione aveva la sua analisi della relatività. La morte del
tempo contro la morte della relatività: un gioco perverso a cui
lui non avrebbe voluto partecipare ma in cui si trovò suo
malgrado invischiato. Einstein era suo amico, non voleva
metterlo in difficoltà, ma nulla gli fece cambiare idea sulla
correttezza di quanto aveva dimostrato: il tempo non esiste o la
relatività non esiste: gli anni, che ironia, diedero ragione a
Einstein, confermando sperimentalmente quanto verificato da
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Albert su carta e tramite intuizioni ma, inspiegabilmente
diedero torto a lui non cogliendo il reale contenuto sovversivo
di quanto aveva dimostrato: non gli interessava il moto
dell’universo, lui aveva ucciso il tempo, e nessuno si era
accorto dell’omicidio. Trasse faticosamente un sospiro: le
energie lo stavano abbandonando. Bene, tra poco nulla sarebbe
servito, neanche tu macchina infernale! La volontà dell’uomo è
più completa della tua, io posso decidere di non nutrirmi e così
mi spegnerò. Ma forse sono già spento e vivo un’istante inutile;
forse sono già morto quando sono nato, forse in me vi è già
ogni evento e ogni oggetto e ogni respiro e ogni movimento.
Questa era forse la completezza del pensiero: una completezza
del corpo e dello spirito, a-temporale, una proiezione eterna di
se, una serie numerica eternamente ascendente, l’infinito che
tocca lo zero, il limite e la potenza, tutti concetti matematici ma
sommamente filosofici. La sua vita, il suo sogno finalmente
completo! Ok, spegniamoci, rendiamoci finalmente completi.
Il suo ultimo teorema, quello della completezza: Zero =
Infinito.

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CAPITOLO XVII

6 gennaio 2001 Londra

Isobel arrivò ansimante all’Hotel. Il portiere non fece in tempo


ad aprire il portone che Isobel era entrata spingendo sulle
pesanti maniglie di ottone con tutta la forza e la rabbia che
aveva in corpo. Si diresse alla reception e, rivolgendosi alla
persona dietro il bancone disse:
“Sono Isobel Morrison, nipote di Tina Morrison, vorrei parlare
con il direttore.”
L’uomo sollevò il telefono, annunciò la visita. “Il direttore la
attende. Mi segua, la prego” e così dicendo uscì da dietro il
bancone e attraversò la hall dell’hotel, fermandosi davanti a
una porta. Isobel lo seguì guardandosi intorno con la speranza
di scorgere il viso del cameriere o di uno dei garzoni che le
avevano portato le valigie della nonna. “E’ qui” le disse
l’uomo, allontanandosi con un leggero inchino. Isobel bussò
alla porta con una certa impazienza. Il direttore, un uomo sulla
cinquantina, dal portamento signorile e con due baffi grigi ad
incorniciargli la bocca, venne ad aprirle e, con fare affettato, la
fece entrare. L’ufficio era grande ma spoglio, composto solo da
una scrivania in legno, uno specchio, uno scaffale colmo di
registri contabili e una pianta alle spalle della poltrona dove il
direttore si stava accomodando, non prima di aver aiutato
Isobel a sedersi su una sedia di fronte a lui.
“Mi dica, in cosa posso esserle utile?” le chiese garbatamente.
“Questa mattina mi sono stati recapitati gli effetti personali di
mia nonna…”
“Le chiedo perdono” l’interruppe il direttore “ma avevo già
preso accordi con sua nonna che mi avrebbe liberato la camera

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entro oggi; sa, è la più bella dell’hotel e certi clienti ci sono
proprio affezionati. Sua nonna sarebbe dovuta ripartire oggi,
invece…”
“… invece è andata diversamente.” disse bruscamente Isobel
“Piuttosto, le persone che mi hanno recapitato gli effetti
personali di mia nonna: posso sapere se sono ancora al lavoro?
Avrei bisogno di parlare con loro.”
“A che proposito, mi scusi? Per qualsiasi cosa, come mi ero
raccomandato di rammentarle, può fare riferimento a me”
“Manca un libro.”
“Prego?” disse il direttore arrossendo.
“O meglio, mi è stato sottratto e ho il fondato sospetto che sia
stato, diciamo così, preso in prestito da uno dei suoi dipendenti
questa mattina in casa mia.”
Il direttore si alzò in piedi asciugandosi il sudore.
“Ne è certa Miss Morrison?” le chiese con voce imbarazzata.
“Assolutamente certa. Vorrei parlare con loro, se è possibile.”
“Miss Morrison, lasci a me questo compito. Sono sicuro che si
tratta di uno spiacevole equivoco. Parlerò io con loro e tutto si
risolverà. Non si dia pena per questo.”
“Vorrei comunque parlare con loro: vorrei capire il motivo di
un gesto del genere” rispose Isobel piuttosto irritata.
“Lasci fare a me Miss Morrison, la prego. Una cosa del genere
deve essere trattata in maniera cauta ma inflessibile, ne va della
reputazione di questo hotel e mia personale. Mi lasci parlare
con loro e, se non otterrò nulla, le prometto che la chiamerò e
le farò parlare di persona con loro. Sono brave persone, si
aggiusterà tutto” le rispose il direttore guardandola negli occhi.
Isobel rimase interdetta, poi, con un sorriso annuì.
“Va bene, per il rispetto e l’affetto che la nonna portava a
questo posto. Ma la prego di fare il possibile, è molto
importante per me.” rispose trattenendo a stento la
commozione.

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“Si fidi di me, Miss Morrison. Le prometto che entro domani
riavrà il suo libro. A proposito: di che libro si tratta? Posso
averne il titolo?”
“Il mistero delle esuli. E’ un libro vecchio, logoro, rilegato in
pelle” rispose sforzandosidi ricordare; poi, quasi sottovoce,
aggiunse:
“La nonna ci era molto legata. Significava molto per lei..”
“La signora era una persona eccezionale, di grande cultura, di
grande umanità. Era una persona luminosa, sempre allegra. Era
un piacere averla come cliente e conversare con lei. Era, se mi
posso permettere, una donna molto affascinante”
“E’ vero”rispose Isobel abbassando gli occhi per richiamare
alla mente il dolce viso della nonna “è vero.” e fece per alzarsi.
“Ancora un secondo Miss Morrison. Ho una cosa per lei.”
Isobel sobbalzò sulla sedia.
“Da parte di sua nonna” disse quasi sussurrando. “Me lo diede
la sera stessa in cui morì. Era già tardi e stavo per lasciare
l’ufficio per rientrare a casa quando un cameriere bussò alla
porta e mi comunicò che l’ospite della stanza 4141 aveva
bisogno di parlare urgentemente con me. Mi recai
immediatamente nella sua stanza e trovai la signora Morrison
in vestaglia davanti al caminetto, con lo sguardo perso tra i
tizzoni ardenti e con in mano una busta. Appena mi vide si
passò una mano sul viso come ridestandosi da un sonno
profondo, mi fece uno di quei suoi inconfondibili sorrisi e mi
disse:”La ringrazio infinitamente di essere venuto direttore.
Domani mattina me ne andrò. L’ho saputo solo ora e non ho
potuto avvertire mia nipote Isobel. Lei mi verrà a cercare
domani. La prego di consegnarle questa” e mi allungò la lettera
che stringeva tra le mani. Eccola, è questa”
Isobel allungo la mano e la prese. Un brivido le percorse la
schiena.

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“Mi guardò negli occhi e mi disse: “Sono giunta alla fine di
questo viaggio. Devo prepararmi.” Pensai che si riferisse al suo
rientro a Parigi l’indomani, ma ora, ora ho come l’impressione
che parlasse di un altro viaggio. Mi strinse la mano con forza e
dolcezza assieme e poi mi disse una frase che non mi scorderò
mai:
”Ogni esule che ritorna a casa è triste e felice, ogni cosa ha un
suo rovescio, ogni incontro porta i semi dell’addio, ogni nascita
porta dentro di se la morte, ogni partenza porta dentro di se
un’arrivo. Addio direttore, al nostro prossimo incontro.”
Mi lasciò la mano e ritornò presso il caminetto. La fissai per un
secondo. Sembrava stesse piangendo. È l’ultima volta che l’ho
vista.”
Isobel guardò la lettera. Sul retro con la grafia della nonna la
semplice scritta “Per Issi”. Avrebbe voluto aprirla e leggerla lì
sul posto ma si trattenne e si congedò dal direttore.
“Mille grazie direttore. Aspetto sue notizie per il libro. Mi
raccomando, conto su di lei”
“Sono a sua disposizione Miss Morrison. Si fidi di me. Buona
giornata.” La accompagnò fino all’uscita dell’hotel. Isobel gli
strinse frettolosamente la mano con uno sguardo pieno di
riconoscenza. Il direttore abbassò gli occhi con deferenza
accomiatandosi. Appena uscita Isobel mise in tasca la lettera e
allungò il passo. Non vedeva l’ora di leggere ciò che la nonna
le aveva scritto. Arrivò rapidamente a casa, si tolse il cappotto,
si sdraiò sul letto, aprì la lettera e iniziò a leggere.

Cara Issi,
ieri quando eri qui con me, davanti al fuoco del
camino avrei voluto parlarti di tante cose, ma non ci sono riuscita.
Ed è per questo che ora ti sto scrivendo, perché così mi pare più
semplice. Non so da dove incominciare. E’ sempre difficile dire
arrivederci, è ancora più difficile farlo ora che ho capito che non
sarà il solito arrivederci, che il luogo del nostro prossimo incontro
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nessuna di noi due lo conosce, forse. Si Issi, sento che l’ora è
vicina, so che lo è, ho paura e mi vergogno. Mi vergogno perché
pensavo di essere pronta. Non sono pronta, nonostante tutto.
Non sono pronta perché non sono arrivata alla fine delle mie
ricerche, o forse è proprio questa la fine e il fine delle mie ricerche.
Ti starai chiedendo di quali ricerche sto parlando. Bene Issi, è
giunto il momento che tu lo sappia. Tutto quel mio viaggiare,
leggere era dovuto all’affannosa ricerca di risposte a domande che
riempivano la mia mente fin da quando, ancora piccola, assistetti
alla morte di mio padre (il tuo bisnonno) mentre mi accompagnava
a scuola. Ricordo la scena come fosse oggi. Papà che si abbassa
verso di me per prendermi in braccio e baciarmi come faceva tutti
i giorni, mi solleva, mi guarda negli occhi, fa per pronunciare la
frase di rito (“Fai la brava angelo mio. Sei bella più del cielo.”) e
ad un tratto con un gemito si accascia al suolo stroncato da un
infarto. Non parlai dallo shock per più di tre mesi: visitai dottori,
psichiatri; nulla, non parlavo. Blocco emotivo da trauma fu la
diagnosi di tutti. Nessuna cura. Solo tranquillità e pazienza.
Passavo le giornate guardando fuori dalla finestra, con il naso
appiccicato al vetro, sperando di vedere tornare papà a casa. Le
notti mi svegliavo in preda a un incubo ricorrente: camminavo in
un bosco in una giornata di sole quando, all’improvviso sentivo la
voce di papà chiamare il mio nome. Piangendo incominciavo a
correre cercando di individuare da dove provenisse la sua voce,
chiamandolo a squarciagola. Lui rispondeva con un “Sono qui”
che pareva provenire da ogni parte. Correvo, piangevo, lo
chiamavo ma non riuscivo a trovarlo fino a quando arrivavo a un
piccolo lago su di una radura. La voce sembrava provenire da lì.
Mi fermavo sul bordo del lago con la mia immagine riflessa sulle
piccole increspature dell’acqua. Mi inginocchiai per sciacquarmi il
viso. Guardai la mia immagine ricomporsi e mi accorsi che le mie
labbra continuavano a dire “Sono qui! Sono qui!” con la voce di
papà. Mi svegliavo sempre in quel punto del sogno con una
sensazione mista di serenità e di angoscia. Mia madre aveva

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ormai perso la speranza di tornare a sentire la mia voce quando un
giorno, mi trovavo al parco con mia nonna, fummo sorprese da un
temporale e ci ritrovammo in mezzo agli scrosci d’acqua. Mentre
correvamo per ripararci, mi fermai in mezzo alla strada colpita
dalla sensazione della pioggia sulla mia pelle. La nonna mi tirava
per un braccio dicendomi di correre altrimenti ci saremmo bagnate
tutte, ma io non mi mossi. Scoppiai a piangere e le mie lacrime si
unirono a quelle del cielo. Sentivo il cielo piangere con me. Lo
sentivo Issi. Quelle lacrime e quella pioggia lavarono via la
tristezza per la morte di papà. La prima parola che dissi fu
“Grazie” e in quel momento mi ripromisi che avrei cercato la fonte
di quella voce del sogno, l’origine di quelle lacrime, il destinatario
del mio ringraziamento. E iniziai il mio viaggio che ora sento sta
per concludersi.
Ho passato anni a viaggiare, a leggere, a ascoltare e alla fine mi
sono resa conto che in fondo ogni ricerca è vana se non parti dal
presupposto che non potrai trovare nulla che non sia già dentro di
te. E’ una consapevolezza che ho acquisito e di cui sono
assolutamente convinta Issi. Noi siamo parte del tutto e il tutto è
parte di noi. Questo significa che non vi è nulla al di fuori di noi
che non si trovi, almeno in potenza, dentro di noi. Pensaci Issi.
Pensa al nostro corpo, ai milioni di cellule che lo formano,
composte a loro volta da milioni di molecole, a loro volta
costituite da milioni di atomi, a loro volta composte da miliardi di
particelle subatomiche; oppure, andando dal piccolo al grande,
pensa a noi abitanti di un pianeta, parte di un sistema solare,
parte di una galassia, parte di un universo, parte di miliardi di
universi. Non senti l’armonia, la musica che sprigiona questo
grande caleidoscopio che è la nostra vita, il nostro mondo, il
nostro universo? Tanti l’hanno percepito, chi in un fuggevole
attimo di consapevolezza, chi percorrendo la strada della ricerca
interiore, chi esplorando la propria arte, chi impazzendo, chi
seguendo rituali magici, chi utilizzando droghe, chi semplicemente
fermandosi un solo attimo e osservando il mondo con gli occhi di

68
un bambino. Un bambino ha la testa sgombra da parole, pensieri,
categorie, barriere, dalle sovrastrutture che tutte le società
dall’inizio dei tempi hanno posto alla loro base per semplificare,
rendere più facile, più comprensibile, forse anche più accettabile la
vita. Ma è ancora così Issi? Quanto ci stiamo ingannando?
Quanto fa male tutto questo separare, tutto questo dividere?
Semplifica la vita o la rende semplicemente più brutta?
Tanti si sono accorti di questo inganno, di questa illusione e
hanno cercato di togliere il velo, di fare filtrare un po’ di luce. Io
ho cercato con loro, ho cercato di loro e ho incontrato tanti
personaggi fantastici che, partendo da punti, epoche, arti,
occupazioni diverse hanno tentato di mostrarci il lato nascosto
della nostra vita. Cercali anche tu Issi, cerca tra i libri, nella
musica, nei quadri, cerca quegli squarci di luce che ogni tanto
traspaiono nelle biografie, nelle opere, cerca anche tu quel
sottofondo che unisce le opere e le vite di ognuno di noi. Cerca
nelle opere dei grandi come dei piccoli, dei famosi come degli
sconosciuti ma soprattutto cerca dentro di te. La verità non può
essere insegnata, non può essere scritta. Si ripaga male un maestro
se si rimane discepoli, Issi. Cerca in loro ma soprattutto cerca
dentro di te. Tu sei la tua strada. Mi lascerò alle spalle tanti
indizi, tante indagini abortite, tanti barlumi di verità nascoste
nelle pagine di un libro, nelle note di un disco, nei racconti di vite
altrui, nelle esperienze dei viaggi. Cercali Issi e quando li avrai
trovati interrogali ma soprattutto interroga te stessa, il tuo
intimo, la tua essenza. Incontrerai personaggi fantastici,
inquietanti, sorprendenti, terribili: poeti, musicisti, scrittori,
santi, mistici, pittori, pazzi, drogati ma, se ascolterai, se riuscirai
ad alzare il velo della loro sfavillante unicità scoprirai un sottile
filo di seta che li unisce e che unisce te a loro. Cosa li unisce? Tutti
avevano la sensazione di un’altrove, di un posto altro dove in
realtà dimorano quella che noi chiamiamo verità, bellezza,
serenità., comprensione, Conoscenza. Da posti diversi, in epoche
diverse, per strade diverse, tutti hanno sentito il richiamo di

69
questa realtà “altra”, di questa realtà ultima che pervade e unisce
ogni forma e ogni essere su questa terra. L’unità. Ecco cosa
percepivano, ecco cosa avevano scorto nel loro suonare, nel loro
dipingere, nel loro scrivere, nel loro meditare. La sensazione, in
qualche caso la consapevolezza, che nulla ci dividerebbe dagli altri
se solo riuscissimo a ritornare all’origine, se riuscissimo a vedere
con occhi puri, a ritornare bambini. Mi rendo conto che può
sembrare un discorso delirante, che può sembrare il delirio
misticheggiante di una fricchettona fuori tempo massimo, ma
troppe sono le coincidenze, troppe le testimonianze dei grandi che
hanno attraversato la storia e che a un certo punto della loro vita
hanno sentito, hanno percepito questa realtà e hanno cercato di
comunicarla tramite la loro arte, tramite le loro parole,
consapevoli peraltro che non è possibile spiegare un’esperienza,
parlare di sensazioni, descrivere un ‘attimo, descrivere l’unità. Ma
se ascoltiamo, se guardiamo con occhi puri e senza preconcetti, se
leggiamo come fossimo fin’ora stati analfabeti, se ascoltiamo come
se fossimo sempre stati sordi forse nel montante brusio della
quotidianità, nell’abbagliante luce dell’effimero mondo
quotidiano riusciremo anche noi a scorgere quel sottile filo, quella
impercettibile melodia che lega il tutto in qualcosa di coerente, di
unico, di magico, di eterno.
Siamo educati fin da piccoli a dividere, a separare. Il bene dal
male, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato, il biondo dal
moro, il dritto dal rovescio. Diamo nomi alle cose per classificarle
e ogni cosa nominata perde una parte della sua essenza, ogni
descrizione è una mutilazione, ogni spiegazione è una
semplificazione. La nostra vita è una semplificazione! Per
proseguire questo nostro insensato vivere arrotolati su noi stessi,
senza mai lanciare uno sguardo che vada al di là di noi e (quando
va bene) delle persone che ci sono vicine abbiamo bisogno di
sentirci unici, di sentirci irripetibili, di sentirci diversi, magari
migliori e per fare ciò dobbiamo recidere parti di realtà che
spingono nella direzione opposta, che ci comunicano unità,

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integrazione, che ci sussurrano che ogni nostro comportamento ha
effetti su altri e che questi altri siamo noi (non fare agli altri
quello che non vuoi sia fatto a te).
Einstein ha detto “Si potrà avere un’umanità migliore quando
tutte le persone abbandoneranno il proprio io”
L’io. Ciò che ci fa sentire unici e irripetibili. Ciò che ci fa dire mio.
Ciò che ci cala nel presente, che ci parla del passato che ci proietta
nel futuro. Ciò che ci fa volere, desiderare, bramare, ciò che spinge
al possesso, alla ricerca del piacere, del potere, della soddisfazione,
dell’appagamento. L’io è schiavitù Issi, è una catena che imbriglia
il corpo e la mente in un labirinto di attese-delusioni, piaceri-
dolori, vittorie-sconfitte. Ma noi vogliamo solo una parte,
vogliamo solo le vittorie, vogliamo solo il piacere, combattiamo a
testa bassa la realtà della nostra esistenza, una realtà che
sussurra che non c’è piacere senza dolore, che non c’è amore senza
odio, che non c’è pace senza guerra. Il nostro io vorrebbe la nostra
realtà a suo uso e consumo, vorrebbe poter scegliere i frammenti di
realtà che più lo aggradano. Ma la realtà non può essere scissa e
scelta, la realtà è. E più noi decidiamo di non vedere, di non volere
ciò che non ci piace, ciò che non soddisfa il nostro ego, più ci
allontaniamo da noi stessi e dagli altri, dalla vita vissuta nella
sua interezza, con tutte le sue contraddizioni e le sue
sfaccettature. Se non riconosciamo nell’altro una parte di noi, se
non vogliamo vedere le ragioni di chi ha torto, la malattia della
nostra salute, la pazzia della nostra sanità mentale, se non
vogliamo avere consapevolezza della parte che non ci piace di ciò
che siamo, delle azioni che compiamo, se non sentiamo l’unità e
l’interconnessione di ogni gesto, di ogni scelta, di ogni decisione
non arriveremo mai a sentirci in pace, a essere pace.
Non c’è pace senza guerra. La guerra che dobbiamo combattere è
una guerra contro il nostro modo di vivere, il nostro modo di
ragionare, contro le nostre abitudini, contro il nostro io.
La strada è segnata da squarci di luce accesi qua e là da altri.
Diamo modo ai nostri occhi di abituarsi a tale luce, sapendo però

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che non si vive di luce riflessa e che la nostra luce non può essere
accesa da altri che da noi. Non esistono scorciatoie Issi.
Basta ora non voglio aggiungere altro, altrimenti rischio di
toglierti la gioia e l’emozione di questo viaggio, di questa ricerca.
Solo un’ultima cosa Issi che è forse la più importante: forse le
strade che intraprenderai, le cose che scoprirai non sempre saranno
piacevoli. Ma ricordati Issi che io sarò con te, non so in che forma,
non so in che modo ma ci sarò.
Ti voglio bene! Ti auguro la felicità, quella vera che discende dalla
consapevolezza. Solo la verità ci rende liberi.
Arrivederci Issi. Sono sicura che ci incontreremo in qualche modo.
Ti bacio.
La nonna.

P.S. Ho finito ora di leggere il libro che mi hanno recapitato oggi.


Ora ne sono certa. La mia ricerca è finita. Sono ritornata
all’inizio. Il cerchio si è chiuso. Ora sono serena. Devi esserlo
anche tu Issi.
Ti abbraccio.

La nonna

Ripiegò la lettera scoppiando in un pianto dirotto. Cercherò


nonna, te lo prometto! E così dicendo si addormentò.

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CAPITOLO XVIII

6 gennaio 2001 ??????

Si ritrovò nuda sdraiata sulla riva del mare, il cielo sereno che
si confondeva all’orizzonte con l’azzurro cristallino del mare.
Si alzò in piedi e incominciò a camminare sul bagnasciuga, le
piccole onde del mare a lambirgli i piedi. La spiaggia era
deserta, incastonata tra due coste di roccia bianca a strapiombo
sul mare, sorvolate da placidi gabbiani che lanciavano i loro
striduli richiami da mezzo il cielo. Mentre camminava sulla
spiaggia Isobel vide un qualcosa luccicare innanzi a lei. Si
chinò e raccolse una catenina d’oro con appeso un crocefisso
anch’esso d’oro. Conosceva quella catenina. Era di sua madre.
Gliel’aveva regalata il giorno stesso in cui lei e papà erano
morti in quel maledetto incidente. Cosa ci faceva su quella
spiaggia? Se la mise al collo. In quel momento sentì una
musica lontana che la fece voltare. Proveniva da una barca nera
che si stava avvicinando alla riva. La barca aveva due vele, una
bianca e una nera, spiegate e tese dal vento che
improvvisamente aveva incominciato a spirare. Quando fu
abbastanza vicina la barca si fermò e qualcuno ammainò le
vele. Nell’aria una canzone malinconica, cantata da una voce
suadente, decisa. Non riusciva a cogliere le parole, ma sentiva
crescere in lei una strana emozione. Si mise a nuotare verso la
barca. La musica aumentava di intensità e creava un certa
tensione. Era ormai in prossimità dell’imbarcazione quando
improvvisamente scoppiò una tempesta. Il vento increspava le
onde che si abbattevano sulla chiglia della barca facendola
ondeggiare paurosamente mentre Isobel cercava di

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raggiungerla per porsi in salvo. Ma la barca, trasportata dai
marosi si allontanava lentamente. Il cielo era coperto di nuvole
e il sibilare del vento era rotto da tuoni fragorosi che le
rimbombavano nelle orecchie facendola trasalire mentre,
sempre più in affanno, cercava di mantenersi a galla. Le onde
sempre più alte la sommergevano mentre la barca era spinta
sempre più lontano. Gridò aiuto con quanto fiato aveva in gola,
annaspando e sputando l’acqua salmastra che le riempiva la
bocca e le narici. Gridò di nuovo, con tutte le sue forze. Vide
qualcuno muoversi sulla barca. “Isobel! Isobel! Sei tu?” Era la
voce della mamma. Quanto tempo non la sentiva. “Mamma!
Mamma!” gridò “Mamma aiutami!”.
“Isobel! Isobel! Mark aiuto! C’è Isobel in acqua!!”. Isobel
intravide un’altra sagoma sulla barca. “Isobel resisti!” Era la
voce di papà! Sì era lui. “Papà!! Sono qui!!”. Riusciva a stento
a respirare. Vide il padre chinarsi, afferrare un salvagente e
legarlo ad una corda. Stava per lanciarlo quando Isobel vide
un’onda enorme spuntare da dietro l’albero della barca. Gridò
con quanto fiato aveva in corpo mentre l’onda gigantesca si
incurvava sopra la barca come un’immenso mostro marino che
la stesse inghiottendo. Un rombo terribile soffocò il suo ultimo
grido “Mamma! Papà!”. Fu travolta da un’immensa massa
d’acqua. Mamma! Papà! Addio! Sentì il suo corpo trascinato in
basso mentre il naso e la bocca le si riempivano d’acqua. E’ la
fine. La fine.…
Aprì gli occhi fissando una candela che ardeva accanto a lei, su
di un comodino. Era adagiata su di un letto. Si trovava in una
stanza tutta di legno. In un angolo, accanto al fuoco del
camino, era seduta una persona, le spalle rivolte a lei, intenta a
muovere i tizzoni con una sbarra di ferro. Isobel si alzò e si
sedette a fianco della persona. Nonna. Sapeva che era lei. “Ti
sei svegliata finalmente” le disse senza togliere lo sguardo dal
fuoco che ardeva scoppiettando. “Cosa è successo a mamma e

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papà? Dove sono?” La nonna si voltò, le prese una mano la
fece alzare e la condusse alla finestra. Erano all’interno di un
faro. Sotto di loro il mare continuava a infrangere enormi onde
sulla scogliera. L’orizzonte era illuminato da una strana luce.
La nonna la guardò negli occhi e le disse: “Guarda Issi, il sole
scaccia la tempesta. E’ bellissimo. La lotta tra la luce e il buio,
tra il sereno e la tempesta. In questo momento le tenebre e la
luce interrompono il loro eterno rincorrersi. Vi sono entrambi e
nessuno. Non senti la grandezza di questo momento? Il grande
meriggio!” Isobel rimase interdetta, poi ritirò la mano da quella
della nonna con un gesto brusco “Non mi importa nulla di tutto
questo!! Voglio sapere dove sono mamma e papà! Li ho visti
su una barca poco fa, stavo per raggiungerli quando…” “Non
puoi raggiungerli Isobel, non ancora. Guardati allo specchio.”
E così dicendo la condusse di fronte a uno specchio. Isobel
sussultò. Era nuda e alle sue spalle le parve di vedere il viso dei
suoi genitori. Si girò di scatto. Nessuno. Anche la nonna era
sparita. La finestra si spalancò all’improvviso, facendola
rabbrividire. Una folata di vento scompigliò e fece frusciare le
pagine di un libro appoggiato sul tavolo a fianco del fuoco.
Isobel chiuse la finestra e andò al tavolo. Riconobbe il libro:
era aperto. La foto dei suoi genitori e della nonna sorridenti
sulla barca con in braccio un neonato era incollata su di una
pagina. Sapeva essere lei quel neonato. Sui visi dei suoi
genitori e della nonna vi era una croce tracciata con un
pennarello rosso. Sulla pagina accanto vi era questa scritta: La
morte vi renderà liberi. Prese il libro e lo scagliò nel fuoco.
Una vampata la investì.
Si svegliò.

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CAPITOLO XIX

6 gennaio 2001 Londra

Pian piano Isobel riprese contatto con la realtà e riannodò il filo


dei suoi ricordi scompigliati dal sonno. Era sul letto di casa. Si
era addormentata sfinita dopo aver letto la lettera della nonna
che le aveva consegnato il direttore dell’albergo. Si sedette sul
bordo del letto e guardò l’orologio: era da poco passato
mezzogiorno; si era appisolata solo pochi minuti. Che strano
sogno. Si mise una mano sotto la maglietta. Toccò la collanina
e il crocefisso: c’erano ancora. Si stropicciò gli occhi ancora
umidi di lacrime, poi si alzò in piedi e andò verso la finestra,
scostò la tenda, si chinò, prese la borsa della nonna e la trascinò
fino al letto. La sollevò, la aprì e ne rovesciò il contenuto sulla
coperta. La prima cosa che le capitò in mano fu un CD dei
Doors. Si intitolava proprio The Doors. Conosceva quel
gruppo: da ragazzina aveva una compagna di classe innamorata
persa del cantante, come si chiamava? Sì, Jim Morrison: il
cantante che aveva il suo stesso cognome; come aveva fatto a
scordarselo? Che testa che le aveva fatto Mary: aveva il diario
pieno di sue foto, di sue frasi, di sue poesie. Una volta gliene
lesse una; ricordava che le era piaciuta. Ma la musica dei Doors
non l’aveva mai ascoltata. Prese il Cd, lo inserì nel lettore, alzò
il volume e tornò a sedersi sul letto. Iniziò per prima cosa a
dividere i cd dai libri, senza badare più di tanto di che cosa si
trattava. La musica in sottofondo continuava ma Isobel era
distratta dalla suddivisione. Impilò i libri e i cd alle due
estremità del letto. Ferma nel mezzo era indecisa da quale parte
incominciare, poi optò per i libri. Decise di prendere un foglio

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e annotarne i titoli e l’autore; questo l’avrebbe aiutata a
ricordarseli. Iniziò a scrivere:

Jack Kerouac - On the road


F. W. Nietzsche - Così parlò Zarahtustra
Lao Tze - Il tao
Kurt Gödel – Opera Completa
Arthur Rimbaud - Una stagione all’inferno
The Doors - Testi delle Canzoni e Interviste
Carl Gustav Jung – Sincronicità

Sollevò la testa dal foglio: non sapevo che alla nonna piacesse
tanto la musica rock.. Prese un altro libro:

I vangeli apocrifi
Herman Hesse - Siddharta
Il corano
Albert Einstein - Come io vedo il mondo
Van Gogh - Lettere a Theo e riproduzioni di quadri
Jerry Hopkins Nessuno uscirà vivo di qui
F. W. Nietzsche La Gaia scienza
Un libro di poesie giapp…

Si interruppe, attratta dalla musica. Tese l’orecchio: fino a quel


momento non aveva fatto molto caso alla musica che proveniva
dallo stereo ma ora qualcosa aveva attirato la sua attenzione.
Aveva già sentito quella musica, ne era certa: un leggero
tintinnare di piatti, un accordo sfuggente di chitarra e di
organo, un secondo di silenzio e poi quell’arpeggio di chitarra,
poche note, chiare, cristalline, avvolgenti e, quasi
all’improvviso, quella voce. This is the end, beautiful friend…

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Sì, l’aveva già sentita ma non riusciva a ricordare dove. Provò
a concentrarsi. Il sogno! Ma certo il sogno, era la musica che
aveva sentito dalla spiaggia, provenire dalla barca di mamma e
papà! Si alzò di scatto e quasi corse allo stereo, prese in mano
il compact disc, guardò il numero della traccia sul display del
lettore e la cercò tra i titoli.
Traccia numero 11: The end
Stoppò il lettore e andò a recuperare il libro con i testi delle
canzoni che aveva trovato poco prima, cercò The end, fece di
nuovo partire la musica e si sdraiò sul letto ad ascoltare.

Questa é la fine, mia bella amica.


Questa e’ la fine, mia sola amica, la fine.
Dei nostri piani elaborati, la fine
Nessuna garanzia o sorpresa, la fine.
Non guarderò mai più nei tuoi occhi.

La voce era suadente, triste, malinconica. Sembrava cantare la


fine di una storia d’amore, l’addio a una ragazza che non
guarderà più negli occhi.
Riesci a immaginare come sarà
Così senza limiti e libera
Disperatamente alla ricerca
Di una mano forestiera,
In una terra disperata.
Andiamo bambina!

Il tono si fece più accorato, la musica cresceva di intensità, il


canto era quasi urlato, e la terra disperata impastava l’urlo
soffocato di Jim prima dell’invito a seguirlo. L’arpeggio di
chitarra era svanito. I suoni si fecero aspri, grezzi, carichi di
tensione. Paura di rimanere soli, cercando mani amiche che ti
diano affetto, che leniscano la tua solitudine.
Persi in un deserto romano di dolore

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E tutti i ragazzi sono impazziti,
Tutti i ragazzi sono impazziti
Aspettando la pioggia estiva.

Ancora solitudine, deserti, pazzia. Scene ancestrali,


incomprensibili. La musica era tornata quieta, l’arpeggio di
chitarra era riapparso, insistente, avvitandosi nella mente,
scavando, scavando,
C'é pericolo ai confini della città,
Prendi l'autostrada del Re.
Strane scene nella miniera d'oro;
Prendi l'autostrada verso ovest, bimba.

Cavalca il serpente.
Cavalca il serpente
Fino al lago, al vecchio lago.
Il serpente è lungo, sette miglia.
Cavalca il serpente,
E' vecchio, e la sua pelle é fredda.

I 'Occidente e' il meglio,


L 'Occidente e' il meglio,
Vieni qui e lascia a noi fare il resto.

L 'autobus blu ci sta chiamando,


L 'autobus blu ci sta chiamando,
Autista dove ci stai portando?

La storia d’amore finita aveva ceduto il posto a immagini


incomprensibili. Di cosa sta parlando, pensò Isobel. Finchè si
lasciava trasportare dalla musica, dalle parole e dalla loro
intonazione, si sentiva come galleggiare su quelle note, come
ipnotizzata, quando cercava di coglierne il significato ecco che
si sentiva sprofondare, smarrire.
L'assassino sì svegliò prima dell'alba,
si infilò gli stivali.

80
Si prese una maschera dalla galleria delle antichità,
E venne giù per il corridoio.

Qui Jim smetteva di cantare e parlava, raccontava una storia. Il


tono solenne, la voce carica di eco e di drammaticità. Un
assassino in una casa. Cammina lentamente
Andò dentro la stanza
Dove viveva sua sorella
Poi fece visita a suo fratello,
E poi venne giù per il corridoio.
E arrivò ad una porta,
E guardò all'interno,
'Padre ?"
"Sì, figlio mio?"
'Voglio ucciderti."
"Madre, voglio fotterti"

Isobel si rizzò in piedi. Uccidere il padre, scopare la madre?


Era incredula e scioccata. Quella frase arrivò come una frustata
dritta alla sua mente. La musica, dopo un attimo di confusione,
riprendeva ipnotica; Jim esortava a seguirlo, seguirlo…
Vieni, bimba, fai un tentativo con noi,
Vieni, bimba, fai un tentativo con noi,
Vieni, bimba, fai un tentativo con noi
Incontrami in fondo all’autobus della tristezza.

Poi il caos, urla, accordi, assoli spezzati, incitamenti a scopare


e uccidere. Una danza, un sabba liberatorio, una danza sacra,
un rituale pagano.
Fotti!
Fotti!
Fotti!
Uccidi!
Uccidi!
Uccidi!

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D’un tratto di nuovo la pace. Non era più la fine di una storia
d’amore, era la morte. Quella canzone parlava della morte,
degli istinti primordiali che albergano in ognuno di noi.

Questa è la fine, mia bella amica,


Questa é la fine, mia sola amica, la fine,
Fa male lasciarti andare
Ma tu non mi seguiresti mai.
La fine di risate e di bugie leggere,
La fine delle notti in cui provammo a morire.

Questa e' la fine.

Quando Jim finì di cantare un secondo silenzio era caduto nella


stanza, un silenzio pauroso e allo stesso tempo seducente.
Isobel era stremata. Quell’ascolto l’aveva in qualche modo
sconvolta. Era penetrata nella canzone, si era lasciata
trasportare dalla musica e dalle parole, senza cercare di dar loro
un senso ma visualizzando le immagini che richiamavano alla
sua mente. Si sentiva esausta e elettrizzata ad un tempo. Era la
canzone del sogno, ora ne era certa. Andò allo stereo e fece
ripartire i compact disc, decisa ad ascoltare per bene questa
volta.
La prima canzone fu uno shock, un pugno nello stomaco:

Lo sai che il giorno distrugge la notte


E la notte divide il giorno
Cerco di correre
Cerco di nascondermi
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte

Cerchiamo i nostri piaceri qui


Scaviamo i nostri tesori la
Puoi ancora ricordare

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I tempi in cui piangevi?
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte

Tutti amano la mia ragazza


Tutti amano la mia ragazza
Lei si eccita

Ho trovato un ‘isola nelle tue braccia


Paesaggi nei tuoi occhi
Braccia che incatenano
Occhi che mentono
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte

Abbiamo calcato la scena


Settimana dopo settimana
Giorno dopo giorno
Ora dopo ora
Il dolore è dritto, profondo e ampio
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte
Irrompi, irrompi, irrompi

Irrompere dall’altra parte? Morire? Ancora un invito a morire?


Isobel era stordita. La nonna ascoltava questa musica?
Continuò l’ascolto sempre seguendo i testi sul libro per meglio
focalizzarli:

Prendere L’autostrada per la fine della notte

Fare un viaggio verso la mezzanotte luminosa

Vascelli di cristallo

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Dita che disegnano minareti parlando in alfabeti segreti

Imparare a dimenticare

Tutte queste frasi le vorticavano intorno, la cullavano, la


scuotevano come la musica che le accompagnava. Rimase
conquistata, ma il senso di irrequietezza dentro di lei era
aumentato. Sentiva che qualcosa di quella musica e di quelle
parole la toccava nel profondo: non riusciva a cogliere il
significato, ma la loro commistione con quella musica l’aveva
messa in uno strano stato d’animo. Erano musica e parole
inquiete, che chiedevano conto del loro ascolto. Non potevi
fare altro mentre le ascoltavi. Si chiese il motivo per cui la
nonna aveva con se quella musica. Prese il libro di Jerry
Hopkins che aveva visto prima, che aveva in copertina una foto
di Jim Morrison e incominciò a leggerlo. Era la biografia del
cantante. Vi erano diverse frasi, diversi fatti sottolineati e
annotati dalla nonna. Una frase in particolare era sottolineata
più volte e annotata con un “Trovato!!” che faceva intendere
che quella frase fosse stata oggetto di una ricerca specifica
della nonna. La frase era una parte del testo di una canzone
intitolata When the Music’s over e diceva:

Prima di sprofondare nel grande sonno voglio sentire l’urlo della farfalla

Era una frase molto bella, ma se provavi a entrare nel suo


significato, come le era capitato prima, Isobel si trovava
disorientata. Cercò la canzone nel libro dei testi che aveva
trovato mentre riordinava e anche qui la trovò sottolineata dalla
nonna e con la annotazione “Ci siamo!!” accanto. Rilesse la
frase. Le ricordava qualcosa. Prese i fogli con gli appunti della
nonna e li scorse. Arrivò al punto in cui erano riportate le frasi
annotate alla fine del libro che le era stato rubato. Subito prima
della frase della nonna e di quella di un tale G.G. c’era: J.D.M.

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The scream of the butterfly! L’urlo della farfalla!. Isobel
sobbalzò sul letto. Ecco dove l’aveva già letta! JDM? Riprese
la biografia che stava leggendo e sfogliò le prime pagine finchè
non trovò ciò che cercava: il nome completo di Jim Morrison
era James Douglas Morrison. JDM! Si lasciò andare sul letto.
Jim Morrison aveva posseduto quel libro? Sembrava
incredibile ma tutto portava a crederlo. E cos’era l’urlo della
farfalla? Cosa significava? Ecco il primo indizio della nonna,
ecco da dove partire. Isobel trasse un bel sospiro. La ricerca era
incominciata.

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CAPITOLO XX

15 luglio 1968 Los Angeles

Il Phone Booth era già pieno della solita gente: ubriachi,


camionisti, omosessuali, hippy strafatti in cerca di compagnia o
di un bicchiere di whisky per stordirsi definitivamente. La
spogliarellista, una bionda sui vent’anni con due occhi azzurri
da bambola e i tipici tratti nordici stava attirando a se tutti gli
sguardi ancheggiando e sculettando attorno al palo di ferro
montato al centro del piccolo palco. Le urla al suo indirizzo
erano spesso sovrastate dalle grida dei camerieri che portavano
le bevande ai tavoli disposti in circolo attorno al palcoscenico.
L’atmosfera era calda e Cindy stava per giungere al momento
clou del suo numero.
Appoggiato al bancone il giornalista guardò l’orologio. Era già
passata mezz’ora dall’orario concordato e non si era ancora
visto nessuno. Guardò verso la porta con impazienza. Niente.
Trasse dalla tasca interna del giubbotto che stringeva in mano il
taccuino su cui aveva annotato le domande che intendeva
rivolgere all’intervistato, lo aprì e lesse: 15 luglio 1968 ore
19:00 Phone Booth Los Angeles. Jim Morrison. Ricordava
quando aveva fatto la telefonata, una quindicina di giorni
prima, per richiedere l’intervista. L’aveva fatta senza
convinzione; pensava che Jim, la rockstar americana più
contesa e discussa del momento, cantante del gruppo in testa a
tutte le classifiche di vendita dischi non avrebbe mai concesso
un’intervista a un’inviato di un giornale locale, poco
conosciuto e con una tiratura limitatissima. La telefonata era
invece stata molto cordiale e Jim si era detto entusiasta della
cosa. Mi ha fregato, lo sapevo che non era possibile
intervistarlo. Si sentì battere sulla spalla, si voltò e lo vide. Gli
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occhiali da sole gli coprivano gli occhi e una parte degli
zigomi, la barba di tre giorni e i capelli incolti gli davano
un’aspetto trasandato, ma gli stivali, la giacca e i pantaloni di
pelle nera erano un marchio inconfondibile.
“Lizze James?” chiese prima che potesse aprire bocca.
“Sono io” rispose quasi automaticamente mentre i pensieri gli
si affollavano nella testa.
“Scusa il ritardo ma ho avuto una discussione con la mia
ragazza. Sai come vanno certe cose… Sono Jim” gli disse
allungando la mano e stringendola con delicatezza. “Cosa
posso offrirti?”
“Una Corona grazie.”
“Fred, una Corona per il mio amico e il solito whisky per me”
urlò al barista.
“Ok Jim, subito!”
“Mi chiedevo se fosse il posto adatto per l’intervista o se non
fosse meglio andarcene altrove?”disse il giornalista quasi
urlando per sovrastare le urla degli altri frequentatori. “C’è un
po’ troppo frastuono qui.”
“E’ colpa di Cindy” rispose Jim indicando la ragazza sul palco
“ma vedrai che non appena avrà finito il suo numero un sacco
di gente andrà via e noi faremo la nostra intervista
comodamente seduti su uno di quei tavolini”
Proprio mentre Jim pronunciava quelle parole Cindy lasciava il
palco ormai nuda accompagnata dalle urla e dai fischi del
pubblico. Dopo un paio di minuti di un frastuono indicibile
dovuto ai tentativi di tre camionisti ubriachi di far tornare
Cindy sul palco, la gente incominciò ad uscire dal locale,
lasciando liberi un paio di tavolini.
“Ecco, che ti dicevo? E’ lei l’attrazione del Phone Booth.
Arriva gente da tutto lo stato per vederla. E’ lei la vera
rockstar.“ disse con uno strano sorriso sul volto. “Vieni,
accomodati. Fai come se fossi a casa tua; in fondo questo posto

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è una seconda casa per me; quando non sono in giro a suonare
mi puoi trovare o qui o nella stanza d’albergo dove vivo. Non
mi sono mai piaciute le case.” Quest’ultima frase la pronunciò
abbassando leggermente lo sguardo, come a scacciare
un’immagine o un pensiero.
Si sedettero e subito il cameriere portò loro la birra e il
whisky, poi si rivolse a Jim dicendo:
“Ehi Jim, quel ragazzo la in fondo, sulla porta, dice di essere
venuto da New York per incontrarti. Dice di essere un tuo fan e
di volerti parlare.”
“Fallo venire John” rispose Jim con lo sguardo corrucciato.
Il cameriere fece un gesto al ragazzo che si precipitò quasi
correndo al tavolo. Era un ragazzo sui venti – ventidue anni,
capelli corti pettinati con la brillantina, un paio di occhiali con
spesse lenti che pendevano dal naso adunco. Si accostò al
tavolo e, senza togliere gli occhi da Jim, gli disse:
“Sei proprio tu? Non ci posso crede! Sei Jim Morrison?”
“Sì, sono io” rispose Jim con un sorriso “Tu come ti chiami?
“A….Alfred” rispose il ragazzo abbassando gli occhi “Volevo
soltanto dirti grazie.”
“E per cosa Alfred?” chiese Jim piuttosto stupito.
“Per avermi aperto gli occhi, con la tua musica, le tue parole.
Mi hanno svegliato, mi hanno fatto male e mi hanno guarito. Io
ho capito Jim, ho capito. Dovevo dirtelo di persona capisci,
dovevo…”
Lo guardò negli occhi, poi si girò di scatto e si avviò verso
l’uscita.
“Ehi Alfred, un momento” disse Jim alzandosi e correndogli
dietro. Anche Lizze si alzò in piedi “Hai dove andare questa
notte?”
“No“ rispose il ragazzo”ma pensavo di dormire sulla spiaggia.
E’ sempre stato un mio sogno.”

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“Tieni questa” disse Jim togliendosi la giacca di pelle e
mettendola sulle spalle del ragazzo ”Fa freddo sulla spiaggia di
notte”
“Ma io…” balbettò il ragazzo incredulo
“E’ tua Alfred, un’autografo da Jim Morrison” gli rispose
facendogli l’occhiolino.
“Grazie Jim. Grazie!” disse il ragazzo uscendo.
Jim si voltò verso il giornalista con aria corrucciata e
ritornarono a sedersi attorno al tavolo. Jim accavallò le gambe
e si accese una sigaretta, lo sguardo al soffitto, pensieroso.
“Possiamo incominciare?” chiese il giornalista tirando fuori
dalla tasca il taccuino e un piccolo registratore che appoggiò
sul tavolo di fronte a Jim.
“Che la cerimonia abbia inizio” rispose Jim con tono enfatico.
"Hai visto come ti guardava quel ragazzo Jim? Per lui eri Dio
in carne e ossa. Pendeva dalle tue labbra. Sei il suo salvatore,
l’uomo che lo ha liberato. Penso che molti dei fan dei Doors ti
vedano così. Che sensazione provi al riguardo? E’ un pesante
fardello da portare, una grande responsabilità non è vero?"
Jim diede un tiro alla sigaretta poi, guardando verso la porta da
dove poco prima era uscito il ragazzo rispose:
"È un assurdo. Come posso liberare chiunque non abbia il
fegato di sollevarsi da solo e di affermare la propria libertà?
Penso che si tratti di una menzogna quella della gente che
afferma di voler essere libera; tutti insistono a dire che la
libertà è ciò che vogliono di più, la cosa più sacra e preziosa
che un essere umano possa avere. Ma queste sono stronzate! La
gente è terrorizzata dall'idea di essere liberata; loro stessi
serrano le loro catene e combattono chiunque cerchi di
spezzarle. Quelle catene sono la loro sicurezza. Come possono
aspettarsi che io o chiunque altro li liberi se in realtà non
vogliono essere liberi?"

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Lizze rimase colpito. "Perché pensi che la gente tema la
libertà?"
"Penso che la gente faccia resistenza alla libertà perché ha
paura dell'ignoto. Ma è singolare: ciò che per noi ora è l’ignoto
una volta era ben noto. E’ ciò a cui appartengono le nostre
anime. L'unica soluzione è quella di confrontarsi, confrontare il
proprio Io, con la più grande paura immaginabile. Poni te
stesso davanti alle tue paure più profonde. Dopo di ciò, la
paura non ha più potere e la paura della libertà diventerà
sempre più piccola e svanirà. Allora sarai libero".
"Cosa intendi quando dici "libertà"?"
"Ci sono diversi tipi di libertà, e ci sono parecchi equivoci in
proposito. Il genere più importante di libertà è di essere ciò che
si è davvero. Si baratta la propria libertà per un ruolo. Si
barattano i propri sensi per un atto. Si svende la propria
capacità di provare sensazioni, e in cambio si indossa una
maschera. Non potrà esserci alcuna rivoluzione di massa fino a
che non ci sarà una rivoluzione personale, a livello individuale.
Prima deve avvenire all'interno. Si può privare un uomo della
sua libertà politica e non lo si ferirà finché non lo si priverà
della sua libertà di sentire. Questo può distruggerlo".
Jim parlava lentamente, soppesando le parole e con un tono
flebile e gentile. Il giornalista era come ipnotizzato.
"Ma come è possibile privare qualcuno della sua libertà di
sentire?"
"Alcune persone rinunciano volentieri alla propria libertà
mentre altre sono costrette a rinunciarvi. L'imprigionamento
comincia con la nascita: la società, i genitori, si rifiutano di
lasciarti vivere la libertà per la quale sei nato”
Fece una pausa, bevendo d’un fiato il whisky che aveva nel
bicchiere, poi aggiunse:
“Ci sono modi molto sottili per punire una persona che abbia
osato provare sensazioni. Puoi ben vedere che chiunque attorno

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a te ha distrutto la sua vera natura emozionale. Si imita ciò che
si vede, ciò che ci circonda." Così dicendo rivolse lo sguardo
attorno.
"Stai dicendo che noi siamo, in effetti, portati a difendere e
perpetuare una società che priva la gente della libertà di
sentire?"
"Certo. Insegnanti, capi religiosi, anche gli amici, o i cosiddetti
amici riprendono da dove hanno terminato i genitori. Ci dicono
di provare soltanto le sensazioni che essi vogliono e si
aspettano da noi. Per tutto il tempo ci chiedono di recitare per
loro: siamo come attori abbandonati in questo mondo per
vagare alla ricerca di un fantasma, cercando una semi-
dimenticata ombra della nostra perduta realtà. Quando gli altri
ci chiedono di diventare le persone che essi vogliono che noi
siamo, ci costringono a distruggere le persone che siamo
davvero. È una sottile forma di omicidio: i genitori che più
amano compiono questo omicidio con il sorriso sui loro volti e
la consapevolezza di essere nel giusto."
La voce di Jim si era fatta dura, come se stesse reprimendo una
crescente irritazione.
Lizze lo guardò stupito. Le domande sul taccuino non
servivano più. Lo prese e lo ripose nella tasca.
"Pensi che sia possibile per un individuo liberare se stesso da
tali forze repressive da solo?"
Jim sorrise: "Questo genere di libertà non può essere concessa.
Nessuno può conquistarla per te. Si deve fare da soli. Se è
qualcun altro che lo fa per te sarai ancora dipendente dagli altri.
E sarai ancora vulnerabile a quelle repressive, maligne forze
esterne".
"Ma alla gente che vuole questa libertà non è possibile unirsi
combinando le proprie energie per farsi forza reciprocamente?
Deve essere possibile…"

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"Gli amici possono aiutarsi reciprocamente. Un vero amico è
qualcuno che ti lascia la totale libertà di essere te stesso, e in
particolare la libertà di sentire o di non sentire. E’ in questo che
consiste il vero amore: lasciare che una persona sia ciò che
davvero è... La maggior parte delle persone ti amano per quello
che vogliono tu sia... Per ottenere il loro amore, devi fingere,
recitare. Ottieni amore come premio per la tua recitazione. E’
vero, siamo ingabbiati in un'immagine, una messinscena e la
cosa triste è che siamo abituati alla nostra immagine, ci
identifichiamo con essa, cresciamo attaccati alle nostre
maschere. Amiamo le nostre catene. Le persone dimenticano
chi sono in realtà, dimenticano il loro vero essere. E se cerchi
di ricordarglielo ti odiano, si sentono come se tu stessi
cercando di carpirgli le loro proprietà più preziose".
"È molto triste. Non riescono a vedere che quello che stai
cercando di mostrargli è la strada verso la libertà?"
"La maggior parte delle persone non ha idea di quello che sta
perdendo. La nostra società assegna un valore supremo al
controllo, al nascondere ciò che si prova, a celare i sentimenti.
La nostra cultura deride le "culture primitive" e si fa un vanto
della repressione degli istinti e degli impulsi naturali".
Lizze tacque. L’intervista si era trasformata in un dialogo tra
amici. Non vi era nulla di formale, nessuna barriera. Si sentiva
chiamato in causa come essere umano, non come giornalista.
Stava seguendo il filo dei pensieri che la voce di Jim e le sue
parole gli suggerivano. Diede un sorso alla birra e riprese il
discorso.
"In alcune delle tue poesie ammiri apertamente e rendi
omaggio ai popoli primitivi, gli Indiani d'America, per
esempio. Vuoi dire che non sono gli esseri umani in generale
ma è la nostra specifica società ad essere carente e distruttiva?"
"Sì. Guarda come si vive nelle altre culture: in pace totale, in
armonia con la Terra, le foreste, gli animali. Loro non

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costruiscono macchine belliche e non investono milioni di
dollari per aggredire altri Paesi i cui ideali politici contrastano
con i propri".
"Viviamo in una società malata!" disse bruscamente, quasi a se
stesso.
"E’ vero, e parte della malattia è che non siamo coscienti di
essere malati. La nostra società ha troppo da conservare, e
valori come la libertà sono posti alla fine dell'elenco". C’era
una sorta di rassegnazione nella voce di Jim. Lizze sentì una
sorta di fastidio.
"Ma non c'è qualcosa che un artista possa fare?” Pronunciò la
frase ad alta voce. Se ne accorse e aggiunse con tono più pacato
“Se tu, da artista, non senti di poter fare qualcosa, come puoi
andare avanti?"
"Io offro immagini, evoco i ricordi di libertà che possono
ancora essere raggiunti. Ma io posso soltanto aprire le porte,
non posso trascinarvi la gente attraverso. Io non posso liberarli
senza che essi vogliano essere liberi più di ogni altra cosa.
Forse i popoli primitivi hanno meno stronzate in cui credere, a
cui rinunciare, non si tratta soltanto della ricchezza. Tutte le
stronzate che ci hanno insegnato, tutto il lavaggio del cervello
della società. Si deve rinunciare a tutto ciò per raggiungere
l'altro lato. La maggior parte degli individui non è disposta a
farlo".
“Nel tuo materiale dei primi tempi, nel vostro primo album, c'è
la sensazione di una visione apocalittica, "aprirsi un varco",
una ricerca di trascendenza. La vedi ancora come una reale
possibilità?"
"Ora è diverso. A quei tempi si era soliti credere che fosse
possibile generare un movimento, la gente che si solleva e si
unisce in una protesta di massa, rifiutando di essere ancora
repressa. Avrebbero dovuto unire tutte le loro forze per
rompere ciò che Blake definisce "le manette forgiate dalla

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mente". I tempi della strada dell'amore sono finiti. Certo, è
possibile andare oltre, ma non a livello di massa, non con una
ribellione universale. Deve accadere a un livello individuale,
ogni uomo per se stesso; come si dice? Salva te stesso.
La violenza, come ogni altra cosa, non è di per sè malvagia.
Quello che è malvagio è l'infatuazione per la violenza".
Gli occhi di Jim erano semichiusi, quasi cercasse dentro di se le
parole migliori da usare. Fissava il soffitto e quando parlava lo
faceva a occhi chiusi, lentamente.
"Che cosa provoca l’infatuazione per la violenza?" chiese
Lizze.
"Se le energie e gli impulsi naturali vengono severamente
repressi per troppo tempo, essi diventano violenza. E’ naturale
per qualcosa che è stato a lungo compresso diventare violento
quando viene liberato; una persona che è stata troppo
severamente repressa prova grande piacere in quei rari, brevi e
violenti rilasci... Così si diviene infatuati della violenza".
A Lizze girava la testa. Stava seguendo Jim nei suoi discorsi,
ma gli sembrava di vagare in un labirinto. All’improvviso una
luce. "Ma allora, la vera fonte del male non è la violenza, o
l'infatuazione per essa, ma sono le forze repressive?"
"E’ vero. Ma in qualche caso l'infatuazione di un individuo per
la violenza implica una segreta complicità con i suoi
oppressori. La gente cerca i tiranni. Li adora e li sostiene.
Collabora con le limitazioni e le regole, e risulta incantata dalla
violenza implicita nelle loro brevi e sterili ribellioni".
Lizze sentiva le parole di Jim come vere, ne sentiva la sincerità
sulla pelle, e gli faceva male.
"Ma perché è così?"
"Per tradizione, forse: le colpe dei padri. L'America è stata
concepita con la violenza. Gli americani sono attratti dalla
violenza. Sono attratti oltre il lecito dalla tanto avversata
violenza. Sono ipnotizzati dalla televisione: la televisione è un

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invisibile velo che ci “protegge” dalla realtà. Il male della
cultura del Ventesimo Secolo è l'incapacità di sentire la propria
realtà. La gente si riunisce a grappoli davanti alla televisione, a
vedere telenovelas, film, commedie, idoli pop, e sperimenta
selvagge emozioni attraverso dei simboli. Ma nella realtà della
loro vita, essi sono emozionalmente morti".
Jim pronunciò la parola “morti” con un misto di disprezzo e
compassione. Versò nel bicchiere dell’altro whisky e lo bevve
d’un fiato. Poi mise le mani in tasca, ne trasse un joint, lo
accese e aspirò profondamente.
"Ma perché? Che cosa ci fa rifuggire dalle nostre sensazioni?"
Lizze aspirò profondamente il joint che Jim gli aveva passato.
L’odore di marijuana si spandeva per il locale.
"Abbiamo meno paura della violenza che delle nostre
sensazioni. Il dolore personale, privato, solitario, è più
terrificante di quello che chiunque altro può infliggere".
A Lizze girava la testa.
"Non capisco." Il viso di Jim era sfuocato.
"La gente tenta di nascondere i propri dolori, ma sbaglia. Il
dolore è qualcosa da portarsi appresso. Sperimentando il dolore
puoi sentire la tua forza. Sta tutto in come lo affronti. E’ questo
che conta. Il dolore è una sensazione, le tue sensazioni fanno
parte di te, sono la tua realtà. Se ne provi vergogna, e se le
nascondi, lasci che la società distrugga la tua realtà. Dovresti
combattere per il tuo diritto di sentire il tuo dolore".
Il giornalista guardò Jim attraverso il fumo. I suoi lineamenti
sembravano sfuggenti, la sua espressione serena, concentrata
ma gli occhi erano intensi, severi, vivaci. Sembravano guardare
oltre, scrutarlo nel profondo. Era affascinante e pauroso allo
stesso tempo.
"Ti vedi ancora come lo sciamano? Parecchi dei fan dei Doors
ti vedono come colui che li condurrà alla salvezza. Accetti
questo ruolo?"

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"Non sono sicuro che sia la salvezza quello che la gente vuole,
e neppure che io ve li possa condurre.” Sembrava triste. “Lo
sciamano è un guaritore, come lo stregone. Non credo che la
gente si rivolga a me per questo, non mi vedo come il
Salvatore".
"E allora per cosa si rivolgono a te? Cosa vede in te gente come
Alfred e tutti gli altri?"
"Vedo il ruolo dell'artista come sciamano e capro espiatorio. La
gente proietta le proprie fantasie su di lui e le loro fantasie
prendono vita. La gente può distruggere le proprie fantasie
distruggendo lui. Io obbedisco agli stessi impulsi di ciascuno,
ma non lo ammetterò mai. Attaccando me, punendomi, loro
possono sentirsi sollevati da questi impulsi".
"Era questo che intendevi prima, riguardo al fatto che la gente
prova emozioni selvagge attraverso i simboli, gli idoli pop ad
esempio?"
"Certo. La gente ha paura di se stessa, della propria realtà e,
soprattutto, delle proprie sensazioni. La gente parla di quanto
sia grande l'amore, ma questa è una stronzata. L'amore ferisce.
Le sensazioni sono fastidiose! Alla gente è stato insegnato che
il dolore è maligno, è pericoloso. Come possono avere a che
fare con l'amore se hanno paura di sentire?"
"E per questo che hai detto: "Mia sola amica, la Fine"? Parlavi
della morte vero?"
"Talvolta il dolore è troppo grande perché lo si esamini, o
anche solo perché sia tollerabile. E comunque questo non lo
rende maligno, o necessariamente pericoloso. Ma la gente ha
paura della morte, e più ancora del dolore. E’ strano che abbia
paura della morte. La vita ferisce molto di più della morte. Al
momento della morte, il dolore è finito. Sì, credo che sia
un'amica..."

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"La gente vede il sesso come il grande liberatore. Parecchie tue
canzoni sembrano indicare una strada che conduce alla libertà
attraverso il sesso?"
"Il sesso può essere liberatorio, ma può anche essere una
trappola".
"Che cosa fa la differenza?"
"Dipende da quanto una persona ascolta il proprio corpo, le
proprie sensazioni. La maggior parte delle persone sono troppo
occupate a coprire le proprie sensazioni per poterle ascoltare".
"Il sesso non può essere un modo per amplificare le
sensazioni?"
"La sessualità è zeppa di menzogne. Il corpo tenta di dire la
verità. Ma solitamente è troppo represso dalle regole per essere
ascoltato, è legato da catene così strette che difficilmente può
muoversi. Noi ci rendiamo zoppi con le nostre menzogne". Jim
chiuse gli occhi e scosse la testa.
"Come possiamo aprirci un varco tra regole e menzogne?"
Jim si lasciò andare sullo schienale della sedia. Spense il joint
nel posacenere, frugò nelle tasche e si accese una sigaretta.
"Ascoltando il nostro corpo, aprendo i nostri sensi. Blake ha
detto che il corpo sarà la prigione dell'anima fino a che i cinque
sensi non saranno pienamente sviluppati e aperti. Lui
considerava i sensi le "finestre dell'anima". Quando il sesso
coinvolge tutti i sensi, può essere una sorta di esperienza
mistica".
Lizze ascoltava quelle parole accurate, quelle citazioni colte,
guardava quei gesti eleganti e ne era estasiato. Raccolse i
pensieri, recuperò la concentrazione e disse:
"In diversi dei tuoi brani, come Crystal Ship, Soft Parade, Soul
Kitchen, presenti il sesso come una fuga, un rifugio o un
santuario. Io sono sempre stato affascinato dal modo in cui i
tuoi testi propongono paralleli tra sesso e morte: Moonlight

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Drive ne è uno splendido esempio. Ma questo non è il
definitivo rifiuto del corpo?"
"Niente affatto, è l'opposto. Se si rifiuta il proprio corpo, esso
diventa la tua cella di prigionia. E’ un paradosso: bisogna
andare oltre i limiti del corpo, ci si deve immergere in esso, si
devono spalancare i propri sensi... Non è così facile accettare il
proprio corpo; ci hanno insegnato che il corpo è qualcosa da
controllare, da dominare, processi naturali come pisciare e
cagare sono considerati sporchi. Le tendenze puritane muoiono
lentamente. Come può essere liberatorio il sesso se in realtà
non si vuole toccare il proprio corpo, se si tenta di eluderlo?"
Lizze rimase in silenzio. Si sentiva svuotato e allo stesso tempo
sereno e inquieto. I pensieri turbinavano nella sua mente in
maniera confusa. Cercò di riordinare le idee e, con uno sforzo,
provò a pensare a un’altra domanda. Che senso aveva un’altra
domanda, pensò. La sua rabbia aumentò. Rabbia e frustrazione.
Sentiva la verità delle parole di Jim, sentiva la prigione intorno
a se, sentiva il peso del suo recitare, il sudore sotto la maschera
ormai pesante sul suo viso.
Jim lo guardò e sorrise. “Basta con queste stronzate da filosofo.
Sono una rockstar ricordi? Sesso droga e rock and roll! E poi i
filosofi finiscono per impazzire abbracciando cavalli
piangendo!” Rise ma il suo sguardo era triste. ”Andiamo, ho
un paio di ragazze che mi aspettano in un altro posto. Vieni con
me?”
“No, ti ringrazio Jim. Vado a casa ora.” Si alzò e gli strinse la
mano. Jim gli diede una pacca sulla spalla.
“Come vuoi” rispose. E si avvio caracollando verso l’uscita,
canticchiando.
Lizze lo vide scomparire dietro la porta. Si guardò intorno. Il
locale era ormai vuoto. Spense il registratore, lo raccolse dal
tavolo, lo mise in tasca e uscì. La luce della luna piena gli fece
stringere gli occhi. Si avviò verso la spiaggia e vi si sdraiò.

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Poco distante da lui riconobbe Alfred infagottato nel giubbotto
di Jim. Sorrise. Anche lui era un’esule di Jim si disse. E con
questo pensiero si addormentò.

100
CAPITOLO XXI

9 gennaio 2001 Londra

Isobel smise di leggere l’intervista. Ormai mancavano poco


meno di sei ore alla cerimonia funebre della nonna. Era un
martedì grigio e piovoso e l’atmosfera di Londra era più grigia
e cupa che mai. Aveva preso l’intera settimana di ferie. Non
riusciva a immaginarsi al lavoro. Troppe cose le turbinavano
per la testa e il lavoro era l’ultima cosa a cui voleva pensare.
Aveva trascorso gli ultimi tre giorni totalmente immersa nella
musica dei Doors e nelle parole di Jim Morrison. Qualcosa
l’aveva catturata e l’aveva risucchiata in quella musica, in
quelle parole, in quell’atmosfera onirica da sogno-incubo.
Aveva letto e ascoltato con avidità tutto ciò che era riuscita a
trovare sull’argomento: la vita di Jim Morrison, le sue poesie,
la sua musica, le sue interviste. Soprattutto quest’ultima
intervista con Lizze James l’aveva colpita a tal punto da averla
letta e riletta almeno una decina di volte. Era colpita dalla
lucidità e dalla profondità delle risposte, dal ribaltamento della
prospettiva con cui venivano analizzati il dolore, la violenza, la
repressione, la morte. La morte. Era arrivato il momento
dell’ultimo saluto alla nonna. Non sapeva cosa aspettarsi.
Aveva provato a organizzare il funerale, ma la domenica
mattina aveva ricevuto una telefonata da un avvocato francese
che diceva di avere avuto notizie della morte della nonna e di
essere depositario delle sue ultime volontà e del testamento e
che avrebbe provveduto lui ad organizzare la cerimonia
funebre per il martedì secondo le volontà della nonna. L’aveva
esortata a non preoccuparsi di nulla a riguardo e che l’avrebbe
chiamata per darle comunicazione del luogo e dell’ora. E il

101
giorno successivo, mentre stava per uscire a fare due passi
aveva ricevuto la telefonata dell’avvocato che le comunicava
che la cerimonia di saluto, così l’aveva chiamata, si sarebbe
tenuta il giorno successivo a Parigi al cimitero di Pere Lachaise
e che aveva già prenotato un volo aereo per lei per la mattina
successiva. Isobel guardò l’orologio. Era ora di partire.
Telefonò al taxi, mise le ultime cose nella valigia, scese per
strada. Il freddo era pungente. Si strinse nel giaccone di velluto
mentre il taxi accostava in perfetto orario. La valigia era
pesante e il taxista la aiutò a caricarla nel baule dell’auto.
Aveva portato solo un paio di vestiti e, per il resto, era colma
dei libri della nonna. Li aveva presi con se tutti; aveva cercato
di scegliere quelli da lasciare a casa, ma le sembrava di doverli
portare tutti, una specie di tributo alla memoria della nonna.
Infilò la mano in tasca e lesse il biglietto su cui aveva preso gli
appunti sull’indirizzo dell’albergo e sul cimitero. Il cimitero di
Pere Lachaise: dove era sepolto Jim Morrison. Coincidenze,
ancora coincidenze. Si mise a pensare all’ultima volta che era
stata a Parigi. Non ricordava bene, era passato così tanto
tempo. Lei era nata a Parigi e ci aveva vissuto con mamma e
papà fino a… Ma non voleva pensarci ora. Era già abbastanza
doloroso pensare alla nonna.
Il taxi procedeva veloce nel traffico caotico. Arrivarono
all’aereoporto dopo una ventina di minuti che Isobel aveva
trascorso con il naso appiccicato al finestrino guardando le
strade, le auto e la gente passargli accanto. Congedò il taxista
con una mancia e si trascinò con la pesante valigia sino al
check in. Prese posto nel suo sedile di fianco al finestrino e per
tutto il viaggiò fissò le nuvole grigie sotto di lei. Una strana
sensazione di leggerezza e di pericolo la avvolse. Si immaginò
rimbalzare su quei soffici cuscini bianchi, sentì la sensazione di
libertà e il desiderio e la paura di provare. Scosse la testa. Che
cosa stupida! Guardò nuovamente fuori dal finestrino. Stavano

102
sorvolando il canale della Manica. Vedeva l’azzurro tappeto
del mare ricamato da rare onde biancastre che davano notizia di
loro fin lassù. Poi di nuovo nuvole. Il comandante comunicò
che erano ormai prossimi all’atterraggio. Si allacciò le cinture.
L’atterraggio fu brusco: Isobel trasse un sospiro di sollievo. I
viaggi in aereo le mettevano sempre un po’ di agitazione che
passava d’incanto con lo stridire delle ruote sull’asfalto della
pista di atterraggio.
Un taxi la condusse direttamente al cimitero. Mancava solo
mezz’ora alla cerimonia, non c’era tempo per passare all’hotel.
Parigi era illuminata da un pallido sole che rendeva l’atmosfera
quasi primaverile rispetto all’uggia e al grigio di Londra. Isobel
si sentiva rinfrancata: le accadeva tutte le volte che tornava
nella sua città natale, una sensazione di ritorno a casa, di
familiarità nonostante il caos da grande metropoli. Il taxi si
fermò dinnanzi al muro esterno del cimitero. Non era mai stata
in quel luogo prima d’ora. Si avviò verso l’ingresso: una serie
di vialetti ordinati, contornati da piccole case con delle croci
sulla sommità si intrecciano tra loro creando un labirinto di
dolore e pace, di serenità e tormento. Lapidi illeggibili, fiori
secchi, luci fulminate a fianco di mazzi di rose fresche, lapidi
lucide e curate: questo era il cimitero, un’interminabile dedalo
di fiori, tombe, lapidi, croci. Ogni vialetto aveva un nome,
come le strade delle città: erano le strade della città dei morti.
Isobel mise la mano in tasca ed estrasse il biglietto con gli
appunti che aveva preso durante la telefonata dell’avvocato
francese. Doveva trovare Avenue des Combattentes Etrangers
morts pour la France, dove doveva svolgersi la cerimonia
funebre della nonna. D’un tratto la sua attenzione fu attirata da
un gruppo di ragazzi, avranno avuto quindici-sedici anni, fermi
davanti a una tomba. Lasciò il vialetto che stava percorrendo e
si avvicinò; erano otto tra ragazzi e ragazze, gli sguardi assorti
a fissare la tomba innanzi a loro. Non aveva mai visto un

103
gruppo di ragazzi in un cimitero: si avvicinò ancora. Uno di
loro piangeva mentre gli altri si stavano passando una bottiglia
di birra alzandola ogni volta verso la tomba in segno di saluto.
In un attimo Isobel realizzò: era la tomba di Jim. Aspettò che i
ragazzi finissero la birra e, quando se ne furono andati, si mise
innanzi alla lapide: una semplice lapide con il nome e il
cognome e una scritta in greco che significava: fedele al suo
spirito. Fedele al suo spirito. Isobel rimase immobile per un
interminabile minuto in cui le passarono per la mente tutte le
parole e tutte le musiche che aveva letto e ascoltato nei giorni
scorsi, poi, come risvegliandosi da un sogno, ritornò al vialetto.
Guardò l’orologio: era in ritardo. Chiese indicazioni a una
signora anziana e si diresse quasi correndo nella direzione che
le era stata indicata. Scorse un gruppo di persone accalcate di
fianco a quella che sembrava una cappella. Arrivò ansimante e
si fece largo tra la folla. Una persona che non conosceva era al
centro e stava leggendo da un foglio che reggeva tra le mani. Si
avvicinò e si mise ad ascoltare.

“…Voi vivete come se doveste vivere per sempre,


non pensate mai alla vostra fragilità, non volete
considerare quanto del vostro tempo è già
trascorso: buttate via il tempo come se lo attingeste
ad una fonte inesauribile mentre, forse, quel giorno
che voi regalate a una persona o ad un’affare, è
per voi l’ultimo. Avete paura di tutto perché siete
mortali ma tutto bramate come se foste immortali.
Molte volte si sente dire: “A cinquant’anni mi
ritirerò a vita privata, a sessanta abbandonerò
ogni impegno”. Ma chi vi garantisce che vivrete
ancora? Come potete essere sicuri che tutto andrà
nel modo previsto? E poi non vi vergognate di

104
riservare a voi solo gli avanzi della vostra vita, di
dedicare al vostro equilibrio interiore solo il tempo
che ormai non può essere impiegato per nessuna
attività? E’ troppo tardi incominciare a vivere
quando ormai è ora di smettere. Impegnamoci:
solo in questo modo la vita sarà un bene: altrimenti
è solo un inerte attardarsi. E vergognoso anche, se
ci si attarda fra infamie e ignobili intenti.
Cerchiamo dunque che ogni momento ci
appartenga: ma non sarà possibile se, prima, non
cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.

Lucio Anneo Seneca”

Finito di leggere ripiegò il foglietto con cura e lo infilò


all’interno di un’urna arancione che era appoggiata su di un
drappo rosso ai suoi piedi. Quindi sollevò lentamente l’urna e
stringendola tra le mani entrò nella cappella alle sue spalle. Da
dietro di lei Isobel sentì intonare una lenta nenia, un mormorio
lugubre e monotono. Si voltò d’istinto e vide un lama vestito
con la classica tunica gialla e marrone che intonava il mantra di
congedo. Alcune persone al suo fianco si unirono alla nenia. La
persona che prima leggeva riemerse dalla penombra della
cappella. Il mantra cessò di colpo. L’uomo prese qualcosa da
sotto il drappo rosso e lo alzò sopra la testa, mostrandolo agli
astanti. Era uno specchio, dalla forma ovale e la cornice
argentata il cui riflesso, una fiamma fredda e cangiante, veniva
indirizzato tra la gente. “Ecco la morte! Ecco la vita!!” disse
l’uomo quasi gridando. Dal centro della folla partì un canto di
donna a cui subito si unirono altre voci femminili. Isobel
riconobbe il Lacrimosa della Messa da Requiem di Mozart. Il
riflesso dello specchio vagava tra gli astanti. D’un tratto si
fermò su di lei accecandola. Il canto si stava spegnendo. Isobel

105
rimase senza fiato, gli occhi semichiusi per il fastidioso
riflesso. Intorno a lei piombò il silenzio. Tremava senza
ragione, gli occhi serrati, il respiro affannoso. Sentiva tutti gli
sguardi degli astanti su di lei e questo la faceva sentire a
disagio, le sembrava di essere nuda, con sguardi lascivi che le
percorrevano le forme del corpo. Indietreggiò sperando di
sfuggire al riflesso, ma continuava a intravvederne il bagliore
che filtrava tra le palpebre serrate. Provò ad aprire gli occhi.
Dinanzi a se vide l’uomo di prima che, sorridendo, le porse lo
specchio dicendo “Ogni volta che cercherai la nonna, qui la
troverai.” Le pose in mano lo specchio e si allontanò tra la
folla. Isobel fissò il suo viso riflesso nello specchio. In silenzio
ciascuno degli astanti si recò innanzi alla cappella, chi facendo
il segno della croce, chi appoggiando un sasso sui gradini, chi
legando una fettuccia di stoffa alla grata della finestra, chi con
un semplice inchino, chi abbassando la testa, chi
inginocchiandosi. Isobel guardava questa scena con un misto di
tristezza e di stupore.
“Miss Isabel?”
Una voce la scosse dall’ammirare quel muto pellegrinaggio, si
voltò e vide un ragazzo il cui viso le pareva conosciuto.
Il cameriere dell’hotel!! Era incredula.
“Sì Miss Isobel, o forse dovrei chiamarLa Issi, sono io.
Sorpresa di vedermi qui?”
“Tu chi sei? Cosa fai qui? Cosa cerchi da me? Restituiscimi il
libro della nonna brutto bastardo!” urlò Issi strattonandolo per
la giacca.
Il ragazzo rimase immobile, abbassando lo sguardo. Isobel
lentamente si calmò e, ansimando, si sedette, le mani sul viso.
“Non sono stato io, anche se non ho fatto nulla per impedirlo”
le si avvicinò e le si sedette accanto “ ora sono qui per chiederti
perdono e per aiutarti.”

106
“Aiutarmi?” si alzò di scatto Isobel “Ladro, sei solo un volgare
ladro! In cosa potresti aiutarmi?”
“A recuperare il libro e a svelarne l’importanza, ma…..”
“Cosa intendi dire?” disse Isobel fissando il giovane negli
occhi come se si fosse resa conto per la prima volta di cosa
stessero parlando “Qualcuno ti ha ordinato di rubare il libro?
Chi? Perché?”
“E’ un discorso molto lungo Miss Isobel. Ma prima mi
permetta di presentarmi. Mi chiamo Hani. La prego di
ascoltarmi perché ho molte cose da dirLe. Ma non possiamo
stare qui, occorre un posto più discreto” disse alzandosi e
invitando Isobel a fare altrettanto.
La piccola folla che si era riunita per l’ultimo saluto alla nonna
era ormai sparita. Solo una signora con un tailleur nero con al
fianco una bimba dai lunghi capelli biondi era ferma innanzi
alla cappella. La bambina si girò e corse incontro a Isobel, la
prese per mano e la condusse di fianco alla cappella.
“Grace, non importunare la signora!!”
La bambina si chinò e iniziò a frugare con le mani nell’erba.
“Ecco!”disse soddisfatta”Guarda cosa ho trovato!”
Isobel si chinò per osservare da vicino. Una timida primula
gialla ancora in boccio cresceva in una crepa tra i mattoni.
“Una primula il 9 di gennaio a Parigi? E’ incredibile!”
“Non è bellissima?” le chiese Grace sorridendo “Non riempie il
cuore di allegria?” Poi correndo tornò ad aggrapparsi alla
gonna della madre che l’attendeva lungo il viottolo. Isobel
risistemò l’erba in modo da nascondere e proteggere quel
fragile bocciolo, poi si alzò in piedi. Hani era dietro di lei e le
stava sorridendo.
Isobel lo guardò intensamente. Non sapeva per quale motivo
ma sentiva che doveva fidarsi di questo sconosciuto. Si
avvicinò all’ingresso della cappella, rivolse un’ultimo pensiero
alla nonna e si avviò per il vialetto. Hani la stava aspettando

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accanto a un cipresso. Lo raggiunse e si avviarono fianco a
fianco per i vialetti del cimitero.

108
CAPITOLO XXII

16 gennaio 1882 Golfo di Genova

Posò la penna accanto alla candela. Il vento percuoteva


impetuoso le persiane, facendo scricchiolare le pareti di legno
della stanza. Si tolse gli occhiali, li appoggiò accanto alla
candela e si asciugò con il dorso della mano il sudore che gli
imperlava la fronte. Il vento fischiava tra gli alberi,
perpetuando un ululato sinistro. Un brivido lo scosse quando il
fiammeggiare di un lampo illuminò a giorno la finestra di
fronte a lui e il rombo del tuono ne fece tremare i vetri. Si alzò,
come scosso dall’eco di quello scoppio e iniziò a camminare
nervosamente attorno al tavolo, rileggendo il foglio che
stringeva tra le mani e che aveva appena finito di scrivere.
Tremava: era consapevole delle ripercussioni di ciò che aveva
scritto e quelle parole gli turbinavano nella mente,
incessantemente. Le aveva masticate per così tanto tempo che
era quasi stupito di averle sputate così di getto sul foglio. Si
fermò davanti alla finestra e osservò l’arrivo del temporale. La
casa dove alloggiava era situata al limitare di una pineta, su di
una piccola radura che finiva a strapiombo sul mare. Il mare
mugghiava feroce infrangendo onde gigantesche contro la
scogliera e sollevando schiuma bianca sino alla casa. Il cielo
era di un nero minaccioso, le nubi incombenti erano squarciate
da lampi e fulmini che illuminavano uno spettacolo terribile e
affascinante. Friedrich fissò quella scena con un leggero sorriso
sulle labbra: l’eco di quella pagina era giunto fin lassù, e non
era piaciuta. Si scostò dalla finestra e incominciò a leggere ad
alta voce, come per scacciare la paura che sentiva insinuarglisi
nel cuore.

109
«Non avete mai sentito parlare di quell'uomo pazzo che, in pieno mattino,
accesa una lanterna, si recò al mercato e incominciò a gridare senza posa:
"Cerco Dio! Cerco Dio!"

Si guardava intorno cercando i suoi interlocutori.

Trovandosi sulla piazza molti uomini non credenti in Dio, egli suscitò in loro
grande ilarità. Uno disse: "L'hai forse perduto?", e altri: "S'è smarrito come
un fanciullo? Si è nascosto in qualche luogo? Ha forse paura di noi? Si è
imbarcato? Ha emigrato?". Così gridavano, ridendo fra di loro... L'uomo
pazzo corse in mezzo a loro e fulminandoli con lo sguardo gridò: "Che ne è di
Dio? Io ve lo dirò. “

Prese fiato e quasi urlando:

“ Dio è morto!! Noi l'abbiamo ucciso - io e voi! Noi siamo i suoi


assassini!”

Ansimava, il volto madido di sudore. Doveva liberarsi di quel


peso, doveva udire quelle parole, anche se da se stesso, aveva
bisogno che le sue orecchie le udissero…..

“Ma come potemmo farlo? Come potemmo bere il mare? Chi ci diede la
spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la terra dal
suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non
continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati e in avanti? C'è ancora un alto
e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla
forse lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e
sempre più notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno? Non sentiamo
nulla del rumore dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo
l'odore della putrefazione di Dio? Eppure gli Dei stanno decomponendosi!”

Si aggirava per la stanza con le mani fra i capelli, cercando


vanamente uno sguardo, un volto amico.

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“ Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso! Come troveremo
pace, noi più assassini di ogni assassino? Ciò che vi era di più sacro e di più
potente, il padrone del mondo, ha perso tutto il suo sangue sotto i nostri
coltelli. Chi ci monderà di questo sangue?”

Si guardava le mani, pulendole sui calzoni lisi e umidi. Pareva


scorgesse su di esse il sangue di Dio.

“ Con quale acqua potremo rendercene puri? Quale festa sacrificale, quale
rito purificatore dovremo istituire? La grandezza di questa cosa non è forse
troppo grande per noi? Non dovremmo divenire Dei noi stessi per esserne
all'altezza? Mai ci fu fatto più grande, e chiunque nascerà dopo di noi
apparterrà per ciò stesso a una storia più alta di ogni altra trascorsa".

Si interruppe. Chiuse gli occhi e cadde in ginocchio, il viso tra


le mani. La tragedia greca. Il capro espiatorio. La follia. La
mania. Dioniso. Ebbe paura. Trasse un profondo respiro e
riprese a leggere.

“A questo punto l'uomo pazzo tacque e fissò nuovamente i suoi ascoltatori;


anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Quindi gettò a terra la sua
lanterna che andò in pezzi spegnendosi. "Vengo troppo presto, disse, non è
ancora il mio tempo. Questo evento mostruoso è tuttora in corso e non è ancor
giunto alle orecchie degli uomini. Per esser visti e riconosciuti lampo e tuono
hanno bisogno di tempo, la luce delle stelle ha bisogno di tempo, i fatti hanno
bisogno di tempo anche dopo esser stati compiuti. Questo fatto è per loro ancor
più lontano della più lontana delle stelle e tuttavia sono loro stessi ad averlo
compiuto! " Si racconta anche che l'uomo pazzo, in quel medesimo giorno,
entrò in molte chiese per recitarvi il suo Requiem aeternam Deo. Condotto
fuori e interrogato non fece che rispondere: "Che sono ormai più le chiese se
non le tombe e i sepolcri di Dio?"”

Chiuse gli occhi attendendo ciò che per lui era ormai
inevitabile. Non accadde nulla. Riaprì gli occhi ansimante. Non

111
c’era nessuno, eppure sentiva l’effetto delle sue parole, il
terrore propagarsi intorno a lui, il vuoto, la desolazione, l’eco
della sua terrificante verità. Cosa impediva a quella casa di
crollare, cosa al mondo di collassare su se stesso, cosa
impediva al fulmine di incendiare il mare, al mare di soffocare
le nuvole. Ogni punto di riferimento era cancellato, ogni
orizzonte era ucciso, ogni sicurezza disciolta, ogni verità
confutata. Dio, il fondamento primo e ultimo dell’esistenza era
morto e tutto era destinato a crollare con lui. Rise, di un riso
amaro, e mentre rideva tremava, tremava della stessa gioia e
della stessa paura che può provare un bambino appena venuto
al mondo, inconsapevole di tutto e perciò sommamente
consapevole.
L’uomo potrà avere la sua rivincità, l’uomo dovrà oltrepassare
se stesso, l’uomo dovrà irrompere nella vita con l’innocenza di
un bambino e la follia di un’ubriaco, abbeverandosi a se stesso
e risultandone mai sazio. Nessuna promessa, nessuna
punizione, nessun premio. La sua volontà, il suo desiderio, il
suo istinto. Nessun valore più alto di lui, della sua vita. Quel
pensiero lo fece vacillare.
In quell’istante sentì un lento mormorio. Sembravano i rami
degli alberi mossi del vento, ma pian piano il mormorio si
trasformò in una voce, dapprima flebile e sottile, poi man mano
sempre più forte e veemente. Tese l’orecchio per percepirne le
parole. Gli parve di udire la parola eterno. Si avvicinò alla
finestra e la spalancò. La corrente d’aria spense la fiamma della
candela e fece sobbalzare Friedrich che cadde carponi sul
pavimento, come schiacciato da un peso invisibile. Erano i
suoi pensieri, la sua mente che lo stavano schiacciando: quel
pensiero aveva come liberato una serie di pensieri che
covavano in lui da tempo immemore, inconsciamente, sotto
una cenere di convenzioni, tabù, ritualità, valori intoccabili, usi
millenari e insensati. Quel pensiero aveva spazzato via la

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cenere come il vento aveva spento la fiamma della candela, ma
ora una nuova luce si era accesa, una promessa di rivincita, il
riscatto dell’uomo padrone di se stesso. Sentiva le catene della
morale impedire ai suoi pensieri di percorrere le altitudini,
sentiva la necessità di un fine, di uno scopo, la necessità di
un’eterno a cui confinare e confidare le sue paure. Strinse i
denti e si rialzò. Sentiva la maledizione di quel Dio che aveva
sentito morto dentro di se, sentiva di avere aperto una partita
con la sua mente, una sfida mortale il cui prezzo sarebbe stato
la libertà o la follia. Eterno. Eterno. Il vento continuava a
mormorare ai suoi orecchi come un canto di sirena, un filo di
Arianna che lo seduceva e lo faceva smarrire.
Un lampo. Il tuono. Un’ombra alla finestra. Urlò. Si tappò le
orecchie per non udire la verità, una verità che aveva già
sfiorato in una passeggiata solitaria a Sils Maria ma che ora si
sentì pronunciare da labbra deformi stampate sul vetro: parole
terribili. L’unica eternità era quella? Meglio il Dio morto pensò
tremante. Vattene! Vattene!
Silenzio. La persiana della finestra sbatteva. Friedrich si alzò,
tornò al tavolo. La candela era di nuovo accesa. Si mise gli
occhiali e scrisse le parole che aveva udito e che ancora gli
tormentavano le orecchie.

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella
più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: "Questa vita, come tu ora la vivi
e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e
non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni
pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita
dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure
questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io
stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu
con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra digrignando i
denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto
una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata latua risposta: "Tu
113
sei un Dio e mai intesi cosa più divina"? Se quel pensiero ti prendesse in suo
potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti
stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: "Vuoi tu questo ancora una
volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il peso più
grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare
più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?”

Posò la penna e si addormentò. Come avrebbe voluto invece


svegliarsi. Ma l’incubo era tutto intorno a lui. E svegliarsi
voleva dire perire.

114
CAPITOLO XXIII

01 marzo 2001 Himalaya

Isobel si svegliò cullata dal cinguettare degli uccelli, scese dal


letto e si accostò alla finestra. I monti dell’Himalaya si
ergevano innanzi a lei in tutta la loro maestosa bellezza. D’un
tratto rabbrividì: era nuda. Si voltò e vide nel letto il profilo
dell’uomo che era con lei; il sangue le corse sulle gote e arrossì
come una bambina colta col dito nella marmellata: non era mai
stata così felice; non era mai stata così innamorata. E quel
giorno avrebbe finalmente incontrato la guida che li avrebbe
condotti nel posto indicato dalla nonna o, almeno, così le era
stato detto. Si sedette sul letto e si accese una sigaretta.
Com’era arrivata fin lì? Come era successo che quell’uomo,
Hani, era entrato nella sua vita come un tornado spazzando via
ogni cosa, rivoluzionando la sua esistenza? Lei non era mai
stata così: era una persona attenta, prudente, riflessiva e ora era
lì tra i monti, ai confini tra India e Nepal, con un ragazzo che
conosceva da poche settimane, nuda nella stessa stanza e,
incredibile a dirsi, era felice!
Aspirò profondamente la sigaretta e iniziò a ripercorrere i fatti
delle ultime settimane.
Dopo il funerale della nonna lei e Hani avevano passeggiato a
lungo per le strade di Parigi. Lei gli aveva proposto diverse
volte di fermarsi in diversi bistrot che avevano incontrato
cammin facendo ma lui rispondeva seccato che non era il caso;
sembrava nervoso, ogni tanto si guardava intorno con aria
furtiva come se si sentisse seguito.
Isobel lo aveva ascoltato in silenzio, attraversando gli stati
d’animo più contrastanti: dalla diffidenza allo sconcerto, dalla
rabbia allo stupore, dall’indecisione alla curiosità, dalla paura

115
all’incoscienza. Non sapeva esattamente quando si fosse
innamorata di lui, forse già a Londra. Ricordava le parole di
Hani come se le avesse udite in quel momento. Le ripercorse di
nuovo, così come aveva fatto diverse volte nelle ultime
settimane, come per convincersene, per verificare se qualche
tassello non fosse stato coerente col mosaico che Hani le aveva
fatto intravvedere.
“Dunque Isobel” le aveva detto il ragazzo ”Io non le ho rubato
il libro, è stato uno dei garzoni che erano con me. Non lo ha
fatto per un capriccio, è stato un furto su commissione.”
“Su commissione?” disse Isobel incredula “Su commissione di
chi? E per quale motivo?”
“Questo devo ancora scoprirlo. So’ che il fattorino appena è
tornato in Hotel ha fatto una telefonata poi si è recato dal
direttore. Sono stati chiusi nel suo ufficio diverso tempo, poi il
garzone si è congedato. E’ successo poco prima del suo arrivo
all’albergo.”
“Ma chi può avere interesse in un vecchio libro, un interesse
tale da organizzare un furto? E per quale motivo?”
“Sua nonna saprebbe risponderci. E’ per lei che io mi trovo qui
ora, come è per tener fede ad una promessa fatta a lei che sono
venuto io a casa sua a portarle gli effetti personali della signora
Morrison il giorno del furto.”
“Una promessa? Che genere di promessa?” chiese Isobel
incuriosita.
“La sera stessa in cui sua nonna morì stavo recandomi nel
nostro ufficio per togliermi la divisa e rincasare quando la
incontrai nel corridoio. La salutai ma lei mi fermò e mi rivolse
queste parole: non le dimenticherò mai:
“Hani” mi disse ”sei un ragazzo in gamba. Ti ho osservato tutti
questi anni: hai lo sguardo limpido e l’occhio puro. Stasera
termino la mia permanenza qui; l’ho capito ora e non ho fatto
in tempo preparare ogni cosa come avrei voluto. Devi farmi

116
una promessa: posso contare solo su di te ora: veglia su Isobel
mia nipote, avrà bisogno di aiuto e conforto nei prossimi
giorni.. Non so quanto ci metteranno a sapere dov’è… Se
capita qualcosa di strano, di insolito fate perdere il prima
possibile le vostre tracce e partite per il Nepal: lì cercate un
villaggio chiamato Namche Bazar e chiedete di un sherpa
chiamato Alpang Tenzing. Una volta trovato mostrategli
questo, lui capirà e vi condurrà in un luogo sicuro.” e così
dicendo mi porse questo anello”
Hani mostrò a Isobel un anello d’argento che riproduceva due
draghi intrecciati tra loro intenti a mordersi l’un l’altro la gola.
Io le dissi che non potevo lasciare il lavoro e che, comunque lei
non si sarebbe fidata di me. Sua nonna mi sorrise, con quel suo
modo unico che aveva di farlo, mi diede una busta contenente
20.000 sterline e mi disse:
“Queste dovrebbero aiutarti a mantenere la tua promessa.
Capisco che non sia facile per te e che in questo momento tu
sia molto confuso ma non posso spiegarti altro, non c’è più
molto tempo. Quanto a mia nipote Isobel ha un caratteraccio lo
so, è testarda e cocciuta, ma se le sarà ostile o mostrerà di non
crederle le dica che “dalle teste di marmo sono nate opere
d’arte, da quelle di legno solo segatura.” ”
Isobel, che fino a quel momento era restata incredula e scettica
sul racconto si fermò sorpresa. Era una frase che le ripeteva
spesso la nonna quando da piccola facevai capricci. Faceva
parte di quel linguaggio intimo che si viene a creare tra persone
che crescono insieme, quelle ritualità spesso ripetute e che
appena ascoltate danno subito la sensazione di casa, di già
visto, anche se a pronunciarle era un ragazzo pressocchè
sconosciuto.
“E tu hai accettato?” chiese Isobel sempre più stranita.
“Per questo sono qui”

117
“Tu pensi che mia nonna sia stata uccisa?” chiese Isobel a
bruciapelo, come fulminata da quel pensiero, con la voce
tremante dalla rabbia.
“E’ un pensiero che ho avuto anch’io ma in fin dei conti non
credo. Se lo scopo era il libro, non vedo perché non prenderlo
una volta uccisa sua nonna. Ce ne sarebbe stato tutto il tempo e
tu, posso darti del tu vero, non te ne saresti mai accorta. No,
credo che tua nonna sia morta di morte naturale e che questo,
anzi, abbia leggermente sconvolto i piani di questi individui.”
“Mia nonna le ha parlato del libro?”
“No, assolutamente. Sulle prime infatti non ho dato importanza
alla cosa (di furtarelli noi impiegati di hotel ne vediamo e ne
facciamo tanti, esiste una specie di complicità tra di noi) fino al
momento in cui ho visto il garzone telefonare e poi andare
direttamente nell’ufficio del direttore, cosa di per sé parecchio
inusuale. Poi quando, dopo il tuo arrivo precipitoso all’Hotel il
direttore ci ha convocato comunicandoci che il garzone si era
licenziato e che il giorno successivo sarebbe partito per le ferie,
ferie che non aveva in alcun modo preventivato, e dopo questo
annuncio ed aver passato le consegne aveva lasciato l’hotel in
maniera abbastanza affrettata, mi si sono aperti gli occhi e ho
capito che forse lui c’entrava qualcosa in quel furto, anche se
oramai era troppo tardi. Ho provato a ritrovare il garzone, ma
lo conoscevo da poco e non sapevo come rintracciarlo. E poi
immagino che fosse all’oscuro di tutto, che avesse solo
obbedito a un ordine un po’ strano del suo datore di lavoro o di
qualcun’altro.. Del resto in Hotel questo non sarebbe nemmeno
classificabile tra gli ordini più strani che ci vengono impartiti.”
Erano giunti ai giardini del Lussemburgo. Isobel si fermò.
“E ora che cosa facciamo?” era completamente disorientata. La
frase pronunciata dal ragazzo per conto della nonna aveva
abbattuto molte resistenze, ma il suo racconto continuava a
sembrarle fantascientifico anche se, una vocina nella testa le

118
sussurrava di fidarsi di quel giovane dallo sguardo superbo e
dal sorriso sincero.
Hani la guardò negli occhi.
“Dobbiamo prendere il primo volo per il Nepal. Ma prima
dobbiamo far perdere le nostre traccie. Può darsi che vi fosse
qualcuno mandato ad osservarla al funerale, nel qual caso non
sarà passato inosservato il nostro incontro e la nostra partenza
insieme. Non può tornare in albergo, non può tornare a
Londra.”
Isobel tacque. Le sembrava tutto così assurdo. In una settimana
la sua vita era stata sconvolta e, a quanto pareva, quello era
solo l’inizio.
“Non posso andare in Nepal” disse a bassa voce, più a se stessa
che a Hani “devo rientrare a Londra. Ho il lavoro, la casa…”
Ma mentre pronunciava quelle parole le venne in mente quanto
c’era scritto nella lettera che la nonna le aveva lasciato.
“Cerca Issi, ma soprattutto cerca dentro di te” Era incerta. In
realtà voleva capire: capire la nonna, le sue ricerche, e poi c’era
quel libro. Con somma incoscienza accettò.
“Va bene, ma credo che dovremmo usare parte delle 20.000
sterline che ti ha lasciato mia nonna. Io ho con me solo la carta
di credito e non basterà a lungo”
Hani sorrise. Anche lui pareva sconvolto dalla piega che la sua
vita aveva preso negli ultimi giorni, ma ormai il sorriso di
Isobel gli era entrato nel cuore.
Rimasero a Parigi per un’intera settimana, cambiando hotel
tutti i giorni per precauzione. Una precauzione che a lei
sembrava inutile ed eccessiva visto che nessuno pareva in
alcun modo interessarsi a loro. Durante quella settimana Isobel
potè far visita a tutti i luoghi cari alla sua infanzia e quel
viaggio nel tempo le fu sì salutare ma aumentò quella
malinconia che la perdita della nonna le aveva lasciato: ora era
sola. In realtà non era così. Lei e Hani si erano innamorati, e ci

119
misero poco a riconoscerlo. La morte della nonna le aveva
portato in qualche modo in dono l’amore di quel ragazzo. Lei
all’inizio era titubante; sconvolta dagli ultimi avvenimenti
aveva paura di scambiare, nella confusione emotiva di quei
giorni, la sua fragilità e il suo bisogno di protezione per
l’amore. Ben presto si dovette ricredere. Era innamorata come
mai pensava si potesse essere e anche Hani sembrava
ricambiare con uguale ardore.
Isobel si riscosse dai suoi pensieri quando le braccia forti di
Hani le strinsero le spalle facendola sdraiare sul letto.
“Dobbiamo vestirci e preparare gli zaini. E’ tardi, Alpang
Tenzing ci aspetta.”
Isobel lo guardò, gli prese il volto tra le mani e accostò le
labbra alle sue. Questo Alpang Tenzing avrebbe aspettato
ancora un po’…

120
CAPITOLO XXIV

09 dicembre 1964 New York

John estrasse il foglietto accartocciato dalla tasca, lo distese


con cura e lo pose sul leggio. Nello studio il silenzio era
assoluto: nella penombra poteva scorgere le luci della
strumentazione di Rudi e le sagome dei suoi compagni,
McCoy, Jimmy e Elvin. Fece un rapido cenno a Elvin che
subito squassò il silenzio con un profondo colpo di gong: la
cerimonia era incominciata. Impugnò il sax e fece scivolare le
dita sulla tastiera sibilando una slavina di note, uno schiarirsi la
voce, un mettersi a nudo per incominciare la cerimonia di
purificazione: ecco ascoltate, pensava John, ascoltatemi. Si
interruppe per lasciare spazio a Jimmy, a quel basso che
replicava le pulsazioni di un cuore fremente, di un malato che
vuole guarire, di un cieco che vuole vedere l’arcobaleno
almeno una volta. E, accanto a Jimmy, il contrappunto lento,
prezioso del piano di McCoy, tante gocce di rugiada appese a
quel cuore palpitante in attesa del Riconoscimento,
dell’Ammisione. John attese, attese fino a quando le note non
iniziarono a urlargli nel cervello e allora, solo allora le riversò
nel sax, prima con delicatezza, dilungandosi sulle armonie, poi
in modo via via più parossistico, lungo le scale dell’armonia e
della salvezza, reiterando le note, il pensiero, il concetto,
stridendo, stringendo i denti per la vergogna e l’esaltazione.
Ora John era un fiume in piena, le dita si muovevano sulle ance
selvaggiamente, per rincorrere i pensieri, le ammissioni, le
angosce: aghi nella carne, dita tremanti, pensieri annebbiati,
torpore, angoscia, stordimento, vergogna; il tunnel gli passò
innanzi, il buio della dipendenza, delle notti senza sogni e
senza note e la cosa più spaventosa di tutte: quel silenzio senza

121
musica. Chiuse gli occhi: sputò via il silenzio soffiando una
nota stridente, interminabile. Il tintinnare dei piatti di Elvin lo
riportarono alla realtà, sentì il pulsare di Jimmy e si conformò
a quella melodia per poi variarne gli accenti, mentre l’Amore
Supremo gli si avvitava nelle carni: scandì quelle note finchè
sentì che tutto era stato ormai suonato ma che forse occorreva
essere più chiari. Più chiari delle note di un sax? Lo specchio,
bisognava pulire lo specchio. Quasi senza accorgersene aveva
smesso di suonare, il ritmo di Jimmy, di Elvin e di McCoy era
rallentato, quasi si fossero accorti della solennità del momento.
John avvicinò le labbra al microfono del sax e… Supreme, a
Love Supreme, un Amore Supremo. Scandì quelle parole con
voce profonda, una voce che sembrava venire dal nulla e che
dal nulla si rivolgeva all’Eterno. Non c’erano più note, non
c’erano più strumenti, lui stesso era ora lo strumento e la lode,
l’amore supremo era tutto ciò che sentiva, tutto ciò di cui
risuonava e risplendeva il mondo intorno a lui: non più John,
non più McCoy, non più Elvin, non più Rudi laggiù dietro al
mixer; nulla esisteva più, solo la sua voce tremola, gutturale,
sgraziata, profonda in lode dell’Amore Supremo. Essere
strumento dell’eterno, finalmente! Lentamente tutto si spense,
il battito cessò, la voce cedette. Silenzio. L’Amore Supremo,
supremo.
Finita l’Ammissione fu la volta della Decisione, lunga sofferta,
spasmodica ma inevitabile e alla fine serena, poi venne la
Ricerca, caotica, viscerale, contorta, violenta e infine il Salmo,
il Ringraziamento.
John prese fiato e sistemò nuovamente il foglietto sul leggio:
era il momento in cui il suo sax avrebbe lodato Dio, Quale
presunzione! Come essere degni di ciò, come pregare e sentire
la preghiera oltre le note. Chiuse gli occhi e incominciò a
recitare la preghiera con il sax, scandendo le parole nota dopo
nota, accento dopo accento, aggettivo dopo aggettivo.

122
Conoscere Dio… Ogni vibrazione, suono, parola, discorso,
pensiero, paura, emozione. Tutte in relazione. Tutte create da
un unico e nell’unico riunite. A che Dio si stava rivolgendo?
Dio respira attraverso di noi. Ho visto la divinità. Cercare Dio
ogni giorno, in ogni modo. Il sax scandiva le note della
preghiera lento, solenne, accorato. Una benedizione e un invito.
Una richiesta di santità, un ringraziamento per le ore buie.
Il cielo dell’orizzonte e l’abisso delle note trascorse, l’incubo
delle note presenti e del silenzio tra di esse: eleganza.
Esaltazione. Grazia.
Appoggiò il sax, si asciugò la fronte, prese il foglietto tra le
dita, lo mise in tasca e uscì dallo studio, in silenzio, quasi in
punta di piedi. Nessuno lo vide più fino al giorno seguente.
Non una parola, non un gesto. Tutto inutile di fronte all’Amore
Supremo.

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124
CAPITOLO XXV

25 luglio 1873 Roche, Charleroi

Le rondini perpetuavano il loro eterno rincorrersi disegnando


ampie spirali nel cielo. Arthur salì lentamente sulla scala del
fienile, aggrappandosi con la mano sana e tenendo tra i denti il
taccuino, si sedette sulla paglia umida e fissò il sole
all’orizzonte. Il braccio gli doleva, un dolore sordo, distante ma
continuo, incessante, come un tarlo che perfora i più oscuri
recessi della sua carne. Si sentiva divorare, ma non era il vuoto
che la pallottola gli aveva creato nelle carni, l’odore acre di
polvere da sparo, lo scoppio, il precipitare del mondo in quella
ferita, in quella grinza di carne sanguinante da cui era sgorgata
tutta l’amarezza di quelle giornate; no, era la consapevolezza
dell’ineluttabilità del dolore a divorargli la mente. Ora odiava
Londra, odiava Bruxelles, odiava Verlaine, odiava le parole
che lui stesso aveva vergato un tempo, ebbro di gioia, di
speranza, di lussuria. Voleva cancellare ogni cosa: ogni verbo,
ogni insulto, ogni veleno sarebbero stati vani se la sua mente
non avesse distillato ancora parole, passione, poesia. Visioni di
oppio, satiri danzanti, rituali di iniziazione, inferno sulla terra.
L’occhio immenso del sole al tramonto lo fissava e lo
ammoniva; il bianco della pagina del taccuino era un insulto da
lavare con sangue d’inchiostro. Scostò le bende dalla ferita e vi
immerse le dita. Il dolore si fece intenso; strinse le labbra, levò
gli occhi al cielo cercando lo specchio delle nuvole. Le dita
sanguinanti tracciarono linee stentate sul taccuino. Ecco il
titolo, la sua firma più vera, più intima: la carta non lo
abbagliava più, ne aveva spento il fastidioso candore con
lacrime di sangue. Strappò la pagina. Ora poteva scrivere. La
semina era finita; la stagione del raccolto stava incominciando:
la sua Stagione all’Inferno. Le sue dita impugnarono la penna
125
intinta d’inchiostro e vergarono parole, frasi, anatemi, visioni.
Realtà e sogni collassarono in grumi di inchiostro, troppo fini e
lenti per rincorrere quel fiume di dolore, di immagini, di suoni.
Era sempre stato troppo lento per le parole: le ricorreva ma
esse fuggivano prima che l’inchiostro le catturasse e di esse
rimaneva solo un’eco distante e distorta, troppo diversa dalla
purezza dell’istante della loro creazione. Quanto dolore in
quella eterna rincorsa, quanto sale sulle guance, quanto sangue
da ferite innocenti. Non poteva fermarsi, la rincorsa era
incominciata e sarebbe terminata solo col silenzio. Il buio lo
colse di sorpresa. La luna piena innanzi a lui gli consentiva di
seguire a stento l’inchiostro che ondeggiava sulle pagine
d’avorio. Suono di civetta, volo di pipistrello, luce di stella a
perforare le sue carni e lenire le sue ferite. L’inferno sotto i
piedi e nella carne, la salvezza tra quelle righe di pece nera, in
quelle feritoie nel buio dell’infinito, in quella sfera di luna
senza tempo che chiedeva culto, preghiere, espiazioni. Incise
nella carta la più grande preghiera e la più roboante bestemmia
che l’animo umano avesse mai osato. Infine si accasciò
esausto, il suo viso sull’oro della paglia, il taccuino aperto sulle
parole definitive, le ultime: ”.. e mi sarà permesso di possedere
la verità in un’anima e in un corpo…“ che la luna illuminò con
il suo pudore di astro. La voragine si era chiusa, la ferita
cauterizzata, il dolore espiato con il peccato più grande:
scrivere la sua verità, il suo esorcismo definitivo. Si
addormentò. Visioni d’Africa. Silenzio di deserto, Assoluto!

126
CAPITOLO XXVI

7 marzo 2001 Tibet

Il sentiero si inerpicava aspro lungo il fianco della montagna.


Le cime delle montagne circostanti erano velate da nuvole
candide che ne nascondevano a tratti il profilo. Issi sollevò lo
sguardo dal sentiero per ammirare il panorama: una corona di
monti imperiosi e imponenti facevano da cornice all’altopiano
che stavano percorrendo fino a poco prima, quando avevano
lasciato il sentiero tra le erbe per inerpicarsi sul fianco della
montagna. Il villaggio distava ormai tre giorni di cammino ma
del monastero ancora non vi era traccia. Si voltò. Hani le
sorrise, il respiro trafelato per lo sforzo della salita aumentato
dall’altitudine e dal grosso zaino che portava sulle spalle.
Alpang innanzi a loro ne richiamò l’attenzione con un fischio.
Salirono fino allo sperone dove l’uomo li aspettava ritto su di
una roccia, indicando con il braccio verso l’orizzonte. Dietro al
fianco della montagna si spalancò alla loro vista un paesaggio
da sogno: una vallata verde e rigogliosa, dai fianchi di
smeraldo e dai pendii dolci e morbidi che sfociava in un lago
cristallino nel quale precipitava una cascata impreziosita da
un’arcobaleno così nitido e dai colori così sgargianti da
sembrare dipinto. Sul costone da cui l’acqua precipitava nel
lago sorgevano una serie di casupole strappate alla roccia della
montagna, con i profili delle finestre e delle porte appena
riconoscibili nel candore indistinto del basalto del monte. E,
sullo sfondo, la catena di monti imbiancati, incoronati da
sprazzi di nuvole e incastonati in un cielo turchese. Rimasero
alcuni istanti senza fiato. L’incanto di quel luogo si era
materializzato innanzi a loro con la potenza di un sogno e la
luminosità di uno specchio. “Lendi Eleusi” disse lo sherpa
facendo una specie di inchino. “Ora dovete proseguire da soli”

127
disse scendendo con un balzo dallo sperone. Issi e Hani si
guardarono stupiti. “Non vieni con noi?” chiese Issi.
“Non mi è concesso varcare il sacro suolo, non ancora: narra la
leggenda che chiunque varchi il portale del sole ai piedi del
monastero e non decida di restarvi per il resto della sua vita
andrà incontro alla morte entro un’anno da quel giorno.” Issi
sbiancò in volto e strinse la mano di Hani facendolo
sobbalzare.
“Grazie Alpang, grazie per la tua preziosa guida. Che il
sentiero ti sia propizio” disse Hani che sembrava non essere
minimamente turbato dalla leggenda appena udita. “Andiamo
Issi, le risposte alle nostre domande sono lassù” e indicò il
monastero sopra la cascata. Issi lo guardò per chiedergli se ne
valeva la pena ma, quando incrociò il suo sguardo capì che era
la cosa giusta da fare.
“Andiamo!” disse infine risoluta e incominciarono a discendere
rapidamente il sentiero. Si trovarono su di un falsopiano: il
sentiero girava bruscamente a sinistra per finire sul greto di un
torrente che scorreva tempestoso pochi metri più in basso;
sopra di esso, teso fra due alberi, un ponte tibetano indicava il
prosieguo del loro cammino. Uno alla volta affrontarono il
guado, solleticati dagli spruzzi del torrente che mugghiava
sotto i loro piedi. Quando misero piede sull’altra sponda si
sedettero sull’erba a riposare e ad ammirare nuovamente quello
splendido paesaggio da una nuova prospettiva. Erano ormai in
prossimità del lago, quasi a ridosso del costone di basalto da
cui cadevano le acque della cascata e da cui potevano scorgere
i contrafforti del monastero. Issi e Hani si alzarono quasi
all’unisono e si incamminarono sul sentiero che era tracciato
tra un fitto bosco di conifere e il torrente. Lo scroscio della
cascata si unì al rombo delle acque del torrente in un rumore
crescente che sovrastava qualsiasi suono. Issi e Hani si
abbracciarono mentre il sentiero esauriva la sua corsa sul

128
limitare del lago. Innanzi a loro l’arco dell’arcobaleno fendeva
in due la cascata, mentre una nebbia fine e rinfrescante li
avvolgeva. Il sole era alto sopra di loro e tutto sembrava come
sospeso, una fissità affascinante e spettrale allo stesso tempo,
come ragnatele d’argento cullate da una brezza notturna. Si
ripresero dal torpore che li aveva circondati e iniziarono a
guardarsi intorno alla ricerca del sentiero che doveva condurli
al monastero. Iniziarono a vagare intorno al lago ma non
trovarono nulla. La parete della montagna era liscia e bianca,
senza alcun sentiero visibile che la risalisse. Cercarono in ogni
direzione ma non riuscirono a trovare il benchè minimo segno
di un passaggio, di un sentiero. Si sdraiarono sull’erba in preda
allo sconforto. “E ora?” chiese Isobel sconsolata? “Ci deve
essere un passaggio, Alpang ha parlato di una fantomatica
Porta del Sole…..”
“La porta del sole si cela agli occhi dei novizi perché essa porta
alla conoscenza, e la conoscenza è solo di chi sa osservare con
occhio puro!”
Hani e Isobel si voltarono di scatto per la sorpresa: alle loro
spalle, appoggiato a un alto abete stava un uomo alto, con il
viso bruciato dal sole, i capelli bianchi raccolti dietro la nuca a
lasciare l’ampia fronte scoperta e una lunga barba anch’essa
bianca che incorniciava un sorriso spontaneo e sereno.
“Chi è lei?” chiese Isobel bruscamente.
“Un pellegrino signora, un semplice pellegrino.”
“Lei sa dove si trova la porta del sole?”
“Certamente, è da lì che vengo.”
“E potrebbe dirci dove si trova?” chiese Isobel impaziente.
“Prima però dovete dirmi per quale motivo volete recarvi al
Monastero di Eleusi.” disse il vecchio avvicinandosi
lentamente ”Come fate a conoscere l’esistenza di questo luogo?
E poi, due giovani come voi cosa possono mai cercare in
questo posto?”

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Isobel e Hani invitarono il pellegrino a sedersi accanto a loro e
gli spiegarono per sommi capi lo scopo del loro viaggio,
inventando una storia su come erano venuti a conoscenza di
Lendi Eleusi e di come erano decisi a recarsi al monastero per
cercare delle risposte alle loro domande.
Il vecchio li ascoltò in silenzio senza battere ciglio. Quando i
due finirono il loro racconto prese il bastone che aveva con sé e
che aveva appoggiato al suo fianco e con esso incominciò a
tracciare dei segni sul terreno. Poi, traendo un profondo
respiro, disse:
“Bene, credo che vi mostrerò la Porta del Sole. Prima però
voglio che mi ascoltiate attentamente e, una volta che avrò
terminato mi direte se sarà ancora vostra intenzione sapere
dove si trova l’ingresso al Monastero. Narra una leggenda di
questi luoghi che ogni essere umano, uomo o donna che sia, ha
a disposizione tre momenti nell’arco della propria esistenza in
cui raggiunge e tocca il Divino: due sono comuni a tutti, la
nascita e la morte, il terzo è, o dovrebbe essere, ciò che
potremmo definire “il momento culminante della nostra
esistenza”. Si dice che ogni uomo che abbia calpestato questo
pianeta ha avuto la possibilità, almeno una volta nella vita, di
toccare il Divino, di elevare il proprio spirito su di un piano
superiore, di oltrepassare il limite fisico che ci incatena
quaggiù: questi attimi possono essere improvvisi e imprevisti
come folgori, oppure possono essere raggiunti attraverso anni
di ricerca, di affannoso adoperarsi nei più svariati modi per
arrivare al contatto ma tutti, stando sempre alla leggenda,
hanno almeno una occasione. A tanti però tali momenti
sfuggono, distratti dalla loro quotidianità, intorpiditi dal
proprio benessere o obnubilati dalla ricerca del successo, della
fama, del denaro; la maggior parte di noi esseri umani non
coglie tale possibilità unica e irripetibile. Ci sono però persone
che lo hanno fatto, che in un attimo fecondo hanno sfiorato

130
l’Assoluto e di alcune di esse possiamo tentare di ricordare le
gesta e le opere affinché possano essere da monito e da
esempio per chi li seguirà. In quei momenti infatti ciò che
opera attraverso l’uomo, che ne sia consapevole o meno questo
non importa, è pura Ispirazione, pura Creatività, pura
Immaginazione, pura Estasi, pura Consapevolezza e le opere
prodotte in tali momenti travalicano il loro significato primo,
superano le barriere del nostro animo per parlarci in una lingua
universale, che coglie l’essenza di ogni essere umano e ce le
restituisce nella forma più pura. Da questo punto di vista
grande importanza rivestono le opere di filosofi, poeti,
musicisti pittori, quelli che noi chiamiamo artisti o pensatori.
Le loro opere, quando sono toccate da tale Ispirazione, sono
come dei talismani, delle chiavi per accedere a una
consapevolezza superiore o comunque “altra” rispetto a quella
che abbiamo tutti i giorni. In certe opere sono rimasti
incastonati frammenti di quelle visioni, di quelle sensazioni e
da tali opere occorre partire per decifrare il messaggio o, forse,
per trovare la strada per amplificarlo e diffonderlo.
Ecco sulla base di tale leggenda, che poi leggenda non è, le
persone che stanno in quel monastero lassù hanno scelto di
dedicare la loro vita allo studio e alla ricerca delle e sulle opere
toccate dalla Somma Ispirazione, da “attimi di divino” che esse
portano in se come nocciolo oscuro e lucente al tempo stesso.
Qui ogni uomo può trovare risposte, ma può porre anche
domande e, se reputate degne, tali domande saranno discusse in
una pubblica riunione con tutti gli ospiti del monastero. Ma è
un evento raro: si narra che l’ultima persona che sia riuscita a
porre una domanda degna della pubblica discussione fu Xiao
Deng più di XX secoli fa. L’onore di tale risposta ha però un
vincolo: colui che pone tale domanda e che ne riceve pubblica
discussione e risposta non potrà più lasciare il monastero e
portare la risposta ricevuta nel mondo, o andrà incontro a morte

131
certa entro un anno. Questo vuole la leggenda e la tradizione di
questi luoghi.” Si interruppe lisciandosi con la mano sinistra la
folta barba poi, continuando a tracciare linee sinuose sul
terreno, chiese: “Volete dunque che vi mostri l’ingresso?”
Isobel e Hani si guardarono per un istante, poi Isobel annuì
impercettibilmente.
“Ragazza, lo vuoi?” chiese il vecchio guardandola negli occhi.
“Sì, voglio andare al monastero, e che succeda quello che deve
succedere.” disse tutto di un fiato.
“Va bene, allora seguitemi” e appoggiandosi al bastone si
sollevò in piedi e si avviò con passo deciso dentro al lago
immergendosi sino alle spalle.
“Avanti, che aspettate? Seguitemi!” li ammonì voltandosi.
Isobel e Hani si scambiarono uno sguardo interrogativo, poi
presero a entrare nel lago. L’acqua era gelida e Isobel si chiese
come facesse il vecchio a non mostrare il minimo segno di
disagio. I denti le battevano e, alle sue spalle sentiva quelli di
Hani fare altrettanto. Erano giunti ormai con l’acqua fino alla
gola quando il fondale del lago si rialzò lentamente,
permettendo a Issi di riprendere fiato, rotto dal gelo e dai
tentativi di restare a galla. Erano ormai in prossimità della
cascata, e sopra le loro teste l’arcobaleno incoronava il loro
affannoso avanzare. Attraversarono lo scroscio seguendo il
vecchio, che videro fermo dinnanzi a una caverna scavata nella
roccia della montagna.
“Ecco la Porta del Sole, oltre l’Arcobaleno, sotto la roccia,
entro la terra, attraverso l’acqua. Qui parte la galleria che vi
condurrà al Monastero. In essa ardono numerosi fuochi, in essa
i quattro elementi si riunificato: Acqua, Terra, Aria, Fuoco. Il
vostro percorso spirituale continua. Che il sentiero vi sia
propizio. Io ritorno alla mia dimora. Quando arrivate al
monastero dite che Anrham vi ha mostrato la Via.”

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“Anrham? E’ questo il tuo nome?” chiese Isobel tremando per
il freddo.
“Anrham è il nome con cui sono conosciuto dalle genti di
questi luoghi ma voi potete chiamarmi Leo, come il grande Da
Vinci. Arrivederci e che la pace sia il vostro sentiero!” e così
dicendo ritornò sui suoi passi, oltre la cascata, oltre
l’arcobaleno.
Isobel e Hani si guardarono poi, senza parlare, incominciarono
a inoltrarsi nella grotta. Trovarono, dopo una stretta svolta sulla
loro destra, una serie di torce accese attaccate alla roccia. Hani
ne prese una e fece strada a Issi nel buio.

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134
CAPITOLO XXVII

7 marzo 2001 Lendi Eleusi

Isobel e Hani riemersero dopo una decina di minuti trascorsi


salendo una specie di scala a chiocciola scolpita nella bianca
roccia all’interno della montagna. Frastornati e abbagliati dalla
luce si ritrovarono su di un ampio terrazzo delimitato da un
muretto rettangolare di pietre, con un tappeto di erba color
smeraldo che accarezzava loro i piedi. Si affacciarono al bordo
del muretto e si resero conto di essere proprio al di sopra
dell’arco dell’arcobaleno, con la cascata esattamente a fianco a
loro. Sulla loro destra un arco di pietra formato da due draghi
avvinti l’uno all’altro, del tutto simili a quelli rappresentati
nell’anello che la nonna aveva dato a Hani, mostrava l’inizio di
un piccolo sentiero ciottoloso che portava a una grande porta
sul lato della parete del monte. Si presero per mano e,
oltrepassato l’arco, si fermarono innanzi alla porta. Era un
grande portone di legno, scuro e bucherellato dai tarli, con
diverse figure intarsiate; Isobel riconobbe di nuovo il simbolo
dei due dragoni avvinghiati, un’aquila con tra le zampe un
serpente, una testa di leone con la criniera fiammeggiante.
Sull’arco della porta era incisa la seguente frase: Et Lucem
Etiam Ubi Sempiterman Ioventute. Isobel sobbalzò stupita:
ricordava perfettamente dove aveva visto quella frase: sul
frontespizio del libro! Guardò Hani e capì che anche lui aveva
notato la cosa.
“Ci siamo Issi, ci siamo!” le disse stringendole più forte la
mano.
“Mi chiedevo com’è possibile una frase in latino qui in Tibet,
in un posto che sembra avere millenni di storia.” osservò lei

135
con aria stupita. Si guardò nuovamente intorno: sul lato sinistro
del portone vi era un piccolo gong con il suo martelletto appeso
al fianco. Guardò Hani che le fece cenno di sì con la testa,
prese il martelletto e colpì il gong. Il suono acuto e squillante si
propagò per la terrazza fino a fondersi con lo scroscio della
cascata. Attesero in piedi quelli che a loro parvero diversi
minuti prima che un rumore di sbarra che si solleva
preannunciasse l’aprirsi lento della pesante porta innanzi a
loro. Alla loro vista si presentò un monaco tibetano, di
corporatura minuta, con la tunica arancione-amaranto, i capelli
rasati, un ampio sorriso dipinto sul volto.
“Benvenuti stranieri, benvenuti al Monastero di Eleusi. Cosa vi
porta in questi luoghi?” disse il monaco sorridendo ma con uno
sguardo interrogativo e penetrante.
“Siamo due cittadini del mondo. Cerchiamo risposte. Anrham
ci ha indicato la via attraverso la Porta del Sole.” rispose Isobel
sentendosi alquanto a disagio per quei due occhi intensi che la
fissavano.
“Che le domande siano ben poste e che le risposte possano
illuminare le vostre esistenze. Venite, entrate, vi mostrerò
l’alloggio dei pellegrini. Attenderete lì la convocazione del
Consiglio. Posso sapere i vostri nomi?” disse il monaco dopo
alcuni attimi di silenzio.
“Io mi chiamo Hani Hanjour, lei è Isobel Morrison.”
Per una frazione di secondo sul volto del monaco apparve
un’ombra di sorpresa, o così sembrò a Isobel.
“Benissimo! Seguitemi.”e così dicendo spalancò il portone.
Ciò che nascondeva era un’ampia loggia ad arco con affreschi
e decorazioni alle pareti che percorsero fino a un chiostro
interno. Da lì seguirono il monaco per un’ampia scalinata che li
condusse al piano superiore. Durante il tragitto incrociarono un
altro monaco, alto, robusto, con un grande paio di occhiali e un
giovane occidentale, jeans e maglietta che camminava di fretta

136
attraverso il chiostro. Isobel e Hani si guardarono intorno
stupefatti dalla bellezza degli ambienti che stavano
percorrendo: seguirono il monaco per un lungo corridoio, sul
lato destro del quale si aprivano numerose porte mentre,
dall’altro lato, una immensa vetrata dava vista sul panorama
mozzafiato delle montagne circostanti e sul lago nella radura
sottostante. Il monaco superò la vetrata, si fermò innanzi ad
una porta, la aprì e li invitò ad entrare.
“Attendete qui. Il consiglio è stato indetto tra un’ora. Se sarete
fortunati sarete ammessi per quel tempo, altrimenti dovrete
attendere nuove notizie. Vi prego di non muovervi fino a nuova
indicazione” e con un’inchino uscì chiudendo la porta dietro di
se.
Isobel si guarò intorno. Quella stanza le era in qualche modo
famigliare anche se non riusciva a capire come potesse esserlo.
Sulla parete destra c’era un caminetto, con il fuoco acceso,
sulla parete sinistra uno scrittoio sormontato da alcuni scaffali
ricolmi di libri. Si fronte alla porta c’era una piccola finestra
chiusa d un’inferriata. Isobel si avvicinò alla finestra e ammirò
nuovamente il panorama circostante, seppure con una visuale
meno ampia ed emozionante di quella che aveva sperimentato
dalla vetrata. Si sedette sulla sedia di fronte allo scrittoio. Hani
era di fianco alla finestra, lo sguardo perso nel panorama delle
cime innevate.
“Che strano posto, strano e affascinante allo stesso tempo”
disse Isobel “ha un’aria famigliare, mi sembra di esserci già
stata, soprattutto questa stanza, ma non riesco a capire co...” la
porta si aprì all’improvviso e il monaco con gli occhiali che
avevano incrociato prima sulle scale entrò, fece loro un inchino
poi, guardando Isobel disse:
“Seguitemi, il consiglio vi attende.”
“Ma non doveva essere tra un’ora?” chiese Isobel.

137
Il monaco non rispose ma fece cenno nuovamente di seguirlo.
Si mossero entrambi verso la porta, ma il monaco disse
rivolgendosi a Hani:
“Lei dovrà aspettare qui” Hani si irrigidì, ma Isobel lo guardò
facendogli un cenno di assenso.
Issi e il monaco uscirono nel corridoio, lo percorsero a ritroso
e, giunti alle scale, salirono al piano superiore, girarono a
sinistra in un’ampia loggia del tutto simile a quella d’ingresso
con un’ampia vetrata che mostrava le montagne all’orizzonte.
La loggia terminava presso un grande portone dorato. Il
monaco si fermò e si congedò da lei con un inchino. Isobel
afferrò uno degli enormi battenti, anch’essi raffiguranti due
draghi avvinghiati tra loro e percosse la porta. L’eco del colpo
si propagò per la loggia, rimbombando sinistramente. Poi
lentamente la porta si aprì e Isobel entrò.
Si ritrovò in un’ampio salone con una immensa vetrata sulla
parete destra. Sulle altre pareti, disposti a semicerchio vi erano
una serie di persone sedute. Isobel esaminò i loro visi
rapidamente: tutti avevano lo sguardo rivolto a lei e così potè
memorizzare rapidamente le fisionomie di molti di essi. Vi
erano persone di ogni età, razza, sesso, una congregazione
eterogenea, molto colorata e composta. Isobel si sentiva in
soggezione con quegli sguardi puntati addosso, anche se in
nessuno di quelli che incrociò notò il benchè minimo astio o
segno di ostilità. Le persone erano sedute su dei sedili di legno
scuro in un semicerchio che ricordava i cori delle cattedrali
gotiche europee. Al centro del semicerchio era posta una specie
di fontana dalla quale zampillava un rivolo d’acqua. Di fronte
alla fontana, su di un seggio posto leggermente più in alto
rispetto a quello degli altri convenuti, stava un vecchio, di età
indefinibile, con una lunga barba bianca che ricordava quella di
Anrham, i tratti somatici occidentali, lo sguardo intenso e

138
penetrante. Indossava una tunica azzurra e teneva tra le mani
un libro.
“Salute a te viandante. Benvenuta al Monastero di Eleusi.
Accosta le tue labbra alla Fonte della Purezza e monda i tuoi
pensieri da tutte le scorie depositate dalla stanchezza e dalle
consuetudini. Poi potrai raccontarci la tua storia e porci i tuoi
quesiti. Ricorda: ogni domanda è figlia di altre domande e
nasce gravida di molte altre ancora. Le risposte sono aghi che
trafiggono, possono toccare e ferire ma se pronunciate con
serenità non sono mai per il peggio.” Il vecchio sull’alto
scranno aveva pronunciato queste parole alzandosi in piedi e
con un tono solenne ma rasserenante. Isobel sentì la tensione
sciogliersi. Si avviò verso la fontana, si bagnò le mani e da esse
bevve un sorso di quell’acqua zampillante poi, rivolta al
vecchio sullo scranno, chinò il capo in segno di saluto e di
rispetto.
“La pace sia con te. Quali sentieri ti hanno portato fino a
questo posto, il più remoto tra i remoti e, prima ancora, qual è
il tuo nome?”
“Mi chiamo Isobel Morrison e il motivo per cui sono qui è la
ricerca di un libro” disse Isobel schiarendosi la voce per
l’emozione. Al pronunciare il suo nome un brusio si levò dagli
astanti. Isobel girò il capo con aria interrogativa.
“Isobel Morrison? La nipote di Tina Morrison?”
Isobel impallidì e annuì. Conoscevano la nonna? Fece per
parlare ma fu interrotta dalle parole del vecchio:
“Tina Morrison è stata nostra ospite per molto tempo, in molte
occasioni e ci ha aiutato portando avanti importanti ricerche.
Ma forse è meglio, prima che tu ci racconti la tua storia, farti
capire cos’è questo luogo e perché persone di ogni età, razza,
religione convergono dai più disparati paesi in questo piccolo
rifugio sperduto nello spazio e nel tempo. In questo luogo, che
non è luogo di culto ma che ha i suoi riti, che non è una

139
istituzione ma che ha le sue regole, che non è fine a se stesso
ma che ha le sue tradizioni, si studia e si ricerca l’uomo o
meglio si cerca ciò che accomuna e rende insieme irripetibile
ogni uomo: la sua natura spirituale o, se vuoi, divina. In ogni
uomo esiste una spinta verso il trascendente, più o meno
consapevole, più o meno avvertita, più o meno assecondata.
Anche l’uomo più materialista ha incontrato, vissuto, letto,
ascoltato cose che lo hanno fatto interrogare sul suo fine, sullo
scopo della sua esistenza, sul significato del mondo in cui noi
viviamo. Non tutte le persone hanno la voglia, la capacità, gli
strumenti, noi lo chiamiamo “il dono” di affacciarsi e
sprofondarsi in queste domande ma, nel corso della storia vi
sono stati diversi uomini che hanno interrogato se stessi e la
propria arte e che, in attimi sfuggenti o in giornate febbrili sono
stati toccati da quella che noi chiamiamo Somma Ispirazione e,
sotto il suo influsso, hanno scritto, dipinto, scolpito, suonato,
lasciando in queste loro opere o gesta brandelli di
Consapevolezza, di Illuminazione, di Grazia, di Divino.
Ebbene in questi luoghi si ricercano e studiano tali opere, le
vite e i percorsi di chi le ha compiute. Lo scopo di tutto ciò è
cercare nelle opere quel filo conduttore che le guida tutte e che
si può percepire a tratti solo in certi magici momenti, in cui
tutto sembra “avere senso”, in cui tutto si risolve nell’Unità,
nell’Armonia, in quello che potremmo chiamare Divino,
termine che non ha per forza una connotazione religiosa, ma
spirituale. Ecco, qui si ricerca il Divino che esiste in ogni opera
e in ogni vita. Qui sono passati poeti, matematici, fisici,
musicisti, pittori ma anche gente comune, muratori, impiegati,
negozianti, persone che hanno percepito un filo sotteso alle
proprie vite, alle proprie azioni, al mondo che ci circonda e
hanno deciso di seguire tale filo e questo inseguimento li ha
spesso condotti qui. Tina Morrison è stata per lunghi periodi
una di queste persone anche se la sua partenza improvvisa ha

140
lasciato in molti di noi l’amarezza di un’esperienza incompiuta.
Ma questo è un altro discorso. Ti prego, quando tornerai da lei
di portarle la mia benedizione e la mia pace.”
“Mia nonna è morta, signore. E’ morta a Londra non più tardi
di due mesi fa. Il cuore. Mi ha lasciato tutti i suoi libri, uno dei
quali è il motivo della mia presenza qui”
Un moto di stupore attraversò gli astanti. Tina Morrison era
morta.
Il vecchio, udite quelle parole, si alzò in piedi e così fecero
quelli che le sedevano intorno, poi scese dallo scranno, si
diresse verso una piccola porta che stava alle sue spalle e vi
entrò; ne uscì poco dopo con le mani giunte innanzi a se, si
pose davanti all’immensa finestra e fece un cenno a una donna
che stava in piedi al suo fianco. Questa, apparentemente senza
alcuno sforzo, aprì la finestra. Il vecchio vi si affacciò e aprì le
mani dicendo:
“Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo
chiama farfalla. Vola libera e che la tua forma sia splendida
come le ali che ti sostengono. Che la pace sia il tuo sentiero!”
Isobel fu stupita dall’udire di nuovo la frase che le ripeteva
sempre la nonna, ma lo fu ancora di più quando vide una
farfalla dalle bellissime ali blu volare via dalle mani del
vecchio. Si voltò e vide che tutti gli astanti, in piedi accanto ai
loro scranni, abbassarono la testa con devozione. A Isobel si
bagnarono gli occhi di lacrime che trattenne a stento. Il vecchio
ritornò al suo posto e si sedette, così come tutte le persone
intorno a Isobel.
“Quella frase,” disse Isobel quasi sottovoce “quella frase me la
ripeteva spesso la nonna. E quella farfalla: feci anch’io una
cosa simile il giorno in cui morirono i miei genitori. E’ tutto
così confuso…” Calde lacrime le scendevano ora lungo le gote.
Si nascose il viso tra le mani singhiozzando quando sentì una
carezza sulla testa. Si voltò e tra le lacrime vide la figura di una

141
ragazza che, anche lei con le lacrime agli occhi, le prese una
mano e la strinse a se con forza. Quella stretta le fece smettere
di piangere, e sentì come una nuova pace, una strana euforia
inondarle il cuore. Si asciugò le lacrime e si rivolse al vecchio
dicendo:
“Conoscete un libro chiamato “Il mistero delle Esuli”?”
Gli astanti furono percorsi da un fremito e da un brusio
sommesso, mentre il vecchio si ricompose velocemente dopo
aver lanciato un’occhiata torva e minacciosa intorno a se. Il
brusio non accennava a placarsi. Isobel osservava esterrefatta
quelle persone che parlottavano concitatamente. Di colpo il
rumore di un gong ridusse tutti al silenzio. Il vecchio si alzò e
disse con voce potente e severa.
“Giunge a noi inaspettata la domanda che ognuno di noi ha nel
cuore.” E poi rivolgendosi a Isobel: “La tua domanda merita
una risposta, e una risposta del Consiglio. Ma per udire tale
risposta vi è un prezzo da pagare. La risposta non deve uscire
da queste mura, pena la morte entro un anno di chi se ne fa
portatore all’esterno. Non è una minaccia Isobel, è la
tradizione. Nessuno di noi può modificare gli eventi. Ciò che è
stato in passato si ripeterà in futuro. Non è in mio potere
rompere il sigillo dell’esilio posto sulle risposte del Consiglio
dei Saggi. Nessuno di noi ti rincorrerà per fermarti se romperai
il sigillo dell’esilio. Altri hanno infranto tale vincolo e sempre
la morte li ha colti entro un anno. Tua nonna è l’ultima di
queste persone. Noi non portiamo la morte, ma non possiamo
fermarla. E’ una tradizione, voto che nessuno può spezzare.
Puoi non accettarlo e nel farlo rinunciare alla tua domanda, ma
se deciderai di volere risposta sappi che a tale risposta sarà
legato il tuo destino, qualunque decisione tu possa prendere.”
Isobel guardò il vecchio con aria frastornata: Anrham le aveva
accennato a questa possibilità, ma lei non aveva minimamente
pensato al fatto che chiedere spiegazioni sul libro rubatole

142
potesse richiedere una risposta dell’intero consiglio e che
quindi dovesse sottostare al vincolo. A dire la verità aveva
considerato il discorso della morte entro l’anno in caso di fuga
dal monastero dopo aver ricevuto la risposta né più né meno
che una minaccia folcloristica, ma quell’accenno fatto dal
vecchio alla nonna come l’ultima di una lunga serie l’aveva
fatta sussultare mentre un sudore freddo le bagnava la schiena.
Fece per parlare ma il vecchio la interruppe dicendo:
“E’ una decisione importante e difficile, me ne rendo conto.
Non può e non deve essere presa all’istante, da una persona
appena giunta in questi luoghi, senza che abbia conosciuto le
nostre genti, i nostri usi, i nostri studi. Sarai nostra ospite per
un mese Isobel Morrison, e in questo mese potrai avere libero
accesso ai luoghi di questo monastero, ai suoi libri, al suo
sapere, e potrai rivolgere la parola a chiunque. Alla fine del
mese sarai di nuovo convocata davanti a questo consiglio e lì ci
comunicherai la tua decisione e riceverai, nel caso, la risposta
alla tua domanda. So che altre mille domande si affacciano ora
alla tua mente, ma ad esse potrai dare risposta tu stessa in
queste settimane. Chiedi a chiunque qualsiasi cosa, ma nulla
che riguardi la tua Domanda o il libro da te cercato” poi
rivolgendosi agli astanti “Sono stato chiaro? Questa ragazza
avrà libero accesso ai luoghi del monastero e ognuno di noi
avrà il compito di guidarla nel cammino che ella intende
intraprendere dando risposte alle sue interrogazioni, qualsiasi
argomento esse trattino, tranne naturalmente domande inerenti
il libro. Esse sono di competenza del Consiglio e dovranno
essere trattate secondo la Regola. Non saranno tollerate
eccezioni”.
E così dicendo fece un rapido cenno e uscì dalla stanza
accompagnato dal rimbombo di un gong. Tutti i presenti lo
seguirono tranne la ragazza che le stava stringendo la mano. La
fissò: era una ragazza indiana, la carnagione scura, due occhi

143
bruni profondi e limpidi, i capelli corvini raccolti in trecce
sottili e sciolti sulle spalle coperte da uno scialle scarlatto. Un
odore d’incenso pareva avvolgerla. Era veramente splendida.
La ragazza le sorrise dolcemente poi, con perfetto accento
inglese le disse:
“Seguimi Isobel. Posso chiamarti Isobel?”
“Certo che puoi. Qual’è il tuo nome?” chiese Isobel un po’
frastornata
“Mi chiamo Rumi. Se vuoi seguirmi ti porterò nella stanza
dove ha alloggiato per gli anni dei suoi studi tua nonna; se
vorrai potrai alloggiare lì per questo mese. Sai, è rimasta come
tua nonna l’ha lasciata per disposizione del Sommo Anziano.”
E così dicendo, sempre tenendola per mano, la fece uscire dal
portone da cui era entrata e la portò al piano inferiore,
fermandosi davanti a una porta.
“Ecco, questa è la stanza in cui Miss Morrison ha dimorato
negli anni degli studi. Questa è la chiave. Buona permanenza.
Se hai bisogno di qualsiasi cosa chiedi di me. Che tu possa
camminare su sentieri luminosi.” E così dicendo si congedò
con un rapido inchino.
Isobel rimase immobile per alcuni secondi, osservando ora la
chiave ora la porta, cercando di fare ordine nei suoi pensieri,
poi infilò la chiave nella toppa ed entrò.

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CAPITOLO XXVIII

8 marzo 2001 Lendi Eleusi

Isobel richiuse il pesante libro, si stropicciò gli occhi e si


guardò intorno. La tenue luce della candela accesa nell’angolo
della scrivania tremolava sulle pareti della stanza,
illuminandole timidamente il viso. Era buio e, a giudicare dalla
sua improvvisa stanchezza, doveva già essere passata la
mezzanotte. Come era volato il tempo. Da quando era entrata
nella stanza della nonna non aveva fatto altro che sfogliare e
leggere i libri che la circondavano ed era stata rapita in un
vortice di emozioni, scoperte, ricordi. Aveva rivisto la
calligrafia della nonna, sparsa su fogli, sul bordo pagina dei
libri, in brevi appunti, note, riflessioni. Era stupita e confusa,
cercando di dare un filo logico a quelli che potevano essere gli
studi che la nonna stava affrontando: libri di mitologia greca, di
mistica buddista, ebraica, induista, studio sui sufi, sullo
sciamanesimo e sulla psichedelia. Poesie di William Blake e di
Tagore. Un trattato sull’LSD di Aldous Huxley e uno di Albert
Hoffman. Libri sulla Relatività di Einstein, sulla fisica
quantistica, una biografia del logico Kurt Gödel,
l’autobiografia di Jung, libri di psicologia e pedagogia. E poi
appunti sconclusionati, citazioni di frasi, sottolineature
marcate, considerazioni a bordo pagina, tutto dava l’idea di una
ricerca spasmodica quanto sconclusionata, fervente quanto
dispersiva. Non riusciva a vedere il filo rosso che legava tra
loro argomenti così diversi. Le ricordava la variopinta
ecletticità dei libri che la nonna le aveva portato a Londra.
Si alzò dalla scrivania quando udì un rumore presso la porta
della stanza, la aprì e sull’uscio apparve Hani; si era

145
completamente dimenticata di lui. Appena entrato gli gettò le
braccia al collo e lo strinse a se con tutta la forza che aveva.
Era tremendamente felice di vederlo, la sua presenza la
rinfrancava e la colmava di gioia. Lo prese da parte e gli
raccontò tutto quanto era successo in quella giornata. Lui la
ascoltò in silenzio annuendo e sgranando gli occhi.
Quando Isobel ebbe finito il suo concitato racconto Hani la
prese per mano, la fece alzare e le disse:
“Seguimi, ho qualcosa da mostrarti” aprì la porta e uscì.
Percorse la loggia e si fermò innanzi a una porta, la socchiuse e
fece cenno alla ragazza di avvicinarsi e di guardare all’interno.
Isobel rimase a bocca aperta: all’interno vi era una stanza
immensa, illuminata da quattro enormi candelabri che
pendevano dal soffitto; le pareti erano costituite da un’immensa
serie di scaffali intarsiati di legno scuro stracolmi di libri
ordinatamente riposti. Era una vista imponente e stupefacente:
scale di legno e ponteggi anch’essi finemente intarsiati
permettevano di raggiungere i libri posti in alto; una serie di
soppalchi in legno costituivano una specie di labirinto sospeso
che collegava i vari scaffali. Il soffitto della immensa sala era
alto almeno dodici metri e da esso pendevano i due lampadari
che brillavano di candele accese. L’imponente visione fece
restare Isobel a bocca aperta.
“Guarda” gli disse Hani “Guarda laggiù!” e indicò il fondo del
salone dove, dietro una serie interminabile di leggii e scrittoi in
legno si vedevano due enormi statue di un marmo cangiante,
raffiguranti una donna che porgeva una mela ad un uomo e, sul
lato opposto, un’albero dal tronco nodoso e forte che
nascondeva tra le sue fronde un serpente. Isobel rimase
interdetta: non era difficile dare un senso a quella
raffigurazione: l’albero della conoscenza del bene e del male
del giardino dell’Eden e Eva che seduce Adamo porgendogli il
frutto dell’albero proibito. Era una storia che l’aveva sempre

146
incuriosita, ma sulla quale non si era mai soffermata a
riflettere. Fece per entrare nell’immensa biblioteca quando vide
dal fondo del salone un’ombra avanzare a piccoli ma veloci
passi verso di loro. Isobel indietreggiò, ma quando l’ombra fu
vicina alle luci delle candele scorse il dolce profilo del viso di
Rumi e la tensione si sciolse in un sorriso. Rumi fece un
inchino e disse:
“Non è consentito l’ingresso alla Sala del Silenzio durante le
ore notturne se non al consiglio e alla Custode del Silenzio, la
cui carica mi onoro di ricoprire.”
“Custode del Silenzio?” chiese Isobel “Cosa significa?”
“E’ colui o colei che custodisce e disciplina gli ingressi in
questo luogo, la restituzione dei testi consultati, la
catalogazione di quelli acquisiti.”
“E’ un posto stupendo” sussurrò Isolbel.
“Sì, lo è!” annuì timidamente Rumi “Questo è il vanto e
l’orgoglio di questo luogo, il motivo per cui tante persone
decidono di intraprendere il viaggio per questo monastero da
ogni parte del mondo ed è il motivo per cui questo posto deve
rimanere il più possibile segreto: questo è “L’Orizzonte del
Mondo” il luogo ultimo del sapere, il fulcro del prestigio e
della sacralità di questo monastero. In esso potete trovare
qualsiasi libro che sia stato scritto e che la storia o la leggenda
ricordi… è la biblioteca di Babele, la biblioteca di Alessandria,
fonte di eterno sapere. Chi ha il privilegio di accedervi ha la
possibilità di immergersi in un mondo senza tempo, in cui
studiare e ricostruire storie dalle fonti originali e autentiche.
Qui vi è la summa del sapere del mondo. E’ un luogo sacro,
coltivato e custodito nei secoli, ma come tutti i luoghi sacri può
essere pericoloso. Il sapere da solo può essere ingannevole se
non è accompagnato dalla Consapevolezza e dalla Conoscenza
che prescinde dalle fallaci deduzioni umane ma che deriva
dall’esperienza diretta del divino.” Gli occhi di Rumi

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brillavano mentre pronuciava queste parole, e un’espressione
severa e allo stesso tempo serena le attraversò il dolce viso.
Isobel guardò Hani.
“Anche mia nonna aveva accesso a questo luogo?” chiese Issi.
Rumi si guardò intorno, poi con un gesto affrettato fece loro
cenno di entrare, si avviò con passo deciso tra i banchi e dopo
aver girato a destra alla fne di essi si fermò davanti a una porta,
estrasse da una tasca una chiave, la inserì nella toppa, la girò e
spinse con la spalla. I cardini cigolarono e la porta lentamente
si aprì. All’interno, nella penombra creata da una finstra che
permetteva alla luna piena di far filtrare la sua luce, Isobel vide
una serie di scrivanie sulle quali erano posti alcuni schermi di
computer. Hani ne fu sbalordito:
”Com’è possibile? In questo luogo dei computer? E come
vengono alimentati?”
Rumi sorrise: evidentemente si aspettava lo stupore dei sue
giovani.
“In questo luogo vengono catalogati tutti i libri presenti e
vengono effettuate le ricerche con i più avanzati strumenti
informatici. E’ indispensabile il loro utilizzo data l’enorme
mole di libri presenti. L’energia necessaria al loro
funzionamento è fornita da una grande dinamo alimentata dalla
forza delle acque della cascata”
“Una centrale idroelettricaelettrica?” chiese Isobel stupefatta.
“Una specie, molto ridotta ma che ci consente di avere energia
sufficiente per alimentare i computer necessari al lavoro di
catalogazione ed indagine” disse Rumi avviandosi verso una
scrivania.
“Ecco, questa era la scrivania di tua nonna Isobel; seduta qui ha
passato anni e anni; è ancora come lei l’ha lasciata.”
Isobel e Hani si avvicinarono alla scrivania. Ai lati dello
schermo vi erano diverse pile di libri, alcuni molto antichi, altri

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modernamente rilegati. La polvere ricopriva la tastierea e parte
del monitor.
“Possiamo restare?” chiese Isobel “Vorrei poter dare
un’occhiata al lavoro che stava svolgendo mia nonna. A
proposito Rumi, tu ne sai nulla?”
Lo sguardo di Rumi si fece per un istante severo:
“A nessuno è dato conoscere i motivi degli studi di chi
frequenta questo posto, ma credo che negli ultimi anni Tina si
si a dedicata alla ricerca di un libro e alla soluzione dei suoi
misteri.”
“Stai parlando del Mistero delle Esuli vero? Dimmi, cosa sai di
quel libro? E di quali misteri parli?”
Rumi aggrottò le ciglia:
“A queste domande solo il consiglio può rispondere. Potete
restare ma non potete portare nulla fuori da questi luoghi senza
la mia autorizzazione. Tra un‘ora tornerò e a quell’ora dovrete
fare ritorno nelle vostre stanze. Non è consentita la vostra
presenza qui.” E così dicendo si voltò e uscì dalla stanza. Issi
attese qualche secondo poi, dopo un fugace sguardo d’intesa
con Hani si sedette alla scrivania e iniziò a esaminare i libri;
anche in questo caso rappresentavano un’accozzaglia di vari
autori, generi, epoche, argomenti: Il mulino di Amleto, Essere
e Tempo di Heidegger, una biografia di Salvator Dalì,
riproduzioni di quadri di Leonardo, una biografia di Johan
Sebastian Bach, un saggio sulla schizofrenia di Jung, un libro
di fisica quantistica, uno di fisica relativistica, le Upanishad,
un trattato di psicanalisi, un libro sulle estasi mistiche di Santa
Teresa d’Avila, la Divina Commedia di Dante. La solità
varietà di argomenti, di autori, di temi. Mancava una chiave di
lettura, qualcosa che legasse tali tematiche così disparate, un
argomento, un fatto, una vicenda che rendesse chiaro l’ordine
interno che tale varietà di argomenti doveva avere. Isobel si
girò verso Hani:

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“Che cosa cercava la nonna, Hani? Che cosa c’entra Heidegger
con Teresa d’Avila, Bach con Jung? Ci capisci qualcosa tu?”
gli chiese speranzosa. Hani scosse la testa. Prese in mano un
libro e incominciò a sfogliarlo. D’un tratto posò il libro.
”A meno che…” disse accendendo il computer “...a meno che
non riusciamo a trovare qualcosa qui..”.
Prese la tastiera e si mise con la sedia di fronte allo schermo.
Isobel odiava i computer, li aveva sempre trovati degli inutili
strumenti che faceva fatica ad usare, anche se al lavoro era
obbligata a farlo. Hani invece la pensava diversamente.
“Cosa fai?” chiese Isobel incuriosita.
“Cerco di capire cosa stesse facendo tua nonna. Ecco vedi,
questo è l’archivio dei documenti e dei libri consultati da tua
nonna, aspetta che lo stampiamo. Questo invece è l’elenco
delle ricerche su internet effettuate da questo terminale
nell’ultimo anno. Presto, vai a prendere le stampe, ho visto la
stampante proprio a fianco della porta. Fa in fretta, prima che
torni Rumi….”
Isobel gli sorrise e si diresse verso la porta.
“Aspetta un attimo” disse Hani concitatamente ”vieni qui,
guarda cosa ho trovato!”
Isobel si accostò ad Hani. Dalle pagine di un libro uscivano
diversi fogli in parte scritti al computer, in parte scritti a mano.
“Che hai trovato?” chiese Isobel
“Guarda qui” rispose Hani “Guarda il titolo” gli disse
indicando il primo foglio.
Isobel si avvicinò: sulla sommità della pagina con la chiara
calligrafia della nonna c’era il suo nome: Issi.
“Prendiamolo presto” disse Isobel piegando i fogli e infilandoli
sotto la camicietta mentre si avviava verso la stampante.
Isobel prese i fogli dalla stampante e li mise anch’essi sotto la
camicia.

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“Spegni ora, sta arrivando” sussurrò Isobel con veemenza.
Hani ubbidì a malincuore. Fece appena in tempo a spegnere
che Rumi spalancò la porta e si avvicinò a grandi passi alla
scrivania.
“E’ tardi, dovete andare, vi ho fatto stare anche troppo in
questo luogo” lo sguardo di Rumi corse da Isobel a Hani
“Potrete farvi di nuovo accesso domattina. Ora è meglio che
rientriate nelle vostre stanze”.
“Va bene” rispose Isobel. “Posso prendere questo libro?“ le
chiese indicando il primo che ebbe sotto gli occhi.
“Non ora” rispose Rumi “domattina avrai, come previsto dal
Consiglio, libero accesso a questi luoghi e potrai esaminare
tutti i libri che vorrai”
“Perfetto” disse Isobel mentre Rumi li accompagnava all’uscita
“allora a domani.”
Ripercorse i corridoi a ritroso fino alla sua stanza, salutò Hani,
chiuse la porta a chiave dietro di se, accese la candela e estrasse
da sotto la maglietta i fogli che avevano stampato e quelli che
aveva recuperato in mezzo al libro, li mise sul tavolo e
incominciò a leggere. Pian piano un sorriso si dipinse sul suo
viso mentre il filo dei pensieri della nonna si stava lentamente
riannodando innanzi a lei.

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CAPITOLO XXIX

15 luglio 1946 Princeton

La risacca notturna depositava sulla riva piccoli granchietti


grigi. Kurt camminava sulla riva tentando di non schiacciarli
mentre la sua mente viaggiava per la volta celeste. La serata era
splendida; nel cielo terso e limpido era incastonata una luna
calante di uno spicchio che dava la possibilità di vedere molte
più stelle del solito. Il firmamento: da rimanere senza fiato, ma
Kurt non aveva tempo per queste cose, aveva incominciato un
pensiero e tale pensiero doveva concludere, a qualsiasi
conclusione lo avesse portato. Ma da dove era partito? Sì,
ricordava, da una equazione, anzi la equazione: E = mc2
Ma da lì non si era più fermato: la logica stessa lo impone. Il
problema era il tempo. Il tempo: ogni istante così come è
percepito è tempo, ma non esiste un istante oggettivo e assoluto
da quell’equazione di Einstein in poi: ogni adesso è relativo al
sistema di riferimento e al moto. Quindi non esiste il tempo
intuitivo come noi lo viviamo, non esiste l’istante presente
oggettivo. Esistono tanti istanti presenti quanti sono i sistemi di
riferimento e i soggetti. Ma se non esistono gli istanti presenti
come possono esistere una serie cronologica di essi che
costituiscono la sequenza temporale di date, anni, mesi, giorni,
minuti, secondi? Ogni adesso era parte della serie che compone
i riferimenti temporali assoluti: anno, mese, giorno, ora, minuo,
secondo. Ma se non esiste più un adesso assoluto come può
esistere un’unica serie cronologica che lo comprenda?
Dovrebbero essercene tante quanti sono gli adesso percepiti
singolarmente. Ma se così deve essere e per la relatività non
può essere che così, la logica conclusione è che in tal modo
scompare il tempo così come noi lo percepiamo. Fin lì era stato
153
facile. Poi decise di aggiungere il concetto di massa, di gravità
passando dalla teoria della relatività ristretta a quella generale,
dimenticando il moto uniforme: ma la gravità secondo Einstein
è definita dalla curvatura dello spazio-tempo: eccolo
riemergere di nuovo il tempo. Estrasse le carte che aveva in
tasca, fitte di scritte e di equazioni. Era così, non aveva dubbi,
le aveva ricontrollate mille volte: esisteva la possibilità di
universi compatibili con le equazioni di Einstein in cui il moto
e la distribuzione di materia erano in grado di creare curve
chiuse di spazio-tempo. Questo portava a un’unica
conclusione: a velocità prossime a quelle della luce in tali
universi si poteva arrivare nel passato pur viaggiando “verso il
futuro”: il tempo ciclico, il viaggio nel tempo. Ebbe un
sussulto, spinse le equazioni nella tasca accartocciandole e
fissò il cielo attraverso le spesse lenti degli occhiali, poi se li
tolse. Lo sguardo sbiadì ma, per una frazione di secondo, gli
sembrò di poter osservare nitido, netto, spettacolare il cielo
stellato, come se si fosse tolto un velo davanti agli occhi che gli
aveva sempre impedito di vedere.
“Ma se posso tornare nel passato questo significa che esso non
è mai realmente passato” sussurrò.
“E questo significa che il tempo come noi lo percepiamo e lo
definiamo, in cui il presente precede il futuro e segue il passato
non esiste. Ma, se non esiste in quegli universi dalle
caratteristiche così peculiari non è detto che non esista nel
nostro, del resto noi lo percepiamo” si disse, ma era un
tentativo inutile di convincere la parte di se che negava la
ovvietà appena dimostrata. Fallì miseramente: se il tempo è
necessario (e della sua necessità sembriamo tutti convinti)
esiste necessariamente e non può esistere se non esiste in tutti i
mondi ritenuti possibili e compatibili con le regole e le leggi in
esso presenti.

154
“Non è possibile ingannarsi su questo punto” si disse battendo
il piede sulla sabbia e sollevandone una piccola nube “sarebbe
come affermare che l’esistenza o la non esistenza dello scorrere
oggettivo del tempo dipende dal modo particolare in cui la
materia e il suo moto sono disposti nel mondo e questo è
logicamente inaccettabile!”
Si fermò. Si accorse che stava ansimando. Gli capitava spesso
quando seguiva i suoi pensieri al di là del confine del
conosciuto e del conoscibile. Sentiva lo sforzo, la resistenza di
quella che normalmente chiamiamo realtà, che gli suggeriva di
errori, di esagerazioni; sentì i ricordi di una vita affollargli la
mente per ricordagli il suo passato, per fermare il pensiero alle
evidenze empiriche. Mise la mano nel taschino del gilet ed
estrasse l’orologio che il padre gli aveva regalato per il suo
quindicesimo compleanno. Il tempo, il ricordo, il passato. Lo
guardò, poi lo lanciò con tutte le sue forze nel mare. Disegnò
brillando l’arco di una cometa nel cielo. L’araba fenice del
tempo si inabisso nei flutti. Si sentì libero ma terrorizzato:
innanzi a se il passato e il futuro si dispiegarono in un istante…
sentì il bip bip di uno strano congegno meccanico... Tubi...
Letto bianco... Capì e ne fu sollevato; sapeva di non poter
morire, se il tempo non esiste tutto è eterno. Non aveva altra
scelta, doveva scomparire, divenire trasparente. Sapeva come,
sempre meno energia e la velocità sarebbe diminuita e lui
avrebbe potuto scendere da quel carrozzone infernale. Sorrise,
raccolse un pugno di sabbia e se la fece scivolare tra le dita.
Era di nuovo sereno.

155
156
CAPITOLO XXX

6 giugno 1961 Bollingen

Sentì il campanello suonare. Fece per alzarsi da letto. La casa


non aveva campanello, eppure era sicuro di aver sentito
suonare. Un trillo elettrico acuto. Si lasciò andare, la testa
rimbalzò sul cuscino. Sorrise. Gli era già capitato in passato.
“Sono venuti a prendermi” pensò e trasse un profondo respiro.
Si alzò lentamente, si mise la vestaglia di seta, prese la pipa e si
diresse verso il camino. Lì ravvivò la fiamma con due pezzi di
legna, accese la pipa e attese: i vecchi amici erano tornati a
trovarlo, e questa volta, lo sapeva, era per sempre. E infine
arrivarono: Simon Mago, Lao Tzu, Filemone, Klingsor. Quelle
presenze si fecero attorno e incominciarono a parlargli, tutti
insieme, ognuno nella sua lingua d’origine come usavano fare
un tempo. Carl si alzò di scatto, disturbato da quel vociare
indecifrabile e all’improvviso si fece buio e silenzio. In un
angolo vide il barlume rossastro del tabacco di una pipa
aspirata e ne udì il crepitio. L’ombra celava il volto del
fumatore. Si accostò all’ombra impaurito ed incuriosito
assieme. Le presenze di prima erano scomparse, ma non erano
state per lui motivo di apprensione, le aveva già incontrate e si
era abituato a sentirle intorno a se. L’atmosfera si fece spessa,
il silenzio fu rotto dal ticchettare della pendola accanto al
camino…. Tic Tac…… Tic Tac…… Tic Tac…… Tic
Tac…… Il fumo della pipa creava strani geroglifici sul muro
che, a un certo punto, sembrarono assumere le sembianze di
una farfalla, poi di una croce, poi di una svastica. Si avvicinò
all’ombra. Chi sei, continuava a chiedersi Carl. Più si
avvicinava e più l’oscurità aumentava impedendogli di
157
scorgere i lineamenti del misterioso fumatore. Ad un certo
punto si accorse che il fumo della pipa stava invadendo tutta la
stanza, annebbiando i contorni dell’ambiente circostante…. Il
ticchettare della pendola si trasformò in un frastuono
insopportabile mentre tutto diveniva vago e indistinto intorno a
lui. All’apice della confusione sentì un lugubre rimbombo di
campane a morto, cui fece seguito un secondo silenzio,
immobile, oscuro. In un istante la nebbia si diradò e innanzi a
lui scorse un tempio di marmo cangiante, con un colonnato
sormontato da capitelli corinzi. Sembrava un tempio greco.
Avanzò lentamente ed entrò. Al centro della navata era posta
una sfera dorata sospesa su di una vasca circolare ricolma
d’acqua. Carl si accostò e bevve. Una sensazione di sollievo gli
attraverò le membra mentre l’acqua increspata dalle sue mani
restituiva strane immagini. Si accostò e fissò l’acqua: si era
formato un piccolo vortice, all’interno del quale si creavano
immagini, dapprima indistinte, poi sempre più nitide: vide se
stesso crocifisso sul Golgota, poi in un lampo si vide in
ginocchio davanti al Cristo crocifisso. Vide la moglie Emma
nuda tra le braccia di Freud, poi vide Sabine Spielrein che
urlava nell’angolo di una stanza con i polsi squarciati e le mura
imbrattate di sangue. Vide un uomo con enormi baffi
abbracciare un cavallo e cadere a terra in preda di convulsioni,
vide un uomo con un pesante cappotto e guanti che suonava
una stupenda e misteriosa melodia al pianoforte su di uno
sgabello sgangherato, vide un uomo con una gamba sola
volgere al cielo la sua ultima preghiera, vide un giovane
ragazzo affogare in un fiume intonando una melodia incantata.
Poi l’immagine si fissò su di un vortice nero all’interno del
quale pareva brillare un’universo di stelle. Quel vortice si
ingrandì fino a formare un occhio e poi via via si delineò un
volto, il suo volto. Sorrise. Mise entrambe le mani sulla sfera al
di sopra della vasca e la spinse con tutte le sue forze contro la

158
parete abbattendo il muro. Si affacciò dallo squarcio provocato
dalla sfera. Da lì partiva un sentiero che, attraverso un bosco,
portava verso una catena di monti innevati. Vi si incamminò,
l’aria frizzante che gli accarezzava il volto; un nugolo di
farfalle multicolori si levò al suo passaggio lasciandolo senza
fiato per lo stupore e l’emozione. Intorno a lui correvano fauni,
unicorni e altri esseri mitologici. In cielo vide un’aquila con,
avvinghiata tra gli artigli, una serpe. Una volta inoltratosi nel
bosco una sensazione di panico lo avvolse; spaventato si mise a
correre mentre sentiva occhi crudeli puntati su di lui. Uscì
ansimando dal bosco e si ritrovò su di una radura che
circondava un lago nelle cui acque si tuffava, da un costone di
roccia, una cascata, incorniciata da uno spettacolare
arcobaleno. Ai lati della cascata erano poste due porte: su di
una vi era la scritta TEMPO, sull’altra la scritta SPAZIO. Carl
Gustav esitò quando vide innanzi a se un bambino e una
bambina che, nudi e mano nella mano, correvano nell’acqua
lasciando dietro di loro spruzzi e gioiose risate. Correndo si
infilarono sotto la cascata e scomparvero. Carl trasse un
sospiro, si spogliò e, nudo, corse anch’egli sotto la cascata.
L’oscurità lo avvolse e lo cullò. Si voltò e vide dietro di se la
terra, come la si vedrebbe da distanze siderali, che ruotava in
maniera vorticosa su se stessa e attorno al sole. L’orizzonte
degli eventi. Il tempo racchiuso in un istante. Un senso di pace
lo avvolse. Aveva terminato il suo viaggio nel tempo. La realtà
ultima era innanzi a lui.

159
160
CAPITOLO XXXI

8 marzo 2001 Lendi Eleusi

Isobel alzò lo sguardo e fissò le quattro mura che la


circondavano. Una piccola vertigine le fece avvampare il viso.
Era riuscita a cogliere il filo che collegava i libri e i pensieri
sparsi della nonna? Così in quel momento le sembrava. Il
tempo. Ecco qual’era la chiave di lettura di tutto: il tempo. Non
quello meteorologico, ma il lento inesorabile scorrere dei
secondi, il flusso costante di attimi che percorrono ogni vita.
Ora tutto le pareva più chiaro, anche se erano ancora tante le
domande che le affollavano la mente. Riprese in mano i fogli
stampati e lesse:

ELENCO LIBRI RICHIESTI DA TINA MORRISON (15 MARZO


2000, 3 NOVEMBRE 2000)

Il Mulino di Amleto (Santillana - Von Dechend)


La fine del tempo (Julian Barbour)
Gödel Escher Bach (Hofstadter)
Il tao e la nuova fisica (Capra)
L’irrealtà del tempo (John Ellis Mc Taggart)
Sincronicità (Carl Gustav Jung)
Essere e Tempo (Martin Heidegger)
L’anello del Ritorno (Emanuele Severino)
Parmenide (Platone)
La Repubblica (Platone)
I misteri di Eleusi (Albert Hoffman)
Il tempo vissuto (Eugene Minkowski)
Il concetto di tempo (Martin Heidegger)
Dove il tempo finisce (Krishnamurti – Bohm)
L’Io della mente (Hofstadter – Dennet)
Le porte della percezione (Aldous Huxley)

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Il significato della relatività (Albert Einstein)
Teoria dei Quanti di luce (Albert Einstein)
Psiche e natura (Wolfgang Pauli)
Gravità e spazio-tempo (John Wheeler)
L’io diviso (R. D. Laing)

Questo elenco di libri in realtà non le aveva detto molto: alcuni


li conosceva, altri li aveva visti o nel mucchio di libri a Londra
o lì nella stanza, ma di pochi aveva conoscenza e di quasi
nessuno aveva letto alcunchè. Quello che le aveva fatto
comprendere su cosa la nonna stesse facendo ricerche era il
documento intitolato Issi che avevano trovato sulla scrivania
della nonna. Era una specie di bozza di un libro, ancora in fase
embrionale, colmo di citazioni sparse e di capitoli appena
abbozzati, con numerose correzioni e appunti a margine, ma
leggendolo emergeva chiaro l’argomento e la tesi che voleva
essere discussa: il tempo, il suo concetto, il modo come noi lo
percepiamo, la sua reale esistenza, la sua influenza sul nostro
modo di intendere la realtà. Riprese a leggerlo dall’inizio,
come se volesse rendersi conto se aveva capito bene:

Il tempo esiste?
Credo che sia una di quelle domande che l’uomo si porta con se
da quando ha iniziato a interessarsi a ciò che gli accade intorno.
Alla domanda di cui sopra viene da rispondere istintivamente di
sì, visto che noi abbiamo la consapevolezza dello scorrere
immutabile degli eventi e delle nostre azioni. Ma, innanzitutto,
occorre dire che in questo scorrere immutabile noi vi siamo
immersi, o ci sentiamo immersi, e per poter giudicare una cosa in
maniera oggettiva occorrerebbe uscire da questo fluire del tempo
e degli eventi e osservarli in maniera distaccata: in altre parole per
giudicare il tempo occorrerebbe essere fuori da esso. E poi:
siamo sicuri che il tempo fluisca. Siamo abituati a ragionare il
tempo e nel tempo e a suddividerlo in passato, presente e futuro;
ma sin da queste “banali” suddivisioni abbiamo subito a che fare

162
con dei problemi: abbiamo la prova della realtà del concetto di
tempo? Il passato non può definirsi reale, al più un ricordo, il
presente nel momento stesso in cui noi lo viviamo, o lo
pensiamo è già passato e il futuro è un ininterrotta rincorsa verso
un punto che si allontana progressivamente da noi man mano
che cerchiamo di afferrarlo. Da questa piccola analisi dei concetti
di passato, presente e futuro derivano delle oggettive difficoltà
nel definire e delineare il concetto di tempo. Eppure sulla base
di un concetto così astratto e sfuggente l’uomo occidentale ha
eretto buona parte della sua struttura sociale, conformando e
plasmando su di esso i suoi ritmi di vita fino a trovarsi schiavo di
una sua creatura: da questo punto di vista ciò che molti scrittori
di fantascienza hanno paventato per il futuro (e cioè il dominio
delle macchine sull’uomo) si è già verificato in maniera più
silente e perniciosa. L’uomo è ormai schiavo del tempo. Lo
rincorre, lo desidera, lo prega, lo bestemmia ma le sue regole gli
sono ormai sfuggite di mano: il tempo doveva servire a dare
ordine alle cose, a dare un riferimento comune agli istanti di vita,
a globalizzare quel senso di impermanenza e precarietà che tutti
sentiamo su questa terra, ma lo strumento si è ribellato e si è
fatto fine: da quando il tempo è denaro la velocità è diventata la
sua compagna indispensabile: viviamo in un continuo anticipo,
cercando di rubare istanti all’eternità, istanti al momento della
morte. Rinneghiamo o rimpiangiamo il passato, temiamo il
futuro e anticipiamo il presente. Questo è il nostro delirante stile
di vita che, a prima vista, potrebbe sembrare a-temporale, ma che
in realtà ha eletto il tempo a suo solo, unico, vero e indiscusso
dio. Morto il Dio trascendente l’uomo occidentale si è votato
anima e corpo al Dio-Tempo, sacrificando ad esso la pace
interiore, la lentezza, gli affetti. Ritagli di tempo, come se il
tempo esistesse e si potesse ritagliare. Dal momento in cui ci
alziamo da letto al momento in cui ci corichiamo l’inseguimento
comincia: esiste un orario per tutto, un ritardo per tutto, un
tempo per tutto, tranne che per noi stessi. Ogni cosa è funzione
del tempo, ogni nostro atto, gesto quotidiano. Persino le nostre
paure hanno senso solo se calate in un contesto temporale: non
esistono paure senza tempo. Se ogni istante fosse eterno non vi

163
sarebbe l’ansia di cose che non sono e che non sarebbero per
l’eternità: sarebbe vivere l’istante eterno, il qui e ora immobile,
immutabile e perfetto perché senza termine. La morte fa paura
nel tempo, o meglio fa paura anche perché non ha una
collocazione temporale precisa, il trascorrere del tempo in se fa
paura.
Guardiamo gli animali: hanno paura della morte? Sanno cos’è la
morte? Sanno cos’è il domani? O è il loro istinto che rende
natura essere preda, scappare dal predatore, allattare i cuccioli?
Astratte dal tempo le paure hanno senso solo nel momento in
cui sono inevitabili, non esiste l’ansia anticipatoria, il pensiero
della paura. Esso è legato al futuro e al passato.
E se il tempo non esistesse? Se ci fossimo resi schiavi di una
sovrastruttura che si sta rivelando dannosa e straniante, che ci
distoglie dal nostro vero essere, che ci dona più dolori che gioie?
Può la nostra mente funzionare senza il concetto di tempo? E se
sì, come sarebbe la nostra vita?
Questa estrema saggezza (o estrema follia) era già nota in tempi
remoti, quelli della Grecia dell’età classica. La non esistenza del
tempo era forse il segreto che gli iniziati ai misteri di Eleusi
apprendevano, che rendeva loro più dolce il vivere e il morire?
Leggiamo cosa sosteneva Cicerone iniziato anch’egli a tali
misteri: “Abbiamo conosciuto gli inizia, i veri principi della vita e
abbiamo ricevuto non solo una ragione per vivere lietamente, ma
anche un motivo per morire con una migliore speranza.”
Ma cosa muore di noi se muore il concetto di tempo, se il tempo
finisce? Muore il nostro io, perché esso esiste solo in relazione al
nostro vederci immersi nel tempo. Io posso dire “Io sono” solo
se intendo un luogo e un tempo. L’essere assoluto non ci
appartiene, o ci siamo dimenticati di esso. Tutto ciò pare una
follia, il solo pensare alla non esistenza del tempo pare assurdo,
ma tale assurdità percorre in maniera trasversale tanti settori della
nostra realtà: il concetto di tempo è da sempre studiato in Fisica,
in Filosofia, in Psicologia, in Etologia e nelle arti. In esse si
possono trovare (basta saperli cercare e analizzare) esperienze e
studi che contraddicono il nostro concetto di tempo e di realtà.

164
Proviamo ad immergerci in questa follia sperando di uscirne più
sani e consapevoli di ora.

Isobel interruppe la lettura: non aveva mai pensato al concetto


di tempo, non si era mai soffermata ad analizzarne la
pervasività e la portata nella vita di tutti i giorni. Per lei era
scontato: l’orologio, gli orari, la fretta, il ritardo, il calendario.
Eppure sentiva in ciò che aveva appena letto un fondo di verità,
alquanto fastidioso per altro, come se qualcuno avesse scosso
un velo di polvere su oggetti fermi e immoti nella sua mente ed
essi avessero assunto immagini, forme e colori insospettati.
Scosse la testa. “E’ assurdo” disse tra se e se “Io ricordo, io ho
immagini di me nel passato, ho memoria, ho oggetti che mi
seguono dal passato e di cui mi ricordo la provenienza e la
storia. Sì, ecco, esiste una storia e la storia può esistere solo nel
tempo.” Si distese. Il senso di fastidio e di vertigine di quella
lettura pian piano se ne andò.
I misteri di Eleusi. “Non può che riferirsi a questo posto” pensò
“Ma che c’entra Cicerone con un monastero in Tibet?” si
chiese smarrita. Prese in mano la lista dei libri richiesti dalla
nonna, la percorse in fretta con lo sguardo e trovò ciò che
cercava: I misteri di Eleusi (Albert Hoffman).
Prese una matita e sottolineò il libro. Domani ne avrebbe
chiesto notizie a Rumi. Riprese a leggere.

Il tempo nella fisica moderna

Prima di addentrarci nell’esame del concetto di tempo nella fisica


moderna è opportuna una premessa: la realtà, quella che noi
sperimentiamo quotidianamente attraverso l’esperienza, è una
cattiva guida nell’indagine sugli sviluppi della fisica moderna. Le
scoperte della fisica moderna ci hanno costretto e ci costringono

165
a rivedere drasticamente la nostra concezione di realtà. Ciò che è
reale per i nostri sensi e per la nostra esperienza viene spesso
contraddetto dalle analisi scientifiche. Del resto di esempi se ne
possono fare diversi: sappiamo ad esempio che la terra gira
intorno al sole, anche se la nostra esperienza quotidiana ci
comunica l’esatto contrario: è il sole che sorge e tramonta e noi
sembriamo fermi e immobili come il pianeta che ci ospita mentre
il sole si sposta nel cielo. O ancora, sappiamo che la terra è
rotonda e non piatta anche se la nostra percezione del suolo
dove poggiamo costantemente i piedi ci dice il contrario. Ebbene
la fisica moderna ha rovesciato e messo in discussione numerose
percezioni comuni della realtà che ci circonda, dandone
spiegazioni e dimostrazioni sorprendenti e radicalmente difformi
dal nostro vissuto quotidiano. Da questo punto di vista l’atto
fondante della fisica moderna, la teoria della relatività, ne è il
paradigma.
La teoria della relatività di Albert Einstein ha infatti spazzato via
il concetto di tempo come assoluto, rendendo il tempo relativo al
sistema di riferimento in cui lo si analizza. Senza addentrarsi nei
meandri della teoria della relatività all’aumentare della velocità il
tempo rallenta rispetto a un sistema di riferimento dato. Ovvero
se io viaggio a 100.000 KM all’ora e voi mi seguite a 5 KM all’ora
e entrambi ci fermiamo dopo che per voi è trascorsa un’ora, per
me saranno trascorsi soltanto 59,99999999999999999999999999
minuti (non ho fatto calcoli e ho usato unità di misura insensate
per poter apprezzare la variazione, ma volevo solo fare capire il
concetto). Naturalmente più io mi avvicino alla velocità della luce
(che la teoria della relatività indica come la massima velocità
teorica raggiungibile) più il “mio tempo” da voi misurato rallenta
rispetto “al vostro” che continuate a muovervi a 5 km all’ora. Ma
io non mi accorgerei di nulla perché il mio tempo proprio, quello
da me misurato, rimarrebbe invariato: per me l’orologio non
risulterebbe rallentato.
Secondo la teoria della relatività quindi all’aumentare della
velocità il tempo si dilata e lo spazio si contrae. Ma come si è
giunti a questo risultato che va oltre le nostre quotidiane
esperienze? Questo assunto deriva da una caratteristica peculiare

166
(verificata sperimentalmente) della luce ovvero il fatto che essa
ha una velocità di 300.000 chilometri al secondo a prescindere
dal sistema di riferimento in cui noi la osserviamo.
Noi siamo abituati nella realtà di tutti i giorni a valutare la
velocità nel seguente modo: se noi siamo su una automobile che
viaggia a 100 chilometri all’ora e veniamo superati da una
automobile che viaggia a 150 chilometri all’ora vedremo
l’automobile che ci sorpassa allontanarsi da noi a 50 chilometri
all’ora, ovvero la sua velocità rispetto a noi che siamo in moto è
di 50 chilometri all’ora. Allo stesso modo se noi siamo su di un
auto che viaggia a 100 chilometri all’ora e sulla corsia opposta
transita un’auto che viaggia a 50 chilometri all’ora noi la vediamo
approssimarsi a noi alla velocità di 150 chilometri all’ora. Noi
siamo abituati a sommare e sottrarre le velocità per determinarne
il reale ammontare rispetto a un sistema in movimento. Ebbene
la luce ha una caratteristica unica e stupefacente: pur avendo
come velocità nel vuoto 300.000 chilometri al secondo, qualsiasi
sia la velocità del sistema in cui ci troviamo noi la vedremo
sempre allontanarsi o avvicinarsi a noi a 300.000 chilometri al
secondo. Per tornare all’esempio dell’automobile che viaggia a
100 chilometri all’ora essa osserverà la luce che la supera sempre
e comunque alla velocità di 300.000 chilometri al secondo.
Questo accade a prescindere dalla velocità del sistema di
riferimento in cui l’osservatore si trova. Per assurdo
un’osservatore che viaggia a 290.000 chilometri al secondo vedrà
la luce superarlo e allontanarsi da lui sempre a 300.000 chilometri
al secondo e non a 10.000 chilometri al secondo.
Ma se la velocità della luce è costante rispetto a qualsiasi sistema
di riferimento in movimento questo può significare solo che, per
rispettare il fatto che la velocità è data dal rapporto tra lo spazio
percorso e il tempo impiegato a percorrerlo, in un sistema di
riferimento in movimento (inerziale) affinché io possa
continuare a vedere la luce allontanarsi a 300.000 chilometri al
secondo a prescindere dalla velocità del sistema occorre che per
esso lo spazio si contragga e il tempo si dilati. La dilatazione del
tempo e la contrazione dello spazio sono state verificate
sperimentalmente. Ma Einstein non si è fermato qui. Nella teoria

167
della relatività generale ha introdotto un’ulteriore elemento: la
gravità.
Nell'Universo di Einstein spazio e tempo costituiscono un
continuo quadridimensionale influenzato dalla presenza della
materia. Tale influenza della materia (o meglio della sua massa)
sul tempo agisce causando una curvatura alle linee di tempo. Più
la massa aumenta più le linee di tempo si incurvano. Questo
significa che, a differenza di quanto siamo portati a percepire,
non esiste un istante assoluto di tempo comune a tutti i sistemi, a
tutti i luoghi. Questo adesso non è il medesimo qui e su una
astronave in viaggio alla velocità della luce. Ma non basta: gli
effetti di velocità prossime a quelle della luce si hanno non solo
sul tempo: più la velocità si approssima a quella della luce più la
massa di quel corpo tende all’infinito e il suo spazio si contrae;
questo perché lo spazio e il tempo non sono più grandezze
distinte ma intimamente correlate.
La fisica ha anche spazzato via il concetto, per la nostra
percezione quotidiana assolutamente incontrovertibile, di
unidirezionalità della freccia del tempo. Per la nostra esperienza il
tempo ha una direzione, parte dal passato e si dirige verso il
futuro. Per la fisica esistono processi fisici che sono indifferenti
alla direzione del tempo.
Per dirla con Einstein: “Per noi che crediamo nella fisica la
differenza tra presente, passato e futuro è solo un’illusione”.
La freccia del tempo infatti è un concetto che deve essere
introdotto perché quasi tutti i processi fisici sono simmetrici
rispetto al tempo, vale a dire che le equazioni usate per
descriverli hanno la stessa forma se la direzione del tempo è
invertita, anche se quando descriviamo i fenomeni a livello
macroscopico, c'è, o meglio sembra esserci, una direzione del
tempo.

Una annotazione a margine: secondo la relatività di Einstein per


chi viaggia alla velocità della luce il tempo si ferma. La luce è
ETERNA!!

168
Fisica: aveva sempre odiato quella materia; formule, grafici,
numeri. Aveva sempre sentito quella disciplina come astratta,
lontana, senza alcun aggancio alla realtà.. Quelle poche righe
che aveva appena letto però le avevano fatto nascere dubbi e
curiosità. La incuriosiva soprattutto il discorso sulla relatività
del concetto di tempo. Ricordava di aver letto qualcosa a
proposito, un racconto su due gemelli, uno dei quali partiva per
un viaggio nello spazio su di una astronave che viaggia quasi
alla velocità della luce e dopo un certo numero di anni torna
sulla terra e si ritrova più giovane del gemello rimasto sul
nostro pianeta. Era un racconto che l’aveva sempre incuriosita
perché, implicitamente, indicava la possibilità, seppur remota,
di viaggiare nel tempo, o almeno questo era ciò che a lei
sembrava. Tra l’altro quel discorso sulla freccia del tempo
pareva corroborare la sua sensazione rispetto al racconto dei
gemelli. Si era sempre ripromessa che avrebbe approfondito la
questione un giorno. Sembrava che il momento potesse essere
arrivato anche se mai avrebbe immaginato di farlo in quella
situazione e, cosa per lei incredibile, sulla base di uno scritto
della nonna del cui interesse per la fisica era assolutamente
all’oscuro. Impaziente di proseguire riprese a leggere da dove
si era interrotta.

Gödel e l’inesistenza del tempo

Applicando le formule di Einstein (formule che sono state


riconosciute corrette anche da esperimenti empirici) il famoso
logico Kurt Gödel è arrivato a ipotizzare la possibilità di universi
rotanti (o universi di Gödel) in cui la distribuzione della massa e
la curvatura delle linee di tempo erano talmente particolari (close
timelike curve) da rendere possibile il tanto fantomatico “viaggio
nel Tempo “.

169
Tutti i fisici si sono affannati a dimostrare ed asserrire che il tipo
di universo ipotizzato da Gödel, coerente con le equazioni di
Einstein, non era minimamente compatibile con le caratteristiche
dell’universo in cui noi ci troviamo, escludendo in tal modo la
possibilità di viaggiare nel tempo.
Se ciò è pur vero e mantenendo come veritiere e fondate le
equazioni di Einstein, i fisici che si sono affrettati a smentire
Gödel si sono però dimenticati di un particolare fondamentale:
se le equazioni di Einstein sono corrette (come pare) e se le
ipotesi di Gödel sono matematicamente ad esse coerenti (e lo
sono) può esistere in potenza una configurazione di universo che
renderebbe possibile andare a ritroso nel tempo o visitare il
futuro. Ma l’implicazione logica, immediata e devastante quanto
dispersa e sottovalutata è che allora il tempo non esiste perché se
io posso visitare il passato vuol dire che esso non è in realtà MAI
passato e questo è in contraddizione con il concetto stesso di
tempo: quindi almeno in quel tipo di universo il tempo (almeno
così come noi lo concepiamo) non esiste. Ma se il tempo non
esiste in un universo compatibile con le leggi che governano il
nostro, logicamente non esiste e non può esistere il tempo
neanche nel nostro universo. E’ quindi irrilevante sostenere che
l’universo di Gödel ruota invece di espandersi come il nostro. I
casi sono due: o le equazioni di Einstein sono errate o il tempo
non esiste. Negare questo ragionamento, sostenne Gödel,
equivarrebbe ad affermare “che l’esistenza o la non esistenza
dello scorrere oggettivo del tempo (cioè il fatto che esiste un
tempo nel senso comune della parola) dipende dal modo
particolare in cui la materia e il suo moto sono disposti nel
mondo”.

L’inesistenza del tempo. Isobel scrollò le spalle “Che idea


balorda” disse tra se e se. Il solo pensarlo le diede nuovamente
una sensazione di vertigine. Di ciò che aveva appena letto non
sapeva cosa pensare: ovviamente non era in grado di verificare

170
la bontà dei calcoli e delle equazioni (su questo si sarebbe
dovuta fidare) ma, per quanto riguardava il ragionamento che
ne derivava le appariva logicamente corretto e ineccepibile. “Se
i calcoli di costui sono corretti il nostro concetto di tempo può
essere una approssimazione semplicistica del concetto reale del
tempo”. Si stupì del pensiero che aveva appena formulato. Del
resto effettivamente alcune nostre percezioni, come aveva
scritto la nonna, potevano essere fuorvianti. In quel momento
le affiorò nella mente l’immagine della farfalla. Anche per il
bruco, si sorprese a pensare, la sua trasformazione in farfalla
può essere percepita come morte, come fine della vita di bruco
(e in parte lo è) e forse allo stesso modo la farfalla non ha
coscienza del suo essere stato bruco. Forse allo stesso modo il
tempo, il prima e il dopo sono solo un modo che la nostra
mente ha di ordinare gli accadimenti, forse il bruco è anche
farfalla e la farfalla è bruco contemporaneamente. Sciocchezze,
si disse. Eppure l’immagine della farfalla le rimase nella
mente. Il tempo circolare… Questo sembravano indicare quelle
“curve chiuse di tempo”. Effettivamente, pensò, la natura è
ciclica: il sole sorge e tramonta ciclicamente, le stagioni calde e
fredde si susseguono immutabilmente, tutto in natura ci parla di
cerchio, la nostra stessa vita potrebbe essere rappresentata da
un cerchio di cui noi conosciamo solo la parte illuminata ma
forse, come il sole quando tramonta non muore, semplicemente
sparisce dalla nostra vista, così anche il nostro tramonto, il
nostro morire può essere visto come una parte nascosta di un
cerchio di cui noi possiamo coscientemente percepire la parte
illuminata, quella che va dal nostro sorgere al nostro sparire.
Forse il tempo, il nostro tempo può essere circolare. Mentre
così pensava aveva disegnato su di un foglio un cerchio diviso
a metà da una linea, poi colorò la metà sottostante di nero.
Ecco, noi nasciamo e moriamo nella parte bianca, ma forse

171
dalla morte si ritorna attraverso un viaggio nella parte che ci è
preclusa ai sensi di nuovo all’inizio.

Guardò il disegno. In qualche modo le ricordava il tao e


forse il significato non era del tutto distante da quello del tao
medesimo. Ne rimase in qualche modo sorpresa. Si stropicciò
gli occhi. Era tardi: dalla finestra filtravano i primi raggi del
sole che sorgeva dietro le montagne. Riordinò i fogli, spense la
candela e si sdraiò sul letto. Domani sarà una lunga giornata,
pensò, e così si addormentò.

172
CAPITOLO XXXII

8 marzo 2001 ??????

Isobel si ritrovò sdraiata su di un prato fiorito, le mani riunite a


contenere due farfalle, una bianca e una nera, le lacrime che le
bagnavano le gote. Sentiva, da lontano, la voce della nonna che
la chiamava. Ricordava perfettamente quella scena: i suoi
genitori erano morti il giorno precedente e lei doveva recarsi al
loro funerale. Aveva chiesto alla nonna di accompagnarla,
prima della cerimonia, in un parco vicino casa, dove si recava
spesso con mamma e papà a passeggiare la domenica; lì si era
messa a rincorrere due farfalle. Mentre cercava di prenderle
aveva incominciato a piangere: le due farfalle si erano fermate
su di una margherita e lei era riuscita a catturarle trattenendole
tra le mani rinchiuse a coppa senza far loro del male. Ricordava
cosa era successo dopo: le aveva riportate alla nonna che le
aveva messe nella gabbietta di legno che le aveva costruito un
tempo il babbo, poi le avrebbero portate in chiesa e le
avrebbero liberate alla fine del rito funebre. Isobel fece per
alzarsi e dirigersi da dove proveniva la voce della nonna ma si
fermò terrorizzata: vi fu una specie di piccolo bagliore poi, un
attimo dopo, una ragazza del tutto simile a lei le corse innanzi e
si diresse nel boschetto di tigli poco distante. Impaurita e
incuriosita al tempo stesso la seguì, incurante dei richiami della
nonna che si facevano sempre più acuti e insistenti. Arrivò al
boschetto e si nascose dietro un cespuglio, scostò alcune
frasche e si mise a osservare; la bambina, che aveva il suo
identico vestito e le voltava le spalle, si era fermata dinnanzi a
un enorme cedro del libano e stava togliendo qualcosa dalle
tasche. In quel momento vide di nuovo quello strano bagliore e,
da dietro di lei, spuntò una ragazza, con lo stesso vestito di

173
quella che stava osservando in quel momento che, correndo
oltrepassò il cedro dirigendosi verso il boschetto di betulle
poco distante. Stava per mettersi all’inseguimento di quella
ragazza quando, voltandosi nuovamente verso la ragazza ferma
dinnanzi al cedro del libano la vide estrarre dalla tasca una
corda, arrampicarsi sul vicino cedro del libano, avvolgerla a un
ramo e infilarsi il cappio al collo. Con un urlo balzò fuori dal
cespuglio e corse verso l’albero gridando:”Fermati!!! Ti prego
fermati!!” L’urlo le si smorzò in gola quando vide la ragazza
spiccare un salto dal ramo e udì il rumore sordo dello strattone
della corda. Isobel corse verso la bambina, cercando di
sorreggerla, ma era pesante, troppo pesante: “No!!” gridava
“Nooo!!” con tutto il fiato che aveva nei polmoni, poi esausta
cadde a terra. Passarono pochi secondi che a Isobel parvero
ore; alla fine si rialzò e volse il suo sguardo verso l’albero: il
corpo immobile della ragazza ondeggiava leggermente, le
braccia tese lungo gli esili fianchi, i capelli lunghi a
nascondergli il viso. Si avvicinò lentamente e, tremando e
singhiozzando e le scostò i capelli per vederne il viso. Con un
urlo cadde a terra. Era lei, quella ragazza era lei. Non era il
vestito che era uguale, quella era proprio lei. Una specie di
sorriso beffardo illuminava il viso che stava fissando, il suo
viso. Era morta.
Si alzò di scatto e iniziò a correre, gli occhi annebbiati dalle
lacrime: d’un tratto sentì un urlo, poi un altro seguito da
un’invocazione di aiuto. Corse nella direzione da dove
sembravano provenire le grida e vide la ragazza che prima era
corsa via da davanti al cedro, era sicura che si trattasse di lei,
che cercava di divincolarsi dalle braccia di un uomo che,
strattonandola, la trascinava via. Sconvolta e atterrita invocò
aiuto con quanto fiato aveva in gola ma il cuore le si fermò
quando sentì una mano afferrarle una spalla e scuoterla
violentemente...

174
“Isobel, Isobel svegliati”. Era la voce di Hani. Pian piano
Isobel si destò dal torpore del sonno e vide, con lo sguardo
velato dalle lacrime, Hani che con un dolce sorriso sul volto le
accarezzava i capelli cercando di tranquillizzarla.
“Stavo venendo a svegliarti” le disse il ragazzo asciugandole le
lacrime “quando ho sentito che urlavi, ho provato a bussare ma
non ti svegliavi, allora ho chiesto a Rumi, che passava di lì, se
aveva modo di aprire la porta, lei ha estratto una chiave da una
tasca e ha aperto.”
Isobel lo abbracciò, cercando di scacciare le sensazioni che
quel sogno le aveva incollato addosso e, mentre stringeva forte
a se il ragazzo, come un lampo di luce che squarcia le tenebre i
ricordi si fecero chiari. Ora ricordava ogni cosa: quella mattina,
il giorno dei funerali dei suoi genitori aveva deciso di
uccidersi. Ricordava perfettamente come aveva organizzato
tutto fin nei minimi particolari: la corda, la richiesta alla nonna
di fermarsi al parco, il cedro del libano che sin da piccola
amava scalare e sul quale aveva deciso di impiccarsi. Tutto era
pronto, era decisa, assolutamente determinata a raggiungere i
suoi genitori. Non vedeva altre soluzioni, non vi era che quella
via d’uscita. Nulla poteva fermarla. Poi, appena scesa dall’auto,
dopo aver pregato la nonna di attenderla a bordo si era
incamminata verso il boschetto attraversando un prato verde
pieno di margherite in fiore. Mentre si avvicinava con passo
deciso al boschetto due farfalle, una bianca e una nera con un
puntino azzurro sulle ali, le si erano messe a volare intorno al
viso, in maniera insistente e anche un po’ fastidiosa. Poi, quasi
d’incanto, una di esse, quella bianca, le si era posata sulla
spalla. Isobel si era fermata di colpo. La farfalla aveva chiuso
le ali e stava immobile. In quell’istante anche l’altra farfalla le
si posò sull’altra spalla e lì si era fermata. D’un tratto, in
maniera assurda e inconsapevole le balenarono in mente le
parole che, scherzando, le rivolgevano spesso mamma e papà

175
quando passeggiavano insieme: “Isobel” le dicevano
appoggiandosi l’uno su una spalla, l’altra sull’altra “tu sarai il
bastone della nostra vecchiaia. Senti che spalle robuste.
Mantieniti forte che un giorno ti serviranno per reggerci
davvero..”
Era una scena che si ripeteva spesso quando andava a
passeggio con mamma e papà e che si concludeva con risate,
scherzi e schiamazzi..
Isobel si era inginocchiata e aveva incominciato a singhiozzare
nascondendosi il viso tra le mani. Le due farfalle avevano
preso il volo e le si erano posate sulla mano; Isobel le aveva
chiuse delicatamente ed era tornata dalla nonna. La corda era
rimasta in mezzo al prato. I suoi propositi erano svaniti in un
lampo, spazzati via in un battito d’ali di farfalla.
Isobel era confusa. Cosa significava quel sogno? Quelle molte
lei che avevano sorti diverse, cosa rappresentavano? E chi era
quell’uomo che la stava trascinando via?
Raccontò ogni cosa ad Hani, a partire dalle sue letture e dalla
scoperta del legame che univa le ricerche della nonna. Hani la
ascoltò attentamente e, quando ebbe finito, abbracciandola le
disse: “Hai visto i bivi che hai attraversato in quel particolare
momento della tua vita e hai visto cosa sarebbe potuto accadere
se non ti fossi fermata ad osservare le farfalle, se avessi deciso
di non salire sul cedro ma di andare nel boschetto di betulle..
Erano futuri possibili, posti innanzi a te sotto forma di scelte.
Tu hai scelto e sei qui, ma forse una Issi è ancora in quel
boschetto, un’altra è sotto terra, un’altra è regina di un atollo
della Polinesia. E’ uno strano sogno, legato probabilmente alle
tue letture di ieri sera sul concetto di tempo.”
“Forse hai ragione” rispose Issi con un mezzo sorriso “ma la
sensazione è stata orribile!”
Hani la strinse forte a sé. “Andiamo” le disse “ Rumi ci aspetta
alla Sala del Silenzio. Si è raccomandata di non tardare.”

176
Isobel prese i fogli stampati la sera precedente, li piegò e se li
mise in tasca, poi trascrisse su di un foglio il titolo che aveva
sottolineato la sera prima, aprì la porta e, affiancata da Hani, si
recò alla Sala del Silenzio. La porta, che la sera precedente era
socchiusa, era in quel momento aperta e all’interno erano
presenti già diverse persone, Isobel ne contò una ventina, che
vagavano tra gli scaffali o sfogliavano libri ai banconi. Appena
entrati nella immensa sala Rumi, che stava consegnando un
libro a un vecchio frate con il saio francescano, fece loro un
cenno con la testa, si congedò dal religioso e li raggiunse.
“Che la pace illumini il suo giorno Isobel” le disse rivolgendole
un dolce sorriso “non le chiedo se ha passato una bella notte
perché ho sentito che ha fatto brutti sogni. Capita spesso alle
persone, soprattutto i primi giorni del loro soggiorno qui; con il
tempo a molti non accade più, ma ci sono persone che hanno
incubi per tutta la durata del loro soggiorno a Lendi Eleusi…”
Poi, guardandola diritta negli occhi “Ha sognato per caso una
farfalla blu con delle macchie bianche sulle ali?”
Isobel la guardò sconvolta annuendo timidamente “Come fai a
saperlo?”
“E’ un elemento tipico dei sogni di questo luogo. Studio questo
fenomeno da anni. A dire il vero è uno dei motivi per cui mi
trovo qui. Mi può raccontare il suo sogno?”
Isobel guardò Hani, che le sorrise, poi iniziò a raccontare il
sogno a Rumi senza tuttavia accennare alla lettura dello scritto
della nonna ma facendo un generico riferimento ad alcune
letture sul problema del tempo in fisica.
“Il tempo” disse alla fine Rumi “Ha chiaramente a che fare col
tempo, con la memoria, con i ricordi. Alcuni dei sogni nei quali
mi sono imbattuta in questo luogo avevano a che fare con il
concetto di tempo, e questo sembra proprio essere fra questi..”
“Ma hai idea del significato delle farfalle?” chiese Isobel
incuriosita.

177
“Non ancora, ma sono sicura che anch’esse hanno a che fare
con il concetto di tempo, sicuramente di trasformazione; in
realtà è ciò che esse simboleggiano nel rituale che hai visto al
consiglio in memoria di tua nonna, ma sono sicuro che non è
tutto qui; probabilmente anch’esse sono un archetipo, un
simbolo a cui i nostri inconsci attingono in particolari
situazioni. E’ una simbologia molto usata, oltre che nella
poesia, anche in alcuni trattati di filosofia orientale.”
Mentre stavano discutendo di questo, in piedi di fianco a un
enorme scaffale ricolmo di libri, un anziano signore si avvicinò
loro chiedendo se potevano farlo accedere alla mensola nella
quale doveva riporre un libro. Isobel si spostò con un gesto di
scuse..
“Professor Barbur, mi permetta di presentarle Isobel Morrison,
nipote di Tina Morrison “ disse Rumi inaspettatamente.
“Molto lieto” disse l’anziano professore in un perfetto accento
inglese “Ho saputo della triste notizia della scomparsa di sua
nonna. E’ stata una grande perdita. Sua nonna era una
splendida persona e una mente vivace e ricettiva. Ricorderò
sempre con gioia le nostre discussioni…”
Isobel lo guardò incuriosita.
“Il professore è un importante studioso di fisica. E’ stato a
contatto con i più grandi fisici del 900, da Einstein a Pauli, da
Feyman a Dyson e Wheeler….. “
“E’ passato, tutto passato…..forse” mormorò il vecchio
facendo cenno a Rumi di smettere..
“Professore” interruppe Isobel “lei è uno studioso di fisica?
Avei bisogno di chiederle alcuni chiarimenti, è possibile?”
“Certamente” rispose “qualunque cosa per la nipote di Tina
Morrison; mi segua, andiamo all’aperto, per certi argomenti è
opportuno avere aria fresca e un cielo limpido piuttosto che
quattro mura seppur austere e severe come queste.”

178
E così dicendo ripose il libro che teneva in mano sullo scaffale
e, con passo incerto si diresse verso l’uscita. Isobel lo seguì,
non prima di aver dato ad Hani il foglio con il titolo del libro
che voleva recuperare, raccomandandogli di cercarlo.
“Non ti preoccupare Issi, ci penso io.“ rispose Hani
inoltrandosi tra gli immensi scaffali.

179
180
CAPITOLO XXXIII

8 marzo 2001 Lendi Eleusi

Il vecchio professore condusse Isobel in una specie di giardino


interno, circondato da due lati dal monastero e incorniciato tra
il basalto e la costa della montagna a strapiombo sopra il lago.
La vista delle montagne circostanti era ancora una volta
mozzafiato. Isobel rimase immobile, incantata dalla maestosa
armonia del paesaggio.
“Venga” la voce del professore la riportò alla realtà “si sieda
qui accanto a me. Questa era la panchina dove io e sua nonna
venivamo per discutere, parlare, confrontarci“
Isobel si avvicinò e si sedette con un filo di inspiegabile
emozione.
“Allora mi dica, che cosa vuole sapere da un povero vecchio
mezzo rimbambito?”
“Professor Barbur, che cos’è il tempo?” chiese Isobel a
bruciapelo.
Il professore la guardò sorpreso poi, con un sorriso appena
abbozzato fece schioccare le dita.
“Questo è tempo” rispose “O meglio, questo è quello che noi
percepiamo come tempo. Il rumore dello schiocco delle dita è
arrivato al suo orecchio e lei ha pensato che ora io abbia
schioccato le dita, come lei pensa che io le stia dicendo adesso
queste parole. Ma è davvero così?”
Isobel lo guardò con aria interrogativa.
“Provo a spiegarmi meglio: ciò che noi percepiamo del tempo è
una infinita successione di attimi che danno luogo a una serie
di eventi temporalmente orientati. Io penso che adesso sto
parlando con lei, mentre prima stavo schioccando le dita.
Quindi la nostra percezione del tempo come una serie di eventi
181
temporalmente orientati è basata sul confronto tra un adesso e
il suo attimo precedente. Mi segue?”
Isobel annuì
“Bene. Ma che cos’è un adesso? Posso davvero sostenere di
percepire ciò che accade nel medesimo istante in cui accade?
Un fisico, quale io dovrei essere le risponderebbe di no, e forse
anche ogni persona di buon senso. Tutto ciò che vediamo o
udiamo è già accaduto. Le mie parole che adesso lei sta udendo
le ho pronunciate un miliardesimo di secondo fa, quelle
montagne le vede come erano dieci miliardesimi di secondo fa,
il sole che “ora” splende in realtà splendeva così otto minuti fa.
La nostra percezione è sempre in ritardo rispetto all’evento che
crediamo di vivere e questo perché le immagini, i suoni, i
movimenti che noi percepiamo devono viaggiare dalla fonte al
ricettore. In pratica ciò che noi percepiamo come adesso è
composto da una lista di eventi che in realtà noi non possiamo
percepire, influenzare e nemmeno registrare nel momento
esatto in cui realmente avvengono. Il nostro concetto di adesso
si basa sulla percezione degli eventi ed è, come le ho detto,
fallace. “
Isobel guardò il professore con aria interrogativa
“Quindi, come può ben comprendere, il concetto di presente,
concetto dal quale derivano i concetti di passato e di futuro
(perché un evento è passato rispetto ad ora ed è futuro sempre
rispetto ad adesso) è un concetto difficile se non impossibile da
afferrare e determinare.”
Isobel era confusa.
“ …e non ho finito” aggiunse con un lieve sorriso ”Lei è
convinta che il mio adesso e il suo coincidano; ovvero se io e
lei dovessimo fare una lista istantanea delle cose che sono
contenute e percepite nel nostro “adesso” queste liste
coinciderebbero. Per la fisica relativistica questo è accettabile e
vero solo se io e lei siamo fermi. Se uno di noi due

182
incominciasse a camminare i nostri “adesso” incomincerebbero
a divergere; sto ovviamente parlando di divergenze
infinitesimali, ma la teoria della relatività ristretta ci comunica
proprio questo: due osservatori che si muovono l’uno rispetto
all’altro hanno concezioni diverse di ciò che esiste in un
determinato momento e hanno pertanto concezioni diverse
della realtà. Ovviamente tale divergenza aumenta all’aumentare
della velocità del moto o all’aumentare della distanza nello
spazio tra i due. Due osservatori posti a grande distanza
(poniamo su pianeti diversi) entrambi fermi hanno la medesima
percezione dell’adesso che stanno vivendo (ovvero la loro lista
di eventi costituenti il loro “adesso” coinciderebbe). Ma se uno
dei due incominciasse a camminare la loro lista di eventi
incomincerà a divergere e tale discrepanza sarà tanto maggiore
quanto più grande sarà la distanza tra i due osservatori. Se,
poniamo, un osservatore si trova sulla Terra e l’altro su di un
pianeta a dieci miliardi di anni luce dalla Terra stessa basterà
una passeggiata alla velocità di sedici chilometri all’ora per far
sì che gli eventi che per lui si stanno svolgendo sulla terra si
sono in realtà svolti per chi è sulla terra 150 anni fa!”
“E….” Sussurrò Isobel sconcertata
“E, mi scusi concludo il ragionamento, se il nostro osservatore
passeggiando invece di allontanarsi da chi è rimasto sulla Terra
si avvicinasse il suo adesso coinciderebbe con eventi che per
chi è sulla Terra si verificheranno 150 anni nel futuro. Da ciò
ne deriva, e può sembrare assurdo ma non lo è, che se lo spazio
è infinito la realtà comprende tutti gli eventi dello spazio-
tempo, quelli che noi chiamiamo passati, quelli presenti e
quelli futuri. Ed è per questo che Einstein potè scrivere: Per noi
che crediamo nella fisica la differenza tra presente, passato e
futuro è solo un’illusione.”
Isobel era frastornata e affascinata. Quell’ultima frase poi le
aveva ricordato quanto aveva scritto la nonna.

183
“Ma lei mi sta dicendo che ogni momento passato e futuro è
già reale? Questo è assurdo: io prima ero nella biblioteca e ora
sono qui con lei…”
“Questo è ciò che interpreta il suo cervello. Glielo ripeto: dal
punto di vista della fisica ciò che lei giudica come passato fa
ugualmente parte della realtà quanto il momento della sua
morte. E’ il modo con cui la nostra mente interpreta la realtà a
rendere il tempo come un flusso ordinato e orientato di eventi.
Si immagini per un momento che tutto il tempo, tutti gli
adesso, quelli che per noi formano passato presente e futuro
siano le caselle di una immensa scacchiera. In una casella c’è
Giulio Cesare che attraversa il Rubicone, in un’altra Napoleone
a Sant’Elena, in un’altra Colombo che posa i piedi nelle
americhe, in un’altra il vincitore dei cento metri delle
Olimpiadi del 2150, in un’altra noi che stiamo parlando qui in
questo luogo: ogni possibile adesso passato, presente e futuro è
rappresentato da una casella di questa immensa scacchiera. Ora
immagini che la nostra mente sia un raggio di luce che illumina
uno di questi adesso: quello è ciò che lei chiama presente e in
esso lei riconosce una sequenzialità di eventi che la hanno
condotto a quella casella; in altre parole lei è in grado di
ricordare le caselle che la sua mente ha illuminato in
precedenza. Ma è possibile, almeno in teoria illuminare una
qualsiasi di queste caselle, quella con Giulio Cesare come
quella con le olimpiadi del 2150. Quindi il tempo come noi lo
percepiamo potrebbe essere, in ultima analisi, una parte del
tempo assoluto che il nostro cervello non riesce ad assimilare e
a gestire: questo spiegherebbe come soggetti in stati alterati di
coscienza indotti attraverso la meditazione, l’estasi mistica,
l’assunzione di sostanze psicotrope e l’ipnosi regressiva ci
parlino di un concetto e di una percezione del tempo assai
diversa da quella che noi definiamo normale. E anche i
cosiddetti malati mentali presentano stati di coscienza del

184
tempo alterati rispetto a ciò che noi consideriamo la norma. Ma
in questo tipo di analisi era molto più brava sua nonna di me.”
“Mia nonna?” chiese Isobel
“Sì, lei non ha idea di quante ore abbiamo trascorso io e lei a
parlare di queste cose.” sollevò lo sguardo verso il cielo ”Ci
perdevamo in discussioni di ore e ore e il tempo sembrava
davvero fermarsi; era una donna straordinaria” concluse quasi
tra se e se.
“Sì lo era.” Rispose Isobel “Quindi era di questo che
discutevate con mia nonna del concetto del tempo?”
“Sì: lei era affascinata dai nessi che le pareva intravedere tra la
concezione del tempo della fisica e quella che si può ritrovare
in certi filosofi, in certe descrizioni dell’estasi mistica, in certi
stati alterati di coscienza. Io non so quale fosse lo scopo della
sua ricerca, ammesso che la ricerca debba avere uno scopo,
glielo chiesi in diverse occasioni ma mi rispose sempre in
maniera evasiva. Sono certo però che stesse cercando ciò che
unisce le nuove scoperte della fisica con alcune speculazioni
filosofiche e religiose sull’esistenza, la vita e il suo senso, la
realtà, il tempo. Ricordo che, in particolare, era rimasta molto
affascinata da un aspetto particolare della teoria dei quanti: la
non località. Ne discutemmo un giorno fino a tarda notte e
smettemmo solo perché io ero esausto. Due giorni dopo lasciò
di nascosto Lendi Eleusi e nessuno qui la rivide più.. “.
Si voltò verso le montagne e parve asciugarsi una lacrima dagli
occhi.
“Professor Barbur” riprese Isobel “ che cos’è la teoria dei
quanti e questa, come la ha chiamata… non località, che
incuriosiva maggiormente mia nonna?”
“Una cosa alla volta piccola, una cosa alla volta” rispose il
vecchio con un sorriso” Prima occorre che tu, posso darti el tu
vero, comprenda e assimili ciò che ti ho detto prima; a tal
proposito occorre che io aggiunga e introduca alcuni ulteriori

185
concetti altrimenti la spiegazione precedente può risultare
fuorviante. Prima ti ho detto che dal punto di vista fisico la
realtà non può essere scissa in passato, presente e futuro ma
che essi fanno tutti parte della realtà. Ho anche detto che è la
mente che opera un ordinamento cronologico degli eventi.
Questo però non è del tutto esatto e io mi sarei aspettato una
qualche obiezione”
“La morte: la morte nega la mancanza di un ordine temporale.
La nascita e la morte sono il segno del ciclo della vita e dello
scorrere del tempo. Esistono eventi irreversibili, eventi che
tracciano il senso dello scorrere del tempo non solo nella nostra
mente, ma anche nella nostra carne: Cicatrici... Ricordi…
Memorie… Scomparse… Distruzioni… Reliquie… Rovine...
Tutto ciò ci parla di un “era” e di un “è”, di un “ora” e di un
“allora”. L’irreversibilità della morte, l’irreversibilità della
nascita, l’irreversibilità dello scrosciare dell’acqua della
cascata, tutto ci parla della direzione, dello scorrere del tempo.
La nonna un tempo era qui, ora non più, ciò che muore non
torna in vita! Come dice quel saggio detto popolare ”Non ha
senso piangere sul latte versato” perché il latte una volta sparso
per terra non può più ritornare allo stato iniziale. Il tempo
scorre e con esso il dolore e la rassegnazione che si porta
appresso…”
“E’un grande problema, forse il problema che ogni fisico si
trova davanti: sposare le nostre percezioni con le evidenze
sperimentali e, in più di un caso dovere ammettere che sono le
prime a essere sbagliate. E’ un problema antico ma sempre
attuale: oggi nessuno si sentirebbe di confutare il fatto che il
sole è fermo e la terra gira anche se i nostri sensi sperimentano
l’esatto contrario. Per il tempo è lo stesso, così come per alcuni
aspetti della teoria quantistica e della relatività: dobbiamo
abbandonare le nostre percezioni se esse si dimostrano errate e
questo è quanto di più difficile si possa immaginare perché

186
significa abbandonare, almeno in parte, la nostra concezione di
realtà. Quello che tu chiami irreversibilità in realtà per la fisica
è esclusivamente legata al concetto di probabilità e al concetto
di entropia. L’entropia, che potremmo definire come la misura
del disordine di un determinato sistema, è un concetto fisico
valido per il passato e per il futuro. La seconda legge della
termodinamica dice che ogni sistema tende a variare da uno
stato di ordine a uno di disordine, ovvero aumenta il suo grado
di entropia. Questo significa che vedremo il latte passare dalla
bottiglia al terreno. Ma ciò non nega di per se che non possa
avvenire il contrario, attribuisce solo a tale evento una
probabilità molto bassa. Questo significa che il concetto di
irreversibilità non è una costante ma una condizione il cui
verificarsi ha una probabilità altissima; la possibilità teorica
che si passi da uno stato di massima entropia a uno di entropia
minore quindi esiste. Questo, tornando al detto popolare,
significa che rimane la possibilità di vedere il latte versato
rientrare nel suo contenitore.”
Isobel lo guardò riluttante.
“Non è possibile, è contro ogni logica..”
“E invece ti dico che è possibile, altamente improbabile ma
non impossibile.”
“E per quale motivo nella realtà noi percepiamo solo il
passaggio irreversibile dall’ordine al disordine?” chiese Isobel
concitatamente.
“Questa è la domanda!”esclamò Barbur “ed è una domanda
molto importante. Hai mai sentito parlare del Big Bang?” le
chiese a bruciapelo.
“Sì, dovrebbe essere quella grande esplosione da cui ha avuto
origine l’universo” disse Isobel titubante.
“Esattamente; ed è da questa ipotesi sull’origine dell’Universo
che si fa discendere, tra le altre cose, l’orientamento temporale
che ognuno di noi sperimenta ad ogni istante, lo scorrere del

187
tempo, la irreversibilità e il verso che gli eventi prendono.
Secondo tale teoria quell’evento ha fatto nascere il tempo e il
verso del tempo; essa assume che si sia partiti da una
situazione di entropia bassissima e che tale livello di entropia
dal momento di quella esplosione iniziale si espanda con
l’universo. L’espansione dell’entropia da quel momento
iniziale ha dato e continua a dare il senso irreversibile degli
eventi che noi tutti percepiamo; in altre parole ha creato la
freccia del tempo. Occorre però che si tenga presente che il big
bang è una teoria e che, in mancanza di essa, l’orientamento
temporale che percepiamo non è irreversibile.”
Isobel restò in silenzio, affascinata e sconcertata a un tempo.
Poi, dopo alcuni minuti in cui non fece altro che fissare un
punto lontano nell’orizzonte, disse:
“Mi sta dicendo che l’ipotesi del Big Bang è necessaria per
giustificare l’irreversibilità del procedere del tempo dall’ordine
al disordine e non viceversa?”
“Esattamente.”
“Ma un grado di entropia bassissimo, o uno stato
massimamente ordinato, non è altamente improbabile? E chi o
cosa ha innescato il Big Bang?”
“Vedo che incominci a capire. Noto una certa famigliarità nelle
domande”
“...ma, più di ogni altra cosa, il mondo sta evolvendo verso il
disordine in maniera irreversibile? L’ordine intrinseco che uno
percepisce guardando il cielo, l’universo, la natura in realtà è
un lento inesorabile cammino verso il disordine, il caos?”
“Questo è ciò che ci dice la seconda legge della termodinamica.
Ma non precipitarti nel trarre conclusioni, è troppo presto.
Questo è solo il primo passo in un mondo nuovo per te, e dai
sentieri impervi e panorami imprevisti, con incroci insospettati
e vicoli ciechi.”

188
Il vecchio guardava le montagne all’orizzonte i cui fianchi,
candidi di neve, scintillavano del riflesso del sole. Poi si girò
verso Isobel e le disse con tono gentile ma fermo: “Per oggi
credo sia opportuno interrompere qui la nostra chiacchierata.
Hai già abbastanza di cui riflettere..”
“E la teoria dei quanti o come diamine si chiama?!?” protestò
Isobel delusa.
“Un passo per volta signorina” sorrise il vecchio “o si rischia di
inciampare.” E così dicendo si avviò verso la porta da cui erano
giunti. “Ci vedremo qui tra una settimana per proseguire la
nostra discussione. Credimi, certi concetti hanno bisogno di
essere metabolizzati e approfonditi prima di aggiungerne altri.
Ora seguimi ti prego, voglio farti vedere una cosa” e così
dicendo rientrò nel monastero e la condusse nuovamente nella
Sala del Silenzio, si accostò a un bancone e prese in mano un
vecchio libro, lo scrollò e da esso fuoriuscirono alcune vecchie
foto. Il vecchio le prese e le porse a Isobel.
“Ecco vedi, questo sono io con Albert Einstein e Kurt Gödel
durante i miei anni di dottorato in fisica all’Università di
Princeton” le disse il vecchio con un’aria triste.
“Ebbi la fortuna di conoscere, anche se per poco, due delle
persone più geniali che la storia dell’umanità abbia mai
conosciuto…”
“Kurt Gödel? Ho letto qualcosa di lui in alcuni appunti della
nonna: chi era esattamente e cosa ne fa una delle persone più
geniali della storia?” chiese Isobel provando a riprendere la
discussione.
“Tra una settimana Isobel, tra una settimana risponderò a
questa domanda e proverò a darti qualche cenno sulla teoria dei
quanti. Ora ti devo salutare...” e così dicendo ripose le
fotografie nel libro, se lo mise sotto il braccio e uscì dalla
biblioteca.

189
Isobel lo osservava sempre più incuriosita quando una mano le
si poggiò sulla spalla. Si girò di scatto. Era Hani.
“L’ho trovato!” le disse portandosi un dito alla bocca e
ricacciandole in tal modo un urlo di spavento in gola. Gli
mostrò un piccolo libercolo, saranno state una ventina di
pagine, sulla cui copertina campeggiava il titolo “I misteri di
Eleusi”.
“Ma ho scoperto una cosa strana.“ le disse con un sussurro
nell’orecchio “Il computer di tua nonna, ho provato ad
accenderlo per vedere se vi erano altri dati interessanti ma non
c’è più nulla, nulla di nulla”
“Non c’è più nulla?”disse Isobel incredula.
“Sì, hanno cancellato la memoria. Tutto ciò che tua nonna
aveva fatto e lasciato sul computer è andato perduto per
sempre.”
“Ma io ho questo” disse Isobel toccandosi la tasca dei pantaloni
dove teneva le pagine del elenco di libri che avevano stampato
la sera precedente. “Andiamo in camera mia, voglio capire di
quali misteri parla questo libro.”
E così uscirono, con passo spedito dal salone.

190
CAPITOLO XXXIV

Dalla bozza del libro di Tina Morrison

La meccanica dei quanti

Sarebbe impossibile descrivere qui, all’interno di un libro, la


meccanica quantistica se non scrivendo un libro dentro un libro.
Voglio qui semplicemente riassumere alcuni principi e paradossi
che la riguardano.
Partiamo innanzitutto definendo la meccanica quantistica: è un
complesso di teorie fisiche che descrivono il comportamento
della materia a livello microscopico.

Alcuni dei cardini su cui si basa la meccanica quantistica sono, in


maniera sommaria, i seguenti:

− Principio di indeterminazione di Heisenberg: è il


principio secondo il quale esistono coppie di variabili
relative alle particelle subatomiche il cui valore non può
essere conosciuto simultaneamente, indipendentemente
dall’accuratezza delle misure.

− Di un evento in ambito della meccanica quantistica


possiamo misurare solo la probabilità che esso avvenga.

− L’osservatore di un processo quantistico influenza il


fenomeno osservato.

− Esistono interazioni non locali tra particelle dette


entangled tali per cui un cambiamento di una particella
causa un immediato, simultaneo e simmetrico

191
cambiamento di un’altra particella, indipendentemente
della distanza che le divide.

− Lo stato di una particella si determina esclusivamente


con l’osservazione; prima essa si trova in una sorta di
limbo in cui tutti gli stati sono ugualmente possibili.

Già da questi si può notare come la realtà che essi descrivono si


discosta da quella da noi normalmente percepita: il mondo
dell’infinitamente piccolo pare funzionare con regole
completamente diverse rispetto a quello in cui noi siamo
immersi.
Ma che ne è del tempo nel mondo dei quanti?

192
Il tempo in psicologia (L’io e il Tempo)

Un concetto assolutamente legato a quello del tempo è il


concetto di io. L’io vede se stesso nel tempo e si riconosce in
esso come in uno specchio. Potremmo spingerci a dire che senza
tempo non esisterebbe l’IO e senza l’IO non vi sarebbe
percezione dello scorrere del tempo: per chi scorrerebbe
altrimenti il tempo? Ma così come tutte le filosofie orientali
hanno come scopo l’abbandono del concetto di IO così hanno
un diverso concetto del tempo rispetto a noi occidentali. I koan
zen ad esempio altro non sono che il tentativo di scardinare i
concetti di tempo e di IO che troviamo radicati nel nostro modo
occidentale di pensare?
Già nell’analisi delle forme di schizofrenia (in cui si ha la
disgregazione parziale o completa dell’io) si possono
intravvedere segnali di abbandono del concetto di tempo.
Prendiamo i cosiddetti “biglietti della follia” di Nietzsche, scritti
poco prima di avere la famosa crisi in cui, a Torino, vedendo un
cocchiere frustare violentemente un cavallo gli si gettò al collo
urlado, collassando e sprofondando definitivamente nella follia.
La frase “Quel che è spiacevole e nuoce alla mia modestia è che
io, in fondo, sia ogni nome nella storia …” scritta al suo maestro
Jakob Buckhardt non indica forse, con l’annullamento del
concetto di IO e un contemporaneo annullamento del concetto
lineare di tempo? Sentirsi ogni nome della storia, sentirsi quindi
la storia, identificarsi con essa, avere tutti gli eventi passati dentro
di se…
E ancora:

“In che modo meraviglioso, nuovo e insieme tremendo e ironico mi sento


posto con la mia coscienza dinnanzi all’esistenza tutta! Ho scoperto per me
che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e
l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a
poetare, ad amare, a odiare, a trarre le sue conclusioni – mi sono destato di
colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per essere cosciente che appunto sto
sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire!”

193
Sentire ogni passato, non solo il proprio dentri di se, sentire ogni
essere passato agire, pensare e vivere attraverso di se, sentire la
nostra realtà come un sogno da cui non ci si può svegliare.
Ancora:

“Io parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre
vivo ancora ed invecchio […] Conosco l’una e l’altra cosa, sono l’una e
l’altra cosa.”

[.........].Proprio ora il mondo diviene perfetto, mezzanotte è anche


mezzogiorno, dolore è anche piacere, maledizione è anche benedizione, notte è
anche un sole. Andate via o vi toccherà imparare: un saggio è anche un folle.
[.........].

F. W. Nietzsche (1886 Il canto del nottambulo)

Un altro schizofrenico famoso Antonin Artaud ha sperimentato


sulla sua pelle l’incapacità di esprimere a parole concetti che con
esse sarebbero limitati, fuorvianti e riduttivi e descrivendo un
quadro di Van Gogh nel libro “Van Gogh o il suicidato della
società” si lascia andare, nel tentativo di descriverne la bellezza, a
pagine e pagine di glossolalie (sono così chiamati dei fonemi
senza significato razionale compiuto che si riscontrano in
soggetti schizofrenici che intendono in tal modo esprimere la
propria incapacità di esprimere concetti per loro inesprimibili)
Come non trovare una certa analogia con altri koan zen (una
rosa è una rosa è una rosa) che comunicano il limite delle parole
per esprimere l’inesprimibile? E non è forse la stessa situazione
in cui si sono trovati i fisici davanti alle nuove scoperte nel
campo della relatività, della fisica dei quanti ovvero l’incapacità di
esprimere quanto sperimentalmente verificavano? L’assenza di
parole non è dunque follia, forse lo è il nostro continuo cercarle,
anche il mio tentativo presente di spiegarvi queste cose. La realtà
è inesprimibile. La realtà è.
In quelle che noi chiamiamo malattie mentali il soggetto
sperimenta un lento sgretolamento dei canoni di spazio, tempo

194
ed essere che contraddistinguono la nostra “normalità”. Il suo
essere viene ad assumere altre identità, il suo tempo è dilatato,
infinito, si dice testimone di tutta la storia. Possono essere
presenti allucinazioni che confondono il reale con l’immaginario.
Ma cosa è reale e cosa è immaginario? Siamo noi nella posizione
adatta per poter giudicare con serenità tali persone e tali
comportamenti?
Noi siamo quelli che si difiniscono normali, i portatori sani della
realtà, i detentori della certezza e della salute. Ciò che è diverso
da noi viene allontanato ed etichettato come insano, malato…
Soprattutto quando tale diversità ci ricorda di una possibilità che
noi abbiamo scartato, che noi dobbiamo scartare, ovvero che la
ragione sia loro e che il nostro modo di vedere il mondo sia la
vera follia.

Come dice R.D.Laing noto psichiatra, riguardo alla schizofrenia:

“[.........]. La nostra sanità non è una sanità vera, la loro pazzia non è vera
pazzia. La pazzia dei nostri "pazienti" è un risultato artificiale della
distruzione operata da noi contro di loro e da loro contro se stessi. Nessuno
creda di poter incontrare la vera pazzia più di quanto si possa credere a
un'autentica sanità. La pazzia che riscontriamo nei nostri "pazienti" è un
volgare travestimento, una parodia, una grottesca caricatura di ciò che
potrebbe essere la guarigione naturale di quell'alienata integrazione che
chiamiamo sanità. [.........]. Ciò che noi chiamiamo pazzia è in realtà un
viaggio. [.........]. Basta non voler tenere gli occhi chiusi per accorgersi che il
trattamento (elettroshock, tranquillanti, talvolta anche la psicoanalisi)
consiste in vari modi nell'arrestare lo svolgimento di questo viaggio. Ma non
si capisce che questo viaggio non è ciò da cui abbiamo bisogno di essere curati,
ma è esso stesso un mezzo naturale per guarire il nostro spaventoso stato di
alienazione chiamato normalità? [.........].”

R.D. Laing, psichiatra (La politica dell'esperienza)

Nello schizofrenico ad esempio non esiste un tempo dominante,


il tempo si appiattisce fino a divenire inesistente in

195
contrapposizione al dilagare della propria identificazione con
l’ambiente e con altre persone. Si dice che lo schizofrenico perda
la sua sintonia con il mondo circostante: in realtà si potrebbe dire
anche che egli prende contatto con un altro mondo ed entra in
sintonia con esso. Come nota Eugene Minkowski nel suo libro
“Il tempo vissuto” lo schizofrenico tende a dare una nozione
spaziale al tempo, sostituendo il quando al dove. Egli spezza il
legame che ci congiunge con il divenire diventando in un certo
senso, puro essere, staccandosi del tutto dalla materialità e
accostandosi all’Assoluto. Dalle parole di uno schizofrenico
riportate da Minkowski:
“C’è qualcosa che non mi permette di considerare l’avvenire. Vedo
l’avvenire come ripetizione del passato…….. Ieri a mezzogiorno ho
guardato il pendolo. C’era qualcosa di particolare: il pendolo non aveva
nulla da dirmi; come avrei potuto mettermi in rapporto con il pendolo? Mi
sentivo come riportato indietro, come se qualcosa di passato ritornasse verso
di me….. come se alle 11:30 fossero di nuovo le 11:00… Mi sforzavo di
considerare il tempo come normale ma non ci riuscivo ed ecco che veniva a me
un senso spaventoso di attesa……Adesso continuo a vivere nell’eternità,
non ci sono più giorni nè notti. Fuori il tempo continua ma per me il tempo
non passa. L’orologio cammina come prima. Ma non voglio guardarlo, mi
rattrista……. Il tempo è immobile; si esita tra il passato e l’avvenire….. e
poi a volte tutto è talmente fatto a pezzi e questi pezzi appartengono a un
tutto. Un uccello cinguetta in giardino. Sento l’uccello e so che cinguetta ma
che è un uccello e che cinguetti….sono così distanti l’uno dall’altra…C’è un
abisso….Il tempo scivola nel passato, i muri sono caduti. Il tempo? Quello
viene da lontano… Cosa devo fare con il pendolo? Devo sempre guardarlo.
Mi sento spinto a guardarlo. C’è tanto tempo e io sono diversamente in ogni
momento. Se al muro non ci fosse il pendolo dovrei perire. Non sono io stesso
un orologio a pendolo? Dappertutto, in tutti i luoghi? …. La lancetta è
costantemente un’altra, adesso è la, poi fa un salto, per così dire, e gira così.
Non sarà costantemente un’altra lancetta? Forse qualcuno sta dietro al
muro e ci mette sempre una nuova lancetta… Come dicevo sono l’orologio
vivente, sono ovunque l’orologio.”

196
Sono parole che ci raccontano un profondo disagio, il disagio di
chi non sente più come vero un concetto a cui prima era abituato
ed ancorato: il tempo. Questa persona sente di vivere l’eternità:
guarda il pendolo, lo vede muoversi ma sente la fissità eterna di
ogni istante, quasi che qualcuno faccia passare meccanicamente
le lancette da una posizione all’altra per simulare lo scorrere del
tempo. Qui il concetto di tempo sembra aderire a quella
successione di adesso tutti egualmente presenti che ci suggerisce
la fisica. Manca la connessione tra causa e effetto, tra l’uccello e il
suo cinguettio e questo è dovuto all’atemporalità vissuta da
questa persona. Egli si aggrappa al pendolo come ultima
reminescenza del tempo che regolava quella che lui sentiva come
normalità. Egli si sente diversamente in ogni momento,
percepisce se stesso in ogni istante, ma ogni istante è disgiunto
da quello precedente. I muri sono caduti: ogni volta che prova a
considerare il tempo un senso di attesa e di angoscia lo pervade.
Forse davvero se il tempo scorresse sarebbe angoscioso,
trascinandoci stancamente verso la nostra fine, eppure ha
bisogno dell’orologio per non perire, per non abbandonare
l’ultimo legame con il suo stato mentale precedente.
Bisognerebbe chiedersi: se nulla intorno a lui gli parlasse del
“vecchio concetto di tempo” se egli sentisse il suo stato come
sano avrebbe angoscia, ne sentirebbe la lacerante ambiguità?
Essere sul confine tra una realtà e l’altra, forse questo è
un’aspetto insondato della schizofrenia, un aspetto che non viene
preso in considerazione perché per noi non esistono realtà
ulteriori rispetto alla nostra; ma così facendo straziamo questi
viaggiatori dell’inconscio, che si trovano sul confine con tutto il
mondo passato che li reclama al raziocinio e tutto il loro essere
che li spinge oltre. Forse è questa doppia tensione ciò che crea il
crollo psichico. Forse Nietzsche resistette troppo a lungo
anziché cedere alla tentazione del viaggio. Nelle parole del più
grande (insieme a Freud) psicologo del novecento, Carl Gustav
Jung, ritroviamo concetti non dissimili da quelli pronunciati in
precedenza dallo “schizofrenico”:

197
“Non avrei mai pensato che si potesse provare un’esperienza del genere. Le
mie visioni e le mie esperienze erano effettivamente reali, nulla era soltanto
sentito, soggettivo, anzi possedevano tutti i caratteri dell’assoluta oggettività.
Rifuggiamo dalla parola eterno ma posso descrivere la mia esperienza solo
come la beatitudine di una condizione non temporale nella quale presente,
passato e futuro siano una cosa sola. Tutto ciò che avviene nel tempo vi era
compreso in un tutto obiettivo, nulla era più distribuito nel tempo o poteva
essere misurato con concetti temporali. Tale esperienza potrebbe semmai esser
definita come una certa condizione del sentimento, che non si può però
immaginare. Come posso immaginare di essere contemporaneamente così
come ieri l’altro oggi e dopodomani? Qualcosa non sarebbe ancora
cominciato, altro sarebbe chiarissimo presente e altro ancora sarebbe già
terminato: eppure tutto sarebbe una cosa sola! La sola cosa che il sentimento
potrebbe cogliere sarebbe una somma, un tutto iridescente, contenente allo
stesso tempo l’attesa di un cominciamento, sorpresa per ciò che accade al
momento e soddisfazione o delusione per ciò che è accaduto. Un tutto
indescrivibile, una trama della quale si è parte: eppure siamo in grado di
percepire il tutto con assoluta obiettività.”

Carl Gustav Jung “Ricordi, Sogni, Riflessioni”

“La psiche a volte funziona al di fuori della legge di causalità spazio-


temporale. Ciò indica che i nostri concetti di spazio e tempo, e pertanto anche
di causalità, sono incompleti. Un quadro completo del mondo richiederebbe,
per così dire, l’aggiunta di un’altra dimensione: solo allora la totalità dei
fenomeni potrebbe avere una spiegazione unitaria.”
Carl Gustav Jung “Ricordi, Sogni, Riflessioni”

“Io sono semplicemente convinto che qualche parte del Sè o dell'Anima


dell'uomo non sia soggetta alle leggi dello spazio e del tempo.”

Carl Gustav Jung

198
La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell'universo, e ciò
che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più
soggettivi recessi dell'anima.
Carl Gustav Jung “Ricordi, Sogni, Riflessioni”

Supponiamo, come dice R.D.Laing che ciò che noi chiamiamo


follia sia la partenza per un viaggio, per una esperienza e
prendiamo ad esempio Friedrich Nietzsche, forse uno dei più
famosi “pazzi” della storia. Il suo pensiero, il suo filosofare, la
sua storia personale lo hanno portato a una situazione
psicologica che rende inevitabile la partenza per questo viaggio.
Nei suoi scritti degli ultimi mesi prima del crollo di Torino si
possono leggere echi di sfaldamento dell’io, accenni di
megalomania. Supponiamo che questo viaggio debba fare parte
dell’esperienza della vita di Nietzsche, che sia in qualche modo
“necessario” e “coerente” con il suo sviluppo psichico. Le
sensazioni di necessità e di impellenza a intraprendere il viaggio
si scontreranno irrimediabilmente con la coscienza razionale che,
ancora viva e pugnace non perde tempo nel dichiarare folli certi
pensieri e certe intenzioni. Il tuo essere ti spinge e il tuo essere ti
trattiene. Ad aumentare la presa e la resistenza vi è anche la vita
di tutti i giorni, i concetti con cui si ha famigliarità, la realtà cui ha
partecipato fino a quel momento; quale enorme tensione, quale
scatenarsi di forze intrapsichiche. E se fossero queste a causare il
crollo e il precipitare in quella che noi chiamiamo follia? Se
fossero le resistenze a lacerare l’individuo? Se il viaggio fosse una
via ma la partenza fosse lacerante per i vincoli che la nostra
realtà, la nostra esperienza, la nostra vigliaccheria pone? Nel suo
libro “Verso una ecologia della mente” Gregory Bateson
parlando della teoria del doppio vincolo (che indica una
situazione in cui, tra due individui uniti da una relazione
emotivamente rilevante, la comunicazione dell'uno verso l'altro
presenta una incongruenza tra il livello del discorso esplicito
(quel che vien detto) e un ulteriore livello metacomunicativo

199
(come possono essere i gesti, gli atteggiamenti, il tono di voce), e
la situazione sia tale per cui il ricevente il messaggio non abbia la
possibilità di decidere quale dei due livelli, che si contraddicono,
accettare come valido, e nemmeno di far notare a livello esplicito
l'incongruenza) come spiegazione delle sindromi schizofreniche
scrive:
“Nel buddismo zen si persegue lo scopo di raggiungere l’Illuminazione, che il
maestro tenta in vari modi di indurre nel suo discepolo. Ad esempio il
maestro alza il bastone sulla testa del discepolo e gli dice con tono
minaccioso: “Se tu dici che questo bastone è reale ti colpisco. Se tu dici che
questo bastone non è reale ti colpisco. Se non dici nulla ti colpisco.” A noi
sembra che lo schizofrenico si trovi continuamente nella stessa situazione del
discepolo ma, invece di raggiungere l’Illuminazione raggiunge la follia”
Cosa fa sì che il discepolo non impazzisca? O forse
l’illuminazione è follia? Forse è la nostra classificazione della
patologia ad essere errata? O forse è solo lo scopo, il contesto
sociale, la preparazione che rendono il discepolo illuminato e
Nietzsche pazzo?
O forse non è l’esperienza in se a definire la follia ma piuttosto il
nostro modo di rapportarci ad essa, condizionato dal contesto
simbolico nella quale essa si manifesta. Il “pazzo” si discosta
dall’ordine dominante e condiviso, ne calpesta le regole, i simboli
e le convenzioni, rinnega quanto fino a quel momento condiviso
e vissuto, entra in un altrove a noi inaccessibile. Il nostro
richiamo all’ordine è ciò che gli è fatale.
Forse è il caso qui di ricordare la lettera che un altro celebre
“folle“, Antonin Artaud inviò ai direttori dei manicomi francesi:
Signori,
le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano.
Questa giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l’esercitate a vostra
discrezione. Lasciate che ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei
sapienti, dei governanti dota la psichiatria di non si sa quali lumi
sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il verdetto
anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza,
né la dubbia esistenza delle malattie mentali. Ma per ogni cento

200
classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere
utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo
cerebrale in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad
esempio, il sogno del demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono
altra cosa che un’insalata di parole?
Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il
quale non ci sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il
diritto attribuito a uomini di vedute più o meno ristrette di sanzionare
mediante l’incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito
umano.
E che incarcerazione! Si sa - e ancora non lo si sa abbastanza - che gli
ospedali, lungi dall’essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle
quali i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le
sevizie sono la regola, e questo voi lo tollerate. L’istituto per alienati, sotto la
copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile alla caserma, alla
prigione, al bagno penale.
Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per
evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran
numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione
ufficiale, sono, anch’essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si
interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo,
altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane.
La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica
quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono
le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa
individualità, che è propria dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di
questi prigionieri forzati della sensibilità, perchè è pur vero che non è nel
potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.
Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle
manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di
apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della
realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.
Possiate ricordarvene domattina, all’ora in cui visitate, quando tenterete,
senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete
riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza.
Antonin Artaud

201
Il tempo e il sogno

Ogni giorno noi sperimentiamo una realtà in cui le leggi che


regolano la nostra vita “conscia” sono confutate e annullate: il
sogno.
Quando sogniamo entriamo a far parte di un mondo in cui ogni
esperienza sembra reale, in cui ogni sensazione sembra realmente
percepita. In un sogno collassano esperienze, ricordi, fantasie,
premonizioni, schegge di passato, presente e futuro. Il sogno sembra
contenere una realtà più caotica e destrutturata di quella che
sperimentiamo in stato di veglia e il concetto di tempo è il primo
che viene a essere sovvertito. E’ accertato infatti che sogni che, per
chi li sta vivendo in quel momento sembrano durare ore, in realtà si
concentrino in pochi secondi di sonno; questo fatto pone una serie
di interrogativi:
A che velocità vanno i nostri pensieri, le nostre immagini inconsce, i
nostri sogni?
È possibile che i nostri pensieri, che il nostro inconscio non abbia
tempo, che esista eternamente?
E’ possibile pensare ai sogni come all’ingresso della nostra coscienza
in un mondo in cui la nostra realtà viene trasfigurata e quindi, in un
certo senso, confutata?
E, a questo punto, che cosa è realtà e che cosa è sogno? Stiamo
sognando ora o dormire è svegliarsi dal sonno della ragione, dalla
vita che noi chiamiamo conscia?
Viene in mente la famosa frase di William Shakespeare ne La
Tempesta:
“Siamo fatti della stessa materia con la quale sono fatti i sogni e la
nostra piccola vita è avvolta nel sonno”, oppure la famosa
affermazione di Zhuangzi: “Ho sognato di essere una farfalla, ed al
risveglio ho capito di essere un uomo. Ma non so se sono una
farfalla che sogna di essere un uomo, o piuttosto un uomo che
sogna di essere una farfalla”. E’ forse opportuno citare infine una
frase di Nietzsche, già riportata in precedenza: “Mi sono destato di
colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per essere cosciente che

202
appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non
voglio perire!”

Qual è la nostra realtà?


Quale il nostro tempo?
Alcuni studi paiono fornire risposte sorprendenti…

“...Alla luce di quanto abbiamo detto fino a questo punto sembra prendere
forma la possibilità che quello stato che noi riteniamo abitualmente di veglia
possa venire considerato come uno stato di sonno da svegli”
(Cavallo M., Leone F.).

“Noi sappiamo che il sogno avviene, e probabilmente occupa gran parte della fase
REM, che nell'adulto corrisponde a circa il 20% del sonno totale, ovverosia
circa 80-90 minuti per notte. Si ritiene inoltre che il sogno, per quanto articolato
e complesso, può avvenire nell'arco di pochi secondi. Ora, mediamente, a parte
rare eccezioni legate ad un sonno molto leggero ed interrotto, al mattino in genere
si ricordano solo pochi sogni. Quindi dobbiamo ritenere che di tutta la
complessiva produzione onirica, noi riusciamo a ricordarne solo una parte
minima. Dobbiamo dedurre che ci deve essere una differenza tra la complessiva
attività onirica ed il sogno o i sogni che ricordiamo. Nel senso che probabilmente
l'attività onirica nel suo insieme ha funzioni numerose e complesse, il sogno
ricordato ha una funzione specifica diversa. I sogni che si ricordano, riguardano
esperienze oniriche significative e strettamente collegate con le dinamiche
psicologiche conflittuali o comunque più importanti in quelmomento, per quella
persona. Possiamo pertanto pensare che i sogni che si ricordano, sono tentativi di
visualizzare e a volte di risolvere, conflitti, problemi o possono essere una libera
produzione di gioco della mente.”

“Ma la vera profonda differenza è basata sul fatto che nel processo onirico
manca il senso del tempo come categoria vettoriale: manca la “freccia del tempo”
che è invece fondamentale nel pensiero cosciente.
Questa mancanza rende possibile di non tener conto del prima e del dopo, e
quindi invertire per cui il dopo può avvenire prima: è la base del principio di
contraddizione, l’esatto opposto di quel principio basilare della logica che è il

203
principio di non contraddizione. Per questo nel sogno possono accadere
avvenimenti con situazioni antitetiche ed opposte che non destano, nel sognatore,
nessun stupore o incredulità. Quindi la struttura del linguaggio onirico è
caratterizzata da spostamento, condensazione, assenza del principio di
continuità e contiguità e di quello di non contraddizione.”

“Comunemente si pensa, ma sulla base di dati relativi e non sempre rilevanti,


che il tempo del sogno sia molto breve: sogni che a noi, al risveglio, sembrano
lunghissimi ed articolati, si ritiene che si svolgano durante l’attività onirica
nell’arco di pochi secondi, addirittura di decimi di secondo.”

Tratti da “Veglia Sonno Sogno” del Professor Nicola Lalli


(Psichiatra, Psicoterapeuta, già Professore Associato di Psichiatria e Psicoterapia presso
l'Università “La Sapienza” di Roma)
( http://www.nicolalalli.com/consultazione/vegliasonno.pdf )

Il tempo e i bambini

“Se c'è un qualche cosa che vogliamo cambiare nel bambino, prima dovremmo
esaminarlo bene e vedere
se non è un qualche cosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi”

Carl Gustav Jung

I bambini non hanno connaturato in se il concetto di tempo.


Credo che un qualsiasi genitore abbia fatto esperienza di questo.
Per un bambino esiste solo ed esclusivamente il momento che
sta vivendo. Tutta la sua energia, tutta la sua attenzione e
concentrazione è rivolta a quello che noi chiamiamo presente.
Occorre molto “tempo” per fare loro comprendere concetti per
noi basilari come “dopo”, “tra un po’”, “più tardi”. Essi non lo
comprendono se non dopo reiterati esempi e tentativi. Dire a un
bambino intento a giocare con una palla “Adesso smettila che
dobbiamo andare, ci giochi dopo” non ha alcun tipo di

204
significato per lui: nel momento in cui gli prendete la palla per lui
la palla è morta, quel momento è finito e non arriverà più, e non
esiste il concetto di dopo e non esiste nessuna rassicurazione che
lo convinca che quel momento tornerà: in effetti ha ragione lui,
quel momento non tornerà affatto. Allo stesso modo se un
bambino desidera una cosa, ad esempio un gelato, quel desiderio
è lì presente e deve essere soddisfatto nel medesimo momento in
cui viene espresso e non esiste consolazione nel dirgli “tra 5
minuti quando usciamo lo comperiamo” perché quel “tra 5
minuti” per il bambino equivale a mai. Per il bambino il tempo
non esiste! Lo stesso dicasi per il neonato: il neonato ha esigenze
che manifesta non appena sorgono, e tali esigenze sono la loro
vita e devono essere soddisfatte: mangiare, dormire, ecc…. Non
esiste un dopo per queste attività, come non esiste un dopo per
qualsiasi attività o esigenza manifestino i bimbi più grandi. I
bambini sono completamente al di fuori del tempo, immersi
totalmente in una sequenza ininterrotta di adesso. Occorrono
molti sforzi e molta pazienza per insegnare a un bambino il
concetto di tempo; ma è giusto, ha un senso la nostra educazione
al tempo?
Credo di essere nel giusto quando dico che l’ottanta per cento
dei litigi tra genitori e figli fino ai tre quattro anni (quando cioè il
concetto di tempo incomincia a fare breccia in loro) sia dovuto al
fatto che noi adulti siamo completamente immersi nel tempo, i
bambini ne sono completamente al di fuori, concentrati sul
momento, sull’essere, sull’Adesso.
Quando si vuole uscire di casa e loro stanno giocando non basta
rassicurarli che si tornerà a casa e potranno ricominciare a
giocare: nel momento in cui li si allontanerà dai giochi
piangeranno e si ribelleranno perché quello era il momento del
gioco e non esisterà più e nulla li fa supporre che: torneranno in
quella stanza; troveranno quel giocattolo; giocheranno di nuovo.
E quando dopo strilli e pianti decideranno di seguirvi, nel
momento in cui torneranno a casa e voi gli direte “Ecco ora puoi
tornare a giocare con quelle costruzioni che ti piacevano tanto e
con le quali hai passato l’intero pomeriggio” a loro molto
probabilmente non interesseranno più, perché il momento per

205
quel gioco è irrimediabilmente perso per sempre. Vi torneranno
a giocare, forse, ma non sarà lo stesso.
La maggior parte dei conflitti genitori e figli sono dovuti al
tempo: per noi esistono gli orari: quello della nanna, quello della
pappa, quello dei giochi, quello del lavoro, per loro esistono solo
gli attimi, sospesi in un vuoto a-temporale. E lo scontro tra
queste due visioni della vita è inevitabile. La nostra vita è scandita
dal tempo, ordinata in maniera logica e razionale, la nostra
socialità, il nostro comunicare stesso è legato al tempo. Ne
sentiamo l’esigenza, ci sentiamo spaesati senza orologi, abbiamo
organizzato tutta la nostra società, le nostre relazioni, le nostre
vite in funzione del tempo: rincorrendolo, maledicendolo,
pregando per averne altro, rifiutandolo. Il tempo è il nostro vero
Dio, invisibile eppure presente in ogni nostro gesto, che ci
fornisce regole e precetti a cui non possiamo non obbedire e non
conformarci: è la religione dell’uomo moderno. I bambini sono
qui a dimostrarci come il concetto di tempo sia molto lontano
dall’essere istintivo e naturale, quanto invece pare essere una
mera esigenza nostra. Dal concetto di tempo derivano molte
delle nostre paure, molte delle nostre ansie: ansia per il futuro,
per la morte, per il domani, ansia per ciò che sappiamo, o
temiamo potrebbe succedere dopo. I bambini ci insegnano che
tutto ciò potrebbe essere superfluo, inutile se non dannoso. I
bambini hanno paura, certo, ma non hanno ansie anticipatorie,
non hanno paura del futuro, non hanno paura della morte,
hanno paura di una cosa nel momento stesso in cui la
percepiscono e quando questa cosa sparisce, sparisce anche la
paura. I bambini senza tempo sono immersi nell’attimo. In esso
riversano tutte le loro energie, tutte le loro attenzioni, tutte le
loro doti, tutto il loro impegno. Ed è per questo che cose per noi
insignificanti sono per loro tragedie immani: perché l’emotività
investita in quel gioco, in quell’attimo, in quell’oggetto, in
quell’attività è la massima loro consentita e se, ad esempio, quel
giocattolo si rompe, non esiste alcuna rassicurazione nel dire
“Dopo usciamo e ne compriamo uno uguale”: quel gioco deve
essere lì subito, quando ne hanno l’esigenza; dopo non esiste,

206
perché dopo non esisterà più la stessa esigenza, la stessa
passione, lo stesso coinvolgimento.
I bambini sono senza tempo: le loro vite non sembrano avere un
ordine temporale, così come la loro memoria: i loro ricordi
sembrano in qualche modo a-personali, possono ricordare un
posto ma non si collocano nel passato in esso. Possono
riconoscere una persona, ma non associano ad essa situazioni ed
eventi passati, solo sensazioni. Un altro fatto peculiare dei
neonati è che essi, nei primi mesi di vita, non siano in alcun
modo interconnessi e sincronizzati con il ciclo (per noi adulti
scontato e vitale) delle ventiquattr’ore. Recenti studi (Theodor
Hellbrugge, Università di Monaco) hanno mostrato come il
battito cardiaco dei neonati non varia la propria frequenza (come
negli adulti) nelle ore notturne se non dopo i tre mesi. Le
funzioni renali e la secrezione di ormoni nonché la temperatura
corporea e la pressione arteriosa mostrano, negli adulti, un
aumento nelle fasi diurne e una diminuzione in quelle notturne,
cosa che nei bambini non avviene se non dopo un anno e cinque
mesi. Tali variazioni dei nostri ritmi vitali in base al tempo sono
presenti non solo all’interno del singolo giorno ma anche nel
corso dell’anno. La temperatura corporea, le pulsazioni e la
secrezione ormonale aumentano d’estate e diminuiscono
d’inverno. Persino la crescita dei capelli varia al variare delle
stagioni (0,305 millimetri al giorno in gennaio, 0,538 millimetri al
giorno in agosto) eppure persino tali variazioni non sono
presenti nei bambini. Anche in questo caso i bambini e i neonati
sembrano essere estranei dal punto di vista fisiologico allo
scorrere del tempo.
E se avessero ragione loro e il nostro volerli immergere nel
tempo non sia una violenza gratuita, inutile e snaturante? E’
innegabile che il tempo rappresenti per noi molte volte una
schiavitù: i bambini sono qui per ricordarcelo, con il loro essere e
i loro comportamenti: quando si è in attesa della nascita di un
bambino, oltre alle ansie legate alla salute della mamma e del
nascituro qual’è la principale preoccupazione dei genitori? Quella
di non avere, dopo la nascita del bambino, più lo stesso tempo
da dedicare a loro stessi. E in questo senso i bambini, fin da

207
neonati dovrebbero insegnarci la via, una via che ci era ben nota
da bambini e che abbiamo forse a malincuore dovuto
dimenticare: il tempo non esiste, esiste solo Adesso, è Adesso
che puoi fare ciò che desideri e dedicare a ciò che desideri tutte
le tue energie.

Un altro aspetto peculiare che forse è opportuno analizzare nei


comportamenti dei bambini e nel nostro modo di relazionarci a
loro è l’aspetto fantastico, paradossale, ingenuo, direi quasi
psichedelico (nel senso etimologico del termine ovvero “ciò che
svela la mente”) di certi loro ragionamenti, certe loro frasi, certi
loro discorsi. Prendiamo ad esempio alcune frasi di bambini
riportate da R D. Laing nel libro “Conversando con i miei
bambini”

“Ce l’hai una lunga pertica? E una scala? Voglio buttare giù il sole e darlo
alla mamma da cuocere e poi lo mangiamo….”

“Voglio andare a Kany e ammazzare la gente e farla a pezzi e mangiarla a


colazione con un grosso fucile d’acciaio e un grilletto duro da tirare. Perché
voglio sparare a un sacco di gente e ammazzarli per farli morire. Come ho
fatto l’altra volta. L’altra volta che sono stato qui. L’altra volta che sono
stato vivo. Me lo ricordo. Ero un soldato. Ho ammazzato un sacco di
gente.”

“La mia faccia è la mia pancia, la mia pancia è i miei occhi, i miei occhi
sono la mia lingua, la mia lingua è le mie caviglie, le mie caviglie sono le mie
mani.”

“ Quanto tempo ci vuole per fare quaranta minuti?”

“Ho paura del puzzle cinese. Ci sono i cattivi dentro. Allora l’ho dato al
gatto.”

“Riesci a sentire quello che stai dicendo? Se muovi le orecchie insieme a ogni
cosa che pensi la tua sedia potrebbe alzarsi per aria.”

208
“Sai, questa scala non era qui finché non ce l’hanno messa.”

“Perché il ragazzo buttò l’orologio dalla finestra? Perché voleva vedere il


tempo volare”

“Possono sorridere tutte le persone del mondo?”

“Lo sai chi vuole giocare a palla? La neve.”

Proviamo per un attimo a pensare a queste frasi senza pensare


che siano pronunciate da bambini. La prima cosa che ci viene in
mente è che siano frasi di un pazzo o di un poeta ubriaco. Se un
adulto ci approcciasse pronunciando tali frasi penseremmo senza
ombra di dubbio che sia affetto da turbe psichiche gravi,
pronunciate da un bambino invece le medesime frasi assumono
un altro significato, sono meglio tollerate da noi adulti razionali.
Ma qual’è la differenza che ci permette di ritenere la frase
simpatica o carina se pronunciata da un bambino, mentre la
stessa in bocca a un adulto ci allarma e ci pone sulla difensiva
etichettando tale persona come malato mentale, disturbato,
pazzo? La differenza potrebbe essere, oltre all’innata tenerezza e
simpatia che generalmente ispirano i bambini, in un’unica parola:
esperienza. Un adulto ha, o dovrebbe avere, esperienza delle cose
e quindi non può pronunciare frasi che non hanno riscontro
nella realtà fisica di tutti i giorni. Il bambino invece, non avendo
esperienza non sa che il sole non può essere fritto. Ma esperienza
è storia, esperienza è passato, esperienza è tempo. E quindi
ancora è il tempo che ci pone su piani diversi dai bambini e dai
cosiddetti malati mentali. Trovate differenze sostanziali, al di là
della sintassi, tra i concetti espressi in quelle frasi e quelli presenti
in queste:

“Alla principessa Arianna, mia amata. Che io sia un uomo, è un


pregiudizio. Ma io ho già vissuto spesso fra gli uomini e conosco tutto ciò che
gli uomini possono provare, dalle cose più basse fino a quelle più alte. Sono
stato Buddha tra gli indiani e Dioniso in Grecia, - Alessandro e Cesare

209
sono mie incarnazioni, come pure Lord Bacon, il poeta di Shakespeare. Da
ultimo, ancora, sono stato Voltaire e Napoleone, forse anche Richard
Wagner... Ma questa volta vengo come Dioniso il vittorioso, che farà della
terra una giornata di festa... Non avrei molto tempo... I cieli si rallegrano
che io sia qui... Sono stato anche appeso alla croce...”

Friedrich Nietzsche (Biglietto a Cosima Wagner)

“Tra un paio d’anni governerò io il mondo; perché ho deposto il vecchio Dio”

Friedrich Nietzsche (Biglietto a Carl Fuchs)

“Il mondo è trasfigurato, perché Iddio è sulla terra. Non vede come tutti i
cieli esultano? Ho appena preso possesso del mio regno, getterò il papa in
prigione e farò fucilare Guglielmo, Bismarck e Stoecker.”

Friedrich Nietzsche (Biglietto a Meta Von Salis)

“Vado dappertutto nel mio vestito da studente, qua e là batto sulla spalla a
qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura…
Domani viene il mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che qui,
però, riceverò ugualmente in maniche di camicia.
Il resto per la signora Cosima… Arianna… Di quando in quando si
fanno incantesimi. Ho fatto mettere in catene Caifa; l’anno scorso sono stato
crocefisso in maniera molto penosa dai medici tedeschi. Aboliti Guglielmo,
Bismarck e tutti gli antisemiti.
Di questa lettera lei può fare qualsiasi uso che non mi diminuisca nella
considerazione dei basileesi.”

Caro signor professore,

alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non
ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato, da tralasciare, per
causa sua, la creazione del mondo. Lei vede, bisogna fare sacrifici, come e
dove si viva. – Tuttavia, mi sono riservata una piccola camera da studente
che si trova di fronte al Palazzo Carignano (- nel quale sono nato come
210
Vittorio Emanuele) e oltre a ciò permette di sentire, dal proprio tavolo di
lavoro, la magnifica musica nella Galleria Subalpina. Pago 25 franchi con
servizio, preparo il mio tè e faccio tutte le spese da solo, soffro di stivali rotti e
ringrazio ogni momento il cielo per il vecchio mondo, per il quale gli uomini
non sono stati abbastanza semplici e silenziosi. – Poichè sono condannato a
intrattenere la prossima eternità con cattive spiritosaggini, ho qui un’attività
scrittoria, che invero non lascia nulla a desiderare, molto carina e
nient’affatto faticosa. La posta è a cinque passi, imbuco io stesso le lettere
per trasmettere il grande fogliettonista “der grande monde”. Naturalmente,
sono in stretti rapporti con il Figaro, e affinchè lei abbia un’idea di quanto
io possa essere innocuo, ascolti le mie prime due cattive spiritosaggini:
Non prenda troppo sul serio il caso Prado. Io sono Prado, sono anche il
padre di Prado, oso dire che sono anche Lesseps…. Vorrei dare ai miei
parigini, che amo, una nuova idea - quella del criminale dabbene.
Seconda spiritosaggine. Saluto gli immortali. Daudet appartiene ai
quarante.
Friedrich Nietzsche (Biglietto a Jackob Buckhardt)

Forse il bambino è un folle o forse, tristemente, per noi essere


come bambini è essere folli, anche se stentiamo ad ammetterlo. Il
bambino sa essere estermamente dolce e estremamente crudele,
sa ridere e piangere con la stessa intensità e purezza d’animo,
vive ogni cosa sulla sua pelle, nulla gli scivola. E così il malato di
mente, perso nella sua condizione, lacerato dal ricordo del prima,
convinto che il suo adesso sia l’unica prigione e la sola salvezza,
fino alla disgregazione del suo io.
Anche il bambino quando nasce non ha il concetto di io, non
distingue se stesso dal mondo, non sente la sua mente e i suoi
pensieri come realmente suoi; come ha dimostrato il grande
psicologo infantile Piaget, prima dei 10-11 anni la maggior parte
dei bambini da lui esaminati erano come persone primitive, nel
senso che non sapevano che la mente era confinata nella loro
testa. Essi pensavano che si estendesse nel mondo intorno a
loro; lo stesso concetto lo possiamo trovare in quelli che noi
definiamo schizofrenici. Il bambino è compenetrato nel mondo e
nei suoi eventi così come lo è il cosiddetto folle. Occorrerebbe
fermarsi un attimo e riflettere: occorrerebbe ascoltare i bambini,

211
ascoltare le loro parole e forse per la prima volta avremmo la
strana sensazione che le loro parole siano la vera saggezza,
perchè provengono da un terreno comune dimenticato e
incontaminato, da un’isola perduta affondata nella nostra
razionalità, da una somma innocenza dell’essere, del sentire,
libera dalla schiavitù del divenire. In tanti nei secoli hanno
parlato della necessità di essere “innocenti come bambini” di
“lasciare che i bambini vengano a Gesù”, tanti poeti, filosofi,
religiosi, scrittori, pittori hanno inneggiato alla leggiadria, alla
innocenza, alla purezza dell’infanzia contrapposta alla rigidità,
alla razionalità, all’aridità dell’essere adulti ed evoluti.
Essere bambini, diventare bambini, serbare il bambino che è in
ognuno di noi non vuol dire anche e soprattutto sapere cogliere
da loro questi insegnamenti? E se oltre all’assenza di tempo i
bambini ci dovessero insegnare anche l’assenza di spazio inteso
come distanza tra esseri, l’assenza di un Se intesa come somma
separazione del singolo dalla natura, dall’ambiente che lo
circonda, dai suoi simili e in fondo l’assenza del nostro io? Le
espressioni prima citate sembrano infatti provenire da uno strano
luogo in cui la separazione razionale fra noi e le cose, tra noi e la
natura cede il passo a una compenetrazione di tutto ciò che è ed
esiste: La mia faccia è la mia pancia…..

Ecco come il libro del Tao e i Vangeli parlano dei bambini:

Chi ha in se la virtù piena


È simile al bambino appena nato.
Gli insetti non lo pungono,
le belve non lo assalgono
e gli uccelli rapaci
non arrivano a ghermirlo.
Pur avendo le ossa morbide
E i muscoli non formati
Afferra sempre con energia
Pur non sapendo niente dell’unione sessuale
Il suo membro sta già eretto.
E’ il vigore perfetto

212
Della sua essenza vitale.
Strillando il giorno intero
Non ha mai la voce roca
E’ lo sviluppo già completo
Dell’armonia più naturale.
E’ avere l’armonia in se
Vuol dire poi durare da veri illuminati.
E’ cosa sempre infausta
Far forza sulla vita
E se è la mente a controllare
Il proprio soffio vitale
Vuol dire diventare duri
E chi ha rigidità è chi finisce.
Questo è contrario alla via
E chi è contro la Via presto perisce

Il libro del Tao (Lao Tzu)

“Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non vi entrerà”


Vangelo secondo Luca (18, 17)

“Hai tenuto queste cose nascoste ai sapienti e agli avveduti e le hai rivelate ai
semplici e ai piccoli”
Vangelo secondo Luca (10, 21)

“Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli. Beati i puri di
cuore perché vedranno Dio.”
Vangelo secondo Matteo (5, 3)

Come i bambini che si fermano lungo il mare


e dimenticano di diventare vecchi
cacciando sciami di api sulla soglia del pensare
libero pensare di bambini
che sanno del tempo
quello che l'oceano traccia
sulle ali delle mosche […]

213
Toni Maraini, Quello che andavo libera pensando, in Poema d'Oriente,
Roma, Semar, 2000

“Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li


sgridavano. Gesù, al vedere questo, s`indignò e disse loro: "Lasciate che i
bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro
appartiene il regno di Dio. 15 In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di
Dio come un bambino, non entrerà in esso". 16 E prendendoli fra le braccia
e imponendo loro le mani li benediceva.
Vangelo secondo Marco

214
CAPITOLO XXXV

15 marzo 2001 Lendi Eleusi

Isobel uscì dalla sua stanza quasi correndo. Era il giorno in cui
avrebbe ripreso il dialogo con il professor Barbur. Durante
quella settimana erano successe diverse cose che le avevano
fatto ricordare i discorsi fatti quel giorno nel giardino sopra la
cascata. Le era anche capitato di incrociare il professore nel
Salone del Silenzio un paio di volte, ma in entrambi i casi si
erano scambiati poche frasi di circostanza rinnovandosi
l’appuntamento per riprendere la discussione interrotta. Isobel
però, impaziente e ormai presa dal vortice degli eventi aveva
per tutta la settimana cercato di approfondire gli argomenti
sorti con il professore la volta precedente e aveva fatto incetta
di libri sulla teoria dei quanti. Aveva anche continuato la
lettura del documento della nonna, cosa che le aveva
continuato a suscitare quella sensazione mista a gioia e
sconcerto. E poi aveva letto il libro “I misteri di Eleusi”: forse
quella lettura era stata la più sconvolgente di tutte quelle, ed
erano molte, che aveva affrontato in quei giorni.
Giunse davanti alla Sala del Silenzio, entrò e fece un cenno ad
Hani che era assorto nella lettura seduto su di un bancone. Hani
replicò al saluto con un cenno d’intesa. Isobel si guardò
intorno: nonostante fosse mattino presto il salone era già pieno
di gente che vagava da uno scaffale all’altro sotto lo sguardo
vigile di Rumi. Il professore non c’era. Forse era già sul
terrazzo ad attenderla. Percorse il corridoio e in pochi attimi fu
sul terrazzo. La panchina era vuota. Non c’era nessuno. Isobel
si sedette. Forse era in anticipo. Da quando aveva gettato via
l’orologio, un paio di giorni prima, era la prima volta che ne
sentiva la mancanza. L’attesa l’aveva sempre snervata,

215
soprattutto quando l’appuntamento era tanto atteso come in
questo caso. Ritornò per un attimo con la mente ai giorni
appena trascorsi. I misteri di Eleusi. Aveva pensato che si
trattasse di un libro riferito a quel luogo. Si sbagliava di grosso.
Era un libro che parlava di un antico rito iniziatico che si
svolgeva nell’antica Grecia, il cui rituale e i cui misteri erano
all’epoca avvolti dal più assoluto segreto tanto che non sono
giunti sino a noi. La coincidenza dei nomi della città greca con
il luogo dove si trovava ora non poteva essere casuale: sentiva
che vi era un legame tra quei due luoghi, ma quando aveva
posto la domanda a Rumi, ella aveva subito sviato il discorso e
si era allontanata con una scusa. Stessa cosa era successa con
un paio di studiosi nella biblioteca che i giorni precedenti si
erano invece dimostrati assai disponibili nel fornirle
informazioni. Tutto ciò aveva aumentato la sua curiosità e la
voglia di approfondire l’argomento; in effetti aveva
l’intenzione di chiedere spiegazioni anche al professore. Nel
libro venivano descritti i rituali iniziatici così come riportati
dalle poche fonti dell’epoca che ne hanno parlato. La cosa che
più l’aveva colpita era l’associazione che l’autore del libro
faceva di un cibo iniziatico chiamato kykeon con l’LSD, di cui
l’autore è lo scopritore, argomentando che l’esperienza mistica
e la rivelazione che gli iniziati vivevano era in tutto e per tutto
un viaggio psichedelico. Le era altrettanto chiaro che, almeno
secondo la nonna, i misteri avessero in qualche modo a che fare
con la natura del tempo e quindi con la ricerca che stava
compiendo.
Si scosse dai suoi pensieri: il professore non arrivava. Si alzò in
piedi e incominciò a camminare nervosamente. Finalmente,
dopo alcuni minuti Isobel vide arrivare, zoppicante e con
un’andatura lenta e strascicata, il professor Barbur; Isobel gli
corse quasi incontro per l’entusiasmo e, dopo averlo salutato,
gli offrì il suo braccio per appoggiarsi e condurlo alla panchina.

216
Si sedettero e, dopo un profondo sospiro, il professore ruppe il
silenzio:
“Dove eravamo rimasti? Eravamo rimasti al concetto di tempo
nella teoria della relatività. A proposito, ho visto che in
settimana si è data molto da fare: tutti i principali libri
sull’argomento erano spariti dalla biblioteca ed erano registrati
alla sua persona. Spero che abbia trovato spunti utili.”
“Utilissimi, anche se alcuni di essi li ho trovati troppo tecnici
per essere alla mia portata, pieni di formule, equazioni. A tal
proposito ho alcune domande da porle.” disse Isobel.
“Anche io e se mi scusa per la poca cavalleria vorrei che prima
lei rispondesse alle mie domande, poi sarò lieto di rispondere
alle sue…”
Isobel annuì.
“Perché è venuta qui Miss Morrison? E perché questo suo
interesse per il tempo?”
“Perché credo sia la chiave di tutto”
“Tutto cosa?” chiese il professore.
“La chiave per rispondere alla domanda chi siamo e cosa
facciamo qui. Capire se le nostre vite hanno un senso, se il
tempo ha un senso e se è a noi legato. Sono qui grazie a mia
nonna, seguendo i suoi libri, il suo percorso, forse cercando ciò
che lei cercava e che, forse, alla fine aveva trovato.”
“Ma lei Isobel, lei cosa cerca qui?”
“Delle risposte. Forse mia nonna aveva trovato ciò che aveva
cercato per anni, un libro, forse il Libro con la elle maiuscola,
anche se non so di cosa tratti: l’ho avuto tra le mani, era tra le
cose della nonna, ma mi è stato sottratto. Devo trovarlo! Devo
sapere perché la nonna ha dedicato una vita di studi alla sua
ricerca.”
“Forse quel libro era solo un mezzo non il fine. Isobel, d’ora in
poi ti darò del tu come la volta scorsa, forse quel libro è una

217
scorciatoia, una scorciatoia che può servire solo a chi ha già la
consapevolezza delle cose che poi leggerà.“
“Lei…. Lei conosce quel libro?” chiese Isobel stupita:
“Conoscerlo? Chi non lo conosce qui. Ma non ne posso parlare.
Solo il consiglio ora può. Ma una cosa la posso dire: il libro, di
qualunque cosa parli, può essere solo la conferma di un
percorso e di una strada, non la strada stessa.”
“Che intende dire?”
“….che occorre procedere per gradi. Ogni esperienza per non
essere traumatica ha bisogno di preparazione, di un
accompagnamento, di una ritualizzazione, come nei riti
sciamanici o nella meditazione. Lo stato di coscienza alterato si
raggiunge solo dopo lunghi ed estenuanti esercizi spirituali
preparatori, altrimenti la visione potrebbe essere fatale se la
persona non è preparata e l’ambiente non è conforme a ciò che
deve accadere. Ecco, occorre essere preparati per certi libri
altrimenti si rischia di non coglierne il reale valore; lo stesso
dicasi per le esperienze di stati alterati di coscienza.”
“Questo cosa c’entra?” chiese Isobel
“C’entra, c’entra eccome, ed è proprio da qui che vorrei partire
nella nostra discussione: dagli stati alterati di coscienza. Essi
possono comunicarci tante cose che normalmente rimangono
fuori dalla nostra capacità di percezione. Visioni, allucinazioni,
stati di profonda concentrazione e meditazione inducono la
nostra mente ad abbandonare la sua razionalità per interagire
con realtà che trascendono la nostra normale percezione del
mondo. Noi oramai non abbiamo più alcuna familiarità con
questi stati di coscienza che sono ben noti invece agli sciamani,
ai veggenti, ai monaci buddisti; questa nostra mancanza di
familiarità limita qualsiasi nostra possibile analisi o indagine;
in realtà si ha spesso la stupida sensazione di trovarci innanzi a
forme patologiche, a deliri o a ridicoli culti primitivi e questo ci
impedisce di entrare in contatto con chi tale esperienza la sta

218
vivendo. Un’ulteriore difficoltà sta nel poter descrivere a
parole sensazioni, stati d’animo che trascendono il comune
sentire e le parole stesse: le descrizioni non riescono a bucare il
velo che ci separa da questo vero e proprio universo parallelo
di cui ci sfuggirà sempre l’essenza.”
“Ma come distinguere una visione, un’esperienza mistica da un
delirio di un folle?”
“Qual’è la reale differenza Isobel? In realtà si potrebbe definire
la visione, l’illuminazione, la rivelazione come l’interruzione
del funzionamento che noi definiremmo normale del nostro
cervello. Tale corto circuito può essere indotto in vari modi:
con la meditazione, con alcune droghe e sostanze psicotrope;
attraverso queste vie si interrompe il “normale” flusso delle
informazioni per accedere a una realtà diversa in cui si ha una
diversa consapevolezza delle cose, degli stati, dell’essere. Se
confrontiamo le descrizioni delle esperienze di mistici e santi
cristiani, di maestri zen, di monaci buddisti, di sciamani, di
artisti, psicologi, filosofi e poeti che hanno sperimentato
sostanze psicotrope cone il peyote, LSD, la mescalina, e i deliri
dei folli possiamo riscontrare in diversi casi una stupefacente
univocità di descrizioni e di rappresentazioni della realtà che
hanno raggiunto, visto, sfiorato. Con linguaggi, modi,
rappresentazioni diverse tutti parlano di una sensazione di
unità, una sensazione di essere pervasi da ogni cosa in una
unione mistica, tutti parlano di assenza di tempo e di spazio, di
una nuova luce che illumina le cose, di un significato che tutto
comprende e tutto spiega. Ma si badi bene, sentire l’eternità,
sentire in se ogni istante passato e futuro, sentire che parte di
noi è in ogni cosa e che ogni cosa è parte di noi, non significa
per forza l’annullamento delle differenze ma la loro
valorizzazione. Sapere che qualcosa ci lega e ci accomuna a
livello profondo rende ancora più spiccate e desiderabili le
differenze perché non saranno più contrasti ma completamenti.

219
Sentirsi ogni nome nella storia, essere eterni, estendersi
all’infinito, vedere l’eternità in un granello di sabbia, vedere la
luce che irradia nel mondo un semplice mazzo di tulipani,
sentire il passato scorrere dentro di se, essere in contatto con
ogni cosa, sentire l’armonia e la gioia dell’essere. Queste sono
le caratteristiche che emergono come comuni in tutte le
esperienze di alterazione indotta o spontanea dello stato della
coscienza. Un velo si alza e il mondo ha colori, movimenti,
significati diversi. “
“Quindi quello che lei sostiene è che questa realtà “altra” è la
vera realtà e che il nostro cervello non è pronto in condizioni
normali ad accedervi?”
“E’ così…. La prigionia incomincia con l’infanzia. Nei
bambini non esiste il tempo, non esiste la mente confinata
dentro di loro e loro sono convinti di estendere il proprio essere
alle cose che li circondano: loro sono la mamma che li allatta,
loro sono il succhiotto che li coccola, loro sono l’acqua che li
lava. Non hanno consapevolezza dei limiti e dei confini del
proprio corpo e della propria coscienza, forse perché in realtà
essi non hanno realmente limiti: uno studio dello psicologo
infantile Piaget ha mostrato come i bambini pensano, fino ai
dieci undici anni che la loro mente pervada le cose e le persone
che li circondano e che i loro pensieri siano reali. La prigionia
della mente ha inizio con la nascita e l’educazione…”
“Ma gli schizofrenici hanno deliri che li allontanano dalla vita
quotidiana.”
“E’ la vita quotidiana che ci allontana dalla realtà ultima. E la
reazione di difesa di chi sente minacciate le proprie piccole e
misere certezze è quella di internare, emarginare, sorvegliare
queste anomalie che ci dovrebbero ricordare che la nostra
normalità è solo una pretesa di normalità e che la follia, la
visione, i pazzi di Dio sono sempre esistiti in ogni epoca e in
ogni cultura e sono stati odiati in pubblico e venerati in privato.

220
Il loro linguaggio, i loro simboli, la loro stessa fisicità è un
monito a non rendere assoluto ciò che assoluto non è, ad
affrontare il viaggio alla ricerca di se stessi. Ma pochi hanno
raccolto queste sfide e chi l’ha fatto è stato ammirato con la
stessa velocità con cui è stato dimenticato. Si esaltano le
persone una volta morte occultando dietro il loro culto il loro
dirompente messaggio: penso a Nietzsche e alla sua follia, a
Rimbuad e al suo ragionato sregolamento di tutti i sensi, a Jim
Morrison e i suoi tentativi di riportare le persone alle origini di
se stesse, a Jung e alla sua esplorazione degli archetipi e
dell’inconscio collettivo, a Van Gogh e agli istanti di tempo
che ha catturato nelle sue opere, a Artaud e alle sue glossolalie
e potrei continuare all’infinito o quasi. Una volta erano i santi a
ricordarci che questa realtà non era la sola, la definitiva, ora il
loro ruolo è stato preso dagli artisti, coloro che sono più a
contatto con il mondo delle intuizioni, coloro che vivono ai
limiti di se stessi. Nelle loro vite e nelle loro opere è possibile
cogliere intuizioni fulminanti che potrebbero aprire la strada a
una rivelazione, all’illuminazione della realtà che ci
pervade….”
“I nomi che lei ha fatto; sono tutti artisti di cui mia nonna
studiava le vite e le opere.”disse Isobel sempre più affascinata.
“ Posso chiederle cosa sono le glossolalie?”
“Sono parole senza parole, fonemi senza senso compiuto nel
nostro linguaggio ma che, per chi le pronuncia, sembrano
descrivere e associarsi perfettamente con quanto intendono
comunicare…”
“Ma come posso capire un pensiero che non può essere
verbale?” chiese Isobel frastornata.
“Con l’esperienza.” rispose il professore compiaciuto “Solo
l’esperienza può realmente cambiarci: le parole scorrono, le
sensazioni e le esperienze possono cambiarci nel profondo. Le
parole limitano i concetti, li rinchiudono dentro steccati da cui

221
ne escono deformati, scoloriti, ridotti. Vi sono cose che non
possono essere descritte, cose per cui non esistono parole, e
l’esperienza mistica è l’esperinza inenarrabile per definizione.
Siamo su basi e presupposti assolutamente inconciliabili per
comprendere tali esperienze: il nostro linguaggio non può
essere sufficiente perché la nostra realtà, la nostra concezione
del mondo lo condiziona; sarebbe come cercare di far
comprendere la bellezza della Pietà di Michelangelo
descrivendo a chi non l’ha mai vista la struttura molecolare che
ne compone il marmo. Solo chi è calato nell’esperienza la può
sentire, la descrizione è una fredda reinterpretazione di dati
senza la possibilità di rendere partecipi dell’esperienza stessa.
Noi ci fidiamo di ciò che vediamo più che delle nostre
sensazioni; ma, come dice il piccolo Principe nella famosa
favola, non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile
agli occhi. La nostra mente può trascendere quelli che noi
consideriamo suoi limiti invalicabili; la nostra mente può
instaurare con la realtà fisica circostante dei collegamenti e dei
canali di comunicazione di cui si ignora la natura ma dei quali
si può in qualche modo supporre e constatare l’esistenza.
Sull’influenza di quella che noi chiamiamo mente sulla realtà
fisica sono stati raccolti numerosi avvenimenti ed effettuati
diversi esperimenti….”
“Me ne potrebbe descrivere qualcuno?” chiese Isobel
incuriosita e sempre più stupita per la piega che stava
prendendo la conversazione.
“Gli esempi possono essere diversi: prendiamo i casi di quei
cani che vengono affidati per un breve periodo di tempo a
parenti distanti centinaia se non migliaia di chilometri dalla
casa dei padroni e che a un certo punto spariscono e dopo aver
percorso a ritroso quelle migliaia di chilometri ritrovano la loro
casa. Come è spiegabile questa cosa: certamente non solo con
uno spiccato senso dell’orientamento. O ancora, sempre per

222
analizzare il mondo animale, animali che hanno comportamenti
anomali e bizzarri subito prima di terremoti…”
“A questo proposito mia mamma mi racontava sempre che
quando era piccola e abitava in una casa in campagna avevano
in giardino due splendidi pavoni con i quali lei giocava spesso.
Un giorno mentre giocava con loro incominciarono a urlare e
volarono su di un albero, cosa che non avevano mai fatto
prima: pochi minuti dopo ci fu un violento terremoto.”
“Di questi racconti ne sono stati raccolti migliaia” riprese il
professore “ Cani e gatti che si mettono davanti alla porta dieci
minuti prima di un rientro imprevisto dei loro padroni,
pappagalli parlanti che rispondo a pensieri ancora inespressi
dei loro padroni. Ciò che traspare da queste casistiche è che gli
animali potrebbero in qualche modo captare segnali dei loro
padroni attraverso un collegamento di tipo telepatico. Su tali
reazioni animali sono stati anche effettuati alcuni esprimenti: in
uno di questi esperimenti, ad una cagna e a uno dei suoi
cuccioli fu insegnato ad accucciarsi ogni volta che veniva
alzato un giornale arrotolato. Poi i cani furono messi in una
stanza separata e il cucciolo fu ripetutamente minacciato e,
nello stesso momento in cui si acquattò, la madre faceva lo
stesso.
In un altro studio, una femmina di boxer fu collegata a un
elettrocardiogramma in una stanza insonorizzata, mentre la sua
padrona si trovava separata da lei in una stanza lontana e
anch’essa insonorizzata. Poi, all'improvviso, uno sconosciuto
irruppe nella stanza e si mise a inveire contro la donna
minacciandola con violenza. In quel momento l'apparecchio
registrò un fulmineo aumento delle pulsazioni cardiache della
cagna nella stanza anch'essa insonorizzata.
Queste e altre analisi sembrano suggerire che vi possano essere
dei collegamenti non locali tra le menti di animali e di persone,
ovvero che le comunicazioni intrapsichiche trascendono lo

223
spazio e il tempo come noi ce lo configuriamo. Ti è mai
capitato Isobel di pensare a una persona che non incontri da
tanto tempo e in quel medesimo istante squilla il telefono ed è
lei? Ti è mai capitato, allo stesso modo, di sognare una persona
e di incontrarla casualmente il giorno dopo? “
Isobel fece cenno di sì con la testa.
“Ebbene questi fenomeni, che potremmo definire di
sincronicità, sono stati alla base di alcuni studi di uno dei più
grandi, se non il più grande, psichiatra della storia: Carl Gustav
Jung. Ne ha mai sentito parlare?”
“Ho visto alcuni suoi libri tra quelli che la nonna mi ha
lasciato…”
“Jung è stato uno dei più grandi esploratori della psiche degli
esseri umani, un esploratore temerario e intrepido che non esitò
a calare tutto se stesso nelle sue ricerche. In un primo tempo
era stato collaboratore di Freud, ma ben presto si dissociò da
lui perché si convinse che le teorie freudiane non potevano
spiegare totalmente la mente umana: secondo Jung Freud
insisteva troppo e in maniera quasi esclusiva sulla repressione
degli istinti sessuali come spiegazione delle afflizioni della
psiche umana: un modello della malattia mentale che
enfatizzava rigide categorie di tempo, spazio e persona. Jung si
convinse che occorreva spingersi oltre, ed elaborò un modello
della psiche “non locale” in cui, quindi, i pensieri, gli istinti, le
ansie, le paure, le fobie non attingevano solo da un vissuto
reale e razionale, utilizzando le esperienze vissute del soggetto
nella vita reale e nel suo inconscio personale, ma affondavano
e portavano alla luce anche una dimensione transpersonale,
comune a tutti, che era rappresentata da archetipi presenti in
quello che Jung chiamò “Inconscio Collettivo”. Molte delle
radicali intuizioni di Jung derivavano da sue esperienze, in
particolare dai suoi sogni. «Giorno dopo giorno noi viviamo
lontano, oltre i limiti della nostra coscienza” concluse. «A

224
nostra insaputa, anche la vita dell'inconscio procede dentro di
noi... comunicandoci alcune cose... fenomeni di sincronia,
premonizioni e sogni». Elaborando per decenni la propria vita
psichica, nonché trattando migliaia di pazienti e analizzando i
loro sogni, Jung giunse alla certezza che l'umanità possiede una
precisa eredità psichica. Essa consiste di fenomeni
fondamentali per la vita che si esprimono a livello psichico,
cosi come altre caratteristiche ereditarie si manifestano a livello
fisico. Secondo Jung l'inconscio collettivo non potrebbe essere
definito nello spazio o nel tempo, e trascende l'individualità
singola per abbracciare tutte le menti. Come egli scrisse:
«L'inconscio... ha il suo 'tempo' poiché passato, presente e
futuro si fondono assieme in esso». Durante la sua vita Jung fu
spesso testimone di casi di sincronicità sorprendenti:
emblematico e famoso il caso da lui descritto di una paziente
che, nel suo studio, gli stava raccontando un sogno in cui le
veniva donato uno scarabeo: in quel medesimo istante Jung
sentì un rumore alle sue spalle, come se qualcosa urtasse contro
la finestra: era uno scarabeo che cercava di entrare nella stanza
buia. Tali eventi, che Jung chiamava sincronici, fecero
supporre la possibilità di trascendere i concetti di spazio, di
tempo e di causalità, tutti concetti che limitano e tendono a
imbrigliare le nostre capacità mentali. Jung ha descritto tre tipi
di sincronicità: nel primo vi è coincidenza tra contenuto
psichico ed un evento esterno; nel secondo vi è un sogno o una
visione che coincide con un evento distante nello spazio. Nel
terzo, una persona ha un sogno o una visione di qualcosa che
deve avvenire e che poi, di fatto, si verifica. Sulle sincronicità
famosa è la sua collaborazione con il fisico quantistico
Wolfgang Pauli che aveva rilevato casi simili in comportamenti
di particelle nella meccanica quantistica. Ma su questo
argomento torneremo più tardi.”

225
Isobel era come incantata. Lo sguardo del professore si era
fatto penetrante e guizzava vivace dai suoi occhi all’orizzonte.
Poteva leggereci la passione e la estrema concentrazione che
richiedeva lo spiegare quei concetti.
“Jung ebbe, durante la sua lunga vita, una serie di esperienze,
che chiameremmo in maniera semplicistica paranormali quali
visioni, premonizioni, esperienze di premorte tutte analizzate e
descritte nei suoi libri, che lo guidarono e lo spronarono nello
studiare la psicologia dell’inconscio e ad elaborare il concetto
di inconscio collettivo. Jung sosteneva che siccome tutte le
distinzioni svaniscono nella condizione inconscia era logico
che anche la distinzione fra menti separate dovesse scomparire.
Egli disse: «Dovunque c'è un abbassamento del livello conscio,
riscontriamo casi d'identità inconscia.» Jung si rendeva conto
che una delle manifestazioni comuni della mente inconscia era
il fondamentale senso mistico di unicità e di unione con tutto
quello che contiene. Nel suo libro “Ricordi, sogni, riflessioni”
scrisse: «Non avrei mai pensato che si potesse provare
un’esperienza del genere. Le mie visioni e le mie esperienze
erano effettivamente reali, nulla era soltanto sentito, soggettivo,
anzi possedevano tutti i caratteri dell’assoluta oggettività.
Rifuggiamo dalla parola eterno ma posso descrivere la mia
esperienza solo come la beatitudine di una condizione non
temporale nella quale presente, passato e futuro siano una cosa
sola. Tutto ciò che avviene nel tempo vi era compreso in un
tutto obiettivo, nulla era più distribuito nel tempo o poteva
essere misurato con concetti temporali. Tale esperienza
potrebbe semmai esser definita come una certa condizione del
sentimento, che non si può però immaginare. Come posso
immaginare di essere contemporaneamente così come ieri
l’altro oggi e dopodomani? Qualcosa non sarebbe ancora
cominciato, altro sarebbe chiarissimo presente e altro ancora
sarebbe già terminato: eppure tutto sarebbe una cosa sola! La

226
sola cosa che il sentimento potrebbe cogliere sarebbe una
somma, un tutto iridescente, contenente allo stesso tempo
l’attesa di un cominciamento, sorpresa per ciò che accade al
momento e soddisfazione o delusione per ciò che è accaduto.
Un tutto indescrivibile, una trama della quale si è parte: eppure
siamo in grado di percepire il tutto con assoluta obiettività. »
Questa esperienza, come lo stesso inconscio collettivo, era
universale. Jung la chiamò: «il farsi Uno trascendente»;
un'esperienza che metteva una persona in contatto con la Mente
Unica. Ma in definitiva questa Mente Universale e la mente
singola erano una sola e la medesima.
Ma anche se può sembrare blasfemo per l'occidentale
riconoscere una cosa del genere, sottolineò Jung, era
nondimeno un'«incontestabile esperienza mistica» presente in
tutte le tradizioni religiose, sia orientali sia occidentali.
Jung credeva fermamente nell'immortalità e questo si
armonizzava con la sua certezza che la Mente è al di là delle
limitazioni del tempo. Scrisse: « La nostra psiche si spinge
fino a una regione che non subisce le costrizioni del mutamento
nel tempo né delle limitazioni dello spazio. I due elementi del
tempo e dello spazio, indispensabili per il cambiamento, sono
relativamente privi d'importanza per la psiche... La psiche è
fino a un certo punto non soggetta alla corruttibilità».
Rivolgere l'attenzione alle manifestazioni della Mente
atemporale era per Jung il dovere catartico di ogni essere
umano e ad essa dedicò tutta la sua vita di studioso.
Questo compito è particolarmente arduo nella nostra epoca
perché abbiamo spostato tutto il nostro interesse sul «qui e
adesso»: sul fare, sul consumare, sull'aspetto pratico della vita,
sul «progresso» materiale. Ma la nostra mente non può essere
inscatolata nel «qui e adesso», perché è infinita ed eterna. E,
poiché la sua «qualità» di spazio e tempo è diversa da quella a
cui attribuiamo comunemente valore, ce ne troviamo esclusi. Il

227
risultato è patologico: noi siamo diventati vittime dei nostri
impulsi inconsci, il nostro mondo è stato reso un inferno. Al
contrario, il nostro compito nella vita, insegnò Jung, è
«esattamente l'opposto: diventare consci dei contenuti che
premono dall'inconscio». Dobbiamo «creare sempre più
coscienza». Solo in questo modo possiamo realizzare «l'unico
scopo dell'esistenza umana: accendere una luce nelle tenebre
della vera esistenza». “
“Quindi Jung sperimentò direttamente su di sé premonizioni,
sincronicità, visioni? Deve essere stato un uomo davvero
coraggioso.” disse Isobel ammirata ”Spingersi agli estremi di
se, lasciarsi avvolgere da esperienze che stravolgono i nostri
canoni mentali deve richiedere grande dedizione e grande
sforzo”
“Certo, ma solo così si può giungere alla consapevolezza, solo
così potè rispondere senza saccenza ma con estrema sincerità
alla domanda: Crede in Dio e nella vita dopo la morte? Non
credo né all'uno né all'altra. So che entrambi esistono. Grazie a
tali esperienze egli giunse a sentirsi non solo liberato da ogni
paura della morte, ma anche a vedere in sé rafforzata la
consapevolezza che questa vita é soltanto un frammento
dell’esistenza, che si svolge in un universo tridimensionale,
disposto a tale scopo. Avere la forza di affrontare il proprio
inconscio, di accettare se stessi senza riserve, di guardare con
occhio libero fenomeni che vanno oltre le nostre capacità
razionali di comprendere, affrontare certe situazioni può
spaventare, ma questo è dovuto soprattutto al fatto che ognuno
di questi avvenimenti, di queste sensazioni, di queste piccole
epifanie sconvolgono il modo in cui per secoli l’uomo ha
pensato a se stesso e alle cose che lo circondano: la limitazione
che l’uomo ha posto a se stesso a al proprio inconscio è la più
grande difficoltà che si incontra nell’aprirsi a queste esperienze
e a queste realtà perché mettono in crisi in un sol colpo secoli

228
di certezze, secoli di ragione e di lumi, secoli di fredda
razionalità aprendoci a un mondo diverso, nuovo, in cui i
concetti di tempo, di spazio e di causalità, ovvero i perni della
nostra comune percezione della realtà, vengono a mancare o
assumono significati profondamente diversi. Credo che la
stessa sensazione l’abbiano provata quei fisici che per la prima
volta si trovarono davanti i fondamenti della fisica quantistica:
un totale capovolgimento dei canoni normali di quella che
reputiamo essere la realtà in cui siamo calati. Da questo punto
di vista è quindi comprensibile l’unità di intenti e di studi che
condivisero Jung e il fisico quantistico Wolfgang Pauli.”
“La nonna aveva un libro di Pauli: mi sembrava si intitolasse,
non a caso, Psiche e Natura. Ma continui la prego, non volevo
interromperla….”
“Fino a poco tempo fa” disse il professore con aria grave
“sarebbe stata un'eresia scientifica sostenere che vi possono
essere influenze dirette tra soggetti, oggetti o particelle, non
contigue o fisicamente collegate.”
Vedendo lo smarrimento nel volto di Isobel si fermò un istante,
sorrise poi riprese.
“Cerco di spiegarmi meglio: nel nostro comune percepire la
realtà due corpi sono distinti se sono separarti nello spazio.
Inoltre affinché un corpo eserciti una qualche influenza su di
un altro occorre che in qualche modo superi lo spazio che li
separa. Io posso influenzare il comportamento di un oggetto o
di una persona solo se questa è fisicamente raggiungibile,
ovvero se io posso venire fisicamente a contatto con essa
(posso camminare fino a lei e la posso toccare) o se posso
vederla (la televisione che trasmette immagini di avvenimenti
fisicamente lontani in realtà è a me fisicamente collegata
tramite il mio televisore che recepisce le onde
elettromagnetiche partite dal luogo da dove provengono le
immagini che sto visualizzando) o mettermi in contatto audio

229
(posso dirti di fare una cosa). Insomma io posso influenzare un
comportamento solo ed esclusivamente se sono connesso
localmente (anche a grande distanza attraverso telefoni, radio,
televisori) all’oggetto o al soggetto che intendo influenzare.
Dal punto di vista della fisica classica questo si chiama
principio di località. Tale presupposto, insieme a molti altri,
sono stati completamente sconvolti dalla fisica quantistica.
La fisica quantistica ha sconvolto e rivoluzionato concetti che
l’uomo riteneva solidi e irrinunciabili. La più grande difficoltà
dei fisici che iniziarono l’esplorazione del mondo dei quanti fu
quella di credere a ciò che le loro analisi andavano mostrando,
ovvero una realtà in cui venivano a mancare una serie di
presupposti che noi consideriamo irrinunciabili nella vita di
tutti i giorni. Il messaggio che ne scaturì è che la nostra è una
interpretazione e una semplificazione della realtà e che la realtà
quantistica ha una serie di regole e di paradossi che non si
conciliano con la nostra percezione delle cose; ma, come per la
relatività di Einstein o, più semplicemente, per il sistema
eliocentrico di Copernico, occorre ribadire che è la nostra
percezione di certi eventi e di certe situazioni ad essere errata e
forviante.
Il principio di indeterminazione, l’entaglement di due
particelle, l’influenza dell’osservatore sull’osservato sono tutte
concettualizzazioni dirompenti per la nostra “normale”
percezione della realtà.
Ognuna di queste peculiarità meriterebbe fiumi di formule e di
analisi. Proverò a farti capire questi concetti in maniera
stringata ma il più possibile chiara.”
Isobel annuì. Era completamente ipnotizzata da quelle parole,
come se le fosse stato tolto un velo che le offuscava la vista da
tempi immemori. Sentì una specie di scossa, come quando un
brivido di freddo attraversa la spina dorsale congelando
quell’attimo nella mente. Aveva letto della teoria dei quanti in

230
quelle due settimane e le era parsa una teoria interessante ma
assolutamente ininfluente rispetto alla ricerca della nonna e alla
sua; ora invece iniziava a intravvedere il filo rosso che le univa.
“Il primo grande sconvolgimento portato dalla fisica dei
quanti” continuò il professore ”è che noi non potremo mai
conoscere con esattezza la posizione di una particella; il
massimo che potremo ottenere è una serie di probabilità che
essa si trovi in determinati punti dello spazio. Il secondo
grande sconvolgimento è la caduta del principio di località cui
ho accennato prima: qualunque sia la distanza tra due particelle
questa non garantisce che esse siano distinte; tale principio
sfida un dogma assoluto della fisica: la velocità della luce. Un
cambiamento effettuato su di una particella provoca un
istantaneo e identico cambiamento su di un’altra particella,
detta entagled, indipendentemente dalla distanza che separa le
due. Le connessioni tra due particelle sono infatti istantanee
anche a miliardi di anni luce e questo è in netta contraddizione
con la teoria della relatività ristretta che postula la velocità
della luce come velocità massima raggiungibile. Un'interazione
localizzata è, in breve, non mediata, intatta e immediata. Un
fisico irlandese, John Stewart Bell, ha dimostrato l'effettiva
esistenza di tali interazioni. In una prova matematica
confermata da numerosi esperimenti successivi, chiamata
Teorema di Bell, egli ha dimostrato che l'ipotesi secondo cui il
mondo è intrinsecamente localizzato è errata. E questo apre la
possibilità non più solo teorica della telepatia, di fenomeni
sincronici indotti dalla mente, di deja vù visti come esperienze
di un tempo che non scorre ma che è in qualche modo tutto
presente. Il terzo grande sconvolgimento riguarda il principio
di indeterminazione: esso sostiene che la nostra decisione di
misurare certe proprietà di una particella elimina la possibilità
di misurarne altre. Ad esempio maggiore è la precisione con
cui voglio determinare la posizione di una particella, minore è

231
la precisione che avrò nel determinarne la velocità. Questo
introduce un ruolo attivo del’osservatore sul fenomeno
osservato. Il quarto grande sconvolgimento è rappresentato dal
principio di complementarietà che introduce una sorta di
dualismo tra le particelle: esso afferma infatti che ogni
particella ha una natura ondulatoria e una corpuscolare; sarà
l’osservatore a fare emergere uno dei due aspetti all’apparenza
antitetici.
Un altro sconvolgimento è quello apportato dal cosiddetto
paradosso del gatto di Schrodinger: tale paradosso venne
enunciato dallo stesso Schrodinger più o meno così:

«Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in
una scatola d’acciaio insieme con la seguente macchina infernale (che occorre
proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un
contatore di Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva,
così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegra, ma
anche in modo parimente verisimile nessuno; se ciò succede, allora il contatore
lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del
cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si
direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si è
disintegrato. La prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La
funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il
gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso»

Questo significa in pratica che il gatto resta sia vivo che morto
fino al momento dell’osservazione. Sarà l’osservazione in
qualche modo a uccidere o far vivere il gatto. Questo paradosso
ha fatto nascere numerose teorie, la più interessante delle quali
è la cosiddetta teoria a molti mondi: essa, elaborata da Hugh
Everett III, sostiene che nelle situazioni descritte da
Schrodinger si vengono a generare due universi, uno nel quale
il gatto risulterà morto, un altro in cui il gatto risulterà vivo, e
questo per ogni evento possibile. Questo significa, in pratica
che la realtà è costituita da tutti gli eventi possibili; essi
avvengono tutti, ma ognuno in uno specifico universo che non

232
può comunicare con gli altri. Dal punto di vista filosofico
questo significa che a ogni bivio che ci presenta la vita, per
ogni scelta che coscientemente facciamo ve ne sono altre
diverse che avvengono in universi paralleli: in questo universo
tu mi stai ascoltando, in un altro mi hai appena salutato
infastidita e te ne stai andando, e così via per ogni possibile
scelta.”
A Isobel venne in mente il suo sogno con le tante se stessa che
avevano destini diversi a seconda della scelta che veniva fatta.
“C’è da aggiungere” proseguì il professore “che le recenti
scoperte in cosmologia provano l’esistenza di altri universi. Se
l’universo, come sembra, ha dimensioni infinite esistono
infiniti mondi abitati e infiniti tra essi ospitano persone che
hanno il nostro stesso aspetto, e tra essi infiniti che hanno i
nostri stessi nomi e ricordi ma che sperimentano ognuno le
infinite possibili vite che avremmo avuto prendendo decisioni o
scelte differenti in ogni istante della nostra vita. Sembra
assurdo ma la cosmologia ci racconta proprio questo allineando
il macrocosmo con la teoria a molti mondi dell’universo
quantistico.”
Isobel pensò che questo poteva essere il reale significato del
sogno: ogni Isobel rappresentava una lei come sarebbe stata se
avesse preso una decisione diversa, se non avesse guardato le
farfalle, se non si fosse fermata davanti al cedro. Trovava
quella teoria estremamente affascinante ma assai poco
credibile…
“E’ facile comprendere” stava proseguendo il professore “la
portata rivoluzionaria di questi concetti soprattutto a livello
filosofico e di interpretazione della realtà che ci circonda: si
postula l’influenza dell’uomo sulla materia (dell’osservatore
sull osservato). Prima dell’osservazione non siamo autorizzati a
parlare di un mondo reale di cose ed eventi, ma solo di
possibilità con il potenziale di essere realizzate.

233
Solo combinando fra loro in un'unità singola l'osservatore e
quanto viene osservato la visione del mondo può avere senso.
In tal modo viene a crollare il concetto di realtà unica, fissa e
immutabile. Si parla di connessioni (o di unità intrinseche) tra
oggetti che normalmente reputiamo distinti e si presuppone la
possibilità di influenzare oggetti a distanza. L'abbattimento del
tradizionale concetto secondo il quale alla causa deve sempre
seguire l'effetto. Tutti questi concetti hanno la possibilità di
ribaltare completamente il nostro concetto di realtà. Ma come è
sempre accaduto si sono prese per buone le tesi senza trarre le
doverose conseguenze. Si è recepita la rivoluzione
normalizzandola e ghettizzandola a una teoria fisica facendo
finta di non sapere che noi siamo immersi e costituiti di quelle
particelle dalle leggi e dai fondamenti così bizzarri….”
“Lei crede che tali principi siano applicabili e verificabili anche
nella nostra realtà?”
“E’ una delle ipotesi. C’è un detto che dice: come in piccolo
così in grande. L’aspetto della non località e delle particelle
entangled potrebbe ad esempio spiegare le sincronicità, le
premonizioni, le telepatie; potrebbe dare una risposta agli
interrogativi che sollevano i test di cui le ho parlato prima. Se
abbiamo verificato la possibilità di comunicazioni istantanee
non locali tra le particelle perché non ipotizzare che vi sia un
legame mentale (o un territorio comune quale ad esempio
l’inconscio collettivo di Jung) tramite il quale sia possibile
comunicare e influire sul comportamento altrui in maniera non
locale. E’ una frontiera inesplorata e affascinante ma ostacolata
da scetticismo e preconcetti: la scienza ha paura della
metafisica, ma la scienza e la metafisica poggiano sulle
medesime fondamenta: sono necessità dell’uomo. Occorre
riunificare la fisica con la metafisica, la filosofia con la natura.
Abbiamo passato secoli a dividere, analizzare, parcellizzare,

234
distinguere, è ora di ricomporre, riunire. Io vedo un solo limite
in tuttto ciò: lo spettro dell’incompletezza.”
“L’incompletezza?” chiese Isobel “Cosa intende per
incompletezza?”
“I due teoremi dell’incompletetzza furono formulati dall logico
austriaco Kurt Gödel, peraltro amico di Einstein, e sono, a mio
parere tra le più alte vette che il pensiero dell’uomo abbia mai
raggiunto. La loro formulazione tecnica è assai complessa.
Potrei dirle: “In ogni teoria matematica T sufficientemente
espressiva da contenere l'aritmetica, esiste una formula tale
che, se T è coerente, allora né né la sua negazione sono
dimostrabili in T” e ancora che “Sia T una teoria matematica
sufficientemente espressiva da contenere l'aritmetica: se T è
coerente, non è possibile provare la coerenza di T all'interno
di T “ ma credo che così formulati non le dicano granchè. In
maniera più semplice potremmo dire che un sistema
matematico consistente e sufficientemente ricco non puo
dimostrare la propria consistenza, e se esso è anche corretto
allora è incompleto. Semplificando ulteriormente e uscendo
dalla matematica (Kurt mi perdonerà) potremmo dire che la
mente non può dimostrare la propria esistenza, i sani di mente
non possono dimostrare di esserlo (così come i malati), nessuna
parola può descrivere se stessa e la cosa che vuole indicare, che
nessun uomo può descrivere se stesso, che l’uomo per spiegare
se stesso e la sua realtà dovrebbe essere altro da se stesso per
non cadere nell’autoreferenzialità: in pratica esistono verità che
non sono dimostrabili, predicati che non sono enunciabili.
Gödel ha posto un limite a tutti i sistemi creati dall’uomo: dai
computer, al linguaggio, dai sistemi giuridici alla filosofia. Non
tutto ciò che è vero è dimostrabile, i mezzi a nostra
disposizione sono incompleti... Cosa ci resta se le parole non
possono spingersi fino alla verità, se anche la matematica si
arrende, se la nostra logica è incompleta? L’esperienza. Il

235
contatto diretto con le cose, senza mediazioni fisiche e
intellettuali. Osservare, vedere, sentire, percepire il movimento,
l’energia, la luce, il movimento dei pianeti, lo stormire delle
foglie e il ritmo vitale che è sotteso a tutto ciò e che tutto
unisce.
Gli elettroni ruotano intorno al nucleo come i pianeti attorno al
sole; l’infinito si rispecchia negli occhi di un bambino così
come nella galassia più lontana. Ogni cosa torna a noi, ogni
cosa è già vista, come in piccolo così in grande, come in cielo
così in terra. Questa è la realtà i cui bagliori squarciano la
nostra quiete per comunicarci che tutto è anche uno e noi siamo
parte integrante e non interposta a questo tutto. Ma la scienza,
la psicologia e la filosofia, lo studio della natura sono solo una
parte dell’indagine, sono incomplete; possono solo portarci
sulla soglia di tale esperienza, non possono condurci dall’altra
parte. Leggere Jung e sapere delle sue visioni non ci comunica
le sensazioni da lui provate; l’esperienza diretta è l’unica via e
l’arte può essere una strada. L’artista è una specie di medium
che riesce in alcuni momenti di ispirazione a essere in contatto
con quella realtà che ai più è preclusa. Occorre cercare nelle
loro opere, scorgere i frammenti di consapevolezza che essi si
lasciano alle spalle, come una scia luminosa ma sfuggente di
una stella cadente in una notte di agosto. Questo è lo scopo di
questo posto: conservare memoria di questa arte, di questa
consapevolezza. Ma oggi anche l’arte è denaro. Il denaro ha
sporcato e svilito l’arte che da esperienza quasi religiosa è
divenuta una attività commerciale; da mezzo è diventato fine,
da comunicazione è diventata solipsismo, autoreferenzialità
estrema. Ma esistono ancora voci e musiche che incantano,
parole che evocano, libri che feriscono, quadri che folgorano,
esistono ed è per essi che questo posto ha un suo senso. E’ uno
scrigno in cui è riposto tutto il sapere e tutta la magia dell’arte
e del sapere che questo mondo ha prodotto; è aperto a tutti ma

236
segreto, perché non diventi un luogo di culto. E da qui forse un
giorno partirà la luce che illuminerà chi sarà pronto ad
accogliere la sua semplice verità. Questo posto è in tanti sensi
un ritorno alle origini.”
Il vecchio professore tacque come per prendere fiato e
recuperare il filo dei suoi pensieri. Il sole era già alto sopra il
profilo delle montagne e il bianco dei ghiacciai splendeva fino
a bruciare gli occhi. Lo scroscio della cascata si riverberarva
per la valle sottostante creando strane eco; Isobel si accostò al
muretto e fissò un punto indefinito all’orizzonte.
“Era di queste cose che parlava con mia nonna, vero?” disse
sempre con lo sguardo perso sull’orizzonte “Ed era di queste
cose che la nonna ricercava in quella montagna di libri, di
dischi, di quadri: quanto vorrei sentire la sua voce ora...” Si
sorprese della frase che aveva appena pronunciato. “Stava
scrivendo un libro, un libro sul tempo. Credo che sia nato dalle
conversazioni con lei. Ho trovato i suoi appunti….”
“Me ne aveva parlato, mi aveva chiesto se potevo leggerle le
bozze ma non ha avuto modo di darmele.”
“Ora non serve più” disse Isobel voltandosi e fissando il
professore.
“Professor Barbur, che cosa lega questo posto con i riti
iniziatici di Eleusi nella Grecia antica? Il nome non può essere
casuale.”
Il professore ebbe un impercettibile gesto di stupore subito
represso.
“Infatti non lo è” disse con un tono di voce flebile ma deciso
”ma non posso aggiungere altro. E’ giunto il momento che io
vada. Solo un’ultima cosa“ disse estraendo dalla tasca una
scatola argentata “questa è la scorciatoia per apprendere, usala
con buon senso e solo per te stessa. La consapevolezza non può
essere conquistata per altri..”

237
E così dicendo le porse la scatola argentata: era finemente
cesellata, con il simbolo del serpente e dell’aquila che già
aveva visto rappresentato in varie parti del monastero. Sotto i
due animali una scritta in inglese: “Eleusi’s Kykeon”
“Ma…..” balbettò Isobel interdetta.
“Leggi Isobel, fai tesoro di questa conversazione, studia,
ricorda, ma quando riterrai di avere compreso vuota la mente e
lasciati prendere dall’esperienza. Il vuoto è pieno e il pieno è
vuoto. Occorre riempirsi, per poi svuotarsi e riempirsi di
nuovo; ogni cultura, ogni nozione ha la sua nemesi, solo
l’esperienza diretta non mente perché non è mediata. Il Kykeon
è un mezzo e come tale deve essere usato, con cura e
parsimonia, ma può donare una fugace consapevolezza. E’ una
scelta, la tua ora, fanne buon uso. Che la pace sia la tua strada.
Addio.”
E così dicendo rientrò nel monastero. Isobel rimase immobile,
fissando la scatola che stringeva tra le mani. La superficie
argentea brillò, colpita da un raggio di sole.
“Che persona incredibile” sussurrò riponendo la scatola in
tasca. E si avviò per il sentiero.

238
CAPITOLO XXXVI

29 giugno 1994 Bearsville Recording Studio, Woodstock, New


York

Un sospiro appena accennato, un alito di vento e gli accordi di


chitarra vibrarono nello studio. Jeff chiuse gli occhi. Intorno a
se la melodia danzava lenta, sognante, come una invitante
ballerina da sedurre con il canto, una sirena muta perché lui le
aveva rubato la voce. Lui, la musica e l’infinito… Un accordo
deciso lo richiamò al presente, l’arpeggio insistente gli si
avvitò nel petto. Cantò e la stanza vibrò della sua passione,
della dolcezza di velluto delle sue note…. Una lenta ninna
nanna, una invocazione profana con l’abbandono alla parola
più sacra. Si sforzò di rimanere presente: le parole, doveva
ricordare le parole. Si sentiva cullare dalle vibrazioni da lui
stesso generate, la stanza cambiava colori, dimensioni,
prospettive. Il potere della musica, la trasfigurazione della
realtà; la sua voce era il tramite, lo aveva sempre saputo. Il
dono del destino, del cielo, di Dio se mai esisteva, la sua
benedizione e la somma maledizione: essere all’altezza della
musica, sempre, essere egli stesso musica, vibrare con essa,
trovare il tono, la melodia, essere melodia, varcare lo spazio e
il tempo che separa la musica dal regno da cui proviene. Lui lo
sapeva.. La musica non era di questo mondo, troppo pura,
troppo solenne, troppo diversa per sporcarsi con una realtà fatta
di denaro, di interessi, di guerre, di morte. L’eternità della
musica: sole sette note per infinite canzoni, per melodie che
stregano e che abbagliano. Riaprì gli occhi: le luci dei
registratori, così flebili in realtà, lo abbagliarono. La musica
continuava ad avvolgerlo e lo chiamava a fondersi con essa, a
farsi egli stesso strumento, a far vibrare le sue corde vocali in

239
armonia con l’Universo. Poteva essere passato un giorno come
un anno da quando sapeva di aver iniziato a cantare, nota dopo
nota, semicroma dopo semicroma, glissato dopo glissato… Le
sue dita si muovevano sulla chitarra tessendo segrete trame di
note, quasi indipendenti dalla sua volontà, dalla sua coscienza.
Sentiva la melodia e l’assecondava, la domava, la possedeva; la
sua voce vibrava dalla voglia di esplodere, ma non vi era
dolore in quella melodia, solo una placida rassegnazione.. La
trattenne e virò la tonalità su un flebile ma fiero sospiro: stava
giungendo la fine. Odiava la sensazione di distacco dalla
musica, il termine della vibrazione, il termine dell’estasi. Le
ultime frasi, le ultime note. Prese fiato,.era l’ultima parola, ma
non voleva pronunciarla, non voleva che finisse: trattenne
dentro di se tutta la rabbia, la frustrazione e la tramutò in un
flebile, infinito acuto che protrasse finchè sentì i suoi polmoni
urlare la mancanza di ossigeno. Una nota sospesa per un tempo
incredibile, inumano, eterno. Tutta la dolcezza, la rabbia, la
tensione, la gioia in quella nota infinita. Chiuse gli occhi, la
ballerina si era fermata estasiata da quel richiamo senza tempo;
ogni cosa intorno a lui sembrava ferma e allo stesso tempo
vibrare al suono di quella nota, in un compenetrarsi del mondo
in quel tremore eterno. La vibrazione cessò, tutto riprese il suo
corso. Jeff aprì gli occhi. Halleluja ripetè dentro di
se…Halleluja.

240
CAPITOLO XXXVII

18 marzo 2001 Lendi Eleusi

La giornata era splendida: un cielo terso incorniciava il profilo


solenne delle montagne circostanti. Hani e Isobel avevano
deciso di prendersi una pausa da quei giorni di frenetiche
letture e ricerche per godersi lo splendore di quei luoghi ed
immergersi in quella natura incontaminata. Erano ridiscesi per
la ripida scala ed erano giunti dietro la cascata. Il velo d’acqua
si dipanò davanti a i loro occhi mentre lo oltrepassavano,
mostrando loro la radura circostante. Lo splendore del luogo li
colpì come la prima volta: le ninfee in fiore decoravano una
riva del lago mentre tutt’intorno a loro una fantasmagoria di
colori, profumi di fiori sconosciuti, richiami di animali,
cinguettii di uccelli dipinsero un sorriso di gioia sui loro volti e
infusero pace e serenità ai loro cuori; per un piccolo breve
istante si sentirono come Adamo ed Eva nel giardino
dell’Eden. Inebriati da quella sensazione iniziarono a
rincorrersi nell’acqua fino a che questi giochi si trasformarono
in appassionate effusioni: I vestiti caddero, i corpi si unirono in
un’estasi che parve abbracciare la natura che li circondava.
Esausti si distesero sulla riva del piccolo lago, mano nella
mano, ansimanti. L’arcobaleno presso la cascata disegnava
un’arco completo e si rifletteva nei loro sguardi trasognati,
innamorati, persi. Si sentirono gli unici abitanti di quel luogo e
sperimentarono il brivido di piacere che tale pensiero portava
nei loro cuori: Essere l’uno per l’altra, liberi da vincoli, da
impegni, da obblighi, da orari, da necessità. Si guardarono
negli occhi e si baciarono, un lungo, lento, appassionato bacio
ritmato e cullato dall’allegro cinguettare degli uccelli.

241
Isobel prese il viso di Hani tra le sue mani e guardandolo
intensamente gli disse:
“Ti amo. Sei la cosa più bella che mi sia mai successa.” Gli
disse accarezzandolo dolcemente.
“Issi..” disse Hani “..credi che sia giusto?”
“Giusto cosa?” chiese Isobel.
“Che esistano posti del genere, sensazioni del genere che ti
riconciliano con il mondo, la natura, il creato, il tuo essere e
esattamente in questo istante in altri luoghi vi è fame,
sofferenza, morte? Credi che sia giusto tutto ciò?”
“Non so risponderti Hani…” disse Isobel.
“Che senso hanno tutte queste ricerche, la ricerca di
consapevolezza, la ricerca di uno scopo nella vita quando poi a
poca distanza da te la vita stessa vale meno di nulla, l’infanzia
dei bambini viene stuprata e calpestata, il diritto alla
sopravvivenza viene declinato come una concessione o un
colpo di fortuna? Che senso ha questo posto, che senso ha la
memoria del bello, del giusto, la conservazione dell’arte, della
letteratura, il progresso delle scienze, le speculazioni
filosofiche sul tempo se in ogni istante, che esista o meno,
persone muoino, soffrono, piangono?” Hani si era seduto e
gettava sassi nel lago sfogando la sua frustrazione.
Isobel si accoccolò alle sue spalle e lo abbracciò teneramente.
“Dove ci hanno portato le letture di Nietzsche, di Joyce, di
Kundera, di Borges, di Rimbaud, di Proust, di Gandhi, l’ascolto
di Coltrane, dei Doors, di Dylan, degli U2? Cosa hanno
cambiato in realtà? Da quanti anni è che la risposta chiesta da
Dylan vola nel vento? Da quanti anni è che ci sono bloody
sunday? Sono purtroppo molto disilluso a riguardo e questa
permanenza qui mi ha confermato questa mia convinzione.
Non serve a nulla e mai servirà: la cultura, l’arte, la religione
hanno senso solo se possono servire da monito e da esempio,
ma il mondo dimostra che non è così. Se uno leggesse o

242
ascoltasse realmente e capisse realmente di cosa si sta
scrivendo, parlando, cantando, filmando le cose non sarebbero
così: se Nietzsche fosse stato letto e capito, se Blowin’ in the
wind non fosse ridotta a una suoneria di un telefono cellulare,
se Bono non fosse stato fagocitato dal sistema contro cui urlava
all’inizio, se milioni di altri pensieri, sentimenti, scritti o
magari urlati nel sangue non fossero costantemente
marginalizzati e normalizzati, resi innoqui con etichette
(intrattenimento, lettura, musica, viaggi mentali per persone
con tempo da perdere) disinnescandone automaticamente il
loro potere rivoluzionario, anarchico ed eversivo allora
penserei che è un’immane delitto che persone siano private
della possibilità di giungere a questa conoscenza, di accedere a
questo posto, di fare la nostra esperienza. Ma la nostra civiltà è
la testimonianza vivente che tutto ciò non conta, che siamo
addormentati in un limbo di finto benessere e perbenismo, un
limbo in cui nulla che dista da noi più di un metro ci
preoccupa. Abbiamo tutto, l’accesso potenzialmente illimitato
alle informazioni, alla cultura, a una via per una maggiore
consapevolezza ma tutto ciò è ormai inerme, reso inoffensivo.
Non abbiamo più la forza di capire e di indignarci. Siamo colti
da una miopia senza limiti: quante parole, canzoni, opere
sprecate Issi, quanto sangue versato per un briciolo di
consapevolezza in piu’ lavato con noncuranza dallo scorrere
monotono dei giorni! Se si leggesse e si ascoltasse realmente
nulla sarebbe come oggi è: che cosa sono vissuti a fare Gandhi,
Martin Luter King, Jan Palack, John Lennon, Bob Dylan? Per
chi e’ stata scritta Master of War, perchè Dio e’ morto, chi ha
soffocato le emozioni della voce di Jeff Buckley, chi ha
disinnescato la rabbia di Kurt Cobain, chi ha fatto delle visioni
di Jim Morrison una parodia per adolescenti imbecilli e
sballati, chi ha sporcato la memoria del Che, chi ha svenduto il
suo volto sulle magliette, chi ha annegato l’incanto delle

243
Illuminazioni di Rimbaud? Che cosa ce ne siamo fatti di tutti
questi doni divini Issi?
Te lo dico io: niente, niente di niente e lo dico con quel poco di
rabbia che l’anestesia della vita quotidiana mi permette di
provare. E se noi, liberi e belli abbiamo annacquato ogni
pensiero sovversivo o semplicemente diverso dal perbenismo e
dal conformismo dominante, in nome di che cosa reclamiamo
la nostra superiorità? Noi che dovremmo sapere e non
sappiamo, noi che dovremmo capire e non capiamo? No Issi, a
questi patti la vita di un solo bambino vale piu’ di mille idee, se
le idee non sanno vivere dentro di noi! Stare qui non ha più
alcun senso per me. Mi fa male, tanto male….”
Hani tremava, dalla rabbia e dalla tristezza. Isobel lo stringeva
con tutte le sue forze mentre le lacrime le segnavano il volto.
“Non lo so Hani, non lo so… So solo che devo seguire la strada
indicatami dalla nonna ovunque essa porti. Tu hai ragione, hai
ragione da vendere, ma sento che non è così semplice..”
“E’ maledettamente complicato infatti!” disse il ragazzo
alzandosi di scatto e gettando un masso nel mezzo del lago.
“Poi c’è quella minaccia velata del consiglio, il fatto che devi
rimanere altrimenti morirai. Che ti importa Isobel di quel libro?
Vieni via con me, ora, andiamocene da questa falsa quiete,
rendiamoci utili a noi stessi e agli altri…”
“Non posso Hani, credimi, vorrei ma non posso. Mi sento
legata a quel libro e a quanto fatto da mia nonna.. Non posso
rinunciarvi ora che sono ad un passo dalla comprensione…
Domani mi aspetta il Consiglio dei Saggi. Non ho intenzione di
tirarmi indietro, succeda quello che succeda. Sento che è una
cosa troppo importante, almeno per me. La tua promessa alla
nonna è stata mantenuta: sei libero di andare, hai fatto anche
troppo per me Io ti amo ma non voglio che il mio amore si
trasformi in prigione.”

244
“Isobel” le disse il giovane abbracciandola teneramente “anche
io ti amo, ho solo bisogno di dare un senso a ciò che stiamo
facendo, a ciò che stiamo cercando Tu ci sei riuscita, ma per te
era facile, il rapporto che avevi con tua nonna è stato in questo
decisivo, ma io… io ho bisogno di sapere che sono utile a
qualcuno, che sto’ contribuendo ad alleviare le pene di
qualcuno, o almeno voglio averne l’illusione, ma una illusione
che non porti dubbi.”
“Basta con le illusioni Hani, basta! E’ ora di aprire gli occhi e
forse è proprio per questo che sento giusto rimanere qui, per
ora… per aprire gli occhi.. Solo con gli occhi aperti si può
andare per il mondo e cercare di migliorarlo…. Io credo sia
possibile…” e così dicendo si immerse nell’acqua
scomparendo in un tuffo.
“Resterò al tuo fianco amore mio” mormorò Hani “almeno fino
al tuo incontro con il Consiglio”.
E si tuffò anche lui.

245
246
CAPITOLO XXXVIII

Dalla bozza del libro di Tina Morrison

Il tempo in oriente

La cultura occidentale è completamente calata nel concetto


lineare di tempo. Siamo regolati da orologi, giorni, ore, minuti,
secondi, appuntamenti. Ma, in maniera più sottile e pentrante
anche le nostre parole, il nostro esprimerci è profondamente
temporale; ed è anche per questo che ipotizzare un concetto di
tempo non lineare o addirittura ipotizzare la non esistenza del
tempo ci rende così confusi: ci verrebbero a mancare oltre ai
pilastri della nostra esistenza anche le parole. In oriente invece si
è sempre avuto un concetto di tempo circolare e si è spesso
riconosciuto nello scorrere del tempo una costruzione mentale.
Le più grandi filosofie e religioni orientali infatti, a differenza di
quella greca, culla della civiltà occidentale, ha sempre sostenuto
che lo spazio e il tempo sono costruzioni della mente. I mistici
orientali consideravano il concetto di tempo – come tutti gli altri
concetti intellettuali – relativi, limitati e illusori. In un testo
buddista, per esempio troviamo le seguenti parole:

“Il Buddha insegnava, o monaci, che …… il passato, il futuro, lo spazio


fisico,….. e le singole cose non fossero che nomi, forme di pensiero, parole di
uso comune, realtà puramente superficiali”

E lo sviluppo linguistico è stato diretta conseguenza di questo


concetto irreale di tempo.
La lingua cinese ad esempio, a differenza di quelle occidentali,
non ha i tempi dei verbi, non coniuga il verbale con il temporale.
La lingua occidentale ha invece il concetto di tempo insito nelle
sue parole, nei suoi verbi. Da questo punto di vista è curioso
notare come una coniugazione di verbo a-temporale (essere,
abitare, giocare, ecc..) in occidente viene definita come infinito.

247
Collegato al concetto di tempo e spazio è il concetto di Io. L’io è
considerato ciò che allontana l’uomo dalla verità, ciò che non gli
permette di penetrare la realtà ultima, di sentire il suo respiro
come respiro del creato. Ma l’Io vede se stesso solo nello spazio
e nel tempo. Il dissolvimento dell’Io dovrebbe quindi passare per
una dissimulazione delle realtà di spazio e di tempo. E’ questo lo
scopo della meditazione: inserire se stessi in una dimensione a-
temporale ove non sentirsi più individui ma sentirsi
compenetrare da ogni essere, da ogni forma, da ogni spazio, da
ogni tempo.
Ed è per questo che nello zen vengono studiati i koan: i koan zen
non sono altro che “scorciatoie mentali”, impervie e tortuose,
per astrarre la mente e il suo modo di ragionare dal se, dal
raziocinio, dal tempo e di creare i presupposti per l’ingresso nella
realtà ultima. Sono inneschi verso l’Illuminazione, sconcertanti e
assurdi per i più: eccone qui un esempio:

Lo studente Doko andò da un maestro Zen e disse: “Sto cercando la verità.


In quale stato mentale debbo esercitarmi per trovarla?”
Disse il maestro: “Non esiste la mente, per cui non puoi metterla in alcuno
stato. Non esiste la verità, per cui non puoi esercitarti per essa”.
“Se non c’è mente da esercitare, né verità da trovare, perché questi monaci si
riuniscono ogni giorno davanti a te per studiare lo Zen ed esercitarsi per
questo studio?”.
“Ma io qui non ho un palmo di spazio,” disse il maestro “come possono i
monaci riunirsi? Io non ho lingua; come posso chiamarli a raccolta e insegnar
loro?”.
“Oh, come puoi mentire così?” chiese Doko.
“Ma se non ho lingua per parlare agli altri, come posso mentire a te?” chiese
il maestro.
Doko disse allora tristemente: “Non riesco a seguirti. Non riesco a capirti.”
“Io non riesco a capire me stesso” disse il maestro.

Oppure:

248
È come un bufalo d'acqua che passi attraverso una finestra. La sua testa, le
corna, le quattro zampe passano tutte. Perché non riesce a passare anche la
coda?

Essi sono strutturati in modo da annullare il pensiero razionale,


annullare le normali percezioni, annullare le parole e sintonizzarsi
mentalmente su un mondo altro. E anche il tempo, parte della
mente razionale, deve essere abbattuto. Riporto alcune citazioni
che intendono mostrare il concetto di tempo nella cultura,
filosofia e religione orientale:

“Sia chiaro che lo spazio non è altro che un modo di particolarizzazione che
non ha esistenza reale di per se stesso. Lo spazio esiste solo in relazione alla
nostra coscienza che particolarizza…”

I mistici orientali collegano entrambe le nozioni di spazio e di


tempo a particolari stati di coscienza. Essendo in grado,
mediante la meditazione, di oltrepassare lo stato ordinario, essi si
sono resi conto che i concetti convenzionali di spazio e di tempo
non sono la verità ultima. La loro esperienza mistica porta a
concetti di spazio e tempo più raffinati, che per molti aspetti
somigliano a quelli della fisica moderna così come sono
presentati dalla teoria della relatività.

“Il significato dell’Avatamsaka e della sua filosofia è incomprensibile a


meno di non provare una volta. Uno stato di totale dissolvimento in cui non
c’è più distinzione tra mente e corpo, soggetto e oggetto. Ci guardiamo intorno
e sentiamo che .ogni oggetto è connesso con ogni altro oggetto, non solo nello
spazio ma anche nel tempo. Come realtà di pura esperienza non c’è spazio
senza tempo, non c’è tempo senza spazio; essi si compenetrano.”
D.T. Suzuki

“In questo mondo spirituale non ci sono suddivisioni di tempo come passato,
presente e futuro; esse si sono contratte in un singolo istante del presente nel
quale la vita freme nel suo vero senso…. Il passato e il futuro sono entrambi
racchiusi in questo momento presente di illuminazione e questo momento

249
presente non è qualcosa che sta in quiete con tutto ciò che contiene ma si
muove incessantemente.”
D.T. Suzuki

“…Se parliamo dell’esperienza spaziale ottenuta nella meditazione


abbiamo a che fare con un’esperienza del tutto diversa…. In questa
esperienza spaziale, la successione temporale è trasformata in una
simultanea coesistenza, l’esistenza parallela delle cose. E anche questa non
rimane statica ma diventa un continuum vivente in cui tempo e spazio sono
integrati….”
Lama Govinda

“La maggior parte delle persone crede che il tempo trascorra; in realtà esso
sta sempre la dov’è. Questa idea del trascorrere può essere chiamata tempo
ma è un’idea inesatta; infatti, dato che lo si può vedere solo come un
trascorrere, non si può comprendere che esso sta proprio dov’è”
Dogen

“Tempo, spazio e causalità sono la lente attraverso la quale vediamo


l’Assoluto. Nell’Assoluto in se stesso non ci sono nè spazio, nè tempo, nè
causalità”
Vivekananda

“Il tempo è un esempio perfetto, un archetipo delle entità putative. Non


potete semplicemente toccarlo con mano e dire “Qui c’è un pezzo di tempo”.
Il tempo viene designato sulla base di qualche processo di cambiamento,
qualcos’altro che di per sé non è tempo. Quando guardate l’orologio e dite il
tempo sta passando ciò che state guardando in realtà è la lancetta dei
secondi. La lancetta dei secondi non è il tempo; ma basandovi sul fatto che
vedete muoversi la lancetta dei secondi dite che il tempo sta passando. Nel
contesto di questa scuola di pensiero il tempo è sempre designato sulla base di
una sequenza continua di eventi il che significa che esso viene designato
solamente in relazione a fattori composti in mutamento.”
Dalai Lama

“Il passato e il futuro velano Dio ai nostri occhi; bruciali ambedue col fuoco.
Per quanto tempo sarai diviso da questi segmenti come una canna? Finchè

250
una canna è sezionata non le si affidano segreti ne risuona in risposta al
labbro e al respiro.”

Jalal Ad-Din Rumi

Ci sono due estremi con i quali dobbiamo confrontarci in continuazione. Il


Buddha - il Buddha storico - ha insegnato la via di mezzo, che è appunto un
equilibrio tra l'estremismo della lentezza e quello della velocità. Nello Zen si
insegna ad essere capaci di adattarsi a tutte le situazioni, perché questo è
possibile soltanto nel momento in cui noi essendo costantemente attenti,
presenti, a noi stessi, sviluppiamo la retta presenza mentale. In quel
momento, quando noi siamo presenti, siamo attenti, siamo capaci di essere
veloci, se vogliamo esserlo e se la situazione lo richiede, e di essere lenti,
addirittura immobili, se, appunto, decidiamo di fermarci a pensare o a
meditare. Possiamo accedere, attraverso la pratica ascetica, ad un tempo che
possiamo definire infinito. Noi viviamo tutti i giorni nel tempo finito, quello
misurabile, dagli orologi, dai calendari, dalla nostra forza, dalla nostra età,
dalla quantità di denaro che abbiamo e da tante altre unità di misura. E'
importante che esistano questi metri che misurano, però, nello stesso tempo,
dobbiamo riuscire ad entrare nell'infinito, perché se noi non assaporiamo mai
l'infinito, non siamo capaci neanche di vivere nel finito.
Maestro Zen

Il concetto di tempo, e soprattutto lo stile di vita, il modo di vivere il tempo,


in Oriente, tradizionalmente è sempre stato qualcosa di completamente
opposto, radicalmente diverso da quello nostro. Il tempo orientale è sempre
stato ciclico, con una forma ciclica, perché il modello fondamentale a cui fa
riferimento l'Oriente è la Natura. Quindi, come la Natura ha i propri cicli,
sempre regolari (le stagioni si susseguono, il giorno segue la notte) nello stesso
modo la vita umana dovrebbe regolarsi, seguendo un ritmo ciclico. Ma
ciclicità non è sinonimo di immutabilità, non è l’eterno ritorno dell’identico.
In natura avvengono dei mutamenti, ma all'interno di un ritmo che è sempre
uguale. Quindi nessuna primavera è uguale all'altra, ma ci sono sempre delle
primavere. Quindi la forma della ciclicità per gli orientali garantisce la

251
stabilità, ma anche l'innovazione. Per quanto riguarda il linguaggio verbale,
non ci sono dubbi, perché il linguaggio verbale è scansione di parole nel tempo
e quindi sia le parole delle lingue occidentali che di quelle orientali si
consumano. La questione si fa più interessante per quanto riguarda il
linguaggio scritto. Questo per vari motivi. Innanzi tutto, i caratteri cinesi,
come voi sapete, non sono dei segni in sequenza lineare. Sono dei segni, dei
disegni, che danno compattamente, simultaneamente, l'idea di una cosa.
Quindi il tempo, psicologico necessario per passare da una parola che deve
essere letta all'idea, al significato mentale, di questa parola, al contenuto di
questa parola, è completamente diverso dal tempo che si impiega nelle lingue
occidentali. Perché, ad esempio, nella parola "cane", nelle lingue orientali, è
necessario seguire la scansione delle lettere che compongono quella parola, poi
effettuare un riferimento acustico che poi diviene mentale. Nel cinese, come
nel giapponese, questa idea si disloca immediatamente nella mente, senza la
mediazione acustica. Molte volte è suggerita, addirittura, da alcuni segni di
questo carattere. Quindi, in queste lingue orientali, i tempi di lettura e quelli
percettivi sono completamente diversi rispetto ai nostri. Questo è il primo
fatto fondamentale. Poi, in particolare, nella lingua cinese, è prevalente il
riferimento all'agire, all'azione, all'attività. Come dicevo prima, qualsiasi
cosa che per noi è inerte, (si pensi al legno o al metallo, che sono solo alcuni
tra i cinque agenti) nell'ontologia orientale ha un'attività nei confronti di
qualcosa e una passività nei confronti di un altro elemento. Comunque non
c'è nulla al mondo che sia puramente statico. Né i cinque elementi, né tutti
quegli elementi che risultano composti di quelli basilari, perché tutto è
attività.
Tutti i mali, per così dire, o tutta la sofferenza degli uomini deriva dal fatto
che l'uomo si è sempre concentrato sul proprio io, fino a farne una specie di
centro, e questo io è diventato ipertrofico ed è cresciuto talmente, ed ha
assunto dimensioni narcisistiche tali, da sostituirsi al mondo stesso,
diventando il centro del mondo. Ora questa non è una cosa puramente
teorica. In particolare il buddhismo sostiene che tutte le sofferenze sono
fondate su questo accentramento all'io, su questo "ego-centrismo" per così
dire. Noi siamo letteralmente strappati via dalla vita con questa visione del
tempo che ci siamo imposti, e per vari motivi: storici, politici, economici, e
credo che in questo tipo di civiltà tradizionali si possa ritrovare un concetto
di tempo, in una parola, qualitativo, ritrovando l'intensità della qualità dei
momenti che si vivono.

252
In base a quello che noi leggiamo nei testi buddhisti il futuro non esiste, nel
senso che il futuro esiste solo nel presente come aspettativa. Il passato non
esiste perché è nel presente solo come ricordo. Se andate a leggere le
Confessioni di Sant'Agostino anche in quell'opera Agostino svolge un
ragionamento molto simile a questo. Neanche il presente esiste, perché nel
momento in cui tu lo vuoi afferrare scorre via, ci scivola dalle mani, passa.
Quindi in realtà il tempo non esiste. Non esiste anche per un fatto molto
semplice, che per il buddhismo e anche per il taoismo non c'è un inizio e una
fine. Mentre, di contro, noi siamo all'interno di una prospettiva lineare,
complicata quanto vogliamo, ma lineare. Qualcuno ha creato il mondo,
qualcuno lo distruggerà.
Allora ciascun momento diventa immenso, con un ragionamento, se vuoi,
molto semplice, dal punto di vista psicologico. Tu pensa che questo momento,
che stiamo vivendo ora, oppure qualsiasi momento della tua vita, sia
l'ultimo. Questo pensiero si intensifica enormemente, fino a diventare la
migliore possibilità immaginabile, e tu lo puoi vivere assolutamente,
pienamente, ovvero in maniera assolutamente piena, senza più confrontarlo
con quello che vivevi prima, per vedere se era più cattivo o più buono e senza
vederlo in rapporto ad un futuro.

Giangiorgio Pasqualotto

“Se l’uomo vuole essere libero dalla paura deve essere libero dal tempo. Se il
tempo non esistesse l’uomo non avrebbe paura.”

Jiddu Krishnamurti

“Il primo giorno in cui mi trovavo in questo stato e non ero più consapevole
di quanto mi stava intorno vissi la prima esperienza estremamente notevole.
C’era un uomo che aggiustava la strada e quest’uomo ero io, e anche l’albero
accanto all’uomo ero io. Potevo quasi sentire e pensare come lo stradino e
avvertivo il vento che scuoteva l’albero, e sentivo anche le piccole formiche sul
filo d’erba. Gli uccelli, la polvere e persino i rumori erano parte di me. Nello
stesso momento in lontananza passò un’automobile e io ero l’autista, il
motore e le ruote; mentre la macchina si allontanava da me anche io mi

253
allontanavo da me stesso.Io ero in ogni cosa o meglio ogni cosa era in me,
animata e inanimata, la montagna, il verme e ogni cosa che respirava.”

Jiddu Krishnamurti

Un giorno cancellai tutte le nozioni dalla mia mente. Rinunciai ad ogni


desiderio. Scartai tutte le parole con le quali pensavo e me ne rimasi in pace.
Mi sentivo quasi mancare come se fossi trasportato dentro qualcosa o come se
fossi toccato da un potere a me ignoto e …..ssst! Entrai. Persi la linea di
confine del mio corpo fisico. Conservavo la pelle s’intende ma sentivo di essere
al centro del cosmo. Parlavo, ma le mie parole avevano perso il loro
significato. Vedevo gente venire verso di me ma tutti erano il medesimo
uomo. Tutti erano me stesso! Non avevo mai conosciuto questo mondo.
Avevo creduto di essere stato creato ma ora devo cambiare opinione.: non ero
mai stato creato; io ero il cosmo. Nessun individuo Sig. Sasaki esisteva.”
Sokei – an- Sasaki

Sembra quindi chiaro come per le filosofie orientali (buddismo,


induismo e taoismo in particolare) il concetto di tempo sia
profondamente diverso dal concetto occidentale, un concetto da
dominare e da oltrepassare per accedere all’Assoluto. Il tempo
degli orologi quindi non è il nostro tempo, lo scorrere dei giorni
non è reale: noi siamo in un eterno assoluto presente. Il fluire del
tempo è illusione e rimane tale fino a che non riusciamo a
liberarci di tutte quelle sovrastrutture di pensiero che ci legano
all’Io, al tempo, al Passato, al Futuro. Essere coniugati
all’Infinito.

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CAPITOLO XLIX

19 marzo 2001 Lendi Eleusi

Il giorno del colloquio con il consiglio dei Saggi era finalmente


arrivato. Isobel si sistemò i capelli con aria civettuola come se
dovesse andare ad un appuntamento galante. Rumi le aveva
comunicato quella mattina che il consiglio si sarebbe riunito
quando il sole avesse incominciato a tramontare dietro le
montagne; per quell’ora sarebbe stata attesa alla Sala del
Consiglio. Nel periodo trascorso nel monastero aveva imparato
a orientarsi temporalmente con il sole: infatti gli orari del
monastero erano scanditi esclusivamente dalla posizione del
sole nel cielo: non vi erano orologi o, almeno, lei non ne aveva
mai visto uno. Si accostò allo scrittoio, aprì il cassetto e
estrasse un foglio: era quello in cui la nonna aveva ricopiato
quelle strane scritte in fondo al libro. Le lesse nuovamente,
nonostante ormai le sapesse praticamente a memoria

P.T. epopteuos thaumaston teleiotaton mystêrion


P. E. είµαστε αιώνιοι και αιώνια είµαστε
Z. E. enthousia
M.T.C. Alterius non sit qui suus esse potest.
P. ένας
icniV ad L.
M.E. !!!
J.S.B. Et Lucem Etiam Ubi Sempiternam Ioventute
J.H. The bottom of a damaged bucket
I.K. La realtà in se
V.V.G. om eindeloze te schilderen
A.R. Elle est retrouvèe. Quoi? L’Eternitè
F.W.N. Astu

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C.G.J. NAHTRIHECCUNDE GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH ZUNNUS
A.E. E= mc2 T=∞ ? T=0 ?
K. G.

J.C. F G Ab Bb C
J.D.M The scream of the butterfly
G.G. Slowly fading in the north, the ice, the night. What a silence… What a
music…
T.M. Icci, segui chi mi ha preceduto

Per lei era ormai chiaro, e in quei giorni lo era divenuto sempre
di più, che quello era un elenco delle persone che erano entrate
in possesso, durante gli anni, di quel maledetto libro. Alcuni di
questi, grazie alle letture di quei giorni e ad alcuni appunti della
nonna, era riuscita ad identificarli o per lo meno ad attribuire
loro una identità plausibile.
J.D.M. ad esempio doveva essere Jim (James Douglas)
Morrison. L’urlo della farfalla faceva parte del testo di una sua
canzone.
K.G. era stata la sua ultima scoperta: dopo la discussione con
il professor Barbur aveva cercato informazioni riguardanti il
logico austriaco Gödel, quello del teorema dell’incompletezza,
e in un libro dalui scritto, sotto la dicitura “Prova ontologica

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dell’esistenza di Dio” aveva trovato le medesime formule che
erano riportate su quel foglio.
Le era stato fin da subito chiaro che quella era una specie di
mappa, tracciata negli anni da chi era entrato in possesso del
libro, con indicazioni in qualche modo criptate ma non troppo.
Un’altra “firma” che era riuscita a identificare in quei giorni
era quella di C.G.J. Per Isobel si trattava quasi sicuramente di
Carl Gustav Jung. Aveva infatti trovato quella serie di lettere
incomprensibili al termine di uno scritto piuttosto astruso
intitolato Septem Sermones ad Mortuos in cui Jung trascrisse,
con quella che lui stesso definì “scrittura automatica”, una
visione che ebbe nel 1916. Tale scritto termina con la dicitura
Anagramma seguita da quelle lettere. In seguito aveva letto che
tale anagramma non era mai stato risolto e che Jung non volle
rivelarne a nessuno la chiave.
Quanto ad A.E. non poteva essere che Albert Einstein, la
formula riportata non poteva trarre in inganno, nonostante quel
T=∞ ? T=0 ?
Queste identificazioni però creavano più di un problema: che
cosa avevano in comune Jung con Einstein, con Gödel, con Jim
Morrison? Possibile che quel libro passasse così di mano in
mano attraversando la vita di alcuni tra gli intellettuali e
scienziati più famosi dell’ultimo secolo? Che cosa aveva di
così speciale quel libro se queste persone vi apponevano in
calce la loro firma, seppur criptata e vi lasciavano, come una
specie di dedica, brandelli delle loro opere più famose?
Era un rompicapo di cui Isobel non sapeva vedere la soluzione.
Si sporse per guardare fuori dalla feritoia. Il sole stava per
lambire la cima delle montagne a occidente: era ora. Ripose il
foglio in tasca e uscì. Nel corridoio antistante non c’era
nessuno. Ripercorse la grande loggia con la vetrata che aveva
ammirato il giorno del suo arrivo a Lendi Eleusi e si fermò
dinnanzi alla porta dorata. In quel momento le venne in mente

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Hani: non lo aveva visto per tutta la giornata; si erano salutati
la sera precedente dandosi appuntamento per quella mattina …
Lei aveva trascorso tutta la mattina nella biblioteca a leggere
ma Hani non si era visto, poi la cosa le era passata di mente
man mano che l’emozione per l’incontro con il consiglio
cresceva. Chissà che fine aveva fatto? Dopo il discorso del
giorno precedente presso la cascata era un po’ preoccupata per
lui, ma ora non c’era tempo, ora aveva altro a cui pensare.
Impugnò il battente e percosse la porta. Un suono sordo si
propagò per la loggia. Dopo pochi attimi la porta, cigolando si
aprì, Isobel entrò nel salone e si ritrovò al cospetto del
Consiglio dei Saggi. La scena che ebbe innazi agli occhi era la
medesima della volta precedente: una serie di persone disposte
a semicerchio e in mezzo il seggio dal quale la fissava il Capo
del Consiglio; l’unico cambiamento percepibile era il fatto che
tutti i componenti del consiglio indossavano una specie di
tunica bianca. Mentre camminava per portasi di fronte al Capo
del Consiglio Isobel scorse tra i suoi membri numerose persone
che aveva incontrato per il monastero nei giorni precedenti;
riconobbe padre Jakob, un francescano della Bosnia
Erzegovina con il quale si era trattenuta giorni prima a parlare,
insieme ad Hani, della guerra che aveva insanguinato il suo
paese; vide anche il volto sereno e austero della professoressa
Johanna Pauli, una psicologa junghiana con cui, dopo la
discussione avuta con il professor Barbur, aveva approfondito
alcuni aspetti del pensiero del grande psichiatra. Isobel passò di
fianco alla Fonte della Purezza, bevve un sorso seguendo il
rituale della volta precedente e si pose innanzi al Capo del
Consiglio. Alla sua destra, in piedi e con un vestito dei colori
dell’arcobaleno c’era Rumi, nelle vesti solenni di Custode del
Silenzio.
“La pace sia con te, Isobel Morrison.”
Isobel chinò il capo.

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“Il Consiglio è qui riunito per ascoltare la tua decisione: vuoi tu
porre nuovamente la tua domanda al Consiglio consapevole di
vincolare in tal modo la tua esistenza a questo luogo? Vuoi
conoscere e sopportare il peso di tale conoscenza in questo
luogo fino a quando le tue ali non si dispiegeranno per il loro
volo eterno?”
Isobel trasse un sospiro e rispose decisa:
“Sì, lo voglio!”
Il vecchio si alzò dal seggio.
“Voi tutti avete udito la risposta. Isobel vuole porre la domanda
al Consiglio e vincolarsi al Giuramento di Lendi Eleusi. Che il
rito del Vincolo si compia.”
Rumi si fece avanti con una corda tra le mani, si avvicinò a
Isobel e, prendendola per mano, la guidò innanzi alla fontana.
Qui le si pose di fronte e le legò la corda ai polsi. Poi, presa
una candela da un vicino candelabro, diede fuoco alla corda
dicendo:
“L’acqua e il fuoco suggellino il vincolo eterno: il silenzio e
l’oblio dei monti, la pace e il ritiro, la meditazione e la
purificazione. Questa è la tua dimora ora, la prima e l’ultima.
Non rito ma simbolo, non magia ma tradizione.”
E così dicendo immerse i polsi di Isobel nella fontana prima
che si bruciasse.
“Il vincolo è posto!”dichiarò solennemente. E così dicendo
ritornò alla destra del Capo del Consiglio.
Isobel si tolse le corde mezzo bruciacchiate dai polsi e ritornò
di fronte al vecchio.
“Ora sei vincolata a questo luogo e fai ufficialmente parte di
questa comunità. Il rito è finito, la forma e la tradizione cedono
il posto alla sostanza e alla volontà di conoscenza. Dunque
Isobel cosa vuoi sapere da noi?”

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Isobel era stupita dal cambio di tono: la voce ieratica e il tono
stentoreo avevano lasciato il posto ad un tono conviviale, caldo
e accomodante: era diventata una di loro.
“Volevo avere informazioni sul libro “Il mistero delle Esuli”.”
“E’una domanda complessa Isobel” le rispose il vecchio, quasi
non attendesse altro “che riguarda questo luogo, la sua reale
origine, il suo reale scopo. Ma permettimi prima di tutto di farti
io una domanda: dove ne hai sentito parlare? Ti sarai resa
conto infatti che di tale libro non esistono tracce in nessuna
biblioteca, in nessuna bibliografia e, te lo può confermare
chiunque qui, non è citato in nessun libro, racconto o studio”
“Nessuno me ne ha parlato: l’ho visto, l’ho incominciato a
leggere ma mi è stato rubato..”
Un mormorio di stupore attraversò tutti gli astanti. Anche il
vecchio trasalì alle parole di Isobel.
“Il libro? Tu hai visto quel libro? Tu lo hai toccato, sfogliato,
letto?” disse al colmo dell’agitazione, perdendo quel contegno
e quel distacco che ne aveva sempre contraddistinto le parole e
i gesti.
“Sì” disse Isobel stupita per lo sconcerto e il fervore che la
circondava. “Era giunto a mia nonna per posta il giorno prima
che morisse; era sul suo petto quando morì e io lo presi con me
e lo incominciai a leggere, ma mi fu rubato dopo che ne avevo
letto poche righe.”
Il mormorio crebbe di intensità; persone che confabulavano
concitatamente, altre che si scambiavano sguardi increduli.
“Ma… che cosa sta succedendo??”chiese Isobel con voce
preoccupata.
“Calmiamoci!”disse il vecchio assumendo nuovamente il tono
severo di sempre ”Dobbiamo una spiegazione a Isobel, e per
più di un motivo.”
Il silenzio scese tra gli astanti.

260
“Dunque Isobel, come ti dicevo in precedenza il libro ha a che
fare con le origini e lo scopo di questo luogo. Il titolo completo
dovrebbe essere “Il Mistero delle Esuli” seguito da dei numeri:
14-18-15-17-16-19, è corretto?”
“Corretto” confermò Isobel.
“Se lei conta la posizione delle lettere che compongono il titolo
e le dispone nell’ordine descritto da questi numeri otterà la
parola Eleusi; è un giochetto affatto complicato ma tanto
innocuo da passare per lo più inosservato. Il libro parla di
Eleusi, ma l’Eleusi del titolo non è questo posto.” Si interruppe
creando un senso di aspettativa poi riprese “Immagino che
nelle tue ricerche su questo monastero tu abbia incontrato
diverse volte il tempio e i riti dei Eleusi, antico culto misterico
della Grecia.”
Isobel annuì.
“Quindi conosci la storia e la leggenda di Eleusi. Eleusi era un
tempio dedicato a Demetra, madre di Persefone, a sua volta
moglie di Ade e regina degli inferi. A lei venivano dedicati tutti
gli anni dei riti, in primavera e in autunno, nella città greca di
Eleusi. In tali riti, cui erano ammessi solo gli iniziati, venivano
rivelati, sotto forma di esperienza o di visione aiutata dalla
ritualità e da cibi e bevande psicotrope, i cosiddetti misteri. Il
fine ultimo del culto eleusino consisteva infatti nell'indurre nel
partecipante una visione mistica codificata secondo specifici
simbolismi e mitologie e indotta da sostanze psicotrope, in
particolare da quelle presenti nella bevanda sacramentale
eleusina per eccellenza, il kykeon o ciceone. Aristotele
sull’argomento riporta che "coloro che vengono iniziati non
devono apprendere qualche cosa ma provare delle emozioni,
evidentemente dopo essere divenuti atti a riceverle". Tali
misteri sono rimasti inviolati e sconosciuti sino ad oggi. Gli
iniziati erano infatti obbligati al vincolo del silenzio sulla
natura degli stessi. Fin qui quanto è possibile trovare nella

261
storiografia ufficiale. Esiste però un ulteriore livello di
informazioni che sono state tramandate e giunte fino a noi da
quel luogo e su quei riti.
Si dice infatti che all’interno del tempio fossero custoditi dei
libri nei quali gli iniziati dell’epoca trascrivevano o dettavano
agli amministratori del culto le loro esperienze, le loro visioni.
Narra la leggenda che tra questi libri ve ne fosse uno scritto dal
filosofo greco Parmenide e completato da alcuni scritti di
Platone, che erano stati entrambi segretamente iniziati ai
misteri e che avevano avuto accesso ad un livello superiore di
iniziazione accedendo ad alcuni misteri che rimanevano celati
ai semplici iniziati; tali misteri venivano tramandati solo
all’interno della casta sacerdotale del tempio. Attorno
all’esistenza di tale libro, della cui importanza credo tu ti possa
rendere perfettamente conto, circolano diverse leggende:
secondo alcuni andò distrutto nel 395 dopo Cristo, quando i
Visigoti distrussero il tempio di Demetra a Eleusi; secondo
altre leggende fu confiscato e fatto distruggere dall’Imperatore
Teodosio quando proclamò la chiusura del culto. Secondo altre
leggende però, un secolo prima della effettiva distruzione del
tempio, quando il culto e i riti avevano già imboccato la strada
del declino, un sacerdote riuscì a sottrare il libro e lo consegnò,
dopo diverse peripezie nientemeno che al filosofo Plotino. Ciò
avvenne, sempre secondo la leggenda, intorno al 230 dopo
Cristo. C’è chi ha voluto vedere nella profondità e nell’armonia
del pensiero filosofico di Plotino, un’eco dei misteri di Eleusi.
Ma su questo punto lascio a lei la possibilità di studiare e
approfondire il discorso. Tornando a noi, a questo punto,
sempre secondo la leggenda, del libro si perdono le tracce,
anche se si dice che Plotino abbia istruito diverse persone
intorno a lui affinché il libro potesse, anche se in segreto,
circolare. E la leggenda continua dicendo che in effetti tale
libro ha continuato a circolare nei secoli e che fu posseduto da

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diversi artisti, intellettuali, studiosi. Fino alle tue parole di poco
fa quasi tutti noi pensavamo che il libro fosse andato perduto e
distrutto per sempre; solo tua nonna, il professor Barbur e
pochi altri speravano ormai nell’esistenza del Libro; le notizie
che ci hai portato ci hanno enormemente colpito, perché
qualcosa che credavamo perduto per sempre è stato ritrovato,
anche se solo per un attimo.”
“Ma in che modo questo luogo ha a che fare con i Misteri di
Eleusi?” chiese Isobel.
“Nel 390 dopo Cristo, poco prima che l’imperatore romano
Teodosio proclamasse la chiusura del tempio e la cessazione
della celebrazione dei misteri, alcuni iniziati lasciarono Eleusi
e la Grecia e, dopo molto girovagare, giunsero in Tibet. Narra
la leggenda che si unirono a una comunità buddista in un
tempio vicino a Lhasa. Dopo alcuni anni decisero però di
fondare un monastero in cui perpetuare la tradizione misterica
di Eleusi e, insieme a alcuni monaci che avevano iniziato ai
misteri, partirono per un viaggio lungo la catena dell’Himalaya
alla ricerca di un posto adatto alla fondazione di un monastero.
Dopo mesi di vano girovagare trovarono una valle nascosta e
rigogliosa, la risalirono fino a delle cascate e sopra di esse
eressero un monastero: il monastero di Lendi Eleusi, quello in
cui ti trovi ora Isobel.”
La ragazza non sembrò sorpresa: in qualche modo aveva già
intuito il legame tra quei due luoghi (il nome non poteva essere
casuale) e averne conferma non la turbò più di tanto.
“Il tempo trascorse e la comunità crebbe alimentando voci che
divennero leggenda: la leggenda del tempio delle cascate si
fuse con la leggenda di Shangri-La, il mitico paradiso senza
tempo della tradizione tibetana, stendendo un’aura di mito
intorno a questo luogo. Persone da diverse parti del Tibet si
mettevano in viaggio alla ricerca questo monastero dove, si
diceva, il tempo si era fermato e veniva insegnato un sapere

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eterno. Purtroppo tale sapere era incompleto in quanto non vi
era alcun sacerdote che potesse perpetuare i misteri di cui solo
essi erano a conoscenza. La ritualità di un tempo pian piano
sbiadì fino a rimanere un eco e una parodia di ciò che avveniva
un tempo in Grecia e questo luogo, pur mantenendo il nome e
un legame storico con i riti misterici di Eleusi fu tramutato da
un mio grande predecessore Lendi Xiao Jang, in un luogo di
studi e di meditazione, segreto ma aperto a tutti, in cui si
cercava di accumulare tutte le conoscenze, i miti, le opere che
il mondo andava producendo: la segreta speranza era di rilevare
e ricostruire tramite esse il mistero celato nel leggendario libro.
La tradizione infatti parla di:”Un mistero insito in tutte le cose
e che da tutte le cose deriva, ma che solo l’arte e la poesia e la
profonda conoscenza di se possono disvelare” e di “Un mistero
che rivela l’inganno della natura e dell’intelletto umano
portandoci a una più elevata consapevolezza di ciò che
chiamiamo vita e di ciò che chiamiamo morte.”
“Alcune delle ritualità a cui tu hai partecipato derivano dalla
tradizione di Eleusi, compreso il rito del Vincolo, residuo del
vincolo che legava gli iniziati a mantenere il segreto sui misteri
a cui avevano avuto accesso, altre sono state create in seguito.
Per un millennio questo luogo è stato un segreto accumulatore
della sapienza del mondo, con lo scopo palese di studiare e
approfondire e quello nascosto ma non meno importante di
recuperare al mondo l’intera antica consapevolezza di Eleusi.
Ora puoi comprendere perché la notizia che ci hai comunicato,
che hai tenuto tra le mani il sacro libro, ci ha così
profondamente scosso. La tradizione, tra l’altro, aggiunge
questa profezia: “Quando il perduto libro sarà ritrovato da un
Mystes, il mondo si troverà sulla soglia di una catastrofe che
inciderà sulla sua storia per secoli a seguire.” Tua nonna era
una iniziata, una mystes, ha violato il vincolo e ha ritrovato il
libro: i tempi sono maturi….”

264
Isobel, per l’ennesima volta da quando la nonna era morta, si
trovò confusa, immersa in una realtà di cui non immaginava
minimamente l’esistenza.
“Ma se tutto questo è vero, chi e perché mi ha rubato il libro?”
chiese Isobel impaurita dalla sensazione di essere un
ingranaggio di un gioco che si stava svolgendo, attraverso i
secoli, da oltre un millennio.
“Speravo fosse stato un banale furto di appartamento, niente di
mirato.” disse il Capo del Consiglio titubante.
“Non è così: mi hanno sottratto solo il libro e, probabilmente,
su commissione.” rispose Isobel decisa.
“Questo è fatto davvero inquietante;” rispose il vecchio
pensieroso “è inquietante perché fa sorgere il sospetto che vi
siano altre persone a conoscenza del libro. L’esistenza di tale
libro può rappresentare una minaccia per alcuni aspetti della
civiltà occidentale: ho la sensazione che il Platone che
emergerebbe dalla lettura delle pagine del libro potrebbe
stendere una luce diversa sull’interpretazione della sua filosofia
che è alla base di quello che noi chiamiamo pensiero
occidentale. Se poi si dovesse scoprire l’influenza che tale libro
ha avuto su alcune delle menti più acute della storia, come è
presumibile che sia, ecco solo questo ti può far capire quanta
avidità possa generare la voglia di possedere tale libro.”
“Ma con i vostri studi, in questi secoli, cosa siete riusciti a
scoprire?” chiese Isobel.
“Abbiamo recuperato diversi indizi, ricostruito alcuni passaggi
di proprietà del libro ma ciò avveniva solo molti anni dopo,
quando il libro era già passato di mano. Siamo convinti che
esso sia dietro le opere di alcuni artisti, filosofi, poeti, pittori.
Ciò che non ci appare chiaro è come e in che modo questo libro
circoli e sia finito tra le mani di personaggi che hanno lasciato
il segno nella cultura e nell’arte. Sono dovute a sua nonna la
maggior parte di queste scoperte: sua nonna identificò, sulla

265
base di studi e ricerche approfondite quattro illustri possessori
del libro: Johan Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart,
Leonardo da Vinci, Immanuel Kant. Se consideriamo il fatto
che ai misteri originari nella città di Eleusi in Grecia erano stati
iniziati, anche se non lo troverà su nessun libro, il filosofo
Parmenide, Aristotele, Platone, Eschilo, Omero e Cicerone
possiamo tranquillamente affermare che buona parte delle
fondamenta della cultura e della filosofia occidentale sono state
gettate da uomini iniziati ai misteri di Eleusi. E questo, come
può capire, rende la ricerca e il recupero del libro una faccenda
culturalmente molto affascinante. Attenzione, con questo non
intendo dire che le opere e le scoperte di costoro sono il frutto
della lettura di tale libro o dell’iniziazione ai misteri, sarebbe
un insulto al genio e all’intelletto di questi geni, ma
sicuramente in essi, nelle loro opere, nel loro pensiero tali
misteri hanno un riflesso, magari anche puramente umano, di
conforto, di consapevolezza, di sprone…”
“A questo elenco potete aggiungere almeno Albert Einstein,
Kurt Gödel e Carl Gustav Jung” disse Isobel con tono deciso,
dopo una breve pausa.
Il vecchio parve stupito.
“E….. lei come fa a saperlo?” chiese confuso da quella
affermazione perentoria.
“Ho trovato questo tra gli appunti della nonna. E’ la
trascrizione fedele dell’ultima pagina del libro, dove con grafie
diverse erano riportate queste frasi. L’ultima riga era, l’ho
riconosciuta subito, la calligrafia di mia nonna. Le iniziali
davanti lo confermano, così come l’esortazione a me di seguire
chi la ha preceduta. Questo è…”
“L’elenco di tutte le persone che hanno avuto il libro!” disse il
vecchio quasi urlando, leggendo la pagina che Isobel le aveva
porto e generando un mormorio di incredulità tra i membri del

266
consiglio. “Se solo il professor Barbur fosse ancora con noi”
aggiunse con un gesto di malcelata stizza.
“Come?” trasalì Isobel colpita dalla notizia ”Dov’è il professor
Barbur? Se ne è andato?”
“Ha infranto il Sacro Vincolo.” disse Rumi accompagnando
quelle parole con uno sguardo carico di tristezza “Questa
mattina presto è stato visto partire insieme al suo amico Hani.”
Isobel trasalì. Hani se ne era andato? Ecco perché non si era
fatto vivo per tutta la giornata..
“Il professor Barbur era, insieme a sua nonna, il massimo
esperto del sacro libro. Aveva abbandonato gli studi in campo
fisico e aveva iniziato questa avventura, chiedendo di essere
ammesso al monastero e vincolato a noi dalla conoscenza
dell’esistenza del libro. Per oltre vent’anni ha pazientemente
raccolto una serie preziosissima di informazioni: è lui che è
arrivato, una decina di anni fa, sulla base di alcune analisi, a
sostenere che Aristotele, Platone, Eschilo e Omero erano stati
iniziati ai misteri: un documento ritrovato in Grecia alcuni anni
fa ha poi confermato la correttezza dell’analisi del professore.
Avrebbe dato la vita per avere questa pagina tra le mani e ora
che in maniera inattesa il destino gliel’ha portata, ha deciso di
andarsene. Se ce lo consenti vorremmo poterla studiare e
analizzare.”
“Naturalmente; anche se è solo una trascrizione fatta da mia
nonna, è una riproduzione fedele, fatte salve ovviamente le
grafie, della pagina conclusiva del libro” rispose Isobel, ma la
sua mente era altrove, stava pensando al fatto che Hani se ne
era andato, l’aveva lasciata sola. “Vi chiedo solamente di poter
essere informata delle eventuali scoperte.”
“Sarà fatto.”rispose il Sommo Anziano consegnando il foglio a
Rumi.
“Ma dei misteri contenuti nel libro non si sa davvero nulla?”
chiese Isobel.

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“Oltre a ciò che già ti ho detto si tramanda, ma fino ad oggi è
considerata solo una leggenda, che il libro contenga alcuni
scritti di Parmenide e di Platone: vengono fatte anche alcune
ipotesi sui titoli: Il mistero del Fiume e Il mistero della Luce.
Quello che ti ho detto è tutto ciò che ci è stato tramandato
attraverso racconti, miti, leggende. Ma è difficile, a così tanti
anni di distanza, discernere tra fantasia, mito e informazioni
corrette. “
A questo punto nella sala calò il silenzio.
Isobel cercava di mettere ordine nella sua mente: il libro,
Eleusi, il vincolo, la fuga di Hani e del professor Barbur.
Hani… La notizia della sua partenza da Lendi Eleusi l’aveva
rattristata tantissimo; poteva dirmelo, pensò, almeno prima che
accettassi il Vincolo, poteva portami con lui, poteva…..
Con un moto di stizza scacciò quei pensieri dalla mente; se ne
sarebbe occupata più tardi; ora era davanti al Consiglio.
“Un’ultima domanda: è possibile che qualcuno sia
sopravvissuto alla violazione del vincolo?”
La domanda lasciò interdetti tutti gli astanti.
“No!” rispose il vecchio “Ogni violazione è stata punita, lo è
stato nel passato, lo sarà nel futuro fino quando questo posto
esisterà; non si tratta di una vendetta e, comunque, non è
perpetrata da uomini: questo vincolo opprime ognuno di noi,
ma nessuno volontariamente punirebbe tale violazione. Il
destino è già segnato, così è scritto, anche se questo sembra
trascendere ogni razionalità; il vincolo esiste, sua nonna e
alcuni altri casi stanno a dimostrare la sua terrificante
puntualità. E’ un pesante fardello da sopportare, ma la scelta
resta comunque individuale: nessuno fermerà chi intenda
trasgredire, la punizione che lo aspetta è più che sufficiente.”
“Ma se qualcuno fosse sopravvissuto nonostante il vincolo,
questi avrebbe potuto proseguire le proprie ricerche nel mondo

268
e, forse, essere colui che ora ha in mano il libro.” disse Isobel
con voce stizzita.
“Ti ripeto che nessuno sfugge alla Violazione del Vincolo.”
ripetè con un pizzico di irritazione il vecchio.
“E sia” si arrese Isobel “è possibile avere un elenco dei nomi di
chi ha violato il vincolo in tutti questi anni?” chiese con aria
annoiata.
“Certamente,” era Rumi ora che le stava rispondendo “ma è un
elenco molto breve; coloro che hanno rotto il vincolo si
contano sulle dita di una mano. Più tardi ti farò avere un elenco
con una piccola biografia delle persone che hanno violato il
vincolo di Eleusi.”
Isobel fece un profondo inchino e si accomiatò dal consiglio.
“Che la pace sia il tuo sentiero” disse il vecchio alzandosi
seguito da Rumi e da tutti gli altri membri del consiglio.
Una volta uscita dal salone del consiglio, invece di tornare
nella sua stanza, Isobel decise di uscire per osservare il
tramonto e per prendere un po’ d’aria. Giunse nel giardinetto
dove aveva avuto luogo il dialogo con il professor Barbur e si
avvicinò alla panchina, fissando l’orizzonte color vermiglio che
insanguinava le cime innevate circostanti. Giunta innanzi alla
panchina si accorse che su di essa, fermato da un sasso, come i
buddisti usano fare con le loro preghiere, vi era un foglietto.
D’istinto lo prese e lesse:

Cara Isobel,
ho deciso di partire. Il professor Barbur ha scoperto alcune cose
riguardo il libro e mi ha chiesto di accompagnarlo. La nostra
destinazione è New York, ma prima trascorreremo un periodo in
Afghanistan ad aiutare i profughi di quella guerra ormai infinita. Mi
spiace Isobel ma, come ti ho detto ieri, ho bisogno di sentirmi utile al
prossimo.
Ti Amo Tanto
269
Tuo
Hani

P.S.: Isobel, lasciati guidare dalla luce eterma. Julian Barbur

Isobel strinse il biglietto nel pugno e si avviò verso la


biblioteca; il tramonto, per quel giorno, avrebbe fatto a meno di
lei.

270
CAPITOLO XL

Dalla bozza del libro di Tina Morrison

Il tempo in filosofia

Il concetto e la natura del tempo sono sempre stati tra gli


argomenti più trattati dai filosofi in tutti i periodi e in ogni
corrente di pensiero che si è succeduta nei secoli: da Bergson a
Kant, da Hume a McTaggart a Sant’Agostino, tutti i filosofi
hanno provato a cimentarsi con il concetto e il significato del
tempo
Sin dall’epoca dei greci possiamo distinguere tre concetti di
tempo distinti:

- Tempo lineare (Aristotele) e l’eterno divenire del tempo


(Eraclito)
- Tempo circolare (lo stoicismo)
- Assenza di tempo e eternità dell’essere (Parmenide)

Invece di analizzare tali concetti come enunciati dagli antichi


greci credo sia opportuno confrontarci con gli epigoni moderni
di tali filosofi (almeno per quanto riguarda il concetto del
tempo).
Dando per scontata la concezione lineare e “diveniente” del
tempo (è quella che noi comunemente adoperiamo, quella che ci
è famigliare, quella in cui è calata la nostra realtà) proviamo ad
analizzare il concetto di tempo circolare (o eterno ritorno) in
Nietzsche e di assenza del divenire e l’eternità dell’Essere in
Emanuele Severino.

Nietzsche e l’eterno ritorno

[......].Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo


nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: "Questa vita, come tu ora

271
la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli
volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere
e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua
vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così
pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo
e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e
tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra digrignando i
denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto
una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta:
"Tu sei un Dio e mai intesi cosa più divina"? Se quel pensiero ti prendesse
in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti
stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: "Vuoi tu questo ancora una
volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il peso più
grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare
più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?.
[......].

F. W. Nietzsche (La Gaia Scienza , 1882)

La visione e L’enigma
………………………….
« "Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte sono io: tu non
conosci il mio pensiero abissale! Questo tu non potresti sopportarlo!".
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù
dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma,
proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia.
"Guarda questa porta carraia, Nano. Essa ha due volti. Due sentieri
convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella
lunga via fuori della porta e avanti è un'altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro
l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il
nome della porta: "attimo".
Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano:
credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?".
"Tutte le cose diritte mentono” borbottò sprezzante il nano.” Ogni verità è
ricurva, il tempo stesso è un circolo".

272
"Tu, spirito di gravità!” dissi io incollerito “non prendere la cosa troppo alla
leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato e sono io che ti ho
portato in alto!
Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama
attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è
un'eternità.
Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso
una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già
essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?
E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche
questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate
saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietiro di sé
tutte le cose a venire? Dunque anche se stesso?
Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via
al di fuori deve camminare ancora una volta!
E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo
chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti
non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? e ritornare a camminare in
quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via non
dobbiamo ritornare in eterno?".
Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e
dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare.
Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse
all'indietro. Sì! Quand'ero bambino, in infanzia remota: allora udii un cane
ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all'insù, tremebondo, nel
più fondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri:
tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte,
saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente,
tacita, sul tetto piatto, come su roba altrui: ciò aveva inorridito il cane:
perché i cani credono ai ladri e agli spettri. E ora, sentendo di nuovo ululare
a quel modo, fui ancora una volta preso da pietà.
Ma dov'era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare?
Stavo sognando? Mi ero svegliato? D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi
macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna.
Ma qui giaceva un uomo! E proprio qui! il cane, che saltava, col pelo irto,
guaiolante, adesso mi vide accorrere e allora ululò di nuovo, urlò: avevo mai
sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo?

273
E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore
rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero
penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto?
Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e lì si era
abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava invano! Non riusciva
a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca:
"Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il
mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me buono
o cattivo gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.
Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e
chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari
inesplorati! Voi che amate gli enigmi!
Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione
del più solitario tra gli uomini!
Giacché era una visione e una previsione: che cosa vidi allora per
similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il
pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le
più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci?
Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene!
Lontano da sé sputò la testa del serpente; e balzò in piedi.
Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che
rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, e ora mi consuma una sete,
un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi
consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora!»
F. W. Nietzsche (Così Parlò Zahratustra, 1885)

In questi due passi Nietzsche fa accenno alla teoria dell’eterno


ritorno, forse la parte più misteriosa e più problematica
dell’intero pensiero del filosofo di Rocken.
La teoria dell’Eterno Ritorno è, come lui stesso lo definisce, il
suo pensiero abissale, il pensiero che il suo alter ego più famoso,
Zahratusthra, pur autoproclamatosene il maestro, si guarda bene

274
da enunciarne personalmente i suoi fondamenti lasciandone
intuire il significato attraverso “la visione e l’enigma”.
Sono stati scritti decine di libri tentando di interpretare questo
concetto, un concetto che Nietzsche non ha mai approfondito,
forse volutamente, nei suoi scritti, lasciandolo come sfondo, un
non detto che però è il filo rosso che lega ed è sotteso a tutte le
sue opere degli ultimi anni e che, forse, contiene i prodromi della
sua “follia”.
La teoria dell’Eterno Ritorno di Nietzsche presupponeva il
ripetersi eterno di ogni attimo, di ogni azione, di ogni
avvenimento e conteneva quindi, almeno in nuce, l’annullamento
e la confutazione del concetto di tempo così come noi lo
interpretiamo e lo sperimentiamo.
Proviamo ora a addentrarci brevemente in una interpretazione
della visione e dell’enigma.
Zahratustra giunge a una porta carraia che rappresenta l’attimo,
dietro e innanzi a se si perpetua tutta l’eternità; dalla porta carraia
partono due sentieri, che rappresentano la possibile scelta da
effettuare in quell’attimo. Ma, come dice Zahratustra, essi si
contraddicono, ovvero ad una prima analisi percorrerne uno
preclude la possibilità di percorrere l’altro. Ma qui il nano lo
interrompe sostenendo che ogni verità è curva e che il tempo è
un circolo. Dunque i due sentieri possiamo vederli come il
futuro. Ma se il sentiero è un cerchio, qualunque strada
percorrerà Zahratustra, qualunque scelta prenda in quell’attimo,
si ritroverà a ripassare, sulla via del futuro per quella porta carraia
e dunque a rivivere quell’attimo. Quindi quell’attimo accadrà di
nuovo sulla strada del futuro: ma se accadrà di nuovo
quell’attimo, accadranno di nuovo tutti gli attimi ad esso
successivi e antecedenti: ogni attimo quindi ritornerà.
A questo punto Zahratustra sperimentò un deja vù. Quell’ululato
del cane è sicuro di averlo già udito in passato e di avere già
vissuto quell’istante. Qui forse Nietzsche vuole suggerirci come i
deja vù siano una specie di prova dell’eterno ritorno. L’ululato
del cane poi si trasforma in un urlo, in una richiesta di aiuto.
Zahratustra accorre e vede un pastore rotolarsi con un serpente
nero che gli penzolava dalla bocca. Il serpente potrebbe essere

275
un’ulteriore rappresentazione del tempo, che striscia e scorre per
terra; il tempo che si insinua nell’uomo e lo soffoca. Il tempo
quindi viene qui rappresentato come un qualcosa che affligge
l’uomo, che ne distorce i lineamenti. Zahratustra prova a
strappare via il serpente, ma nessuno può vincere il tempo per un
altro. Ogni persona deve sconfiggere il tempo da sola,
mordendogli e staccandogli la testa, estirpando da se il pensiero,
il concetto stesso del tempo. A questo proposito è curioso notare
come i due animali che accompagnano Zahratustra nel suo errare
sono un’aquila e un serpente, o meglio un’aquila che vola
tenendo tra gli artigli un serpente. Ciò che striscia e ciò che vola
uniti; l’unione degli opposti, il ricongiungimento tra cielo e terra,
tra materia e spirito.
E il pastore, sconfitto il tempo staccandogli la testa con un
morso, appare trasfigurato, sorridente, luminoso: la morte del
tempo come scorrere immutabile ha reso l’uomo sorridente e
felice.
Pur tra metafore e simboli pare chiaro quindi poter intravvedere
in questo passo ciò che Nietzsche intende per tempo e per
Eterno Ritorno ma, soprattutto, l’effetto che la comprensione di
tale pensiero può avere sull’uomo: Nietzsche ritiene infatti
l’eterno ritorno un concetto “pedagogico” per l’avvento
dell’oltreuomo, ovvero colui che sa dire sì alla vita, in ogni sua
forma e necessità.
E’ indubbio infatti, al di la della sostenibilità o meno del
concetto di tempo ciclico, che se noi compissimo azioni
pensando al fatto che tali azioni si ripeteranno eternamente
probabilmente il nostro modo di agire, di pensare, di vivere
sarebbe diverso. E’ questa forse, in ultima analisi, la forza e la
rivoluzione portata dal pensiero dell’eterno ritorno: la
consapevolezza che ogni scelta può essere eterna, così come ogni
gioia, ogni dolore. Avere tale consapevolezza, giusta o sbagliata
che sia, porterebbe sicuramente a comportamenti e atteggiamenti
diversi nei confronti della vita stessa da parte di ognuno di noi.
Non quindi il cogliere l’attimo ma il vivere l’attimo come se fosse
eterno.

276
E forse nel silenzio, nella reticenza dietro cui Nietszche cela il
fondamento della sua teoria sta la consapevolezza del limite
dell’argomentare umano che nulla può dinnanzi all’esperienza
diretta, al vivere il pensiero dell’eterno ritorno, al sentire
nell’attimo l’eternità e a essere liberi dalle catene del tempo. Il
silenzio come spazio vuoto da riempire con il confronto di
ognuno con tale esperienza, senza guida, alibi, senza scuse. Una
sfida, raccolta da pochi, per un viaggio nell’eterno.

Emanuele Severino e l’apparire degli eterni

Il filosofo Karl Popper chiamava Einstein Parmenide. Parmenide


era un filosofo greco presocratico che aveva postulato l’eternità
dell’essere: il suo ragionamento era il seguente: è logicamente
impossibile che dal nulla nasca qualcosa e che un qualcosa che è
diventi nulla. Da ciò, contro ogni nostra percezione anzi
sostenendo che la logica dovesse vincere sulle percezioni fallaci
(potremmo rifare l’esempio della percezione del sole che
tramonta quando in realtà siamo noi che tramontiamo ad
esso…) teorizzò l’eternità dell’essere e di ogni cambiamento che
tale essere subisce. Fu difendendo le idee di Parmenide che
Zenone di Elea elaborò i suoi famosi paradossi sul moto.
Il discorso di Parmenide è stato ripreso e ampliato dal filosofo
italiano Emanuele Severino che è opportuno citare per intero,
non prima di aver introdotto il suo pensiero.
Il presupposto di tutto il ragionamento di Severino è questo: dal
nulla non può nascere qualcosa. Se qualcosa nascesse dal nulla il
nulla non sarebbe tale. E quando una qualsiasi cosa cambia (e il
cambiamento è il presupposto del divenire di Eraclito: Tutto
scorre, Tutto Cambia, non ci si può bagnare due volte nello
stesso fiume) si presuppone che quello che era prima diventi
nulla: è un passaggio logico: che ne è di un bambino che strilla
quando smette di strillare? Il bambino che strilla non è più, pur
essendo il bambino sempre lo stesso. Quindi il bambino che
strilla diventa nulla “sostituito” dallo stesso bambino che ha

277
smesso di piangere: ma per quello che ho detto prima una cosa
che è non può diventare nulla (così come non può avvenire il
passaggio contrario); quindi ogni attimo che noi viviamo nella
sensazione del continuo divenire tra cambiamenti in realtà
dovrebbe essere tradotto in un continuo passaggio dall’essere al
nulla: questa, per Severino, è la follia del pensiero occidentale. Se
non è logico pensare che qualcosa diventi nulla allora ogni nostro
attimo è eterno e eternamente esiste. Quando il sole tramonta
per chi lo osserva il sole sparisce cioè diventa nulla. E’ solo
l’esperienza che ci dice che lo stesso sole sorgerà di nuovo, in
realtà in quel momento il sole non è nulla, non diventa nulla,
esce solo dalla nostra esperienza, dalla nostra percezione
cosciente. Per Severino lo stesso accade per ogni adesso che noi
viviamo…. E’ eterno…

“Tutto é eterno. La morte comunemente é considerata come una smentita


dell’affermazione che tutte le cose sono eterne, che è eterna la totalità degli
stati e degli aspetti dell’universo, non soltanto delle idee, perché altrimenti si
ricadrebbe nella tradizione del pensiero filosofico. La morte sarebbe una
valida e radicale smentita soltanto se essa fosse l’apparire dell’annientamento
degli essenti. Ma è la morte l’apparire dell’annientamento? L’ente
annientato continua ad apparire, a mostrarsi, a manifestarsi così come
appariva, si mostrava, si manifestava quando non lo era ancora? L’ente, in
quel caso, non è più manifesto solo perché esce dall’esperienza del visibile.
Voi, per sapere che sorte ha avuto il sole quando non lo si vede più, potete
interrogare il cielo visibile? Il cielo non dice nulla intorno alla sorte del sole
che esce dall’orizzonte. L’esperienza di tutte le cose equivale alle cose che ci
appaiono. Se applichiamo all’esperienza di tutte le cose quanto detto sul cielo
visibile, vedremo che l’ente annientato dalla morte - si suppone che la morte è
fenomeno dell’annientamento, per eccellenza - non è più sperimentabile,
visibile, osservabile, manifesto. Se una cosa è annientata, essa non appartiene
più all’orizzonte della esperienza. L’esperienza, pur mostrandoci gli orrori
dell’agonia e di ciò che definiamo morte, non ci dice nulla riguardo all’essente
che, morendo, proprio perché si pensa che si annienti, esce dall’esperienza e
non è più visibile. La sorte dell’essente, dal punto di vista dell’osservabilità
delle cose, resta una incognita. La stessa cosa si può dire del sole, quando

278
tramonta ed esce dalla visibilità. La morte non è una obiezione contro
l’assunto dell’eternità dell’essere, quanto una sua interpretazione.
L’esperienza tace intorno alla sorte di ciò che esce da essa. Resta da vedere
che ne è di ciò che va nel niente. In proposito non è più l’esperienza a essere
chiamata in causa, in quanto l’esperienza tace.”
Emanuele Severino

“Dire che una cosa (un essere) nasce, significa che un ‘nulla’ diventa ‘essere’,
significa che un ‘non essere’ ad un certo punto è ‘essere’. Ma questo non è
impossibile? Come potrebbe il ‘non essere’ diventare ‘essere’? Come potrebbe
un ‘essere’ derivare dal ‘nulla’? Ora se è impossibile, vuol dire che le cose non
nascono, non ‘derivano’, ma sono eterne!”
Emanuele Severino

“La storia, il tempo, è il progressivo apparire degli eterni. Cosa significa?


L'impossibilità della totalità dell'esistente di non essere, implica che tutto è
eterno, non solo il passato e il presente, ma anche il futuro. Il futuro è ciò che
non è ancora, ma non è in quanto nulla, non è in quanto non appare, pur
essendo già. Tutto ciò che è, è stato e sarà di ogni ente è già presente
nell'essere, in quanto il futuro inteso come ciò che non è, non è possibile. Non
c'è cosa che possa provenire dal nulla, il futuro sarebbe il provenire di ciò che
ancora non è dal nulla. Il tempo si configura così come il progressivo apparire
degli stati immutabili dell'essere, ogni istante è quindi l'apparire dell'eterno
nel mondo della percezione, similmente ai fotogrammi di un film, che esistono
già, nella pellicola, ma che, fatti apparire uno dopo l'altro in sequenza,
creano la percezione del movimento (parimenti alla concezione zenoniana del
moto). La pellicola, in questa analogia, rappresenta quindi l'essere, il film
già girato ed eternamente salvo, mentre i singoli fotogrammi sono gli istanti
che fluiscono nel tempo, illuminati dalla luce dell'essere.”
Emanuele Severino
“Non esiste la cattiva interpretazione del tempo. Non esiste la persuasione
che il tempo sia annientamento. Se per tempo si intende qualcosa di diverso
dall’annientamento, se cioè il tempo viene ad essere il progressivo comparire
degli eterni, allora stiamo parlando del tempo, ma non nel senso in cui esso è
inteso dal pensiero occidentale. Io non tralascio affatto l’esperienza. E’
proprio l’attenta lettura dell’esperienza quella che consente di estromettere la

279
persuasione che l’annientamento appaia. Non si deve tralasciare l’apparire
delle cose.”
Emanuele Severino

“Non siamo un occhio che s'accende a un certo momento dell'evoluzione del


cosmo: siamo la luce all'interno della quale si fa avanti l'evoluzione dei
cosmi, finiti o infiniti che siano”
Emanuele Severino

“Che significa morire?


L’incertezza piú profonda continua ad avvolgere ogni risposta dei mortali a
questa domanda.
Non avvolge soltanto le teorie attorno alla morte, ma lo stesso tentativo di
cogliere e di esprimere il fenomeno che tali teorie vorrebbero spiegare – il
fenomeno della morte, ossia (stando all’etimo di “fenomeno”) ciò che della
morte appare, sta dinanzi visibile e constatabile.
Come se, assistendo a una corsa di cavalli, non solo non si sapesse quale
sarà il vincente, ma non si sapesse nemmeno (pur illudendosi di saperlo)
quali sono, tra le varie figure visibili, i cavalli.
Una teoria può spiegare un evento solo se esso, innanzitutto, appare. Ma
quello che sembrerebbe il piú facile dei compiti – cogliere ed esprimere ciò che
appare – è invece tra i piú difficili.
Giacché la difficoltà non è dovuta a un’incapacità psicologica che potrebbe
esser superata mediante una concentrazione mentale piú rigorosa e piú
intensa, o una trasformazione che renda piú razionale il contesto sociale dove
si forma l’osservazione di ciò che appare: appartiene al destino dei mortali
l’incapacità di cogliere e di esprimere ciò che appare, quindi ciò che della
morte appare, il fenomeno della morte.
Eppure, la “nostra” cultura non ha dubbi sulla capacità di cogliere ed
esprimere i tratti che la morte mostra apparendo e il loro significato
essenziale: la morte – essa dice – è annientamento; l’annientamento di ciò
che muore è il fenomeno della morte; la morte appare come annientamento.
Ormai si ritiene che tutte le cose siano mortali e che di tutte possa quindi
apparire il loro annientarsi (e uscire dal niente).
Anche il cristianesimo, che pure è ben lontano dall’abbandonare tutto alla
morte e afferma l’immortalità dell’anima, pensa che, con la morte, il corpo in

280
nihilum cedit (cosí scrive Tommaso d’Aquino): se ne va nel niente.
Ma non siamo forse tutti convinti, anche senza fare appello alle varie forme
della cultura e basandoci semplicemente sulla nostra esperienza, che
l’annientarsi delle cose è quanto di piú visibile esiste tra i visibili? E che
l’angoscia e il dramma della vita hanno proprio qui la loro radice, nel
constatare ogni giorno e ogni momento che noi e tutto ciò che appartiene al
nostro mondo ce ne andiamo nel niente?
La legna sta bruciando. Dapprima se ne distinguono i contorni nella luce del
fuoco. Poi le forme scure del legno si fanno sempre piú incandescenti, la
fiamma si riduce e i tizzoni diventano braci. Queste, infine, impallidiscono e
diventano cenere.
L’incenerirsi di un corpo è la forma piú radicale di ciò che per i mortali è
l’annientamento della morte. Qui, in breve tempo e sotto lo sguardo di tutti,
il corpo che brucia perde ogni sua qualità. Di esso rimane soltanto la cenere;
tutto il resto è diventato niente.
La maggior esattezza con cui la scienza descrive il fenomeno della
combustione non muta la sostanza del discorso, perché se, per il primo
principio della termodinamica, con l’incenerirsi di un corpo e addirittura di
tutto il nostro pianeta, la quantità totale di energia dell’universo non varia,
tuttavia quel principio afferma semplicemente la conservazione dell’energia,
ma non delle forme in cui di volta in volta l’energia si realizza.
Le forme – figure, aspetti, volumi, suoni, colori e ogni altra qualità dei corpi
– tutto questo, anche per quel principio della fisica, non si conserva e diventa
niente quando un corpo viene bruciato. La cenere (col calore, il fumo) è
appunto la nuova forma in cui esiste l’energia contenuta nel corpo
inceneritosi; ma la forma che lo costituiva e per la quale esso era, ad esempio,
legna, e non un animale, questa forma, anche per la scienza, con l’incenerirsi
del corpo diventa niente.
Cosí, dunque, parlano i mortali, descrivendo il fenomeno della morte, quale
si presenta nell’incenerirsi di un corpo.
Ma – nonostante sembri quella del buon senso – è la voce della follia.
Quando si dice che qualcosa è divenuto niente, si intende forse affermare che
esso, pur essendo diventato niente, continui tuttavia ad apparire? Ad
esempio, che l’esser legna della legna trasformatasi in cenere sia diventato
niente e che esso continui ciò nonostante ad apparire (cioè ad essere visibile,
constatabile, cosí come lo era prima di diventar niente)?
Daccapo: forse che una cosa può diventar niente e tuttavia continuare a

281
manifestarsi nel suo essere quella cosa che essa era?
“No” risponderanno tutti: ciò che si annienta scompare nella misura in cui
si annienta. In questa misura, esso esce dal novero delle cose che appaiono.
(A mezza voce, alcuni riconosceranno anche questo: che nella memoria
rimane sí la traccia della legna – che in questo senso continua ad apparire
anche quando è diventata cenere –, ma questa traccia, proprio perché rimane,
non è la legna che è diventata un niente. La legna è morta, la sua traccia è
viva. Non ci può essere memoria dei morti, cioè degli annientati.) Ma se il
processo dell’annientarsi è inseparabilmente legato a quello dello scomparire
– se cioè una cosa, annientandosi, esce, insieme, dal cerchio dell’apparire
(ossia dal luogo luminoso in cui stanno tutte le cose che appaiono) – allora,
per sapere che sorte è toccata a ciò che è uscito da quel cerchio, potremo forse
rivolgerci alle cose che a tale cerchio appartengono? l’apparire di queste cose
potrà forse informarci di ciò che è accaduto a quelle altre che non stanno piú
in loro compagnia?
Una analogia ci consente di chiarire il senso di questa domanda.
Quando il sole tramonta, esce dalla volta del cielo e scompare allo sguardo.
Che ne è di esso? che sorte gli tocca quando, sprofondando nel mare o nella
terra o dietro i monti, non è piú visibile?
Queste domande ci lasciano oggi del tutto indifferenti, anche perché la teoria
copernicana assicura che il moto del sole è apparente e che quindi il sole
continua a esistere anche quando non è visibile.
Ma se volessimo rispondere a quella domanda unicamente sulla base di ciò
che appare nella volta del cielo quando essa è stata abbandonata dal sole, che
potremmo dire della sorte del sole resosi invisibile? Che potrebbe dirci, che
potrebbe attestare l’apparire della notte, della luna, delle stelle e dei loro
moti, intorno a ciò che è accaduto dell’astro che non abita piú con loro la
volta del cielo?
Nulla!
Abbandonata dal sole, la volta del cielo tace della sorte di esso, non attesta
alcunché intorno a esso.
In senso rigoroso e al di fuori di ogni metafora, le pallide luci del crepuscolo
sono la cenere del tramonto del sole.
Come il crepuscolo e gli astri notturni del cielo non mostrano quale sorte sia
toccata al sole che li ha abbandonati, cosí la cenere e tutto ciò che appartiene
al luogo in cui è avvenuto l’incenerirsi della legna tacciono e non attestano
alcunché intorno alla sorte della legna che, se si è annientata, è dovuta anche

282
scomparire, ha dovuto cioè abbandonare la volta dell’apparire abitata da
tutte le cose che appaiono.
E come per conoscere la sorte del sole dopo il tramonto occorrono delle teorie,
che interpretino ciò che appare e gli attribuiscano quindi proprietà che non
appaiono, cosí per conoscere la sorte della legna, che incenerendosi è uscita
dall’apparire, occorrono delle teorie, che interpretino il fenomeno
dell’incenerirsi e dello scomparire e lo inseriscano in categorie che aggiungono,
a ciò che appare, un senso che non è attinto da ciò che appare.
Di queste teorie è supremamente dominante, presso i mortali, quella che
afferma che, incenerendosi, la legna è diventata niente.
Si tratta di una teoria, e non della descrizione di un fenomeno, perché se la
legna, annientandosi, esce dall’apparire – se, diventata niente, essa non
appare nemmeno piú –, allora, che essa sia diventata niente non è qualcosa
che possa essere attestato dall’apparire da cui la legna, incenerendosi, è
uscita.
Non è il fenomeno dell’incenerirsi, non è l’apparire delle cose ad attestare che
cosa abbia avuto in sorte la legna scomparendo: è la teoria suprema dei
mortali che, interpretando l’incenerirsi della legna, afferma che essa è
diventata niente, le dà in sorte il niente.
È questa suprema teoria a intendere il fenomeno della morte come
annientamento. Ed è ancora essa a non riconoscersi come teoria e a
presentare il proprio contenuto come qualcosa che appare, cioè come
osservabile, constatabile, manifesto, cioè come fenomeno.
La legna sta bruciando. Dapprima appaiono i suoi contorni nella luce del
fuoco; poi essi scompaiono e appare l’incandescenza delle braci; a sua volta,
poi, questa incandescenza scompare e appare la cenere.
La legna spenta, la legna accesa, le braci, la cenere e il vento che la disperde
si sono avvicendati nel cerchio luminoso dell’apparire. Al subentrare di
ognuno di questi eventi, il precedente esce dall’apparire. Il cerchio
dell’apparire non attesta che la legna si trasforma in cenere: appunto perché
non attesta che la legna si annienta come legna. Per “trasformarsi”, o
“diventare” cenere è infatti necessario che la legna si annienti come legna. Ma
se l’annientamento della legna non appare, non può apparire nemmeno il suo
“diventare” cenere.
All’interno di quel cerchio, la cenere non è la sorte toccata alla legna; essa
non grida, ma tace la sorte della legna. In quel cerchio, la legna non diventa
cenere, cosí come gli uomini non diventano polvere: la cenere è il successore

283
della legna; la polvere dell’uomo. Ma l’annientamento di ciò che muore non
appare.
Alle teorie resta dunque affidato il compito di stabilire a quale sorte va
incontro ciò che esce dal cerchio delle cose che appaiono.
Questo risultato è decisivo.
Nei miei scritti si mostra – e ne hanno dato un cenno anche le pagine
precedenti – che la follia essenziale si esprime nella persuasione che le cose
escono e ritornano nel niente. Il mortale è appunto questa volontà che le cose
siano un oscillare tra l’essere e il niente.
Al di fuori della follia essenziale, di tutte le cose è necessario dire che è
impossibile che non siano, cioè è necessario affermare che tutte – dalle piú
umili e umbratili alle piú nobili e grandi – tutte sono eterne. Tutte, e non
solo un dio, privilegiato rispetto a esse.
Se questo discorso viene equivocato oltre un certo limite, si può allora pensare
che il vero folle è chi questo discorso propone, giacché esso sembra smentito nel
modo piú perentorio dal divenire del mondo.
Ebbene, proprio questo si è qui incominciato a chiarire: che se il divenire del
mondo è inteso come l’annientamento delle cose, allora il divenire non appare:
l’apparire del mondo (l’“esperienza”) non smentisce il discorso affermante
l’eternità del tutto; e dunque se in questa affermazione si volesse per forza
trovare la follia, essa andrebbe cercata altrove che nella presunta
contraddizione tra questa affermazione e ciò che resta attestato dall’apparire
del mondo.
Intanto, se il divenire non appare come annientamento, ma come l’entrare e
l’uscire delle cose dal cerchio dell’apparire, allora l’affermazione dell’eternità
del tutto stabilisce la sorte di ciò che scompare: esso continua a esistere,
eterno, come un sole dopo il tramonto.
Non solo la legna fiammeggiante, le braci, la cenere, il vento che la disperde
sono eterni astri dell’essere che si succedono nel cerchio dell’apparire, ma
anche tutte le fasi dell’albero che, “nella valle ove fresca era la fonte / ed il
giovane verde dei cespugli / giocava al fianco delle calme rocce / e l’etere tra i
rami traluceva / e quando intorno i fiori traboccavano” (Hölderlin), hanno
preceduto la legna tagliata per il fuoco.
Quando gli astri dell’essere escono dal cerchio dell’apparire, il destino della
verità li ha già raggiunti e impedisce loro di diventare niente.
Appunto per questo essi – tutti – possono ritornare.”
E. Severino, La strada

284
Noi siamo eterni????
La luce secondo Einstein e’ eterna…… Approfondire!!!!!

Isobel smise di leggere. Da quando, poche ore prima, aveva


trovato il biglietto sulla panchina non aveva fatto altro che
pensare a quel post scrittum del professor Barbur: lasciarsi
guidare dalla luce eterna. Quell’affermazione le aveva
ricordato qualcosa, un qualcosa che aveva letto o intravisto
quando aveva sfogliato gli appunti della nonna e che in un
primo momento non riusciva focalizzare: ora finalmente aveva
trovato dove aveva letto quell’affermazione.
La luce è eterna: Isobel continuava a ripetersi questa frase. La
luce è eterna. Apparentemente non vedeva alcuna
contraddizione. Ormai aveva compreso che più aumenta la
velocità di un corpo più il suo tempo rallenta e, alla velocità
massima raggiungibile ovvero quella della luce, il tempo del
corpo, per noi che lo osserviamo da un altro sistema di
riferimento, si ferma. Ma, pensò, cosa accade alla luce della
candela quando io la spengo? Se essa è eterna, essendo
l’eternità l’assenza del tempo, dove finisce? La luce non può
morire, la luce non può spegnersi; per essa non esite un prima o
un dopo. Pensò al concetto di luce e, come in un lampo, le
venne in mente la parola Illuminazione. Forse ciò che cercano i
mistici, i maestri zen e i buddisti quando parlano di
Illuminazione altro non intendono se non questo: Eternità, farsi
eterni… Se la luce è davvero eterna l’Illuminazione è
accendersi all’eternità: ma la luce può realmente accendersi?
Se essa è eterna questo fuoco che brucia nel camino deve
bruciare da sempre e per sempre. Ma se ogni immagine che io
ricevo è luce riflessa ogni immagine è eterna in se stessa. E se
l’immagine è eterna lo è anche ciò che essa rappresenta. Io

285
sono eterna. Rilesse nuovamente la frase di Severino citata
dalla nonna:
“Non esiste la cattiva interpretazione del tempo. Non esiste la
persuasione che il tempo sia annientamento. Se per tempo si
intende qualcosa di diverso dall’annientamento, se cioè il
tempo viene ad essere il progressivo comparire nell’esperienza
degli eterni, allora stiamo parlando del tempo, ma non nel
senso in cui esso è inteso dal pensiero occidentale. Io non
tralascio affatto l’esperienza. E’ proprio l’attenta lettura
dell’esperienza quella che consente di estromettere la
persuasione che l’annientamento appaia. Non si deve
tralasciare l’apparire delle cose.”
Ciò che è eterno quindi entra ed esce dalla nostra esperienza:
come un fiammifero che si spegne, un interruttore che si
preme, come il sole che tramonta e poi sorge così anche la
morte sarebbe solo l’uscire di chi non c’è più dalla nostra
percezione. Se noi siamo eterni la morte è solo un passaggio,
un uscire dall’esperienza… Ciò che è non può diventare nulla,
come dal nulla non può nascere qualcosa. Quindi io sono e
sono sempre stata. Ma dove va il fuoco quando soffio sul
fiammifero? La luce si propaga, ma se la luce è eterna essa ci
illuminerà per sempre... Chi illumina quella luce quando io la
spengo? La luce è eterna. Non si spegne l’eternità. La luce che
io vedo è stata già vista e si vedrà per sempre, e le immagini,
che sono riflessi di luce, sono anch’esse infinite e così le cose
di cui quelle immagini sono il riflesso. Ogni cosa è luce, ogni
cosa è eterna. Io sono ogni cosa; io sono eterna. Si ricordò delle
descrizioni che aveva letto riguardo la percezione degli oggetti
e delle persone da parte di chi aveva assunto sostanze
psichedeliche. Psichedelica: svelare la mente. Parlavano di una
luce speciale, di colori luminosi, di luce che circondava le
persone: si sedette alla scrivania e cercò quel libro: Le Porte
della Percezione di Aldous Huxley:

286
“Vidi un mazzo di fiori brillare di Luce Interiore e palpitare
sotto la pressione del significato di cui erano saturi. Continuai a
guardare i fiori e nella loro luce viva mi sembrò di scoprire
l’equivalente qualitativo del respiro”
La luce come respiro, la luce come vita. E’ la luce del sole che
ci da la vita, che nutre le piante e gli animali e se la luce è vita
e la luce è eterna, la vita è eterna!
Solo le ombre svanisco realmente quando la luce esce dalla
nostra esperienza.
E se davverò la nostra realtà fosse quella dipinta da Platone
nella famosa metafora della grotta? Se fossimo davvero
rinchiusi in una grotta, incatenati e costretti a vedere delle
ombre scambiate per realtà, e vedere le ombre svanire in quella
che noi chiamiamo morte?
Andò di corsa allo scaffale dei libri, cercò nervosamente finchè
non trovò La Repubblica di Platone, la sfogliò e, trovato il
passo che cercava, lesse:

“Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora
sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo
davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il
fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle
persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei
trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun
termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli
oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà; e che gli echi delle
voci dei trasportatori siano le voci delle ombre. Per un prigioniero, lo
scioglimento e la guarigione dai vincoli e dalla mancanza di discernimento
sarebbe una esperienza dolorosa e ottenebrante. Il suo sguardo, abituato alle
ombre, rimarrebbe abbagliato: se gli si chiedesse di dire che cosa sono gli
oggetti trasportati, non saprebbe rispondere, e continuerebbe a ritenere più
chiare e più vere le loro ombre proiettate sulla parete. Per lui sarebbe difficile
capire che sta guardando cose che godono di una realtà o verità maggiore
rispetto alle loro proiezioni. Il dolore aumenterebbe se fosse costretto a
guardare direttamente la luce del fuoco. E se fosse trascinato fuori dalla
grotta, per l'aspra e ripida salita, e dovesse affrontare la luce del sole, la sua

287
sofferenza e riluttanza si accrescerebbe ancora. Il suo processo di
acclimatazione al mondo esterno dovrebbe essere graduale: prima dovrebbe
imparare a discernere le ombre, le immagini delle cose riflesse nell'acqua, e
poi direttamente gli oggetti. Il cielo e i corpi celesti dovrebbe cominciare a
guardarli di notte, e solo in seguito anche di giorno. Una volta ambientatosi,
potrebbe cominciare a ragionare sul mondo esterno, sulla sua struttura, e
sul luogo che ha in esso il sole. Solo allora il prigioniero liberato,
ricordandosi dei suoi compagni di prigionia e della loro conoscenza,
potrebbe ritenersi felice per il cambiamento. Ma se ritornassero nella
caverna, i suoi occhi, abituati alla luce, sarebbero quasi ciechi. I compagni lo
deriderebbero, direbbero che si è rovinato la vista, e penserebbero che non
vale la pena di uscire dalla caverna. E se qualcuno cercasse di scioglierli e di
farli salire in superficie, arriverebbero ad ammazzarlo. Uccidere chi viene
dall'esterno è facile, perché, essendo quest'uomo abituato alla gran luce
dell'esterno, sarebbe costretto a contendere nei tribunali o altrove sulle
ombre del giusto, con persone che la dikaiosyne (la giustizia come virtù
personale) non l'hanno veduta mai.”

Dunque l’eterno (la luce, il fuoco) illumina e crea ombre e noi,


incatenati a una falsa realtà, scambiamo le ombre per la realtà,
non capendo che tali ombre sono il riflesso dell’eterno. Ma la
metafora assurge a profezia: chi esce dalla caverna proverà il
dolore e lo stupore della luce, dell’eternità e solo con pazienza
potrà abituare i suoi occhi all’eternità e a distinguere la realtà
dalla sua ombra. E se deciderà di rientrare nella caverna
rischierà la morte o l’internamento per pazzia perché per chi è
ancora in catene la realtà è la somma follia.
Quanta verità in questa metafora, in questi pensieri. Quanti
artisti, scrittori, pittori, mistici, filosofi hanno avuto lampi di
illuminazione che hanno lasciato a noi perché li raccogliessimo
e entrassimo con più coraggio nella grotta per liberare chi è in
catene. Quanti sono stati presi per folli, uccisi, umiliati, derisi
per avere avuto l’ardire di tentare di portare la luce nel buio
della nostra vita: Nietzsche, Jim Morrison, Artaud, Rimbaud,
Van Gogh, i bambini, i folli, tutte persone che sono state in
288
contatto con la luce, che di essa si sono inebriati anche per un
solo istante e che hanno reso ad essa la loro vita, le loro opere, i
loro sogni, i loro giochi.
Anche le parole ci avrebbero dovuto aiutare, pensò:
l’Illuminazione, il lampo di genio, il fulmine a ciel sereno,
vedere la luce, vedere e sentire in maniera più chiara, riflettere:
tutte parole e modi di dire che ci parlano di luce e di come essa
rappresenti il nostro avvicinarci a quella che chiamiamo verità,
alla consapevolezza, alla realtà ultima. La luce è di tutti e per
tutti. Da sempre la Luce rappresenta il bene e il buio il male…
Ma senza luce non si può avere il buio, solo il contrasto rende
vera la luce. La luce e il buio. Lo Ying e lo Yang. Il Tao. La
luce si spegne nel buio, il buio muore nella luce, ed è la luce
stessa che crea le ombre e da esse noi siamo impauriti e
incuriositi, nostre inseparabili compagne di un viaggio alla
ricerca della luce perenne. Noi siamo luce, noi siamo eterni.
Ma se la luce è eterna lo è anche ciò che lei crea, lo è anche il
suo opposto, l’ombra, l’oscurità?
Si sentì girare la testa: le vertigini. Calma Isobel, devi stare
calma. Si sedette sul letto.
Siamo ritornati all’inizio: Parmenide e l’eternità dell’essere;
Platone e la caverna; gli atomi. Tutto sembra già stato detto,
tutto sembra già scritto, già visto. Tutto ritorna anche i pensieri.
Forse l’illusione dei secoli è l’illusione di una verità che ci è
innanzi, basta saperla cogliere. Tutto ritorna perché tutto è
eterno. Quanti poeti hanno colto questa suprema realtà:
illuminarsi d’immenso, accedere all’eterno. Le venne in mente
l’epitafffio che la nonna aveva voluto incidere sulle lapidi di
mamma e di papà; erano dei versi tratti da una poesia del
Petrarca:
……..
E di me non pianger tu
Che i miei dì fersi morendo eterni
E nell’eterno Lume

289
Quando mostrai di chiudere
Gli occhi apersi
………
L’eterno lume. La luce eterna. Nei secoli la luce era indicata
come simbolo di vita, di eternità, di divinità, di Dio.
Si ricordò di un foglio di appunti che aveva scovato tra i libri
della nonna, lo trovò e lo lesse lentamente. Erano annotazioni
riguardanti libri religiosi, una serie di citazioni sulla luce tratti
soprattutto dai vangeli:

VANGELI APOCRIFI E GNOSTICI


VANGELO di TOMMASO

Gesù disse, "Questo cielo scomparirà, e quello sopra pure scomparirà.


I morti non sono vivi, e i vivi non morranno. Nei giorni in cui mangiaste ciò
che era morto lo rendeste vivo. Quando sarete nella luce, cosa farete? Un
giorno eravate uno, e diventaste due. Ma quando diventerete due, cosa farete?"

Dissero i suoi discepoli, "Mostraci il luogo dove sei, perché ci occorre


cercarlo."
Lui disse loro, "Chiunque qui abbia orecchie ascolti! C'è luce in un uomo di
luce, e risplende sul mondo intero. Se non risplende, è buio."

Gesù disse, "Se vi diranno 'Da dove venite?' dite loro, 'Veniamo dalla luce, dal
luogo dove la luce è apparsa da sé, si è stabilita, ed è apparsa nella loro
immagine.'

"Per questa ragione io ti dico, se uno è integro verrà colmato di luce, ma se è


diviso, sarà riempito di oscurità."

Gesù disse, "Io sono la luce che è su tutte le cose. Io sono tutto: da me tutto
proviene, e in me tutto si compie.
Tagliate un ciocco di legno; io sono lì.
Sollevate la pietra, e mi troverete."
83. Gesù disse, "Le immagini sono visibili alla gente, ma la loro luce è nascosta
nell'immagine della luce del Padre. Lui si rivelerà, ma la sua immagine è
nascosta dalla sua luce."

290
VANGELO della VERITA’

" Ho avuto l'esistenza per essere nuovamente distrutto ".Sarà distrutto.


Perciò quanto non è mai esistito non avrà mai esistenza.
Che cosa vuole dunque che egli pensi di se stesso?
Questo: "Sono come le ombre e i fantasmi della notte ". Quando risplende la
luce, comprende che la paura, da cui era preso, è nulla.
La luce parlò per sua bocca, la sua voce generò la vita. Diede loro il pensiero,
la ragione, la misericordia, la salvezza, lo spirito di forza the deriva dall'infinità
del Padre e dalla dolcezza.

Trasse questa pecora dal pozzo affinché i vostri cuori sappiano qual è il sabato
nel quale bisogna che la salvezza non resti inoperante; affinché voi parliate del
giorno che viene dall'alto ed è senza notte, e della luce che non tramonta,
perché è perfetta.
Dite, dunque, di cuore che questo giorno perfetto siete voi, che in voi abita la
luce inestinguibile. Parlate della verità con coloro che la cercano, della
conoscenza con coloro che - nel loro errore - hanno peccato. Voi siete i figli
della conoscenza e del cuore!

Questo è il luogo dei beati, questo è il loro luogo.


Quanto agli altri, sappiano, nel loro luogo, che io non sono in grado - dopo
essere giunto nel luogo del riposo - di dire altro, Dimorerò là, e in ogni
momento mi dedicherò al Padre del tutto e ai veri fratelli, su cui è stato effuso
l'amore del Padre e in mezzo ai quali egli non lascia mancare nulla di sé.
Costoro invero si manifestano in questa vita vera ed eterna, parlano della luce
perfetta, e sono ricolmi della semenza del Padre che è nel suo cuore

VANGELO di FILIPPO

I nomi dati alle cose terrestri racchiudono una grande illusione: infatti
distolgono il cuore da ciò che è consistente per volgerlo a ciò che non è
consistente. Così, chi ode "Dio" non afferra ciò che è consistente, ma afferra
ciò che non è consistente. Allo stesso modo è con "il Padre", "il Figlio", e "lo
Spirito Santo", con "la vita" e "la luce", e "la risurrezione", con "la Chiesa" e
con tutte le altre cose, non si afferra ciò che è consistente, ma ciò che non è
consistente, a meno che si sia arrivati a conoscere ciò che è consistente.

291
Se si trovano in mezzo alle tenebre un cieco e uno che vede, non si
distinguono l'uno dall'altro. Ma quando viene Ia luce, colui che vede vedrà la
luce, mentre colui che è cieco rimarrà nelle tenebre.

Coloro che si sono vestiti della luce perfetta non sono visti e, quindi, non
possono essere trattenuti dalle forze: ci si riveste di questa luce nel mistero,
nell'unione.
Se la donna non si fosse separata dall'uomo, non sarebbe morta con l'uomo:
all'origine della morte ci fu la sua separazione. Perciò il Cristo è venuto a porre
riparo alla separazione che ebbe inizio fin dal principio, e a unire nuovamente i
due, a vivificare coloro che erano morti a motivo della separazione.
Non soltanto non riusciranno ad afferrare l'uomo perfetto, ma non riusciranno
a vederlo, poiché se lo vedessero lo afferrerebbero. Nessuno riuscirà a ottenere
questa grazia in alcun altro modo, se non rivestendosi della luce perfetta e
divenendo egli stesso luce perfetta. Colui che si rivestirà di questa, entrerà nel
Regno. Questa è la luce perfetta, ed è necessario che - con ogni mezzo -
diventiamo uomini perfetti prima di uscire dal mondo.

L'uomo si associa con l'uomo, il cavallo si associa con il cavallo, l'asino si


associa con l'asino: le specie si associano con quelli della loro specie. Allo
stesso modo, lo Spirito si associa con lo Spirito, il Logos è in comunione col
Logos, e la luce è in comunione con la luce. Se tu diventi uomo, l'uomo ti
amerà. Se tu diventi Spirito, lo Spirito si porrà in comunione con te. Se tu
diventi Logos, il Logos sarà in comunione con te. Se tu diventi luce, la luce
sarà in comunione con te. Se tu diventi ciò che è in alto, ciò che è in alto si
riposerà su di te. Se tu diventi un cavallo, o un asino, o un vitello, o un cane, o
un montone, o un qualsiasi altro animale che sì trovano al di fuori e al di sotto,
tu non potrai essere amato né dall'uomo né dallo Spirito né dal Logos né dalla
luce né da ciò che è in alto né da ciò che è all'interno. Questi non potranno
riposarsi in te, e tu non avrai parte in essi.

VANGELI CANONICI E SINOTTICI

VANGELO di GIOVANNI

In principio era il Verbo,


il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,

292
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.

Egli venne come testimone


per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.

Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato,
perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è
questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre
alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia
la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi
opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono
state fatte in Dio.

Gesù allora disse loro: "Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate
mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle
tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare
figli della luce".

Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non
rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io
non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per
salvare il mondo. Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo
condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno.
Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi
ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. E io so che il suo comandamento
è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a
me".

293
Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo".

VANGELO di LUCA

Voi siete la luce del mondo. Nessuno accende una lucerna e la mette in luogo
nascosto o sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché quanti entrano
vedano la luce. La lucerna del tuo corpo è l'occhio. Se il tuo occhio è sano,
anche il tuo corpo è tutto nella luce; ma se è malato, anche il tuo corpo è nelle
tenebre. Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se il tuo corpo è
tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso,
come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore".

VANGELO di MATTEO

La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo
corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà
tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la
tenebra!

BHAGAVAD GITA

"Soltanto lo yogi che possiede la Beatitudine interiore, che dimora sul


Fondamento interiore, che è, uno con la Luce interiore, diventa una sola cosa
con lo Spirito (dopo essersi affrancato dal karma relativo ai corpi fisico, astrale
e causale). Egli ottiene la liberazione assoluta nello Spirito (anche mentre vive
nel corpo).

"O Figlio di Kunti, Io sono la fluidità nelle acque; sono la luce nel sole e nella
luna; sono l'Aum (pranava) nei Veda; il suono nell'etere e la virilità negli
uomini.

"Queste due vie per uscire dal mondo sono considerate eterne. La via della
luce porta alla liberazione, la via delle tenebre alla rinascita.

"Per pura compassione Io - il Divino che risiede nei cuori - accendo in loro la
luce radiosa della saggezza che bandisce l'oscurità nata dall'ignoranza".

294
"Tu sei lo Spirito Supremo, la Dimora Suprema, la Purezza Suprema! Tutti i
grandi saggi, il divino veggente Narada, come pure Asita, Devala~ e Vyasa Ti
hanno descritto come l'Eterno Purusha che splende di luce propria, la Divinità
Originaria, Senza Nascita ed Onnipresente! Ed ora Tu Stesso me lo dici!

"Luce di tutte le Luci, al di là dell'oscurità; Conoscenza stessa, Quello che


dev'essere conosciuto, la Mèta di ogni sapere, Egli dimora nei cuori di tutti.

Ripose il foglio e continuò a riflettere.


La luce come manifestazione divina, come fonte di saggezza,
come Dio. La luce come sacro fuoco che arde nel cuore e negli
occhi di chi conosce, di chi ha la consapevolezza della
conoscenza: essere luce. Illuminare il mondo. Essere la luce da
cui tutto proviene. Ogni immagine è tale perché è luce, la
nostra realtà per come noi la vediamo è luce. Se non vi fosse
luce tutto sarebbe una tenebra indistinta. Forse per questo fin
dai tempi più remoti la luce e le sue manifestazioni sono state
scelte a divinità: il fuoco, il lampo, il sole. Esse sono sinonimi
di vita, di vitalità, di verità.
La luce come vita, come guida, come esperienza. La luce viene
spesso usata come metafora dei due eventi decisivi della nostra
esistenza: la nascita e la morte.
Quante espressioni, modi di dire che usiamo quotidianamente
riguardano la luce: quando uno muore si dice che “si è spento”,
come se la nostra vita fosse una luce che rischiara le tenebre
del nulla. Quando un bambino nasce si dice che la mamma “ha
dato alla luce un figlio”.
Ma se la luce è vita, la vita non si spegne mai perché non esiste
un prima o un dopo di un qualcosa che è eterno.
Ripose il foglio e si mise a guardare le stelle che trapuntavano
il cielo incorniciato dalla piccola finestra. Le stelle sono buchi
da cui traspare la luce dell’infinito, disse tra se e se. Era una
frase che la nonna gli aveva detto tanto tempo addietro quando

295
lei cercava la stella su cui erano andati la mamma e il papà. Si
ritrasse dalla finestra e prese a sfogliare un libro preso a caso.
Van Gogh; guardò un sole dipinto: un vortice di colori che
sembravano attirare a se ogni cosa intorno, deformandone i
contorni e tatuandone i colori Quel vortice di luce pareva
avvolgere tutto; continuò a sfogliare: ora era il viso austero e
serio di Van Gogh stesso ad avere quel vortice intorno a se, con
l’epicentro di tale fenomeno negli occhi ed esso pareva
deformare l’aria circostante, increspandone i contorni. Un altro
quadro, ancora stelle nel cielo, le forme delle cose dipinte si
modellano sulla loro luce; di lato una didascalia con una frase
di Van Gogh: “Io dipingo l’Infinito”.
La luce modella la nostra realtà, pensò. Noi siamo luce, luce e
ombra; la luce ci guida e ci protegge, ci da forma e sostanza.
La luce… La luce… Basta!
Basta parole, basta letture. Era ora di tuffarsi nell’esperienza, di
spiccare il volo, di lasciare il nido, di togliere il velo
definitivamente. Non aveva più nulla da perdere. Frugò sotto il
cuscino, estrasse la scatola di metallo che le aveva dato il
professor Barbur, la aprì. Conteneva quello che sembrava un
piccolo cactus, poco più grande di una moneta. Accanto un
piccolo foglietto arrotolato. Lo prese e lo lesse:

“Se le porte della percezione fossero purificate l’uomo vedrebbe le cose per
quello che realmente sono: infinite” William Blake.

Il peyote. Il cibo degli dei. Il ciceone. Lo afferò con due dita e


lo mise in bocca. Appena lo morse un formicolio le invase la
bocca e la lingua: aveva uno strano sapore. Lo masticò
lentamente, deglutì, si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi e
attese…

296
CAPITOLO XLI

?????????

Dopo un tempo indefinito Isobel riaprì gli occhi e si alzò dal


letto: tutto era come prima, nessuna sensazione alterata,
nessuna percezione diversa; si affacciò alla piccola finestra e la
luce della luna piena le illuminò il viso; le parve di percepirne
il calore. Decise di uscire e in breve tempo si ritrovo in riva al
lago. Mentre ammirava i riflessi che la luna creava sulla
superficie increspata dell’acqua, cullata dal monotono
scrosciare della cascata, sentì una voce chiamare il suo nome,
prima in maniera debole e flebile, poi in modo sempre più
vigoroso fino a coprire il rombo delle acque. Non riusciva a
comprendere da dove venisse quel richiamo che si faceva
sempre più assordante. Isobel si portò le mani alle orecchie
cercando di sfuggire a quel frastuono che le occupava la mente
stordendola. All’improvviso scese un silenzio irreale e ogni
cosa intorno a lei sembrò fermarsi, come congelata e fissata in
un medesimo istante: la superfice del lago era immobile, così
come il riflesso della luna, i rami degli alberi, le nuvole nel
cielo, le acque della cascata. Un senso di panico la assalì: quel
silenzio e quella fissità la impaurivano. Provò ad immergere
una mano nell’acqua: ne sentì il freddo ma la sua mano passò
attraverso l’acqua senza in alcun modo modificarne la
superficie. Isobel ritrasse la mano spaventata e se la appoggiò
sulla fronte: era bagnata e fredda. La superfice del lago era
rimasta immobile come uno specchio, come se l’acqua si fosse
improvvisamente congelata. Isobel si guardò la mano: le gocce
d’acqua, di un argento luminoso e brillante, fluivano
disegnando linee misteriose per poi radunarsi nel palmo. Fu
presa da un irrefrenabile desiderio di bere e si portò la mano
alla bocca: mentre beveva quel piccolo sorso le sembrò di

297
sentire ogni signola goccia solleticarle il palato, farla
rabbrividire dal freddo, scendere dentro di lei e placarle la sete:
il sollievo che provò fu infinito. Si rialzò: tutto intorno a lei era
immobile, come in un quadro, nessun rumore, nessun suono,
nessuna presenza. Costeggiò camminando il laghetto quando
ad un tratto le parve di scorgere un piccolo movimento
stagliarsi nella fissità di ciò che la circondava: si avvicinò
lentamente e scorse un piccolo scoiattolo intento a rosicchiare
una radice di un albero; Isobel si avvicinò con cautela,
osservando il piccolo animale: era splendido, il pelo fulvo, la
coda grossa ritta sulla schiena, le piccole orecchie appuntite
con due ciuffi bianchi in cima. E’ un piccolo miracolo, pensò e
allungò la mano per accarezzarlo. All’improvviso lo scoiattolo,
accortosi di Isobel, fece un balzo e corse lungo uno stretto
sentiero innanzi a se inoltrandosi nel bosco. Nel medesimo
istante ogni cosa riprese il suo corso: lo scroscio della cascata,
lo stormire degli alberi, il vagare perso delle nuvole in cielo.
L’incantesimo si sciolse. Isobel sobbalzò per la sorpresa,
abituata ormai a quel silenzio e a quella immobilità irreale.
Osservò il sentiero: lo scoiattolo si era fermato a una
cinquantina di metri da lei e la stava guardando. Si inoltrò per
il sentiero; lo scoiattolo fece un balzo in avanti poi si fermò e si
girò nuovamente verso di lei: sembrava la invitasse a seguirlo.
Proseguì per il sentiero per un tempo indefinito, lo scoiattolo
innanzi ad attenderla e a mostrarle la strada e lei dietro. Ad un
certo punto lo scoiattolo fece una rapida corsa in avanti, balzò
in un cespuglio e scomparve alla vista di Isobel; lei provò ad
alzare gli occhi verso il cielo ma la foresta era talmente fitta
che non vide altro che la volta oscura dei rami che parevano
coprirla e soffocarla: si sentì mancare il fiato. Si guardò intorno
ma dello scoiattolo nessuna traccia. Proseguì per il sentiero
mentre la sensazione di soffocamento si faceva sempre più
forte; il panico cominciò ad assalirla, prima facendola trasalire

298
ad ogni minimo rumore tra gli alberi circostanti, poi con una
crescente sensazione di essere osservata e seguita; quasi senza
accorgersene Isobel incominciò a correre lungo quell’incerto
sentiero. Sentiva i polmoni assetati d’aria, il cuore come un
tamburo impazzito, il sangue martellarle le tempie. Ad un
tratto, tra il suo ansimare parossistico le sembrò di udire
nuovamente quel richiamo, questa volta però le sembrò di
identificarne la provenienza: era innanzi a lei. Proseguì la sua
corsa e il richiamo da flebile divenne sempre più forte così
come sempre più acuta e opprimente era la sensazione di essere
inseguita. Isobel fece per voltarsi indietro ma inciampò in una
radice e cadde sull’erba soffice. Isobel riaprì gli occhi, ma la
luce intensa della luna glieli fece socchiudere. Si alzò di scatto
convinta che il suo inseguitore le fosse ormai addosso;
trascorsero alcuni secondi, ma non accadde nulla; ancora
ansimante Isobel si guardò intorno, gli occhi ormai abituati alla
nuova luce dopo il buio della foresta. Si trovava ora in un
ampio prato di forma ovale circondato dalla fitta foresta. La
luna campeggiava in mezzo al cielo decorata dal profilo dei
monti e da migliaia di puntini luminosi. Al centro della radura
vi era un albero immenso i cui rami ondeggiavano alla fresca
brezza notturna. Sotto l’albero Isobel scorse una persona che le
faceva cenno di avvicinarsi con ampi gesti delle braccia. Isobel
si incamminò e quando fu a una trentina di metri dall’albero
riconobbe il volto sereno e sorridente di Anrham.
“Guarda chi si rivede” disse “Cosa la porta in questi luoghi a
quest’ora della notte Miss Morrison?”
Isobel sorrise.
“Stavo facendo una passeggiata in riva al lago quando tutto si è
fermato innanzi a me. Mi sono impaurita, poi ho visto uno
scoiattolo e l’ho seguito nella foresta, mi sono persa e ho
iniziato a correre ma ho inciampato e mi sono ritrovata qui..”

299
“E’ pericoloso prendere il kykeon da sola” le disse guardandola
negli occhi.
Isobel rimase stupita. Come faceva a saperlo?
“Comunque ciò che è iniziato va terminato” disse con tono
solenne “non è saggio interrompere un viaggio, occorre
continuare, qualunque sia la sua meta “
Isobel si guardò intorno: la luna pareva illuminare come un
faro gigantesco quella radura donando riflessi incantati alle
foglie d’erba e alle ombre delle nubi che solcavano il cielo.
“Ho qui con me tre persone che sarebbero molto liete di fare la
sua conoscenza”.
Isobel si guardò intorno. Non c’era nessuno. Poi, d’un tratto,
dal limitare della foresta si staccò un‘ombra che iniziò a
camminare nella loro direzione: era un uomo dall’andatura
dinoccolata, la corporatura tozza. Mentre si avvicinava la luna
illuminò il suo viso: due enormi baffi incorniciavano un viso
paffuto mentre due sopraccilglia cespugliose contornavano gli
occhi miopi e profondi. Sembrava…. Non ne era sicura ma
dalle foto che aveva visto su dei libri le pareva di riconoscere
Nietzsche.
“Non è possibile” sussurrò a se stessa Isobel. Eppure la
somiglianza era incredibile. Quando fu vicino a lei e Anrham
l’uomo fece un profondo inchino, prese la mano di Isobel e con
modi affettati ma cortesi gliela baciò garbatamente.
“Il professor Friedrich Nietzsche è lieto di fare la sua
conoscenza, Miss Morrison”
Dunque non si era sbagliata. Isobel si sfregò gli occhi. Il
grande filosofo era innazi a lei.
Ad un tratto Nietzsche si girò alla sua destra e disse “Ecco che
arriva il professor Jung, in ritardo come al solito..”
Dal lato della radura dove Nietzsche aveva volto lo sguardo
avanzava una persona, i capelli bianchi, i baffi minuti e
ordinati. Arrivato sotto la folta chioma dell’albero fece un

300
cenno a Nietzsche e, stringendo la mano a Isobel, le disse
reclinando leggermente il capo “Lieto di fare la sua conoscenza
Miss Morrison. Mi chiamo Carl Gustav Jung” .
Isobel guardò Anrham stupefatta. Anrham le rispose con un
ampio e sereno sorriso.
“Ecco che sopraggiunge Albert” disse Jung “Anche oggi in
ritardo eh, come ieri sera del resto.”
“Nel mio sistema di riferimento il mio tempo è assolutamente
puntuale” disse l’uomo facendo seguire quella frase da una
allegra risata mentre giungeva sotto la chioma dell’albero.
Isobel riconobbe subito gli strambi capelli e lo sguardo acuto di
Albert Einstein. Si avvicinò a lei dopo aver salutato con una
pacca sulla spalla Jung e Nietzsche e le strinse vigorosamente
la mano.
“Lieto di conoscerla Miss Morrison. Noi tutti facciamo il tifo
per lei.”
Isobel era incredula: innanzi a lei stavano il più grande
scienziato del ventesimo secolo, il più grande psicologo e uno
dei massimi pensatori della storia.
“E’ impossibile” sussurrò appena.
“Impossibile?” disse Nietzsche che era il più prossimo a lei e
l’aveva udita “Sì, anch’io se fossi in lei penserei la medesima
cosa, e io in quanto lei ora la sto pensando, ma in quanto me
sono alquanto restio a definirmi impossibile.”
“Non incominciare Friedrich” lo interruppe Jung“ l’esperienza
che Miss Morrison sta vivendo va rispettata sia nei tempi che
nei modi di percezione. E’ già abbastanza confusa…” e con un
ampio sorriso le accarezzò il volto.
“Questo perché è ancora convinta di essere intrappolata nello
spazio tempo. Ma se la sua mente scioglierà i vincoli un sorriso
eterno le si stamperà sul viso.” puntualizzò Einstein.
“Non è facile” disse Nietzsche ”si rischia di finire per
abbracciare cavalli, non che sia una cosa detestabile in se anzi,

301
l’immedesimazione con il prossimo, con l’altro è quanto di più
divino possa sperimentare l’uomo, ma è pericoloso tentare da
soli, non con tutto il mondo che ti richiama all’ordine, al suo
ordine. Mi dia retta Miss Morrison ascolti chi ha vissuto sulla
sua pelle la lacerazione tra il sentirsi tutto e il vedersi singolo:
ascolti ciò che sentirà da questi tre buffoni come si ascolta una
canzone, memorizzando le note in modo che le risultino
famigliari ma senza aggiungere ad esse alcun pensiero o…
sprofonderebbe con esso. “
Jung guardò Nietzsche e fece un cenno di assenso con la testa.
“Dunque, dove eravamo rimasti?”chiese Einstein.
“Alla luce” disse Jung.
“Sì, giusto, tendo a dimenticarmene. Non fa piacere a nessuno
ricordare i propri errori”
“Non sono errori Albert” lo interruppe Jung ”sono
approssimazioni necessarie quando si prendono in
considerazione solo alcuni aspetti della realtà ma non la realtà
nella sua intera complessità.”
“Va bene, va bene” riprese Einstein ”Dunque stavamo parlando
dell’eternità della luce, della sua eternità rispetto a se stessa e
Friedrich aveva osservato che…”
“…avevo osservato che se la luce è eterna a se stessa ovvero
che per essere eterni con essa bisogna muoversi alla sua
velocità stiamo cadendo in un concetto autoreferenziale. La
luce è eterna alla velocità di se stessa è una affermazione
autoreferenziale, una tautologia perché si dimostra in se stessa:
è simile alla famosa storiella del barbiere: lei la conosce
signorina?”
Isobel fece cenno di no con la testa.
“E’ presto detta: un villaggio ha tra i suoi abitanti uno ed un
solo barbiere, uomo ben sbarbato. Sull'insegna del suo negozio
è scritto "il barbiere rade tutti - e unicamente - coloro che non
si radono da soli". La domanda a questo punto è: chi rade il

302
barbiere? La risposta che siamo portati naturalmente a dare è
"il barbiere si rade da solo". Ma in questo modo violiamo una
premessa: il barbiere rasandosi non raderebbe unicamente
coloro che non si radono da soli. Allora viene spontaneo il
pensare che il barbiere sarà raso da qualcun altro, ma ancora
una volta si viola una premessa: che il barbiere rade tutti coloro
che non si radono da soli (per dirla in altre parole, il barbiere se
si rade da solo non dovrebbe radersi, se non si rade da solo
dovrebbe radersi). Eppure il barbiere è ben sbarbato...”
Isobel guardò Nietzsche con aria interrogativa.
“Lo stesso si ha quando affermiamo che la luce è eterna in un
sistema di riferimento creato da se stessa. E’ eterno solo ciò
che viaggia alla velocità della luce. Ma per chi è eterno? Per
chi osserva e giudica da un sistema di riferimento esterno
rispetto a quello della luce. La luce non percepisce la sua
eternità. Chi è eterno non sa di esserlo e continua a percepire
un tempo proprio.. ”
“Forse stiamo osservando il problema dal punto di vista
sbagliato” disse Jung. “In fondo noi siamo fatti di luce, io vedo
lei Miss Morrison, e Albert me lo può confermare, in quanto la
mia retina interpreta i fasci di luce che provengono da lei e si
imprimono in essa. Quindi da un certo punto di vista noi siamo
luce.”
“…ma noi non viaggiamo alla velocità della luce. Quindi noi
non possiamo essere eterni, almeno dal punto di vista
puramente fisico.” disse Albert.
“E perché mai?” chiese Jung
“Perché ci è impossibile, almeno per ora, viaggiare a
trecentomila chilometri al secondo!” disse Einstein spazientito.
“Ma abbiamo appena detto che se anche fossimo eterni non ne
potremmo essere consapevoli perché continueremmo a
percepire uno scorrere del tempo anche se per un osservatore
esterno il nostro orologio risulterebbe fermo.” replicò Jung.

303
Einstein scrollò le spalle spazientito
“Ascoltami ancora un attimo” continuò Jung “prendiamo un
fotone, la particella elementare che costituisce la luce; il fotone,
essendo luce, viaggia per definizione alla “velocità della luce”.
Facciamo questo esperimento mentale: immaginiamo di poter
vedere un fotone e, con un grosso sforzo, di poter vedere anche
il suo orologio e quindi di poter registrare il suo tempo: se noi
riuscissimo a fare ciò, per tutto quanto ci siamo detti prima
dovremmo osservare le lancette del suo orologio ferme. Per noi
che lo osserviamo quel fotone ha tempo uguale a zero: per noi
il suo tempo non scorre, mentre se lui, il fotone, si guardasse
l’orologio vedrebbe le lancette muoversi normalmente: avrebbe
un suo tempo proprio. E’ corretto?” chiese Jung rivolgendosi a
Einstein.
“Corretto.” rispose il fisico.
“Bene. La domanda allora è questa: che fine fa il fotone se è
senza tempo e quindi eterno? Io dovrei vederlo per sempre,
giusto? Quindi se quel fotone è emesso dall’accensione di una
lampadina, dove finisce quando io la spengo? Quel fotone
dovrebbe rimanere in eterno…”
“No, prima o poi incontrerebbe qualcosa, un oggetto o altro,
dal quale può venire assorbito, riflesso, trasformato in calore..”
rispose Einstein.
“Un attimo: non può esistere un prima o poi se parliamo di un
fotone a tempo zero. Per lui il tempo non scorre e quindi non
può esistere passato ne futuro…” chiosò Jung.
“Ma da ciò a dire che noi siamo eterni ce ne passa!” disse
Einstein con una certa insofferenza.
“Ma perché vediamo lo spegnersi e l’accendersi della luce?
Quella luce dovrebbe essere eterna, ogni fotone emesso
dovrebbe esserlo. Eppure noi vediamo la luce accendersi e
spegnersi. Seguendo il ragionamento, l’unico modo che noi
abbiamo di percepire un tempo diverso da zero per il fotone

304
sarebbe quello di muoverci solidalmente con lui alla sua
velocità” riprese Jung.
“Carl ha ragione.” intervenne Nietzsche “Delle due l’una: o
qualcosa non funziona nella tua teoria o, per percepire lo
spegnimento della luce e quindi la sparizione di un fotone che
dovrebbe avere tempo uguale a zero noi dobbiamo essere ad
esso solidali e quindi muoverci alla sua velocità: solo in questo
modo vedremmo il suo tempo scorrere e potremmo percepire
eventi come lo spegnimento della luce o la sua interazione con
un altro oggetto. In altri termini dobbiamo essere eterni anche
noi!”
“Non diciamo eresie! Lo ripeto noi non viaggiamo alla velocità
della luce!” Einstein sembrava nervoso…
“Albert, che velocità ha un pensiero?”chiese Nietzsche.
“Non incominciare di nuovo con questa storia del pensiero. Il
pensiero non è un oggetto fisico, non posso dargli un luogo
nello spazio e un tempo nel tempo..”
“Però io dico: ora penso questo, e il mio pensiero porta a
un’azione che può portare a una modifica nel campo fisico”
continuò Nietzsche” e quindi il pensiero può essere fisicamente
rilevante, così come lo è l’osservatore sul fenomeno osservato”
“Non incominciare con la teoria dei quanti, lo sai che non mi
piace parlarne: anche se ora so che non è Dio a giocare a dadi
ma la nostra mente, il pensiero di aver passato gli ultimi anni
della vita a inseguire un’errore che non c’era per pura e dannata
cocciutaggine mi riempie di rabbia…”
“Non è il tempo dei rimpianti questo, a dire il vero non è il
tempo punto.” disse Jung sorridendo. “Ma proseguendo il
ragionamento di Friedrich e ampliandolo, tu sai che il pensiero
è costituito da impulsi elettrici tra neuroni. Ma elettricità =
luce. Quindi non commetteremmo alcun errore logico dicendo
che i pensieri possono viaggiare alla velocità della luce.”
“Direi di no” disse Einstein pensieroso

305
“Quindi i pensieri sono eterni!” proruppe Isobel concentrata su
dove andava a parare il discorso.
“Questa è una deduzione corretta Miss Isobel” disse Nietzsche
sorridendo. Leggendo i suoi libri Isobel non aveva mai
immaginato che un uomo simile potesse sorridere. “Ma se i
pensieri sono eterni e non esiste pensiero senza pensatore se ne
deve dedurre che anche il pensatore sia eterno…”
“….A meno che…. “ interruppe Jung “….non si immagini che
esista un luogo dove risiedono pensieri, sensazioni comuni a
tutti gli esseri pensanti e che da essi noi si attinga per elaborare
un pensiero che in realtà già è nel nostro inconscio collettivo.”
“Aspettate un attimo, non correte troppo” lo interruppe
Einstein ”La luce è eterna nel vuoto, perché solo in esso non
subisce fenomeni di rifrazione che ne rallentano la velocità. E
faccio fatica pensare a un cervello vuoto pensante…”
“Forse è per questo che i grandi mistici parlano di fare il vuoto
nella mente, di svuotare i pensieri, per avere l’illuminazione,
per accedere all’eterno, affinché l’attimo di luce interiore renda
eterno quel pensiero e quell’attimo.” chiosò Nietzsche con aria
soddisfatta.
“Ma non puoi svuotare la mente dai neuroni”continuò Einstein
un po’ indispettito.
“No.” intervenne Jung ”Ma così come nello spazio vuoto la
luce è eterna, così nel vuoto della mente l’Illuminazione ci
conduce all’Infinito. Svuotarsi per fare spazio all’Eterno,
all’Infinito, per attendere quel lampo di luce che ci comunichi
la nostra pienezza, la nostra comunione con l’Eterno. Come in
cielo così in terra, come fuori così è dentro, come nel piccolo
così nel grande. Questa è la saggezza, la tradizione di millenni
che si conforma alla scienza del presente.”
“Un attimo” interruppe Einstein “Trovo alcune contraddizioni.
Non si può appellarsi alla teoria della relatività per reclamare
l’eternità e l’inesistenza del tempo. Non lo si può fare perchè

306
essa prevede che lo spazio-tempo sia una dimensione unica e se
il tempo rallenta fino a fermarsi lo spazio deve tendere a zero
fino a diventare inesistente, ossia neanche lo spazio deve
esistere così come noi lo concepiamo”
“Trovo assolutamente corretto ciò che dici” disse Nietzsche ”Si
parla di tempo ma non si considera mai il suo fratello gemello,
la sua ombra, il suo inseparabile compagno: lo spazio. Io non
sono in grado di confutare lo spazio, sono un filosofo pazzo del
1800, abbraccio cavalli, non sono in grado di elevarmi alla
scienza del ventesimo secolo però… però vi è una cosa che mi
ossessiona fin da piccolo.”
“E cioè?” chiese Einstein incuriosito.
“Mi ossessiona questa idea: pensa all’uomo più veloce del
mondo: supponiamo che egli corra i 100 metri in 9 secondi e
800 millesimi di secondo. Si può presumere che tra mesi, anni,
decenni egli stesso o un altro al suo posto possa correre la
stessa distanza in 9 secondi e 799 millesimi…”
“Lo reputo possibile” ammise Einstein.
“E un giorno arriverà chi correrà in 9 secondi e 798 millesimi”
continuò Nietzsche.
“Possibile…” Einstein ebbe sentore di dove andava a parare il
ragionamento di Friedrich.
“Immagina questa progressione negli anni, nei decenni, nei
secoli: reputi strano che un uomo possa migliorare di un
millesimo di secondo chi lo ha preceduto?”
“No, ma deve esistere un limite altrimenti...” affermò Einstein
perentorio.
“Altrimenti dovresti giungere all’assurdo che vi sarà un uomo
che correrà i 100 metri in 0 secondi” chiosò Nietzsche “Ma
qual è questo limite? Esiste davvero? Se fosse 9 secondi e 800
millesimi, reputi del tutto improbabile che un uomo nel futuro
non trovi in se quella scintilla, quel refolo di vento, quella stilla
di energia per affrontare quella distanza guadagnando un

307
millesimo di secondo? E se è così non può essere così un
numero infinito di volte, ogni volta superando di un’iniezia il
limite fisico e temporale precedentemente costituito?”
“Non è possibile, vi deve essere un limite fisico.” obiettò
Einstein.
“Questo perché si presuppone che lo spazio esista e con esso il
tempo: ma questo ragionamento (e mi devi dimostrare dove
esso è debole) consente sempre la possibilità e la probabilità
(anzi direi la certezza) che ogni limite in realtà sia fatto per
essere superato, che esista sempre e per sempre quel refolo di
vento, quella scintilla di energia che faccia guadagnare quel
millesimo di secondo sul precedente tempo. Che cos’è in realtà
un millesimo di secondo? Neanche un battito di ciglia. Le
distanze e lo spazio sono fatte per essere colmate, per essere
superate.”
“Ma vi deve essere un limite fisico! Le mie gambe devono
avere un limite oltre il quale è impossibile che abbiano forza
sufficiente. E’ fuori di ogni logica pensare che io possa
percorre 100 metri in zero secondi” Einstein era spazientito.
“…..forse appunto perché quei 100 metri in realtà non
esistono.“ si intromise Jung.
“Non diciamo sciocchezze per cortesia!” Einstein era nervoso.
“Calma Albert.” disse Jung ”Stiamo continuando una
discussione senza considerare un dato fondamentale: il ruolo
che nelle nostre percezioni dello spazio e del tempo ha la
nostra mente. Credo che non si possa sottovalutare questo
aspetto: è la nostra mente che ci comunica il passaggio del
tempo, che ci mostra le distanze, che ci parla di spazio e di
tempo; ma la nostra mente codifica, interpreta e deduce. E se le
nostre deduzioni e interpretazioni fossero errate e fuorvianti
come la visione del sole che tramonta quando in realtà
sappiamo che siamo noi che tramontiamo ad esso?”

308
Improvvisamente un fulmine attraversò il cielo seguito da un
rombo che sembrò fare tremare i rami dell’albero. Quasi
simultaneamente una pioggia fittissima si abbattè sulla radura.
“Ora dobbiamo andare” dissero all’unisono i tre uomini. Poi,
parlottando tra loro si diedero appuntamento alla sera
successiva e, con un rapido baciamano ad Isobel si diressero
ognuno dalla parte da cui era venuto poco prima e scomparvero
tra gli alberi.
Isobel, ancora frastornata, si fece vicina al tronco dell’albero
per ripararsi dalla pioggia. Cercò Anrham quando la sua
attenzione fu attratta da una melodia cha pareva provenire dai
rami dell’albero. Alzò lo sguardo e vide Anrham che, in piedi
su di un ramo, stava porgendo delle noci ad uno scoiattolo che
assomigliava in tutto e per tutto a quello che l’aveva guidata
fino a quel luogo e, mentre si sporgeva dal ramo, cantava una
lenta melodia:

Once I had a little game


I like to crawl back in my brain
I think you know the game I mean
I mean the game called "Go insane"

Quando si accorse di essere osservato Anrham scese


dall’albero sempre cantando e, cinta Isobel con un braccio,
iniziò una lenta danza sotto la pioggia cullandola mentre
cantava

Now you should try this little game


Just close your eyes forget your name
Forget the world, forrget the people
And we'll erect a different steeple

Isobel guardò Anrham e lui le sorrise canticchiandole


nell’orecchio
309
This little game is fun to do
Just close your eyes, no way to lose
And I'm right there, I'm going too
Release control, we're breaking through

Anrham si interruppe bruscamente. Guardò Isobel negli occhi e


le disse:
“Issi, perdonami. Io sono tuo nonno” e così facendo la strinse
violentemente a sé cercando di baciarla. Isobel si sentì mancare
il fiato, cercò di divincolarsi ma la stretta era serrata.
“Lasciami! Lasciami stare! Tu non sei mio nonno! Non sei mio
nonno! Vattene!”
Anrham mollò per un attimo la presa, un tempo che fu
sufficiente ad Isobel per liberarsi dalle sue braccia e correre
attraverso la radura fino alla foresta.
“Isobel, perdonami, perdonami!” le gridava Anrham.
Isobel, continuando a ripetersi “non sei mio nonno, non sei mio
nonno” giunse alla foresta e vi si inoltrò, piangendo e correndo
all’impazzata. Sentiva il rumore della pioggia scrosciare sopra
di se, ma il fitto del bosco la teneva al riparo anche se l’oscurità
le aveva fatto ben presto smarrire l’orientamento. D’un tratto
sentì come un’enorme presenza volare sopra di lei con un
frastuono indicibile, come se un aereo stesse sorvolando a
bassa quota il bosco; proprio in quel momento inciampò e
cadde. L’odore di terra le penetrò nelle narici mentre cercava di
rialzarsi. Delle mani le sorressero la testa e la sollevarono.
Isobel urlò con quanto fiato aveva in gola.

310
CAPITOLO XLII

20 marzo 2001 Lendi Eleusi

La prima cosa che Isobel vide quando aprì gli occhi fu il viso
sorridente di Rumi.
“Dove sono?” chiese subito.
“Sei nella tua stanza, a Lendi Eleusi. Dove dovresti essere?”
rispose Rumi sempre con il suo splendido sorriso dipinto sul
volto.
“Non lo so, sono così confusa. Che cosa mi è successo?”
“Credo tu abbia deciso di fare una passeggiata notturna. Ti
hanno trovato stamane in riva al lago addormentata.”
“Dunque era tutto un sogno.” mormorò Isobel.
“Un sogno o un’allucinazione” disse Rumi con lo sguardo
severo tenendo in mano e mostrandole la scatola del kykeon.
“Non sono cose da farsi così alla leggera e da soli: possono
essere esperienze molto pericolose se affrontate con leggerezza
e senza la necessaria preparazione.”
Isobel annuì abbassando lo sguardo. Il ricordo di quanto era
successo, almeno nella sua mente, le era scolpito dinnanzi e le
incuteva curiosità e paura al tempo stesso.
“Vuoi raccontarmi cosa ricordi?” chiese Rumi sedendosi sul
bordo del letto.
“Non saprei… Non saprei dirti se ho vissuto realmente ciò che
ricordo o se è stato solo un sogno o un’allucinazione.”
“Forse io posso aiutarti a capire. Lo sai che mi occupo dello
studio dei sogni. Dunque raccontami cosa ti è successo.”
Isobel raccontò a Rumi ogni cosa, sforzandosi di non omettere
alcun particolare. Si rese conto che mentre parlava ulteriori
particolari affioravano alla sua mente rendendo il suo racconto

311
molto vivido e verosimile. Un particolare sgomento le dava il
ricordo di quel rumore e di quella cosa (aereo?) che incombeva
su di lei.
Rumi la ascoltò in silenzio; i suoi due occhi scuri, sereni e
penetranti, sembravano scrutarla nel profondo. Quando ebbe
terminato il racconto Rumi si alzò in piedi e si portò vicino alla
finestra.
“Cosa ne pensi?” chiese Isobel impaziente.
“Niente farfalle questa volta?” chiese a sua volta Rumi.
“No, niente farfalle, o almeno non che io mi ricordi..”
“Però c’era uno scoiattolo. E questo scoiattolo stava
rosicchiando una radice. Che sia sogno o allucinazione lo
scoiattolo che rosicchia la radice simboleggia il tentativo di
staccarti dalla vecchia vita o dalle tue vecchie convinzioni,
ancorate alla tua mente come le radici alla terra. Tutto il resto
era fermo, senza tempo. Poi tu hai inseguito lo scoiattolo nella
foresta. La paura e l’angoscia che hai sentito sono quelle di chi
viene sradicato dalle sue convinzioni, dalle sue origini, dalle
sue certezze e viene precipitato in un territorio ostile in cui non
sa come orientarsi, in cui si sente osservato, braccato perché i
vecchi pensieri e la vecchia vita non mollano così facilmente la
presa.”
Isobel ascoltava Rumi affascinata, facendo di tanto in tanto sì
con la testa.
“Ma alla fine, più per caso che per tua decisione, inciampando
involontariamente, ti sei ritrovata in un posto splendido,
l’oscurità e la paura alle spalle, una radura illuminata e
attraversata da una fresca brezza. E nel mezzo un’albero
enorme, con radici che saranno state altrettanto enormi e
profonde, che può rappresentare la tua nuova condizione, la tua
nuova vita, le tue nuove convinzioni. E qui, sotto la chioma di
quest’albero, immenso ma accogliente, ti hanno fatto visita tre
grandi del passato che scherzavano e si complimentavano con

312
te intavolando poi una complessa discussione sulla luce. E,
mentre discutevano di luce, un bagliore li ha interrotti e fatti
scappare e tu ti sei protetta avvicinandoti ancora al tronco.
Questa per me è la parte più oscura: parlano della luce e un
lampo li fa tacere e scappare? Forse perché di certi concetti è
difficile parlare o non è opportuno farlo, perchè si esplicano da
se e ci fulminano in un istante di consapevolezza. Poi, mentre ti
ripari sotto l’albero vedi Anrham che, canticchiando una
canzoncina, sta dando da mangiare allo scoiattolo che ti ha
guidato fino a quel posto: questo sembra indicare che Anrham
sia stato o sarà importante per il cambiamento che stai vivendo
anche se il finale rende il suo ruolo parecchio inquietante. Io so
per certo che Anrham non può essere tuo nonno, anche se Tina
Morrison non ha mai parlato di suo marito con noi. Poi quella
presenza incombente su di te, sembra quasi un presagio, una
premonizione… Questo spiegherebbe il terrore con cui ne
raccontavi le sensazioni. Ma torniamo a Anrham: la sua
affermazione di essere tuo nonno è particolarmente strana, a
meno che… La canzoncina! Ti ricordi le parole della
canzone?”
Isobel ebbe un sussulto. In realtà, si rese conto, stava
canticchiando quella melodia dal momento in cui aveva ripreso
conoscenza. Era una specie di sottofondo cantilenante che
rimbombava in qualche recesso della sua mente. Poi
all’improvviso ricordò:
“Ecco dove l’avevo sentita!” disse e si alzò di scatto. Corse alla
borsa dei libri che aveva portato dall’Europa, frugò
insistentemente poi estrasse il libro dei testi di Jim Morrison, lo
sfogliò con impazienza e si arrestò su di una pagina: La
celebrazione della lucertola.
“Eccola qui” disse trionfante “lo sapevo di averla già sentita.”
Si sedette sul letto e lesse ad alta voce il passo che aveva udito
cantilenare da Anrham.

313
Una volta feci un piccolo gioco
Provai a strisciare all’indietro nel mio cervello
Penso che tu conosca il gioco che intendo
Intendo il gioco chiamato impazzire

Dovresti provare questo piccolo gioco


Basta chiudere gli occhi e dimenticare il tuo nome
Dimenticare il mondo, dimenticare la gente,
Erigeremo un diverso monumento

Questo piccolo gioco è divertente


Basta chiudere gli occhi, è impossibile perdere
E io sono qui, vengo con te,
Perdi il controllo, stiamo irrompendo dall’altra parte

Isobel ebbe un brivido: non aveva mai fatto caso al significato


delle parole ma ora… E poi era la seconda volta che le capitava
di svegliarsi con una melodia di Jim Morrison in testa, e ogni
volta le era capitato dopo sogni strani e inquietanti. Guardò
Rumi che si era distaccata dalla finestra e la osservava
intensamente.
“Prosegui” le disse “prosegui pure”.
Ma Isobel posò il libro sul letto, si accostò alla sua valigia,
estrasse un mini Hi Fi, prese un compact disc tra quelli che si
era portata appresso dall’Europa e lo fece partire.
“Va a pile” disse a Rumi “Forse è meglio ascoltare l’originale,
così ti puoi rendere conto dell’atmosfera.”
Pigiò un tasto e furono avvolte da un torrente di parole.

La Celebrazione Della Lucertola

Leoni per la strada


e cani randagi in calore, rabbiosi, con la schiuma alla bocca

314
una bestia rinchiusa nel cuore della città
Il corpo di sua madre
Marcisce nella terra estiva
Lui scappa dalla città

Andò nel profondo sud e attraversò i confini


lasciando caos e disordine
alle sue spalle

La voce di Jim recitava questi versi in maniera monocorde,


incolore. Scene di squallore di strada, con strane e misteriose
bestie circolanti, una ragazza che fugge dalla città dopo il
funerale della mamma.

Una mattina si svegliò in un verde hotel


Con una strana creatura che gemeva al suo fianco
Sudore gocciolava dalla sua pelle splendente

C’é qualcuno?
la cerimonia sta per iniziare

Al suo risveglio in un hotel sconosciuto trova al suo fianco una


strana creatura. Inizia la Cerimonia.

Svegliati!
non riesci a ricordare dov’era
Il sogno era finito?

Jim grida la sveglia con quanto fiato ha in corpo facendo


sobbalzare Rumi e Isobel. E’ iniziata la cerimonia! Sveglia!
C’è una bestia al tuo fianco. E’...

Il serpente era di un oro pallido


Smaltato e lucente

315
Avevamo paura di toccarlo
Le lenzuola erano calde morte prigioni

…un serpente, simbolo delle paure ancestrali, il nemico, il


male, il traditore, colui che ha dannato l’uomo facendolo
cacciare dal paradiso terrestre…

Ora, corri verso lo specchio in bagno


guarda!
Stà entrando
Non riesco a vivere attraverso quei lenti secoli dei suoi movimenti
Lascio scivolare la mia lingua
Le fresche e lisce scaglie
Sento il buon sangue freddo e pungente
I lisci sibilanti serpenti della pioggia..

Rumori, urla. Scappa nel bagno, sta arrivando! La voce di Jim


si fa concitata. Sei in trappola: Lascia la tua lingua scivolare,
sei in suo potere…

Una volta feci un piccolo gioco


Provai a strisciare all’indietro nel mio cervello
Penso che tu conosca il gioco che intendo
Intendo il gioco chiamato impazzire

Dovresti provare questo piccolo gioco


Basta chiudere gli ochhi e dimenticare il tuo nome
Dimenticare il mondo, dimenticare la gente,
Erigeremo un diverso monumento

Questo piccolo gioco è divertente


Basta chiudere gli occhi, è impossibile perdere
E io sono qui, vengo con te,

316
Perdi il controllo, stiamo irrompendo dall’altra parte

La strada del ritorno nel profondo del cervello


Passando oltre il regno del dolore
Indietro dove non ci sarà mai pioggia
e la pioggia scende gentile sulla città
E sulle teste di tutti noi
E nel labirinto delle correnti sotterranee
la presenza quieta e soprannaturale
di nervosi paesani nelle calme colline circostanti
I rettili abbondano
Fossili, cave, fresche alture

La voce di Jim era diventata una lenta cantilena. Un ‘invito a


giocare, un invito a impazzire, a dimenticarsi il proprio nome,
la gente intorno e a fabbricare con lui una nuova realtà, in un
regno primordiale, puro, ancora da forgiare e da vivere. Un
viaggio nell’incoscio collettivo, una esplorazione nel tempo
della nostra mente, negli archetipi della nostra esistenza:
impazzire, dimenticare, lasciarsi andare, irrompere dall’altra
parte… Un regno di pioggia, pieno di persone strane, di
correnti pericolose che ti possono trascinare via… E la pioggia
cade, purificando e bagnando, lavando via i ricordi, indietro
oltre il regno del dolore. Isobel si sentiva cullare da quelle
immagini, gli occhi chiusi cercando di visualizzare le gentili
colline, i paesani nervosi, le fresche alture: era in viaggio….

Ogni casa della stessa forma


finestre aperte
Carri bestiame chiusi fino al mattino
Tutti or adormono
Coperte silenti, specchi assenti
accecati di polvere sotto i letti di coppie oneste
Ferita nelle lenzuola

317
e figlie soddisfatte
con occhi di sperma nei capezzoli

La musica cresceva, la voce si faceva più ieratica, le immagini


più scabrose e inquietanti. Era il nostro inconscio, fatto di
desideri e pulsioni innominabili, fatto di specchi assenti perché
il nostro riflesso ci renderebbe irriconoscibili: nuova realtà,
nuovi occhi. Specchi sotto i letti come antichi riti propiziatori,
lenzuola ferite e figlie soddisfatte…..

Aspetta
C’è stato un massacro qui
(non smettere di parlare o di guardare in giro
I tuoi guanti & i fan sono a terra
Stiamo scappando dalla città
Stiamo scappando di corsa
E tu sei quello che voglio che venga)

Aspetta, urla Jim. Un massacro. Isobel aprì gli occhi. Stava


parlando con lei, le stava dicendo di non perdere il contatto,
stavano ancora cercando di fuggire dalla realtà ordinaria e
voleva che lei lo seguisse…

Non toccare la terra


Non guardare il sole
non si puo fare nient'altro che
correre, correre, correre
corriamo

La casa sulla collina


La luna scende lentamente
Ombre degli alberi
testimoniando la brezza selvaggia
Vieni , corri con me

318
corriamo

corri con me
corri con me
corri con me
corriamo

La villa è calda, in cima alla collina


Camere eleganti e confortevoli
Braccioli rossi di lussuose poltrone
e tu non saprai niente finché non entri dentro

Il corpo del presidente morto nella sua auto


Il motore gira su colla e catrame
Vieni, non andiamo molto lontano
Verso est per incontrare lo Zar

Alcuni fuorilegge abitano sulle rive del lago


La figlia del ministro innamorata del serpente
Che abita nel pozzo al bordo della strada
Svegliati, ragazza! Siamo quasi a casa

Sole, sole, sole


Brucia, brucia, brucia
Presto, presto, presto
Luna, luna, luna
voglio averti
presto!
presto!
presto!

La musica si era fatta ossessiva, una specie di sabba


medioevale, una danza sacra indiana, un rito di iniziazione.
Scene surreali da lasciarsi alle spalle nel tentativo di prendere

319
la luna: solo i pazzi vogliono la luna, i pazzi e i bambini pensò.
Ma loro avevano fatto il giochino chiamato impazzire, erano
pronti. Sveglia, siamo quasi arrivati; sentiva l’affanno della
corsa e di quelle parole accelerate, incalzanti e quella musica
martellante fino al parossismo…

Lascia suonare le campane del carnevale


Lascia cantare il serpente
Lascia ogni cosa

E ora la quiete, lasciare ogni cosa, scendere dolcemente a


valle…

Scendemmo per I fiumi e le autostrade


Scendemmo dalle Foreste e dalle cascate

Scendemmo da Carson e Springfield


Scendemmo da Phoenix affascinati
e posso dirti
I nomi del regno
Posso dirti
Le cose che sai
Ascoltando per un minuto di silenzio
Scalando vallate nell’ombra

La voce di Jim si era fatta suadente: avevano oltrepassato le


barriere, si erano lasciati alle spalle ogni cosa, erano discesi a
valle, in un regno senza nome, ma di cui sapeva ogni cosa.
Ascoltando il silenzio avrebbe saputo… E infine
l’affermazione…

Sono il re lucertola
posso fare tutto cio che voglio

320
Posso fermare la terra nel suo cammino
Ho fatto in modo che le macchine blu se ne andassero

Poter fare tutto, poter fare la cosa più grande, fermare la terra,
come quella più stupida, cacciare le auto blu. Essere i padroni
della propria realtà, conquistare il proprio inconscio e
diventarne re. La sfida di Jung e di tanti altri nei secoli, il
ritorno alla nostra città natale, quella che dalla nascita ci viene
sottratta con l’istruzione, il condizionamento, il tempo, il ritmo
sempre uguale delle nostre giornate.

Per sette anni ho vissuto


nel palazzo perduto dell’esilio
giocando strani giochi
Con le ragazze dell’isola

Ora sono tornato


Nella terra del giusto, del forte e del saggio
Fratelli e sorelle della pallida foresta
bambini della notte
Chi tra voi vuole correre con la caccia?

Ora la notte arriva con la sua legione viola


Ritirati ora nelle tue tende e nei tuoi sogni
Domani entriamo nella mia città natale
voglio essere pronto

La voce di Jim si spense e il viaggio si interruppe. Isobel riaprì


gli occhi e guardò Rumi: anche lei sembrava assorta dalle
sensazioni di quell’ascolto. Poi la guardò negli occhi e sorrise
nuovamente. Una strana atmosfera aleggiava nella stanza; una
specie di secondo silenzio, una muta consapevolezza.
“Uno strano viaggio senza dubbio, ma molto interessante,
pieno di archetipi, di figure ancestrali, sembra una specie di rito

321
di iniziazione e forse in un certo senso lo è. Parla al lato
dimenticato della nostra psiche, quello inconscio, emarginato,
ferito ma che si rivela, inaspettato, nei momenti più strani.”
Isobel annuì. La sensazione del viaggio era netta anche nella
sua mente.
“Ritornando al sogno credo che l’idea di impazzire è l’idea di
stravolgere i canoni del pensiero chiamato normale, quello per
cui la realtà è una, il tempo scorre, la vita finisce. Impazzire
vuol dire anche non dare tutto ciò per certo, non credere nelle
distinzioni imposte ma toccarle con mano, prendere la luna o
almeno provarci…“
“E’ strano” disse Isobel “E’ la seconda volta in poco tempo che
faccio un sogno legato in qualche modo alla mia famiglia e a
me stessa in cui al risveglio mi ritrovo in testa una melodia e
delle parole che poi scopro essere di Jim Morrison.”
Rumi la guardò con aria stupita….
“Vuoi dire che non è la prima volta che ti capita una cosa del
genere?” chiese incuriosita.
“No” rispose Isobel e le raccontò per sommi capi il sogno in
cui aveva sentito la melodia di The End.
“Questo complica maledettamente le cose” disse Rumi
pensierosa” a meno che…A meno che Jim Morrison non sia in
qualche modo legato a te, che non sia veramente lui tuo
nonno…” disse con noncuranza.
“Mio nonno?” rispose Isobel un po’ seccata “vorrai scherzare.
Non è possibile! “
Poi si mise a riflettere. Effettivamente non aveva mai
conosciuto suo nonno. Suo padre le aveva detto che il marito di
sua nonna era un ammiraglio morto durante una esercitazione
nel 1971 e che la nonna, nonostante la sua giovane età, non si
era più risposata. Pensò al cognome: Morrison… No, non era
possibile! Provò a cancellare quei pensieri dalla mente. Rumi
vide la sua preoccupazione e si limitò a dire.

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“Non è importante questo ora; sono solo mie elucubrazioni
senza senso. L’importante è che tu ora ti riposi e che ti rimetti
in forze al più presto. Tutto il resto viene dopo. Ma mi
raccomando, non prendere più nulla. Può essere molto
pericoloso.”
Rumi abbracciò Isobel con forza, poi fece per uscire dalla
stanza ma, mentre stava chiudendo la porta si fermò.
“Quasi dimenticavo” disse portandosi la mano alla fronte “ Ti
ho portato la lista delle persone che hanno violato il Sacro
Vincolo e questi due scritti di Plotino e di Parmenide. Ma ora
riposati, mi raccomando, devi prima rimetterti in forze; certe
esperienze richiedono tante energie e forse tu ne hai spese più
di quanto potevi permetterti.” E così dicendo le porse una busta
sigillata dalla ceralacca e due libri. Poi con un cenno di saluto
uscì dalla stanza.

323
324
CAPITOLO XLIII

20 marzo 2001 Lendi Eleusi

Isobel trascorse il resto della giornata in camera. Aveva un


terribile mal di testa e faticava a stare in piedi. Dopo che Rumi
se ne era andata aveva riposato un po’, poi aveva provato ad
alzarsi perché voleva prendere una boccata d’aria, ma si rese
conto di reggersi a mala pena in piedi. Pensò quindi di
restarsene a letto. Approfittò di quel tempo per leggere i libri
che Rumi le aveva portato. In entrambi i casi trovò alcuni brani
sottolineati e questo era alquanto strano perché non era
consentito sottolineare i libri della biblioteca. Forse era stata
Rumi, pensò, per evidenziarmi i concetti che lei reputava più
importanti. Dalla poesia Sulla Natura di Parmenide erano
sottolineati i seguenti versi:
……………
Perché è l'incapacità che nel loro
petto dirige l'errante mente; ed essi vengono trascinati
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi,
da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici
e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino.
Perché non mai questo può venire imposto, che le cose che non sono siano:
ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero.
nè l'abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa via,
a usare l'occhio che non vede e l'udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina
che io ti espongo. Non resta ormai che pronunciarsi sulla via
che dice che è. Lungo questa sono indizi
in gran numero. Essendo ingenerato è anche imperituro,
tutt'intero, unico, immobile e senza fine.
Non mai era e sarà, perché è ora tutt'insieme,
uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né
di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare

325
ciò che non è.
……………………………..

La mente inganna, pensò: la mente percepisce il nascere e il


morire ma da che cosa si nasce? Dal nulla non può nascere
niente, questo era un concetto che aveva già avuto modo di
incontrare in alcune citazioni nel libro della nonna. Quindi non
si nasce nè si muore, si è, eternamente; la nostra mente ci
inganna, come rimaniamo ingannati dal sole che tramonta
mentre siamo noi che tramontiamo ad esso. Si fermò un attimo
a riflettere; questo concetto di mente che inganna era molto,
per così dire, orientale e, pensò, assomigliava molto al concetto
di maya, illusione, buddista secondo cui la realtà da noi
percepita nella sua molteplicità e nel suo divenire è
un’illusione creata dalla nostra mente da cui possiamo liberarci
con la meditazione e perseguendo l’illuminazione. Si trovò a
pensare come fosse incredibile che un filosofo greco e la
religione buddista avessero dei concetti così coincidenti.
Appoggiò il poema di Parmenide e prese il libro su Plotino. Era
un tomo molto grosso intitolato “Le Enneadi” ma anche qui
notò una specie di segnalibro su di una pagina che, una volta
aperta, risultò sottolineata in alcuni punti. Lesse i periodi
sottolineati:

L'insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio; ma la visione sarà di colui


che avrà voluto vedere. (dalle Enneadi, VI, 9, 4)

Tutte le cose sono piene di segni, ed è un uomo saggio chi riesce ad imparare una cosa
da un'altra.

Un principio deve rendere l'universo una singola complessa creatura vivente, uno tra
tutti.

326
Che vede dunque questa vita interiore? Appena risvegliata essa non può veder bene
gli oggetti risplendenti.

Spesso, destandomi a me stesso dal mio sogno corporeo e diventato estraneo a ogni
altra cosa, io contemplo nel mio intimo una bellezza meravigliosa e credo, soprattutto
allora, di appartenere a un più alto destino; realizzando una vita migliore, unificato
col divino e fondato su di esso, io arrivo ad esercitare un’attività che mi pone al di
sopra di ogni altro essere spirituale

Io mi sforzo di condurre il Divino che è in me al Divino che è nell'universo

Egli abbraccia in se stesso tutte le cose immortali, ogni spirito, ogni dio, l’anima
intera, ferma, per l’eternità. A che poi dovrebbe cercar di cambiare, se Egli è beato?
Dove mai si sognerebbe di trapassare, se ha tutto in sé? Intanto, Egli non cerca
neppure di aumentare, essendo già perfettissimo. Perciò ancora, tutto ch’è in Lui è
perfetto, a che Egli sia per ogni verso perfetto e non rechi in sé nulla che non sia tale;
poiché non ha nulla, in se stesso, che non pensi: egli pensa, beninteso, non già come
uno che cerchi, ma come uno che possegga. Così, la beatitudine non gli viene d’accatto
perché Egli è già tutto, nell’eternità, è, intendo, la verace Eternità, della quale il
tempo che scorre sull’Anima e la cinge è semplicemente una immagine, quel tempo
che lascia cadere alcune cose per andare incontro a certe altre ! Poiché cose
perennemente nuove vorticano sull’Anima: una volta Socrate, un’altra volta un
cavallo, uno qualunque degli esseri, insomma, senza interruzione. Lo Spirito, invece,
è tutto; Egli serra in sé la universalità delle cose, immobilmente, allo stesso posto; ed
Egli ‘è’, unicamente; e questo ‘è’ è sempre; il ‘sarà’ non ci sarà mai; ed anche
nell’‘allora’ Egli ‘è’, poiché non v’è neppure il ‘passato’: non vi è certo lì una qualche
cosa che sia trascorsa, ma tutto vi persiste immobile, perpetuamente, poiché è identico
ed ama, per così dire, che il suo essere duri in quello stesso stato. Ma ogni singolo suo
essere è Spirito, è Ente e il loro complesso è ‘onnispirito’ ed ‘onniessere’, mentre lo
Spirito rende esistente l’Essere nel pensiero, l’Essere, da parte sua, per il fatto stesso
ch’è pensato, dà allo Spirito il pensare e l’esistere. Pure, condizionamento del
pensiero è qualcosa di diverso che è a un tempo condizionamento per l’essere. Così,
per entrambi a un tempo v’è, quale condizionamento, qualcosa che è diverso dal
pensiero e dall’essere. Certo è che essi coesistono insieme e non si lasciano l’un l’altro:
ma questo uno che è a un tempo Spirito ed Essere e Pensante e Pensato risulta da
una dualità: è Spirito in quanto pensa, è Essere in quanto è pensato. Non potrebbe
infatti aver luogo il pensare se non ci fossero alterità ed identità. (Enneade 5)

327
La ricerca dell’unità delle cose e dell’eternità; ogni cosa
puntava incontrovertibilmente in quella direzione: gli scritti
della nonna, i libri che le aveva lasciato, gli appunti e ora, a
quanto pareva, anche nelle opere di chi era stato iniziato ai
misteri di Eleusi vi era questo continuo richiamo all’eternità
dell’essere, alla unità di tutte le cose, alla ricerca della
Illuminazione, dell’estasi mistica. Ripensò alla canzone di Jim.
Impazzire, dimenticare il proprio nome, il proprio io, la propria
identità. Annientare il proprio ego e fondersi fino a confondersi
con la corrente eterna dell’essere. In fondo, pensò, la parola
stessa identità ha due facce: da un lato indica una peculiarità, la
mia identità diversa da quella di chiunque altro, il mio io, il
mio sè, la mia mente, il mio modo di essere, di pensare,
dall’altro identità significa anche uguaglianza, essere uguali,
simmetrici, confondersi con l’altro. Che confusione pensò.
Eccolo il giochino chiamato impazzire: devo smettere,
interrompere per un po’ altrimenti la mia mente fonde, si disse
appoggiando il pesante libro sul comodino. La busta che le
aveva portato Rumi cadde per terra. Isobel si chinò e la
raccolse; se ne era completamente dimenticata. Aprì il sigillo di
ceralacca, estrasse i fogli in essa contenuti e lesse.

Daisuke Kitano (1675): trovato morto in un crepaccio due


giorni dopo aver lascito Lendi Eleusi

Josè Vargas de Santillana (1917): Morto appena rientrato in


Portogallo per l’epidemia di spagnola. Fu preso da convulsioni
febbrili sin dalla sua partenza da Honk Kong.

John Doe Jr. (1991): imbarcato su di un aereo della British


Airways precipitato al largo del Golfo del Bengala poco dopo il
decollo due giorni dopo la sua partenza dal Lendi Eleusi

328
Tina Morrison (2000): Morta a Londra per arresto cardio
circolatorio 10 giorni dopo la rottura del vincolo

Julian Barbur (2001):

Isobel ripiegò il foglio e lo infilò nella busta; quei nomi non le


dicevano nulla. Da una sommaria analisi però l’unico sospetto,
fin dal nome, era quel John Doe Jr, che risultava tra i
passeggeri di un volo precipitato in mare. In teoria, pensò, è
possibile che abbia parlato con qualcuno prima di imbarcarsi, o
che abbia fatto qualche telefonata. Pensò di chiedere qualche
informazione a Rumi. Si vestì e, barcollando, si diresse alla
Sala del Silenzio. Non appena la vide Rumi le si fece incontro.
“Cosa fai alzata? Ti avevo detto di riposare!” le sussurrò.
“Lo so, ma ora sto’ bene” replicò Isobel “e poi avevo bisogno
di chiederti una cosa. Che cosa puoi raccontarmi di John Doe
Junior? Un nome sospetto non trovi?”
“In realtà poco o nulla. Era un signore distinto, inglese di
nazionalità ma giapponese di origine. Si presentò come
maestro zen e studioso di discipline orientali. E’ stato con noi
per oltre un anno e ruppe il vincolo la sera stessa in cui conferì
con il Consiglio.”
Rumi tacque come a raccogliere i pensieri.
“Ora che mi ci fai pensare era molto in confidenza con
Anrham.”
“Con Anrham?” chiese Isobel.
“Sì. Potresti chiedere a lui. Ma è morto, il suo nome era sulla
lista di imbarco di quel volo.”
“Ma potrebbe aver avuto il tempo di divulgare certe
informazioni” ribattè Isobel.

329
“Sulla carta sì, ma in realtà lo ritengo assai improbabile. Non
aveva contatti con il mondo da oltre un anno, dubito che abbia
potuto informare chicchessia”
“Mi piacerebbe sapere che tipo era”
“Cortese, taciturno, una grande cultura. Ma faresti meglio a
chiedere a Anrham.”
“Ok, lo farò, grazie Rumi.”
“A proposito” la fermò la Custode ”stavo venendo a dirti che
tra due giorni mi recherò, come tutti gli anni, al monastero di
Pemakochung. E’ un pellegrinaggio rituale di una giornata e
volevo chiederti se ti andava di accompagnarmi.”
“Certamente” disse Isobel con entusiasmo.
”Perfetto”rispose Rumi “Tieniti pronta per giovedì mattina
allora. Si parte all’alba. Riposati in questi giorni..”
“Non mancherò” disse Isobel avviandosi verso l’uscita.
L’idea della gita le piaceva; la avrebbe aiutata a staccare la
mente da quelle letture parossistiche e poi, pensava, avrebbe
passato volentieri una giornata intera con Rumi. Al suo ritorno
avrebbe pensato a come rintracciare Anrham.

330
CAPITOLO XLIV

23 marzo 2001, Tibet

Partirono prima dell’alba. Costeggiarono il lago dal lato est per


poi inoltrasi nella foresta seguendo il torrente. Isobel si ricordò
del viaggio di arrivo, con Hani e Alpang. Hani… Quanto le
mancava! Era ormai una settimana che se ne era andato e il suo
ricordo e la nostalgia si facevano di giorno in giorno più
pungenti. Rumi avanzava con passo deciso mentre i primi
barlumi dell’alba indoravano le cime circostanti rendendo
l’atmosfera irreale. Il sentiero nel bosco finì in un ampio
affossamento tra due pendici di monti, dove un altro torrente,
più piccolo ma altrettanto rumoroso, confluiva in quello che
avevano finora costeggiato.
“Questa è la nostra strada” disse Rumi indicando una stretta
vallata che feriva le pendici dei due monti che le sovrastavano.
“La valle del Po Tsangpo. Da qui arriveremo al passo di
Doshung La e in due ore di buon passo saremo al monastero di
Pemakochung. Sei stanca Issi? Vuoi che ci riposiamo un po’?”
“No Rumi, sono in piena forma” rispose Isobel un po’ seccata
per l’osservazione.
Il sentiero dopo aver costeggiato per diverse centinaia di metri
il torrente, si inerpicava ripido sul fianco della montagna. Il
sole faceva già capolino dietro le creste delle montagne
circostanti. Isobel si arrestò per ammirare il panorama; il cielo,
limpido e terso, stava sbiadendo le tonalità rosee dell’aurora e
stava assumendo il solito colore azzurro, così intenso da ferire
gli occhi. Isobel non si ricordava di aver mai visto un cielo
limpido di quel colore: non a Londra, non a Parigi ne in nessun
altro posto in cui era stata. Era un azzurro intenso e pulito, per

331
nulla velato e quindi di una purezza che incantava lo sguardo.
Le cime dei monti, arrossate dai raggi dell’aurora, stavano
assumendo i riflessi di ghiaccio che le erano propri. Isobel
spinse lo sguardo alla vallata sottostante: gli alberi di color
smeraldo decoravano le pendici dei monti circostanti mentre il
torrente, di cui si udiva il lontano rimbombo, era una ferita
azzurra che lacerava quella coperta verde. Spinse lo sguardo
più lontano e intravide, sul pendio della montagna ad oriente,
una piccola nube di vapore, che celava il segreto delle cascate
di Lendi Eleusi. Il panorama era mozzafiato. La mano di Rumi
appoggiata sulla spalla la richiamò alla realtà.
“Dobbiamo andare o faremo tardi” disse Rumi con il suo solito
sorriso ”anche se so di distoglierti da uno spettacolo irripetibile
spero che mi perdonerai; siamo attesi.”
“Siamo attesi?” disse Isobel scuotendosi dal suo stato di
torpore provocato dalla magia del panorama ”Io pensavo fosse
una visita di piacere.”
“Lo è, in un certo senso. Ti ricordi quando ti è stata descritta la
fondazione di Lendi Eleusi? Il capo del consiglio ti ha parlato
di un monastero buddista che accolse i fuggitivi dalla Grecia e
li ospitò per anni. Ebbene quel monastero era ed è
Pemakochung ed è tradizione che ogni anno un esponente di
Lendi Eleusi faccia a ritroso il viaggio che fecero i nostri
fondatori per rendere omaggio ai successori di chi permise la
nascita e il prosperare della nostra casa: quest’anno la scelta è
caduta sulla mia persona.”
“Quindi è una specie di pellegrinaggio di ringraziamento?”
“Sì, ed è anche un’occasione per apprendere gli ultimi eventi
del mondo e dei paesi che ci circondano.”
Isobel annuì; avrebbe voluto aggiungere qualcosa ma il
sentiero si era fatto molto ripido e l’affanno le rendeva
difficoltoso il respiro.

332
“Non ti preoccupare, è l’altezza; qui saremo a circa 6.000 metri
di quota, l’ossigeno incomincia a scarseggiare. Tieni.” disse
Rumi porgendole una bottiglietta di vetro opaco “Bevi un sorso
di questo e mantieni una andatura lenta ma regolare”
Isobel prese la bottiglia e ne bevve un sorso: era un liquido
denso, dal vago sapore dolciastro.
“Che cos’è? “ chiese Isobel.
“E’ mate, la bevanda che usano le popolazioni delle Ande per
combattere il mal di montagna; tempo addietro uno studioso di
botanica che rimase da noi diverso tempo, ci fornì dei semi di
mate: li abbiamo piantati e abbiamo distillato questa bevanda,
preziosissima per chi affronta le alte quote. Un pezzo di Ande
sul tetto del Mondo.”
In effetti a Isobel parve di sentirsi immediatamente meglio.
6.000 metri… Le venne in mente una frase di Nietzsche che
aveva letto pochi giorni prima negli appunti della nonna
sull’eterno ritorno: un pensiero sgorgato “6000 piedi al di là
dell'uomo e del tempo” secondo Nietzsche stesso.
Smise di pensare a Nietzsche e all’eterno ritorno. Questa è una
vacanza, una vacanza da te stessa, si disse, e rivolse il suo
pensiero al sentiero che stavano percorrendo. Dopo almeno
un’ora di cammino giunsero sul crinale che divideva la vallata
che avevano percorso da quella in cui era il monastero di
Pemakochung. Un vento impetuoso le accolse mentre dall’alto
una coppia di aquile ricamavano il cielo con ampi cerchi. Rumi
scrutò prima l’orizzonte poi la vallata sottostante.
“Siamo quasi arrivati, mezz’ora di cammino in discesa e
saremo a Pemakochung.”
La discesa fu rapida, nonostante due brevi soste per evitare
complicazioni dovute a escursioni di altitudine e di pressione
troppo forti. Giunsero in breve innanzi a un costone di roccia
sulla cima del quale si ergeva il monastero.

333
La costruzione era molto diversa da quella di Lendi Eleusi,
richiamandosi quasi esclusivamente ai canoni architettonici
orientali. Ampie mura proteggevano l’edificio principale e le
case degli abitanti del monastero.
Quando giunsero alle mura trovarono il grande cancello aperto
e un monaco, con la classica tunica vermiglia e gialla e il
cranio calvo, che le attendeva. Dopo i saluti di rito il monaco,
che disse di chiamarsi Dijao Peng, li invitò a seguirlo.
Attraversarono alcune strette viuzze e si ritrovarono innanzi
all’ingresso del tempio. Entrarono, passarono alcuni saloni
incrociando e salutando diversi monaci che si stavano recando
alle loro mansioni quotidiane, aggirarono un piccolo chiostro
circolare contornato dalle celle dei monaci, salirono una rampa
di scale e si trovarono innanzi a una porta d’oro del tutto simile
alla porta della Sala del Consiglio di Lendi Eleusi, eccezion
fatta per gli enormi battenti che non raffiguravano un serpente
ma una ghirlanda di fiori intrecciata. Il monaco battè con forza
e attese un cenno dall’interno della sala, poi la porta lentamente
si aprì e Dijao Peng fece cenno a Rumi e Isobel di entrare.
Si ritrovarono in un grande salone, ai lati del quale erano una
serie di monaci di tutte le età, bambini e anziani. Al loro
ingresso intonarono una nenia cantilenante, accompagnando il
suono con lenti e armoniosi movimenti del capo; Isobel ebbe
l’impressione di un’onda umana che si stagliava intorno a lei.
La nenia andò via via spegnendosi mentre Rumi, con Isobel
alle spalle, avanzava tra le due ali di monaci. Il pavimento era
coperto da petali di rosa; Rumi si arrestò davanti a un piccolo
scranno sul quale stava seduto un vecchio monaco che si alzò e
fece loro un profondo inchino. Poi, schiarendosi la voce, disse:
“Benvenuti ai Signori di Eleusi. Sia lode al loro nome e alla
loro saggezza. Che la festa della natura che risorge sia il
simbolo della vostra unione con la divina Persefone, che da e

334
toglie la vita. Che Maya scompaia presto dai vostri occhi e che
la custode del Silenzio sia la custode della saggezza.”
Rumi fece un inchino in segno di ringraziamento.
“ … e benvenuta” proseguì il Lama ”alla nipote di Dharma
Mapang, miss Isobel Morrison. Possa il nome che porta esserle
sollievo e non fardello.” Isobel fece anch’ella un inchino,
stupita che quell’uomo conoscesse il suo nome.
“Gliel’hai detto tu?” chiese con un sussurro a Rumi.
Rumi, senza scomporsi, fece cenno di no…
“Che la cerimonia abbia inizio!” concluse il Lama
enfaticamente.
Le due ore successive furono una successione di preghiere, di
visite guidate al tempio, di processioni sacre a cui sembrava
partecipare la maggior parte degli abitanti del monastero. Dopo
una visita a un tempietto che sostenevano fosse stato costruito
dal maestro buddista BodhiDharma e a lui in qualche modo
dedicato, furono condotte nuovamente dal Lama per il pranzo.
Egli le accolse calorosamente e senza la solennità profusa al
loro arrivo, mettendo subito a suo agio Isobel che, un po’ per la
difficoltà a comprendere le parole pronunciate in tibetano, un
po’ pensierosa per il fatto che il Lama conoscesse il suo nome,
si era sempre mantenuta in silenzio e in disparte durante tutte le
ore trascorse nel monastero. Appena ne ebbe l’occasione Isobel
chiese al monaco:
“Immagino che Dharma Mapang sia mia nonna, Tina
Morrison. La conoscevate? E come fate a conoscere il mio
nome?”
Rumi guardò Isobel con aria divertita.
“Tutti qui conoscono Dharma Mapang e tutti ne rimpiangono
la dipartita. Negli ultimi cinque anni è venuta sempre lei come
rappresentante di Lendi Eleusi alla festa della Natura e in più di
un’occasione ci ha parlato di lei e del fatto che era sicura prima
o poi la avremmo conosciuta. Devo dire, come le capitava

335
spesso, non ha sbagliato la previsione.” disse inchinandosi in
segno di deferenza al nome della nonna.
“Quali notizie sono giunte dalle Terre Basse?” chiese Rumi
cambiando discorso.
“Segnali di confusione, di agitazione. Sta per avvenire qualcosa
di importante e terribile insieme. Il Pakistan e l’Afghanistan
sono in fermento. Le montagne sono inquiete. Avverrà lontano
ma l’ombra giungerà sino a noi”
L’Afghanistan. Ma era dove si era diretto Hani, pensò Isobel.
“Il libro perduto è stato ritrovato. Dharma Mapang ha rotto il
vincolo per ritrovarlo, ma esso è stato rubato a sua nipote“
disse Rumi solennemente.
“Il libro perduto?!?”sussultò il Lama “Dunque ci siamo…”
Guardò Isobel con uno sguardo misto di tenerezza e
compassione
“La leggenda sta prendendo corso…”
Rumi scosse la testa in segno di conferma.
“Che tutto ciò sia per il meglio: sui terreni più impervi
sbocciano i fiori più belli, dalle alluvioni risorge imperterrita la
foresta, dal fuoco la vita si ridesta. Ogni male ha in sè il seme
del bene. Non ci resta che attendere…” e alzandosi si recò
presso un piccolo baule finemente intarsiato dal quale estrasse
un astuccio di ebano.
“Questo è per lei Miss Morrison” disse consegnando l’astuccio
a Isobel “Contiene alcuni brani del Lankavatara Sutra, il sutra
che copre tutti gli insegnamenti del buddismo Mahayana. Era il
sutra preferito da Dharma Mapang dopo il sutra del Loto. Lo
porti con se e che la sua lettura possa essere luce nei momenti
di oscurità.”
Isobel ringraziò il Lama con un profondo inchino.
“Ora dobbiamo andare se vogliamo essere a Lendi Eleusi
prima che il sole tramonti.” disse Rumi alzandosi.

336
“Che la pace sia il vostro sentiero” le congedò il Lama con un
profondo inchino.
Le due ragazze furono scortate da due monaci fino al cancello
del monastero; da qui percorsero a ritroso il sentiero che
portava al crinale, ridiscesero fino alla valle del fiume Po
TsangPo e ripercorsero il sentiero che doveva condurle al lago
e alla cascata. Per tutto il cammino Rumi e Isobel rimasero in
silenzio, ognuna sprofondata nei propri pensieri. Quando
furono in prossimità del lago, annunciato dal rumore delle
cascate, Rumi fece cenno a Isobel di seguirla e, abbandonato il
sentiero, si inoltrò nella foresta. Isobel la seguì, incerta sul
motivo di quella deviazione inaspettata. Dopo alcuni minuti
passati camminando nel fitto della foresta sbucarono in un
ampio prato; ripresasi dal bagliore della luce dopo l’oscurità
del bosco Isobel trasalì: la radura ovale del sogno, con il
gigantesco albero nel mezzo era innazi a lei. Guardò Rumi con
aria stupefatta.
“Questo è il luogo della tua visione. Non non so se fu un sogno
o una allucinazione, ma forse qualcuno che nel sogno era
presente potrà chiarirti alcune cose. Anrham trascorre i suoi
giorni sotto quell’albero.: vai e interrogalo, forse potrà aiutarti
a capire..” e così dicendo si voltò e fece per reinoltrarsi nel
bosco. Isobel la trattenne afferandola per una spalla.
“Grazie Rumi” le disse Isobel ”ci vediamo al monastero.”
“Addio” le rispose Rumi con una punta di tristezza e si inoltrò
decisa tra gli alberi.
Isobel si guardò intorno; tutto era come nella visione. Stupita e
un po’ inquieta si avviò verso l’albero.

337
338
CAPITOLO XLV

23 marzo 2001, Tibet

“Ti stavo aspettando” disse Anrham accovacciato sull’erba


intento ad intagliare con un piccolo coltello un grosso pezzo di
legno.
“Mi stavi aspettando? E perché mai?” chiese Isobel sorpresa e
un po’ seccata dalla irritante prevedibilità che le sue azioni
parevano avere in quei luoghi.
“A dire il vero sono due giorni che ti aspetto, da quando ho
fatto quello strano sogno in cui tu ti presentavi qui in
compagnia di T.S. Eliot, Gödel e il Mahatma Gandhi” le
rispose Anrham senza distogliere lo sguardo dal pezzo di legno
che teneva fermo tra le ginocchia.
“Ma veramente sono io che ho sognato questo posto pur non
essendoci mai stata, anche se le persone non erano quelle da te
menzionate ma altre…”rispose Isobel.
“Suppongo dipenda da quali persone dimorano maggiormente
nel nostro inconscio” disse Anrham ”Comunque questo ora non
ha importanza: casualità, causalità, coincidenze, sincronicità;
quello che conta è che ci siamo incontrati nuovamente. Cosa ti
porta in questi luoghi?”
“Un visione e un enigma” sussurrò tra se Isobel riecheggiando
Nietzsche poi, ad alta voce si corresse ”Un sogno e una
domanda” disse sedendosi di fronte ad Anrham.
“Parla, ti ascolto”disse Anrham con un lieve sorriso dipinto
sulle labbra.
Isobel vincendo la strana sensazione di aver già avuto quel
dialogo con Anrham e, soprattutto, che egli sapesse già tutto,

339
gli raccontò gli avvenimenti che si erano succeduti da quando
era giunta a Lendi Eleusi.
“E così hai posto una domanda al consiglio” disse Anrham
alzando per la prima volta gli occhi dal pezzo di legno che
stava intagliando ”E’ un grande onore e un grande onere. Il
Vincolo, si dice, non perdona.”
“Anrham” lo interruppe Isobel ”tu conosci un certo John Doe
Junior?”
Anrham fissò lo sguardo su Isobel, come se cercasse di carpirle
il significato di quella domanda, poi riprese la lenta opera di
intaglio.
“Sì, lo conoscevo. Era con me qui a Lendi Eleusi….. Era nella
stanza vicino alla mia. Diventammo amici poi, nonostante io
abbia cercato di dissuaderlo in ogni modo, volle udienza dal
consiglio e la sera stessa ruppe il Vincolo appena contratto e
scappò da Lendi Eleusi. Mi hanno detto che è morto in un
incidente aereo pochi giorni dopo.”
“Che tipo era?” insistette Isobel.
“Parecchio taciturno, un solitario, intelligente ma troppo
razionale. Non capisco come abbia potuto rivolgere una
domanda al Consiglio. Mi pare… mi pare che fosse
ossessionato da un libro, ma forse non ricordo molto bene…”
poi, alzandosi lentamente si diresse verso il tronco dell’albero
dicendo:
“Dovrei avere una sua foto qui”
Infilò una mano in una delle numerose cavità di quel tronco
che pareva millenario e ne estrasse una fotografia ingiallita.
“Me la diede il giorno in cui fuggì” disse porgendola a Isobel
“Siamo io e lui intenti a discutere nel giardino sopra la cascata.
Questa istantanea ce la scattò tua nonna Tina. Diceva sempre
che le nostre discussioni erano come lo ying e lo yang… A dire
il vero non ho mai capito cosa intendesse.”

340
Isobel guardò la fotografia. Era una di quelle istantanee a
sviluppo automatico che tanto piacevano alla nonna. Fissano
gli istanti all’istante le diceva spesso mentre bruciava rullini su
rullini fotografandola in continuazione. Osservò il volto dei
due uomini: Anrham era pressocchè identico se non fosse stato
per i capelli che erano ora parecchio più lunghi; quanto a John
Doe sembrava basso, carnagione olivastra, baffi neri curati e…
Il dottor Suzuki? Con uno scatto fu in piedi cercando di
sfuggire all’ombra della chioma dell’albero che la sovrastava
per poter osservare meglio: togliendo i baffi e un po’ di capelli
la somiglianza era inquietante.
“Lo conosce forse?” le chiese Anrham guardandola sorpreso
”Ma no, non è possibile, è morto…”
“Eppure” disse Isobel “eppure la somiglianza è incredibile.
Assomiglia in maniera impressionante al medico dell’Hotel di
Londra dove alloggiava la nonna. Aveva visitato la nonna
diverse volte per la sua angina; è stato lui a redigere il referto
di morte.”
“Come hai detto che si chiama?” chiese Anrham alzandosi con
velocità inaspettata e accostandosi a Isobel.
“Dottor Jiro Suzuki” rispose Isobel.
Anrham le prese la foto, la girò sul dorso e le indicò con il dito
alcune frasi ormai sbiadite..
“Abbi cura di te Anrham. Forse ci rivedremo. J.S.” lesse ad alta
voce Anrham.
“Non avevo mai capito cosa rappresentassero quelle iniziali:
pensavo a un qualche riferimento oscuro o a un nomignolo e
invece…”
“... si è semplicemente sbagliato e dalla fretta ha usato le sue
iniziali reali.” chiosò Isobel.
“Quindi…” stava dicendo Anrham.
“Quindi non è morto in quell’incidente aereo. Presumibilmente
ha perso l’aereo per qualche fortunato contrattempo.”

341
Questo spiegherebbe tante cose, pensò Isobel: la sua
confidenza con la nonna, le loro eterne conversazioni londinesi,
il furto del libro.
“Quindi è lui che ha preso il libro, non può essere altrimenti.”si
lasciò sfuggire Isobel.
“Libro? Quale libro?” chiese Anrham incuriosito.
“Il libro perduto di Eleusi. Non posso dirti altro, solo che il
Vincolo dipende dal libro.”
Anrham sbuffò riprendendo ad intagliare il legno con fare
pensieroso.
“Un libro? Vale la pena rovinarsi la vita per un libro?”
mormorò tra se e se; poi ad alta voce aggiunse:
“Quando le parole diventano più importanti delle persone è ora
di divenire muti e sordi. La tua vita e la tua libertà per un libro?
Che senso può mai avere tutto ciò? Riflettici Isobel.”
“La nonna ha dedicato tutta la sua vita alle parole, allo studio,
alla ricerca e proprio la nonna mi ha spinto fino qui, mi ha
raccomandato di seguire chi la ha preceduta. “
“… e ora? Ora che sai? Ora che forse hai capito? Che te ne fai
della tua sapienza, della tua consapevolezza, della tua cultura?
Io non so che senso abbia il Vincolo, ma trovo assurdo che una
ragazza così giovane si sia legata per sempre a questo posto.
Dov’è il ragazzo che era con te?”
Il tono di Anrham era perentorio e gli occhi gli brillavano di
rabbia.
“Quando il rito prevarica la persona, quando la tradizione viene
prima della vita, quando le norme piegano la vita e non si
piegano ad essa siamo in presenza di un qualcosa di
profondamente sbagliato ed è giusto ribellarsi a ciò.
Isobel, un libro non è la tua vita, sono solo una serie di parole
in fila le une alle altre, possono essere belle, importanti, anche
decisive ma non possono restare sulla carta, quelle parole
devono essere vita, devono prendere vita, devono essere vissute

342
altrimenti sono solo carta da macero. Vedi Isobel io sapevo
dell’esistenza del libro pur non avendo avuto accesso ai segreti
del consiglio, sapevo perché leggendo e vivendo certe cose si
sanno a prescindere o si imparano. Potrei anche azzardare e
dirti cosa c’è scritto in esso, ma che senso avrebbe? Che senso
avrebbe leggere di libertà da dentro una prigione? Che senso
avrebbe essere eterni e avere la giornata scandita dal tempo?
Ogni verità è circolare perchè torna a se stessa e non risponde
che a se. Ogni persona deve sporcarsi le mani, deve vivere ciò
che reputa giusto e respingere ciò che trova sbagliato; deve
vedere con i propri occhi, udire con le proprie orecchie perché
non esiste fede senza esperienza, illuminazione senza luce,
arrivo senza partenza. E quanto a tua nonna…” fece una breve
pausa come se stesse cercando le parole “… ciò che la ha
realmente spinta su questa strada è stato l’amore. Non solo la
curiosità, la voglia di capire ma l’amore e sono convinto che
prima del suo ultimo viaggio se ne sia ricordata...”
Anrham guardò verso il cielo, come per cercare le parole o
qualche conforto poi, guardandola negli occhi le chiese:
“Isobel, sei pronta ad ascoltare una lunga storia?”
Isobel fece cenno di sì con la testa. Forse finalmente capirò, si
disse.
Si sedette di fronte a Anrham. Lui prese una pipa dal tronco
dell’albero, la svuotò della cenere battendola sul palmo della
mano, poi prese un sacchetto di iuta, ne estrasse del tabacco
profumatissimo e iniziò a caricarla con movimenti lenti e
meticolosi. Poi, estratto un fiammifero, accese il tabacco e
inspirò profondamente.
“Dunque Isobel, io non so esattamente che cosa tu sappia della
vita di tua nonna, per cui proverò a fartene un breve racconto.
Alcune cose ti saranno già note, altre ti sorprenderanno. Ti
chiedo un’unica cosa: cerca di non dare giudizi affrettati e
sommari su quello che sentirai.”

343
“Ci proverò” rispose Isobel un po’ perplessa dalla premessa.
“Dopo la morte del padre, tua nonna visse gli anni della sua
infanzia e della sua adolescenza in un paesino nella campagna
francese a una quarantina di chilometri da Parigi cresciuta dalla
mamma e dai nonni materni. Lì trascorse una infanzia felice,
immersa nella natura e tra gli animali della fattoria, a stento
consapevole della guerra che stava in quel periodo
insanguinando l’Europa.
Quando fu maggiorenne si trasferì a Parigi dove frequentò la
Sorbona, laureandosi in Filosofia. In quel periodo rimase
incinta di un suo compagno di studi con cui aveva avuto una
breve storia d’amore. Il ragazzo però morì pochi giorni dopo,
stroncato da un’aneurisma mentre dormiva, senza sapere di
aspettare un figlio da tua nonna; quel ragazzo si chiamava Jean
Messenay. Tua nonna, pur distrutta dal dolore, riuscì a portare
a termine la gravidanza: e così nacque tuo padre. Tina passò un
periodo molto brutto in cui si adattò a fare i lavori più umili per
poter mantenere un alloggio per sè e per tuo padre. Intorno al
1970 prese servizio come donna delle pulizie in una casa in
Rue de Breiteuille e fece amicizia con una coppia di giovani
ospiti americani; in particolare ebbe occasione di parlare spesso
con il ragazzo il quale aveva scoperto ed era rimasto
affascinato dalla cultura di tua nonna. Anche tuo padre, allora
aveva 13 anni, si legò in pochi giorni a quel ragazzo taciturno e
umbratile ma spesso curioso e divertente. Fu in quell’occasione
che venne a conoscenza del libro. Quel ragazzo, cui non
mancava la cultura, le raccontò che ne era entrato in possesso
un anno prima ma che, prima di partire da Los Angeles per
Parigi, se ne era liberato spedendolo ad un indirizzo che gli era
stato comunicato da un personaggio imprecisato, a Toronto.
Tua nonna fu molto incuriosita dalla cosa anche se il ragazzo
non fu prodigo di particolari. Parlarono molto spesso,
generando, tra l’altro, la gelosia, del tutto immotivata

344
nonostante il fascino indubbio del ragazzo, della sua fidanzata
che giunse a fare rimuovere tua nonna dall’incarico di donna
delle pulizie di quell’appartamento. Due giorni dopo quel
ragazzo morì: il suo nome era James Douglas Morrison…”
“Jim Morrison?? La nonna ha conosciuto Jim Morrison??”
“Sì, e ne è rimasta stregata. Fu presente alla sepoltura del
cantante, insieme a tuo padre; si tennero in disparte ma
nell’occasione tua nonna giurò di trovare quel libro a tutti i
costi. Jim le aveva detto, non so quanto seriamente, che
conteneva il segreto dell’immortalità. Troppi morti avevano
attraversato la vita di Tina. Riprese gli studi, si applicò giorno e
notte finchè non ottenne un dottorato di ricerca alla Sorbona in
filosofia Orientale; scrisse alcuni libri che ebbero grande
successo e le garantirono fama e un’improvvisa ricchezza. Fu
in quel periodo che la conobbi: ci innamorammo e decidemmo
di trascorrere la nostra vita insieme.”
Isobel era stupita. Anrham era stato l’uomo di sua nonna?
Osservò il vecchio: mentre parlava di sua nonna gli occhi gli si
illuminavano e una strana espressione gli corrucciava il viso.
“Prendemmo un piccolo appartamento a Montmartre” continuò
Anrham ”vicino a Place du Tertre dove io, Tina e tuo padre
trascorremmo anni splendidi. Poi il demone prese nuovamente
Tina: ebbe non so in che modo notizie di Lendi Eleusi e
convinse me a seguirla: tuo padre, che all’epoca aveva 18 anni
restò a Parigi a studiare. Il nostro arrivo a Lendi Eleusi è una
delle cose più belle che mi sia mai capitata in vita mia:
trascorremmo una settimana in questa radura. Sì, proprio qui, ai
piedi di questo albero, parlando, mangiando quello che
trovavamo, nuotando nudi nel lago, facendo l’amore. Ci
sentivamo Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden. Eravamo
arrivati sino a qui, non sapevamo dove fosse il luogo che
stavamo cercando ma non ci importava più nulla in fondo.

345
Tutto ciò che desideravamo era la presenza e la vicinanza l’uno
dell’altra.
Fu John Doe Junior, o forse dovrei dire il dottor Suzuki a
rompere l’idillio. Ci trovò un giorno, per caso disse lui; ci
spiegò la strada e ci condusse a Lendi Eleusi. Il luogo ci
affascinò subito e ci immergemmo entrambi nelle letture e
nella ricerca. Poi, pian piano, lei si allontanò. Quel maledetto
libro ebbe il sopravvento; cominciò ad esserne ossessionata.
Imparò della possibilità di fare domande al Consiglio e del
vincolo che ne sarebbe conseguito. Io ero fermamente
contrario. La notizia del matrimonio imminente di tuo padre
con tua madre ci riunì e ci ricondusse a Parigi; nascesti tu.
L’idillio riprese, ma con una specie di ombra alle spalle. Poi,
dopo anni di gioia e di quiete, la morte dei tuoi genitori.
Ci allontanammo definitivamente. Tua nonna impazzì dal
dolore: solo tu le hai dato la forza di resistere. Mi cacciò e da
quel giorno sono tornato qui e qui sono rimasto, nel nostro
paradiso perduto, ad attenderla: non è mai più tornata, o quasi.
So che diverse volte era venuta a Lendi Eleusi per studiare e
documentarsi, poi, pochi mesi fa, il nostro ultimo incontro; era
notte, io mi ero appisolato sotto l’albero come tutte le sere. Mi
destai di soprassalto e lei era lì, davanti a me, invecchiata ma ai
miei occhi bellissima. Aveva lo sguardo triste, gli occhi pieni
di lacrime; mi disse che aveva rotto il vincolo, che aveva paura
e che avrebbe voluto che io mi occupassi di te alla sua morte.
Ci abbracciammo per la prima volta dopo 20 anni: sapevo che
non l’avrei più rivista. Quel libro mi ha dato e mi ha tolto i più
bei giorni della mia vita. Ora tu sei qui… Quella volta al lago
non ti avevo riconosciuto anche se qualcosa mi diceva che eri
tu.Non voglio che la tua vita venga distrutta da uno stupido
libro. Non voglio ma ormai è troppo tardi , tu sei vincolata a
questo luogo e questo luogo lo è a te. Se te ne andrai forse

346
morirai, se rimarrai sicuramente vivrai una vita dimezzata: ho
fallito di nuovo…”
Una lacrima scese dagli occhi di Anrham. Isobel lo guardò:
guardò quel vecchio stanco ma dal volto luminoso e lo
abbracciò. Furono minuti interminabili in cui entrambi piansero
e si dissero cose che nemmeno i loro cuori supponevano;
“N..nonno….Posso chiamarti nonno?” disse Isolbel tra le
lacrime.
“Sì Issi, sì! E perdonami se puoi.” disse Anrham
accarezzandole i capelli.
“Cosa devo fare?” chiese Isobel asciugandosi le lacrime.
“Tu cosa senti che sia giusto?” le rispose Anrham.
“Hani… mi manca tanto! Fin’ora non ho mai pensato che non
avrei potuto più rivederlo ma ora, dopo questo tuo racconto...
Ma per vederlo devo andarmene e se me ne vado rompo il
vincolo…”
“Ma Suzuki è sopravvissuto quindi con lui il vincolo non ha
funzionato. La scelta è tua Isobel: o quest’eremo di pace, di
solitudine e di contemplazione o la vita lontano da qui, con chi
ami, seguendo il tuo cuore. Paura contro desiderio: il destino di
ogni uomo, il dramma di ogni scelta. Sta a te ora; io sono
arrivato troppo tardi.”
“Ma Hani… Non saprei dove trovarlo; so solo che è andato in
Afghanistan” disse Isobel.
“Io sì: se è con il professor Barbur saranno sicuramente nei
dintorni di Bamiyan; incontrai il professore alcuni giorni fa in
riva al lago e mi parlò ripetutamente di un monastero sufi
vicino a Bamiyan, il monastero di Khvajeh Baha od-Din dove
desiderava ritornare. Se deciderai di andartene io verrò con te:
l’ho promesso a Tina.”
Isobel guardò Anrham: lo sguardo del vecchio era fiero e
risoluto: la tristezza e la malinconia di poco prima erano state

347
spazzate via e ora nei suoi occhi non vi erano più lacrime ma
fermezza e determinazione.
“Devo riflettere…” disse Isobel abbassandolo sguardo.
“Sai dove trovarmi.” disse Anrham riprendendo ad intagliare il
legno “Ma se vuoi raggiungerli occorre che tu prenda una
decisione in fretta!”
“Lo farò! Ora devo andare. Mi farò viva al più presto” e così
dicendo si alzò e si incamminò verso la foresta. Il sole stava
tramontando dietro le cime dei monti incendiando il cielo.
Isobel ammirò quel paesaggio. La mia vita è altrove, mormorò,
e si diresse verso il lago guidata dallo scroscio sempre più forte
della cascata.

348
CAPITOLO XLVI

24 marzo 2001, Tibet

La decisione era ormai presa: se ne sarebbe andata, avrebbe


violato il vincolo. Questo pensava mentre risaliva le scale e
percorreva i corridoi per rientrare nella sua stanza. Alcuni
monaci stavano incominciando ad accendere le candele negli
enormi candelabri. La vita del monastero sembrava scorrere
come sempre, immutabile, quasi immobile nel suo ripetersi
identico giorno dopo giorno. Di lì a poco sarebbe suonata la
campanella e tutti gli ospiti sarebbero scesi nel refettorio per la
cena. Poi in ordine sparso ognuno si sarebbe recato nella sua
stanza per trascorrervi la notte. Isobel non aveva fame. Si
diresse verso la sua stanza e, quando la campanella suonò,
rimase sdraiata sul letto intenta a leggere la minuta calligrafia
con cui erano scritte le parti del sutra che le avevano donato al
monastero di Pemakochung.
Poiché gli ingenui e gli ignoranti, non sapendo che il mondo è soltanto un qualcosa
visto nella mente stessa, si attaccano alla moltitudine di oggetti esterni, ed alle
nozioni di essere e non-essere, unità e diversità, dualità e non-dualità, esistenza e
non-esistenza, eternità e non-eternità, e pensano che essi possiedano un’auto-natura
di per-se-stessi, perciò tutto ciò che sorge dalle discriminazioni della mente ed è
perpetuato da energia-abitudine, e da cui essi sono determinati, è una falsa
immaginazione.

…il mondo come creazione della mente. La realtà come errore


della nostra mente. Maya, il concetto buddista di illusione: il
mondo è maya, questa stanza è maya, il sole è maya, io sono
maya, illusione… Quanto era difficile penetrare questi concetti,

349
non tanto capirli ma crederli, dargli una possibilità, prenderli
sul serio. Tutto ci parla della realtà di ciò che vediamo, di ciò
che tocchiamo eppure… eppure tradizioni millenarie ci
invitano a sollevare il velo, a smentire la nostra mente, a
rompere i sigilli che la mente pone alla percezione della realtà
ultima. Droghe, meditazione, irrompere dall’altra parte. Era
affascinata da tutto ciò, da queste strane connessioni tra
esperienze diverse ma che sembravano contenere un messaggio
di fondo univoco. Continuò a leggere:
È come un uomo che in sonno sogna di una contrada che sembra essere piena di vari
uomini, donne, elefanti, cavalli, macchine, pedoni, villaggi, città, case, palazzi,
vacche, bufali, boschi, montagne, fiumi e laghi, e che si muove in quella contrada, fin
a ché si sveglia. Finchè giace mezzo addormentato, egli ricorda la città dei suoi sogni
e rivive le sue esperienze là; cosa pensi, Mahamati, questo sognatore che sta lasciando
che la sua mente pensi alle varie irrealtà che ha visto nel suo sogno, - deve essere
considerato saggio o sciocco? Allo stesso modo, l'ignorante e l’ingenuo che sono
piacevolmente influenzati dalle visioni erronee dei filosofi, non riconoscono che le
visioni che li influenzano sono solamente idee come-sogni che hanno origine nella
mente stessa, e di conseguenza essi si fissano sulle loro nozioni di uno e molti, di
essere e non-essere. È come la tela di un pittore sulla quale gli ignoranti immaginano
di vedere le elevazioni delle montagne e le depressioni delle valli.

Stiamo sognando. Ciò che percepiamo è sogno, una realtà che


la nostra mente non riesce a disvelare e che quindi interpreta in
maniera errata. Le venne in mente una cosa scritta da Nietzsche
poco prima di sprofondare in quella che noi chiamiamo
“follia”. Andò alla scrivania, recuperò il libro e lesse…

La coscienza dell’apparenza. In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo


ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all’esistenza tutta! Ho
scoperto per me che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi
e l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a
poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni, - mi sono destato di colpo in
mezzo a questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che
devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il sonnambulo

350
deve continuare a sognare, per non piombare a terra. Che cos’è ora, per me,
“apparenza”! In verità, non l’opposto di una qualche sostanza: che cos’altro posso
asserire di una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua
apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una
X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive,
che va tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è
apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente più; che tra tutti questi sognatori
anch’io, l’“uomo della conoscenza”, danzo la mia danza; che l’uomo della
conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa
parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e
concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere
l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di
questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.

Gli stessi concetti, le stesse sensazioni, la stessa intuizione; due


culture diverse, due esperienze profondamente e
irrimediabilmente difformi che giungevano alla medesima
conclusione. La coincidenza non poteva essere tale, doveva
essere frutto di una reale esperienza, di una reale percezione, di
un reale disvelamento della realtà. Proseguì a leggere il sutra.
Essi non riconoscono che il mondo oggettivo sorge dalla mente stessa; essi non
comprendono che anche l’intero sistema-mente deriva dalla mente stessa; ma siccome
dipendono da queste manifestazioni della mente come se fossero reali, essi continuano
a discriminarle, da quei sempliciotti che sono, mantenendo con cura la dualità di
questo e di quello, di essere e non-essere, ignoranti al fatto che non c'è altro che
un'unica comune Essenza.
Al contrario, il mio insegnamento è basato sul riconoscimento che il mondo oggettivo,
come visione, è una manifestazione della mente stessa; esso insegna la cessazione
dell'ignoranza, del desiderio, dell’azione e della causazione; esso insegna la
cessazione della sofferenza che deriva dalle discriminazioni del triplice mondo.
Vi sono alcuni studiosi del Brahman che, presumendo che qualcosa esca dal nulla,
asseriscono che vi sia una sostanza delimitata da una causalità che resiste nel tempo,
e che gli elementi che costituiscono la personalità ed il suo ambiente hanno la loro
genesi e la continuazione nella causalità e che quindi dopo essere esistita, scompare.

351
Ecco di nuovo apparire l’eternità dell’essere, ecco Parmenide.
Parmenide in Tibet? L’impossibilità dell’essere di derivare dal
nulla. L’aveva letto pochi giorni prima in quel libro che le
aveva portato Rumi. Era sempre più sconcertata: troppe
coincidenze, troppi legami improbabili eppure evidenti:
La discriminazione-parola viene dalla coordinazione di cervello, torace, naso, gola,
palato, labbra, lingua e denti. Le parole non sono differenti, né non-differenti, dalla
discriminazione. Le parole sorgono dalla discriminazione come la loro causa; se le
parole fossero differenti dalla discriminazione esse non potrebbero avere la
discriminazione come loro causa; e ancora, se le parole non fossero differenti, esse non
potrebbero portare ad esprimere un significato. Quindi, le parole sono prodotte dalla
causalità, cambiano e si condizionano reciprocamente e, proprio come cose, sono
soggette a nascita e distruzione.
Parole e frasi sono prodotte dalla legge della causalità e si trovano in un reci-proco
condizionamento - esse non possono mai esprimere la Realtà Suprema. Inoltre, nella
Suprema Realtà non c’è nessuna differenziazione da discriminare e non c'è niente
che si possa affermare riguardo ad essa. La Realtà Suprema è un’elevato stato di
beatitudine, e non uno stato di discriminazione mondana, e perciò non può essere
confinata in mere asserzioni che la riguardano.

Le parole discriminano, la mente discrimina. Lo stato supremo


è aldilà delle parole, oltre la mente, oltre la ragione. E’ oltre la
nostra realtà ma la comprende trascendendola…
Ogni parola deriva da una interpretazione, ogni interpretazione
deriva da una volontà e la realtà ultima non deve essere voluta,
interpretata, descritta ma è, senza tempo, senza parole, senza
dimensione. Pensò al suo viaggio acido, al suo sogno lisergico
e ai discorsi che aveva affrontato con Einstein, Nietzsche e
Jung. Da quel giorno una strana consapevolezza mista a
serenità si era impadronita di lei; una consapevolezza che però
era affiancata da un desiderio di conoscere, di capire, di finire
ciò che aveva incominciato, di percorrere la strada fino in
fondo. Se solo avesse preso il peyote prima del consiglio dei
saggi forse avrebbe rinunciato a conoscere la storia del libro e

352
forse, come aveva detto Anrham, sarebbe giunta a
comprendera e conoscerla lo stesso. Si alzò dal letto e
incominciò a riempire lo zaino delle sue cose. La mattina
seguente sarebbe partita all’alba: ormai aveva deciso. Nulla di
ciò che poteva apprendere in quel luogo valeva la sua libertà, il
suo amore per Hani; fosse anche durata un solo giorno in più la
sua vita sarebbe stata piena. Finì di riempire lo zaino dei libri
della nonna e di quelli che le erano stati dati da Rumi, poi
decise di fare due passi. Uscì e si recò al giardino sopra la
cascata per riempirsi ancora una volta gli occhi di quel cielo
stellato senza limiti, di quelle bianche montagne all’orizzonte,
di quelle nuvole candide che incorniciavano la luna piena, di
quel lento scrosciare dell’acqua che le infondeva pace e
serenità. Si impresse nella memoria quella sensazione
ripromettendosi di non dimenticarsene mai. Si sedette sulla
panchina di pietra dove aveva incontrato il professor Barbur,
estrasse un taccuino dalla tasca e scrisse quasi di getto:

Non vi è parola che espii il peccato,


non vi è uomo che non sia stato crocefisso,
non vi è donna che non abbia pianto.
Il graffito sul muro è sete di eternità,
ma il volo libero di farfalle riporta al presente;
il mio cuore palpita di amore e gioia sepolte,
il mio braccio muore per non accusare,
il mio sguardo sbiadisce per non giudicare.
Sento il richiamo della natura,
sento l’energia dei boschi, il fluire dell’aria,
odo stormire gli arbusti, cantare gli uccelli
vedo il sole sorgere e scacciare le tenebre
e l’invidia ha il sopravvento
per quel cielo sereno e terso,
senza passato, solo presente
in un turbinio di emozioni che accendono e saziano.
Non ci andrò: il rituale del sole è sacro.

353
Il male non ha passato, il bene non ha futuro;
amo l’anarchia del tramonto e dell’alba,
dove la notte non è giorno e il giorno non è notte,
dove puoi essere tutto ciò che vuoi
perché l’unico giudice è il tuo sentire
e non proverai lacerazione a sentirti tenebre quando è luce
e astro quando tutto è cenere,
perché non vi è ragione o torto, buono o cattivo;
nulla è immutabile, nessuno è predestinato
neanche il giorno alla notte,
il fiume al mare,
il ricordo all’uomo,
il pianto alla donna.
Essere senza tempo né gregge, senza tetto né legge,
senza motivi né scuse;
portare le proprie pene non con dolore ma orgoglio
e schiacciare l’invidia sotto il macigno della speranza
e ergerla a bandiera per gli scontri futuri tra ciò che vuole morire
e ciò che si aggrappa alla vita come se fosse la sua ultima sicurezza.
Mi sento morta.
Sto vivendo!

Poi ripose il taccuino in tasca e si alzò per ritornare nella sua


stanza quando il dolce sorriso di Rumi le comparve davanti.
“Cosa fai qui da sola?” le chiese con la consueta gentilezza.
“Guardavo il panorama. Non mi stancherei mai di ammirarlo.
E’ un sollievo per gli occhi e per lo spirito.”
“…eppure vuoi abbandonarlo...” disse Rumi guardandola negli
occhi.
Isobel rimase interdetta, poi annuì abbassando il capo.
“Come ti invidio” disse Rumi sospirando.
“Tu mi invidi?” chiese Isobel stupita “Sto’ per tradire il voto
che ho rimesso nelle tue mani, sto’ per rompere il vincolo di
cui tu sei custode, sto’ firmando la mia condanna a morte e tu
mi invidi?”
354
“Sì Isobel, ti invidio. Invidio il tuo coraggio, la tua voglia di
libertà, invidio il tuo amore per Hani che vince la paura della
morte e dell’oblio, invidio i tuoi sogni perché ti parlano di
speranza e di verità. Io sono stata sepolta qui prima di
conoscere l’amore, prima di avere avuto la maturità e la
consapevolezza per scegliere. La custode del silenzio non può
più scegliere. La Custode del Silenzio è colei che presiede il
sacro vincolo, non colei che lo abiura. Eppure in cuor mio io
vorrei essere te, vorrei sentire il brivido e la paura del rischio,
la voluttà e il timore di un ultimo bacio all’uomo che amo, la
spasmodica ricerca nella realtà e non tra polveri, libri, ragnatele
di tempo obliate e estinte. Il sogno è ciò che mi fa evadere e
attraverso i sogni, i miei e quelli degli altri, mi permetto fughe
da queste mura, da questo incanto congelato e perciò irreale, da
questo esilio dorato e terrificante. Respiro questa polvere da
quando avevo otto anni, lo scrosciare dell’acqua non è più culla
per me ma rombo di terremoto, le stelle sono ormai ferite
sanguinanti nella trapunta di un cielo immobile, le montagne
sono mura di una eterna, immutabile prigione. Sono prigioniera
di un destino deciso dai miei genitori; il peso dei secoli, della
tradizione e della sapienza di questo posto mi rende immobile e
salda in una decisione che mi uccide, che mi viola, che mi
annichilisce. Il tuo arrivo qui ha smosso in me desideri ormai
sopiti da anni, desiderio di libertà, di vedere nuovi orizzonti, di
guardare con i propri occhi ciò di cui si legge, di sperimentare
sulla propria pelle la vita la fuori. Vai Isobel, dal profondo del
cuore vai! Un sapere è morto se non sa parlare al mondo, è
morto se non sa vivere nel mondo ma si chiude in se stesso
come un riccio spaventato!“ Lacrime le rigavano il volto
facendole scintillare gli occhi. Non vi era rabbia nei suoi occhi,
solo fierezza e tristezza insieme. Isobel le prese una mano e la
strinse in segno di vicinanza.

355
“Vieni con me Rumi. Lasciati alle spalle ciò che non è più
gioia ma peso. Torna alla vita, essendo ricca di questi anni di
studio ma povera di esperienza. Metti in pratica ciò che hai
imparato! Riempirsi e mai traboccare è un lento suicidio.
Bisogna discendere a valle, l’aria dei monti da alla testa! C’è
chi può aver bisogno di noi. Tu hai sicuramente bisogno di
altri. La solitudine e l’isolamento non sono la soluzione..”
In quel momento si ricordò le parole di Hani e le ripetè per
Rumi:
“Che senso hanno i libri e il sapere se vi è sofferenza, se
bambini muoiono, se la vita vale meno di nulla? Quale
consapevolezza può guarire la ferita che provoca lo sguardo
immenso di un bambino che muore per le ingiustizie, la fame,
la crudeltà del mondo? Andiamo Rumi, sporchiamoci le mani,
tocchiamo con mano la vita e strappiamole con le unghie il
velo di Maya. Tutto parte dalla nostra mente e tutto a lei ritorna
ma questo corpo, per quanto sia illusione, brama, soffre, trema
e ci sono innocenti da lenire, da curare , da salvare. Hani è
andato via per questo, io lo so e ora ho intenzione di
raggiungerlo. Non ho dimenticato il libro e se vivrò abbastanza
continuerò la sua ricerca, ma non mi sento vincolata ad esso. Io
sono la mia strada!”
Isobel guardava Rumi dritta negli occhi. La ragazza aveva
smesso di piangere e la fissava stupita. La abbracciò, ma quasi
subito si scostò da lei:
“Non posso! Troppo dipende da me” disse indietreggiando ”Il
mio compito qui non mi consente ripensamenti…”
Poi dopo aver recuperato il contegno del ruolo che ricopriva in
quel luogo le disse:
“Ero venuta a cercarti per dirti questo: ho riflettuto a lungo sul
sogno che mi hai raccontato, soprattutto sulla parte che
riguardava quell’oggetto che ti sorvolava: è sicuramente un
monito, non so se di qualcosa che avverrà o che potrebbe

356
avvenire. Se te ne andrai dovrai prestare molta attenzione a ciò
che vola, molta attenzione.”
“Aerei? Come il dottor Suzuki? Il vincolo non ha molta
fantasia” disse ironica Isobel” Spero solo che vada a me come
è andata a lui…”
“Il dottor Suzuki? E chi è il dottor Suzuki?” chiese Rumi.
Isobel raccontò brevemente quanto aveva scoperto grazie ad
Anrham riguardo John Doe Junior. Rumi ascoltò attentamente
e quando Isobel ebbe terminato il racconto disse:
“Il vincolo ha fallito? Ne sei certa?”
“Assolutamente” disse Isobel.
“I segni parlano chiaro: il libro Perduto, la rottura del vincolo,
la sopravvivenza alla rottura del vincolo. Il Grande Momento è
vicino.” Rumi alzò gli occhi alla luna che le rischiarò il viso.
“Anch’io che sono Custode del Silenzio, colei che celebra il
rito del Vincolo non ho nessuna idea di come esso funzioni,
come esso agisca; so solo che la tradizione e la mia esperienza
seppur breve mi dice che esso ha sempre funzionato: possiamo
chiamarlo caso, coincidenza, strana sincronicità ma il risultano
non cambia: chiunque abbia in passato violato il vincolo è di lì
a poco morto. La sopravvivenza del dottor Suzuki è un segno
che non può e non deve essere sottovalutato. La Custode del
Silenzio deve capire, deve saper interpretare e leggere i
segni…” poi guardando Isobel dritto negli occhi disse:
“Verrò con te Isobel se è tua intenzione continuare la ricerca
del libro.”
Isobel annuì mentre un ampio sorriso le si dipingeva sul volto.
“Domattina prima che sorga il sole ci vedremo nella radura di
Anrham. Anche lui verrà con noi” disse abbracciando Rumi.
“Sono così contenta” aggiunse.
“Goditi questo momento Isobel” disse Rumi con uno sguardo
penetrante e austero “ci aspettano momenti difficili”.

357
Le due ragazze si salutarono e si rinnovarono l’appuntamento
per la mattina seguente.
Isobel trasse un profondo respiro: la presenza di Rumi e di
Anrham le avevano infuso coraggio. Era pronta ad affrontare il
viaggio, la ricerca e qualunque sorpresa il futuro le avesse
riservato. Con tale convinzione tornò nella sua stanza e si
addormentò placidamente.

358
CAPITOLO XLVII

Dalla bozza del libro di Tina Morrison

Indizi su un diverso concetto di tempo

I Deja vù

“Sono già stato qui.! Credo che chiunque, almeno una volta nella
vita, abbia provato questa sensazione, al contempo straniante ed
esaltante. In un istante sembra fare irruzione nel nostro tempo
un tempo altro, diverso che sembra comunicarci di luoghi e
tempi diversi, già vissuti, di un passato che ritorna; è come se un
granello di sabbia inceppasse per un attimo il meccanismo del
divenire del tempo e lasciasse penetrare una diversa
consapevolezza del tempo, di noi, della realtà.
La sensazione di deja vù può riguardare luoghi, persone,
situazioni, musiche, odori, sapori; è come se il nostro io si
estendesse al di là di quello che noi percepiamo come suo limite
(il nostro corpo, la nostra mente) ed abbracciasse per un attimo
un‘altro tempo e tutti i tempi insieme, un altro luogo e tutti i
luoghi insieme. Ma in fondo, se ben ci pensiamo, possiamo dire
di aver dimenticato una cosa solo se in qualche modo la
ricordiamo e per ricordarla dobbiamo averla già vissuta. La
mente ci fa degli strani scherzi.
In fondo il riconoscersi non significa conoscere se stessi negli
altri, nella situazione, nel luogo? E questo non può significare
che noi siamo quel tempo, quel luogo, quella persona? Ecco di
nuovo ripresentarsi quella sensazione di unità, quell’afflato
universale che tanti poeti e mistici hanno descritto.
Esistono numerose ipotesi sull’origine dei Deja Vù: da quelle
neurologiche (ritardo nella trasmissione degli impulsi neurali tra i

359
due emisferi che fa si che il secondo riconosca come già visto ciò
che manda il primo), una piccola sindrome epilettica, un ricordo
di un sogno.
Come dobbiamo interpretare i dejavù? Sono davvero il frutto del
nostro inconscio o non sono forse essi il breve apparire di un
tempo diverso e altro rispetto a quello in cui noi sentiamo di
essere immersi in cui il presente e il futuro hanno un carattere di
già visto? Come se il tempo fosse tutto presente e ogni istante
accessibile quand’anche dislocato in quello che noi chiamiamo
futuro?

Sincronicità
“La sincronicità non è più enigmatica o misteriosa delle discontinuità nella
fisica. E’ solo l’inveterata convinzione dell’onnipotenza della causalità a
creare difficoltà all’intelletto e a fare apparire inconcepibile che possano
manifestarsi o esistere degli avvenimenti privi di causa. Coincidenze di
significato possono anche immaginarsi come meri fenomeni causali. Ma
quanto più esse si moltiplicano e quanto più grande ed esatta è la loro
corrispondenza, tanto più diminuisce la loro probabilità e aumenta
l’impossibilità di immaginarle, non possono cioè essere più considerate come
espressione di un ordine preformato.. La loro “inesplicabilità” non è dovuta
al fatto che la causa ne sia sconosciuta, ma che una causa del genere non è
pensabile con i nostri mezzi razionali.”
Carl Gustav Jung

Per sincronicità si intendono delle coincidenze spazio temporali


che in qualche modo esulano dal principio di causalità. A tutti
sarà capitato di pensare a una persona che non si vedeva da anni
e in quel momento squilla il telefono ed è lei; oppure si esce e la
si incontra.
Di queste coincidenze Jung durante la sua vita privata e
professionale ne sperimentò diverse e decise di analizzarle da un
punto di vista psicologico e psichiatrico. Egli ricondusse tali
“coincidenze” che non hanno evidenti nessi causali (il sognare

360
una persona non può essere visto come la causa del mio incontro
con essa…) con la sua teoria dell’esistenza di un inconscio
collettivo dal quale tutti noi attingeremmo informazioni
(soprattutto, per chi è meno consapevole durante la fase di
sogno in cui la barriera razionale dell’IO si attenua…).
Nello studio di questi fenomeni egli fu accompagnato dal fisico
quantistico Wolfgang Pauli che aveva verificato alcuni
collegamenti non locali nelle sua analisi delle particelle sub
atomiche nonché sperimentato nella vita di tutti i giorni
numerosi eventi sincronici.
In realtà il collegamento non locale tra particelle (per non località
si intendono particelle che non sono collegate tra loro né in
maniera diretta (non si trovano a contatto) ne in maniera
indiretta (non può esistere una qualche forza/energia che le
metta in comunicazione istantaneamente)) esiste ed è stato
dimostrato sperimentalmente dal fisico francese Alain Aspect nel
1982. Dal punto di vista fisico il problema stava in questi termini:
nel 1935 Einstein con altri due fisici (Rosen e Podolsky)
enunciarono quello che venne da allora chiamato il paradosso
EPR, dalle iniziali dei tre. Tale paradosso era volto a dimostrare
l’incompletezza della teoria quantistica così come elaborata dalla
interpretazione di Copenhagen (chiamata così perché elaborata
dai fisici Niels Bohr e Werner Heisenberg mentre collaboravano
tra loro a Copenhagen). Secondo tale paradosso in base alla
teoria quantistica era possibile che una misura effettuata su una
particella influenzasse istantaneamente la misura effettuata su di
un'altra particella localizzata altrove (indipendentemente dalla
distanza che le separi) e questo era in contraddizione con la
teoria della relatività ristretta che considera la velocità della luce
come la massima raggiungibile. Ora è chiaro che se l’influenza è
istantanea e indipendente dalla distanza che esiste tra le particelle
che si misurano o si suppongono collegamenti non locali tra le
particelle o si suppone che vi siano informazioni che viaggiano a
una velocità superiore a quella della luce e questo, per la relatività
ristretta, non è possibile.
Questo paradosso restò tale fino a quando il fisico irlandese John
Bell e, sperimentalmente, Alain Aspect, dimostrarono che due

361
particelle possono essere separate da una immensa quantità di
spazio e ciò nonostante avere tra di loro una correlazione,
ovvero che la misurazione dello spin (più o meno la rotazione
della particella) effettuata su di una particella “costringe” una
particella detta entagled separata spazialmente dalla prima ad
assumere lo stesso tipo di spin.
Quindi il paradosso EPR fu verificato sperimentalmente come
un non paradosso e sono quindi state provate delle influenze
non locali tra particelle.
Da tali conclusioni possono derivare una serie di ripercussioni di
carattere filosofico e psicologico…
Ciò che rende affine tale scoperta della fisica agli studi di Jung è
“semplicemente” il verificarsi di eventi sincronici che non hanno
alcun nesso causale evidente tra di loro (sia quelli sperimentati da
noi umani sia quelli verificati nell’ambito quantistico). Ma se io
posso influenzare o percepire il comportamento di un'altra
persona da me separata spazialmente o anche, più
semplicemente, se io posso in qualche modo percepire un'altra
persona o un evento non localmente allora anche il concetto di
tempo come uno scorrere dal passato al futuro a in cui gli eventi
futuri sono incerti e non verificabili deve in qualche modo essere
modificato.
Per dirla con Jung:

“Se le recentissime conclusioni delle scienze naturali si approssimano a un


concetto unitario della realta' , al quale si adattano da un lato gli aspetti di
spazio e tempo e dall'altro quelli di causalita' e sincronicita', cio' non ha
niente a che fare col materialismo. Piuttosto sembra emergere qui la
possibilita' di eliminare l'incommensurabilita' tra osservatore e osservato”

Carl Gustav Jung “Ricordi, Sogni, Riflessioni”

E ancora:

362
“..soltanto la radicata convinzione dell’onnipotenza della causalità crea
difficoltà alla comprensione e fa apparire impensabile che possano verificarsi
o esistere eventi privi di causa.... Gli eventi sincronici sono eventi in cui
spazio, tempo e causalità sono aboliti.”

363
364
CAPITOLO XLVIII

24 Aprile 2001, Bamiyan

Il viaggio fu molto lungo: una volta discesi a piedi per la valle


del Po TsangPo, i tre percorsero a ritroso i sentieri che Isobel
aveva attraversato mesi prima in compagnia di Hani e Alpang e
giunsero, dopo tre giorni di viaggio, a Kathmandù.
Di lì, dopo aver avuto i visti sui passaporti, noleggiarono una
jeep e con essa partirono alla volta del Pakistan. Dopo 5 giorni
di viaggio quasi ininterrotti varcarono i confini…
Anrham si lamentava del fatto che avrebbero potuto
risparmiare giorni di viaggio prendendo un aereo per Karachi,
per Islamabad o direttamente per Kabul, ma Rumi non aveva
voluto sentire ragioni: Isobel non avrebbe dovuto prendere
alcun aereo.
Il viaggio fu faticoso ma allietato dal buon umore e dalla
cordialità dei viandanti. Rumi, dismesse le vesti e il ruolo di
Custode del Silenzio si era rivelata un ragazza spiritosa e
gioviale oltre che molto dolce. Ogni tanto in mezzo ad una
discussione però il suo sguardo si faceva corrucciato e entrava
per alcuni minuti in un silenzio cupo e inquietante, ma dopo
poco tornava a essere allegra e loquace.
Isobel era serena anche se l’impazienza di rivedere e
riabbracciare Hani cresceva di momento in momento. Anrham
si dimostrò una persona di grande cultura e di grande buon
senso: mise in guardia le due ragazze su ciò che avrebbero
incontrato per la strada e, più ancora, dal momento del loro
ingresso in Afghanistan; parlò loro dei Talebani, gli studenti
coranici delle madrasse pakistane che avevano preso il potere
anni prima instaurando un regime che aveva come uniche leggi
365
quelle derivate direttamente dal Corano. Spiegò loro quali
erano le usanze della legge coranica e ciò che veniva richiesto
alle donne e, quando furono nei pressi del confine tra Pakistan
e Afghanistan si fermò in un bazar di un paesino vicino a
Peshawar e comprò loro due burka, una tunica che copriva le
donne dalla testa ai piedi, con una retina a velare gli occhi,
l’unico vestito che era consentito portare alle donne in
pubblico. Spiegò anche loro che in Afghanistan la situazione
era quella di una guerra perenne, che ormai durava da quasi un
secolo: prima con gli inglesi, poi con i russi ed ora si assisteva
all’ennesima guerra tra clan afghani; vi erano infatti scontri
quotidiani tra i Talebani, guidati dal Mullah Omar, che
controllavano ormai la maggior parte del paese e l’Alleanza del
Nord, capeggiata dal comandante Massud, era arroccata nel
Nord Ovest del paese. Anrham disse che il monastero dove il
professore e Hani avevano detto che si sarebbero recati era
poco distante dal fronte dei combattimenti e che quindi poteva
essere un luogo quanto mai pericoloso, ma che se gli avessero
dato ascolto non sarebbe capitato loro nulla. Con l’occasione
raccontò loro le sue esperienze di giornalista inviato di guerra
durante il Vietnam e descrisse numerose situazioni in cui aveva
rischiato la pelle ma dalle quali era miracolosamente uscito
indenne.
Poco prima del confine afgano Anrham fece indossare alle
ragazze il burka e, con quello indosso, attraversarono la
frontiera indisturbati. Il paesaggio circostante, che accompagnò
i tre in quasi tutto il loro viaggio, era costituito
prevalentemente da un immenso altipiano polveroso, scosso
spesso da venti impetuosi in cui, data l’altezza superiore ai
3500 metri, non cresceva alcuna specie di albero, solo arbusti e
cespugli. L’aspetto brullo e lunare di quei luoghi si
accompagnava a condizioni di vita che potevano ricalcare
quelle del medioevo: le case erano perlopiù di pietre e fango e

366
le condizioni di vita della popolazione sembravano ricalcare
una grande miseria. Isobel fu colpita dagli sguardi fieri e
orgogliosi delle persone che incrociava. A causa del burka
poteva osservare attentamente le persone che incrociava, senza
timore e imbarazzi (lo trovò l’unico vantaggio di quel vestito
insopportabile soprattutto perché imposto), ed ebbe subito
chiaro come in quel popolo, che pareva versare in condizioni
economiche e di vita sull’orlo della miseria, ardeva una fiamma
di orgoglio e fierezza indomita: anche nei bambini,
numerosissimi, impolverati e vestiti spesso di stracci notò la
stessa fierezza, la stessa alterigia, lo stesso portamento
orgoglioso e virile che vedeva negli uomini che incrociava: una
fierezza che esulava dalle condizioni contingenti e che pareva
in qualche modo innata.
Una volta attraversato il confine si diressero verso la capitale
Kabul che raggiunsero dopo 4 giorni di viaggio. Da lì, dopo
una sosta di un giorno per un guasto alla jeep prontamente
riparato da un meccanico di biciclette, ripartirono alla volta di
Bamiyan.
Durante il breve soggiorno nella capitale afgana ebbero modo
di rendersi conto di persona della brutalità e della severità del
regime talebano: su di un viale cittadino erano stati impiccati ai
lampioni alcuni guerriglieri dell’Alleanza del Nord, i loro corpi
lasciati a marcire al sole come monito e spauracchio.
Assistettero anche, loro malgrado, alla lapidazione in mezzo
alla strada di una donna presunta adultera e furono più volte
invitati con modi bruschi a raccogliere pietre da terra e a
partecipare attivamente all’esecuzione; Anrham riuscì a
defilarsi e a sottrarre a quel barbaro invito le due ragazze.
Isobel osservò con raccapriccio lo sguardo supplicante di
quella donna che, terrorizzata, la guardava disperata urlando la
sua richiesta di aiuto in una lingua per lei incomprensibile.
Isobel sognò quello sguardo e quel grido per diverse notti. La

367
loro uscita da Kabul fu accolta da tutti e tre con un sospiro di
sollievo, tanto che Anrham disse alle ragazze che potevano
togliersi il burka, cosa che fecero con particolare sollievo ma,
man mano che si avvicinavano al fronte dei combattimenti e
quindi alla loro meta, scene di distruzione, morte, dolore
incominciarono a costellare il loro percorso.
In un bazar di un paesino lungo la strada una donna descrisse
loro le torture che le erano state inflitte da alcuni guerriglieri
dell’Alleanza del Nord durante un’interrogatorio e di come due
dei suoi tre figli non fossero più tornati a casa dopo essere stati
fatti prigionieri; ella descrisse anche alcune cose a proposito di
bambini ma Anrham si rifiutò di tradurre quella parte di
conversazione. Giunsero infine a Bamiyan, in quel momento
sotto il dominio talebano. Rumi aveva parlato di quel luogo per
tutto il viaggio descrivendo loro le meraviglie di Bamiyan, i
monasteri buddisti scavati nella roccia e, soprattutto, i due
Buddha giganti, famosi in tutto il mondo, anch’essi scavati
nella roccia secoli prima. Nonostante gli echi della guerra era
emozionatissima all’idea di ammirare quelle leggendarie
sculture ma, una volta arrivati sul luogo appresero, con stupore
e raccapriccio, che i Buddha erano stati demoliti in quanto idoli
contrari alla fede mussulmana. L’abbattimento era avvenuto
pochi giorni prima. Rumi rimase sconvolta.
“Quando si distruggono i simboli,” disse sconsolata ”quando la
violenza colpisce anche un simbolo di pace come il Buddha,
come Gandhi, come il sacro suolo del Tibet qualcosa di
profondamente sbagliato, ingiusto e crudele sta attraversando il
mondo.”
Anrham chiese del monastero di Khvajeh Baha od-Din e, non
appena avute le necessarie informazioni, vi si diresse a gran
velocità. Chi gli aveva dato l’informazione gli aveva infatti
detto che giorni prima vi era stata una feroce battaglia proprio

368
nei pressi del monastero e che in essa alcune persone erano
morte e una decina erano state ferite.
Arrivarono innanzi al monastero, del quale si vedeva solo
l’apertura di entrata in una parete di basalto alta non più di sette
metri.
Scesero dalla Jeep e si diressero verso l’ingresso: una lenta
nenia proveniva dall’interno. Anrham durante il viaggio aveva
spiegato loro come il monastero di Khvajeh Baha od-Din era
stato in passato un monastero buddista ma che, intorno al 1200
era stato confiscato alla confraternita buddista e consegnato
alla setta islamica esoterica dei sufi. Isobel aveva letto qualcosa
riguardo i sufi nei libri della nonna ma non conosceva quasi
nulla del loro culto, della loro tradizione e della dottrina che
veniva professata da questi mistici mussulmani.
Quando arrivarono nei pressi dell’entrata incrociarono un
uomo e una donna che, in lacrime, uscivano reggendosi l’uno
con l’altro dal monastero. Anrham chiese loro cosa fosse
successo e la donna rispose, tra le lacrime e i singhiozzi, che
stavano celebrando il rito funebre di tre bambini del luogo, uno
dei quali era loro figlio, che erano stati uccisi dallo scoppio di
una granata durante la battaglia del giorno prima.
Anrham, Rumi e Isobel, sebbene riluttanti, entrarono.
Si ritrovarono in una grande navata, suddivisa da tre colonnati;
su di una specie di rialzo un uomo anziano vestito di una tunica
verde stava parlando a un gruppetto di persone dinnanzi a tre
lenzuoli bianchi che avvolgevano i corpi dei bambini. Si
avvicinarono con discrezione e Anrham iniziò a tradurre
quanto l’anziano vestito di verde stava dicendo.
“… Perché si vuole sempre misurare tutto? Perché la vita la si
misura in anni e non in felicità? Perché il tempo deve essere
l’unico giudice della vita? Chi ci da il diritto di sapere cosa è
presto e cosa è tardi? Ogni vita è unica proprio perché non è
incasellabile e non è nel tempo. Il tempo uccide perché crea

369
termini di paragone che in realtà non esistono. Undici anni di
vita sono tanti o pochi? Di solito si pensa che siano pochi..
Rispetto a cosa? A cento anni? Ma vissuti come? Tutti a
misurare il quanto e nessuno a misurare il come. Le vite non
vissute delle persone morte presto ci sembrano piene di
possibilità non colte, di gioie non vissute ma non possiamo
saperlo: magari da quel momento sarebbero state un continuo
dolore. Tutto ciò che abbiamo è adesso, la gioia di adesso, il
dolore di adesso; il tempo non guarisce mai perché è il tempo
la malattia. Pensiamo ai sorrisi ricevuti non a quelli spenti,
pensiamo a occhi sorridenti non a occhi velati dall’oblio della
morte, pensiamo a corse spensierate nei campi e non alla fissità
di un corpo inerte. Tutta la gioia, le pene e il dolore di questo
momento è ciò che realmente è ed esiste e per cui vale la pena
esserci: ieri non c’è, domani neppure. Un anno o dieci o cento
saranno in questo modo uguali perché l’intensità dei sentimenti
non ha tempo!
Ci fa male l’assenza? Sì, per noi la morte è assenza, è
l’Assenza con la A maiuscola. Ma quante assenze, quante
piccole morti in una giornata sola. Quante volte nostro figlio
muore, quando usciamo per andare al lavoro nei campi fino al
nostro rientro in casa.. E’ la certezza della presenza ciò che ci
consola? La certezza di ritrovarlo, di rivederlo al nostro rientro
dal lavoro che ci rende possibile uscire di casa? E chi ci
assicura che quando torneremo ci sarà? Che non sarà venuto il
suo momento? Quanti “se avessi saputo”, “se avessi
pensato…” abbiamo sentito dire? Tanti, troppi e purtroppo, un
giorno, lo diremo anche noi. Ma noi sappiamo: sappiamo ma
non vogliamo sapere. Facciamo finta di nulla fino a che non
siamo sfiorati da ciò che fino a un attimo prima ci siamo
rifiutati di prendere in considerazione: viviamo una vita
assurda che non potrà portare altro che rimpianti.

370
Per chi si piange quando una persona muore? Per noi e solo per
noi, perché riconduciamo tutto a noi. Noi crediamo di piangere
per il dolore altrui ma è una ipocrisia. Noi piangiamo per
immedesimazione, noi piangiamo sempre e solo per noi, perché
quel bimbo poteva essere mio figlio, perché io potrei essere suo
padre: trasferiamo le nostre relazioni e le nostre emozioni ma il
nostro pianto è la paura e la sensazione di poter essere “nei loro
panni”. Ma forse e dico forse se fossimo nei panni di chi non
c’è più rideremmo di tutto questo dolore perché forse le sue
unità di misura (del dolore, del tempo, dell’amore, dei
sentimenti) sono finalmente morte e egli è, senza tempo e
senza legame alcuno….”
Isobel fu sorpresa dalla mancanza di rifermenti religiosi e
coranici in questa commemorazione funebre ma soprattutto per
la durezza di quelle parole che non potevano certo suonare
consolatorie. L’anziano, finito di parlare, abbracciò le persone
che piangevano innazi ai tre lenzuoli immacolati. Poi,
lentamente, si diresse verso il fondo della navata. Il piccolo
gruppetto che si era radunato iniziò a uscire, seguendo i corpi
dei bambini portati a spalla da quattro uomini. Isobel, Rumi e
Anrham assistettero a quella straziante processione con il cuore
gonfio di commozione. Ad un certo punto a Isobel parve di
scorgere, tra le persone che seguivano i tre bambini nel loro
ultimo viaggio, un volto conosciuto. Uno degli uomini che
stava trasportando un bambino sembrava… Sì era Hani! Si era
fatto crescere la barba e aveva in testa un turbante nero ma era
lui. Lo osservò emozionata: aveva gli occhi pieni di lacrime.
Isobel indicò il ragazzo a Rumi e ad Anrham e iniziarono a
seguire la processione tenendosi comunque in disparte.
Il corteo uscì dal monastero e si diresse verso una collinetta
sabbiosa. Lì calarono i tre piccoli corpi in tre profonde fosse e,
tra le grida di dolore delle madri straziate, le ricoprirono di
terra.

371
Poi il gruppo di persone si disperse e ognuno si avviò a
riprendere la vita di tutti i giorni. Isobel, che non aveva perso
per un momento Hani di vista, gli si fece vicino e lo strattonò
per la pesante tunica grigia che aveva indosso. Hani si girò e,
non appena riconobbe Isobel le si gettò al collo abbracciandola
e baciandola.
“Issi! Tu qui? Come sono felice..” disse stringendola a se con
quanta forza aveva.
Isobel lo baciò appassionatamente e in quel bacio sentì
confermarsi ogni ragione che l’aveva spinta a quel viaggio, alla
rottura del vincolo. Una sensazione di euforia, di serenità e di
pace le colmò il cuore. Dopo lunghissimi minuti si staccò da lui
e gli mostrò i suoi due compagni di viaggio..
“Anche voi qui?“ disse Hani stupefatto “Anrham e ….. Rumi?!
Cosa fa qui la Custode del Silenzio? Anche tu hai rotto il
vincolo?” disse mentre una nube passava sulla sua fronte
ricordandosi per la prima volta che la presenza di Isobel
significava che anche lei aveva rotto il vincolo ed era quindi in
pericolo.
Rumi non rispose, limitandosi a un sorriso di circostanza e a un
cenno di saluto.
“Venite con me: al professor Barbur farà piacere rivedervi.
Deve essere nello scrittorium come al solito” e abbracciando
Isobel li condusse all’interno del monastero.

372
CAPITOLO XLIX

24 Aprile 2001, Bamiyan

I quattro ripercorsero il tragitto fino alla grande sala dove si era


svolta la cerimonia funebre, attraversarono il colonnato e
uscirono per la porta da dove era uscito il vecchio al termine
del rito. Da lì un corridoio lungo e stretto, illuminato da alcune
torce appese alle pareti li condusse, sorpassata una porta, in un
chiostro che si apriva magicamente all’interno della roccia
stessa: il chiostro aveva una fontana zampillante al centro ed
era racchiuso da uno splendidio colonnato ricavato
direttamente nel basalto. Isobel rimase affascinata da
quell’ambiente suggestivo e insolito e dalla sorpresa di trovare
uno splendido quanto rigoglioso giardino all’interno di quel
monastero scavato nella roccia. Hani percorse quasi tutto il
colonnato, si fermò innanzi a una porta ed entrò, seguito da
Isobel, Anrham e Rumi. Si ritrovarono all’interno di una specie
di biblioteca, nemmeno paragonabile nelle dimensioni a quella
di Lendi Eleusi, ma ordinata e pulita: sembrava essere deserta.
Isobel si guardò intorno cercando il professor Barbur.
Hani lo chiamò.
“Professore! Ci sono visite!”.
Il richiamo rimbombò tra le pareti. Silenzio. Poi la secca e
barbuta figura del professor Barbur si fece avanti tra gli
scaffali, l’andatura strascicata, due libri in mano. Non appena
vide Isobel le si fece innanzi e baciandola sulla fronte le disse:
“Ci si rivede figliola. Sapevo che ci saremmo incontrati ancora,
nonostante i pochi giorni che rimangono a questo povero
corpo...” poi, prendendola per mano le disse:

373
“Vieni con me ho una cosa da mostrarti…”.
“Isobel è molto stanca” la trattenne Anrham mostrando una
certa irritazione ”il viaggio è stato lungo e faticoso. E
comunque credo che Isobel abbia bisogno di parlare prima con
Hani, poi con chiunque altro” disse sottolinenando la parola
chiunque.
“Anrham ha ragione.” aggiunse Rumi.
“Sì, ha ragione” sentenziò Hani “Era tanto l’entusiasmo del
vostro arrivo che volevo condividerlo con il professore,
dimenticando che voi avete migliaia di chilometri sulle spalle e
sarete molto stanchi. Venite cone me, al villaggio vi sono
diverse capanne vuote, abbandonate da quando il fronte si è
avvicinato a meno di dieci chilometri da qui; conosco i
proprietari, potete alloggiarvi fino al loro ritorno.”
“Hanno ragione Isobel.” ammise il professore. “Domattina
avremo modo di parlare a mente più fresca. Buon riposo.” E
con un cenno di saluto si inoltrò nuovamente tra gli scaffali.
Il piccolo gruppettò uscì dal monastero per la medesima strada
di prima e, dopo una decina di minuti di strada con la jeep,
arrivarono al villaggio. Qui Hani mostrò a Anrham e Rumi due
capanne in erba e fango, con un tetto di frasche e legno dove
avrebbero potuto risiedere sino al ritorno dei proprietari.
Ignorando lo sguardo interrogativo e perplesso di Rumi si
congedò da loro e, con Isobel per mano, la condusse alla
capanna che gli aveva fatto da casa fin dal suo arrivo in quel
luogo.
Finalmente soli i due ragazzi si abbracciarono e si baciarono
per uccidere definitivamente la lontananza che quel distacco
aveva posto tra loro. Ritrovata la confidenza nei reciproci
sguardi, labbra, mani, visi, corpi si stesero sul letto e si
raccontarono gli avvenimenti occorsi dopo la loro separazione.
Hani raccontò a Isobel le ragioni di quella partenza improvvisa:
disse che non era sua intenzione partire senza salutarla ma che

374
era stato il professor Barbur a insistere sulla necessità di una
partenza immediata: si era ricordato una cosa importantissima
che doveva verificare di persona e doveva recarsi il più in fretta
possibile in quel monastero. Il professore in quell’occasione gli
era sembrato spaventato e eccitato allo stesso tempo. Hani
aveva deciso di accompagnarlo perché, essendo quel monastero
sul fronte della guerra civile afgana, gli avrebbe consentito di
provare a mettere in pratica nella maniera più vera e difficile il
suo desiderio di aiutare bambini e civili vittime di quella lunga
ed estenuante guerra.
“Tu non hai idea di cosa hanno visto i miei occhi in questi
pochi giorni” le disse con uno sguardo pieno di rabbia “Questo
è il terzo funerale di bambini a cui assisto da quando sono qui,
ovvero venticinque giorni… Ieri a quest’ora stavo giocando a
nascondino con due di loro…”
Hani strinse i pugni per la rabbia. Isobel gli prese le mani:
tremavano.
Le raccontò che aveva incominciato a lavorare come aiuto
infermiere in un ospedale da campo di un’organizzazione
umanitaria in un paese a pochi chilometri da Bamiyan e che
non aveva parole per descrivere l’orrore a cui assisteva
quotidianamente.
“Ciò che mi da la forza di continuare” disse “sono i loro occhi.
Quegli sguardi in cui, dietro all’incredulità e al terrore vi è,
inspiegabilmente, lo spazio per lampi di gratitudine e di
ringraziamento; mentre le carni martoriate gridano la loro sete
di vendetta queste persone, soprattutto i bambini, con i loro
occhi, i loro sguardi smarriti in cerca dei tuoi, in cerca di una
mano, di un sorriso, di un conforto ti danno la forza, sì sono
loro che incredibilmente la danno a te, di esserci, per loro, per
essere forse l’ultimo viso che vedranno in questo mondo ma
per far sì che esso non sia un viso carico di odio, che non siano
occhi ciechi al dolore e alla sofferenza quelli che verseranno

375
lacrime per loro e che serberanno come reliquia il ricordo del
loro ultimo respiro. Credimi, uno solo dei loro sguardi vale
mille libri di poesie e mille teorie filosofiche: i loro sguardi
immensi riempiono il mondo del suo significato e della sua
assurdità: i bambini non possono morire così!”
Isobel guardò il viso di Hani rigato dalle lacrime e non potè
fare a meno di pensare a quanto lo amava.
“E del professor Barbur che mi dici?” chiese Isobel cercando di
allontanare il pensiero di Hani dal dolore che gli attraversava il
cuore.
“Cosa vuoi che ti dica: se ne sta rinchiuso tutto il giorno in quel
monastero, nella biblioteca o nel chiostro, a leggere e a cercare;
non fa altro. Da quando se ne è andato da Lendi Eleusi mi è
sembrato strano, agitato, inquieto…”
“Forse ha scoperto qualcosa sul libro.” rispose Isobel.
“Domani glielo chiederai di persona.. Ora basta libri,
professori, orrori. Ora siamo tu ed io, finalmente!” disse Hani
abbracciandola e rotolandosi con lei sul letto.
Tutto il resto non ebbe più bisogno di parole...

376
CAPITOLO L

25 Aprile 2001, Bamiyan

A Isobel parve di aver già vissuto quella scena: era in ritardo


all’appuntamento con il professor Barbur al chiostro. Entrò
quasi correndo nel monastero e in pochissimo tempo fu nel
chiostro. Il professore la stava attendendo presso la fontana al
centro del giardino. Si strinsero la mano in un modo che
aveva ben poco di formale e che comunicò ad entrambi la gioia
di quell’incontro.
“Come ti ho detto ieri” disse il professore con un sorriso ”sono
proprio contento di vederti Isobel”.
E si fece raccontare tutto ciò che era successo al monastero
dopo la sua partenza. Nell’apprendere del dottor Suzuki, un
sorriso amaro gli si dipinse sul viso.
“Non mi è mai piaciuto quel tizio” disse a denti stretti.
“E lei, perché se ne è andato così all’improvviso?” chiese
Isobel una volta terminato il racconto.
“A Lendi Eleusi ho scoperto uno scritto che elencava il
cammino che i fondatori del monastero avevano effettuato
dalla Grecia all’Himalaya. In questa descrizione era citato più
volte questo luogo, in cui già in passato avevo trascorso alcuni
giorni sulla via che mi conduceva in India. Qui, secondo quello
scritto, i pellegrini sostarono oltre un anno e lasciarono come
ringraziamento alle popolazioni locali che li avevano ospitati
libri e sapienza. Di questo luogo e dei buddha giganti parlava
spesso anche tua nonna. Ho quindi deciso di tornare qui e di
continuare in questi luoghi la mia ricerca. Quando Hani mi ha
detto che era sua intenzione venire qui in Afghanistan ho capito
che era una coincidenza da non lasciarsi sfuggire e così siamo

377
immediatamente partiti. E, devo dire, questa mia decisione non
è stata vana.”
“In che senso?” chiese Isobel.
“Nel senso che ho avuto modo di avvicinarmi alla ritualità e
alla filosofia sufi, che prima non conoscevo, e scoprire anche in
essa sorprendenti collegamenti e analogie con esperienze fatte
in altri ambiti e altre religioni.
Il sufismo costituisce la parte mistica ed esoterica dell’Islam.
I suoi insegnamenti sono simili a quelli del Tao e di altre
discipline orientali: l’adepto percorre un sentiero iniziatico
(tariqah) che, attraverso l’estinzione dell’io (el-fana), ricerca la
identificazione con l’Uno (Allah) e la perdita di ogni
molteplicità. Una metafora che viene spesso usata nel sufismo
è quella della scorza e del nocciolo. La scorza è la legge
esteriore (shariah) quella che a tutti si rivolge e che di tutti
chiede l’obbedienza, il nocciolo è invece la verità essenziale
(haquiqah) alla quale si giunge solo attraverso il sentiero stretto
(la tariqah appunto) che porta dalla scorza al nocciolo, sentiero
che solo l’iniziato può trovare e seguire. Ogni uomo si trova
nel molteplice e da lì deve partire aggirando gli ostacoli che lo
trattengono dal percorrere il sentiero; come la buccia impedisce
di vedere la vera e gustosa sostanza del frutto così le apparenze
molteplici impediscono di scorgere la realtà ultima; occorre
penetrare la scorza, vedere oltre le apparenze, scorgere la realtà
ultima nelle manifestazioni effimere, scoprire l’Uno nel molto
fino a giungere, alla fine del sentiero, alla stazione divina (el-
maqam el ilahi) dove ogni punto di vista è unificato, dove gli
opposti si compenetrano, ove tutto si risolve nell’equilibrio
perfetto dell’unità. Egli diventa l’uomo universale (el-Insan el-
Kamil). Non trovi Isobel assonanze con concetti buddisti e
indù, oltre che una certa somiglianza con certe esperienze
descritte da mistici cristiani e pervenute sino a noi? Cosa fa
nascere in posti lontani, in culture spesso antitetiche o

378
comunque differenti una identica visione della realtà, un
identico modo di penetrarla e smascherarla, una simile ricerca
dell’unione mistica di ogni uomo? Sono interrogativi
importanti che seguitano a crescere nella loro importanza man
mano che guerre e odio si diffondono sul pianeta. Qualcosa
unisce realtà diverse, un filo è sotteso a ogni esperienza che
cerchi di trascendere la ordinaria interpretazione della realtà,
sia che si tratti di un’esperienza psichedelica, un percorso
iniziatico, lo sprofondare nella follia, il candore dell’infanzia,
la semplicità e l’ascetismo religioso. Tutte queste esperienze
finiscono in un territorio comune ove lo spazio e il tempo
perdono il loro significato ordinario, ove le leggi fisiche si
compenetrano, ove ogni dualismo e distinzione viene meno,
ove ogni io cede il posto alla comunione mistica con l’eterno:
Eleusi, Tibet, Sufismo, Sciamanesimo sudamericano,
Induismo, mistica cristiana; tutte queste tradizioni ci
comunicano una realtà diversa da quella che noi percepiamo.
Anche l’Islam, all’apparenza così dogmatico, ha in se il
sentiero che conduce all’esperienza mistica individuale. Questi
aspetti dell’Islam mi erano totalmente sconosciuti e sono stati
per me una grande sorpresa…”
“La nonna mi ha lasciato alcui libri che parlano del sufismo…”
disse Isobel.
“Tua nonna sapeva più di quanto non facesse trapelare…”
disse il professor Barbur sorridendo “Ma il sufismo non è
l’unico motivo per cui era per me importante lasciare Lendi
Eleusi.” E così dicendo porse a Isobel un libro che teneva nella
tasca posteriore dei pantaloni.
“Questo è un libro di David Bohm, un fisico, mio collega a
Princeton. E’ un libro che offre una lettura inedita e
rivoluzionaria alle ultime scoperte della fisica, una lettura che
va nella stessa direzione che riti, religioni, esperienze ci
indicano da millenni. All’epoca in cui eravamo colleghi mi

379
diede in anteprima questo suo libro che io lessi a Princeton;
rigettai immediantamente le sue teorie come fumisterie eretiche
e misticheggianti, preso com’ero dalla solidità e dalla
ortodossia della Fisica. Anni dopo, quando decisi di portare un
definitivo cambiamento alla mia vita e partii alla volta
dell’India, non so per quale motivo mi portai dietro questo
libro che poi lasciai nella biblioteca di questo monastero. I
discorsi che io e te abbiamo fatto a Lendi Eleusi mi hanno
riportato alla mente questa teoria di David e ho pensato che
fosse giunto il momento di rileggerlo con occhi e mente
diversa. Ho avuto ragione ora almeno quanto ebbi torto allora:
come ho potuto all’epoca non accorgermi di quanta ragione
potesse avere David e con quanta supponenza lo stavo allora
giudicando. Se potessi tornare indietro…”
“Ma qual è la teoria di Bohm?” chiese Isobel impaziente.
“Per fartela breve secondo David esiste nell'universo un ordine
implicito che non vediamo e uno esplicito che è ciò che
realmente vediamo e percepiamo; quest'ultimo è il risultato
dell'interpretazione che il nostro cervello ci offre delle onde di
interferenza che compongono l'universo. Dopo l'esperimento di
Aspect e colleghi degli anni '80, quello di cui ti avevo parlato e
che rivelò una comunicazione istantanea fra fotoni a distanze
infinitamente grandi, Bohm ipotizzò che non vi fosse alcuna
propagazione di segnale a velocità superiori a quelle della luce.
Il legame tra fotoni nati da una stessa particella è dovuto
all'esistenza di un pre-spazio, una matrice aldilà dello spazio-
tempo, priva di distanze ed energia, nella quale ogni cosa
(particella) è tutte le altre e non esiste tra loro alcuna
differenza. Bohm disse che in quella dimensione "Tutto è
Uno". Un legame di causa-effetto che si manifesta nelle quattro
dimensioni dello spazio-tempo fra il fotone A e il fotone B
quando sono vicini, creerebbe un legame (permanente perché
non vi è tempo) fra le stesse particelle nella dimensione del

380
pre-spazio, che è la premessa di altre variazioni di proprietà dei
fotoni quando questi vengono a trovarsi a distanze
infinitamente grandi di spazio e di tempo. Questo vuol dire che
così come un ologramma è il risultato di onde di interferenza
che il nostro cervello interpreta come immagine
tridimensionale, l'universo non sarebbe altro che
l'interpretazione che il nostro cervello ci comunica delle onde
luminose. L'immagine dell'universo è quello di un universo
pieno di luce, nel quale il pieno prevale sul vuoto, e la luce è
più del buio, e lo spazio vuoto è una quantità minima che
definisce la tridimensionalità e la distanza degli oggetti. Si
tratta di un universo pieno di luce, senza massa e quindi di luce
intesa secondo la teoria ondulatoria, e non corpuscolare: un
universo pieno di fasci di onde luminose che viaggiano in linea
retta all'infinito. Fuori di noi non esisterebbero persone e cose
come le sentiamo, vediamo, tocchiamo, ma un insieme di onde.
Nei cinque sensi del corpo umano entrerebbero fasci di onde
che, rielaborate dal cervello, ci appaiono come il mondo
sensibile. Anche il corpo umano sarebbe una rielaborazione
nostra come le altre percezioni sensibili. In questo insieme di
onde, la coscienza riesce a discriminare ciò che è dentro e fuori
di noi, a distinguere un corpo che è parte di lei da un mondo
sensibile esterno. La coscienza è un onda che vibra ad una
propria frequenza caratteristica, mentre la massa non esiste e
sarebbe solo il fenomeno di una serie di onde reinterpretate
dalla coscienza. In sostanza la realtà, secondo Bohm, non
sarebbe altro che l'ologramma di "oggetti" concreti posti in altri
luoghi e tempi. Capisci perché all’epoca rigettai questa teoria
come eretica? Andava contro ogni esperienza e ogni percezione
dell’esistenza… “
“Quindi ancora una volta la luce è la chiave di tutto” interruppe
Isobel “La luce, che per la relatività è eterna, per Bohm è colei
che disegna la realtà che percepiamo..”

381
“Secondo Bohm è così, per quanto sia arduo da credere; sul
concetto di ologrammaticità della realtà vi è anche una
indagine del neurofisiologo Karl Pribram che, cercando di
scoprire la localizzazione dei ricordi nel nostro cervello arrivò
a dedurre che essi non fossero localizzati in una parte specifica
ma distribuiti in modo che ogni neurone abbia in potenza la
capacità di attingere alla totalità dei ricordi; come in un
ologramma in cui ogni parte contiene le informazioni del tutto,
così il nostro cervello conserva i ricordi non nei neuroni ma
attraverso uno schema di impulsi nervosi che prescindono da
una localizzazione precisa delle informazioni: questo
spiegerebbe anche come il nostro cervello sia in grado di
conservare una così grande quantità di informazioni (si parla di
circa dieci miliardi di informazioni durante una vita media) in
uno spazio così limitato. Ma mentre la teoria di Pribram ha
avuto un qualche ritorno in ambito scientifico, la teoria di
Bohm è stata subito rigettata, come stupidamente e
grossolanamente feci io all’epoca…”
“Eppure..” disse timidamente Isobel ”… eppure ancora una
volta questa teoria si sposa perfettamente con la tradizione e gli
insegnamenti del buddismo, del sufismo. Tutto è Maya,
illusione. L’ordine esplicito sarebbe illusione e interpretazione
della nostra mente. Capisco perché non ha voluto ascoltare
allora: pensare che lei non è reale ma è solo una interpretazione
della mia mente è assai disturbante…”
“Eppure è ciò che tradizioni millenarie ci ripetono nei secoli,
incessantemente.” disse il professore ”Non può essere una
coincidenza, non possono essere similitudini astratte. Se solo
avessi più tempo, se solo non fossi stato così ottuso e meschino
quando David mi mostrò questo suo lavoro forse insieme
saremmo potuti pervenire ad una formulazione matematica del
pre spazio, ma ora… E’ troppo tardi e probabilmente il vincolo
reclamerà il suo tributo…”

382
Un’ombra scura attraversò la mente di Isobel. Da un po’ di
giorni non pensva più al Vincolo e quell’accenno le provocò un
brivido nella schiena.
“Siamo tutti appesi a un filo, vincolo o non vincolo.” disse
Isobel. “Posso tenere questo libro? Vorrei leggerlo se è
possibile.”
“Certamente.” rispose il professore. “Ora si è fatto tardi e ho
bisogno di parlare con il maestro.”
“Parla del vecchio che ho visto alla cerimonia funebre?”
“Sì, è il maestro di queso monastero. Una persona saggia. E’ un
piacere conversare con lui.”
“Posso unirmi alla conversazione?” chiese Isobel con fare
impertinente.
“Non credo vi siano problemi. Seguimi, mi sta aspettando nella
sua stanza.” E così dicendo si avviò verso il colonnato.
“Un attimo.” disse Isobel riflettendo ”Ma in che lingua si
esprime il maestro?” chiese preoccupata.
“Conosce perfettamente la nostra lingua.” rispose il professore
da sotto il portico. Lo percorsero entrambi fino a una porticina
di legno scavata nella roccia dove il professore si arrestò.
Senza che lui avesse bussato la porta si aprì e comparvero il
sorriso e la barba del vecchio maestro.

383
384
CAPITOLO LI

25 Aprile 2001, Bamiyan

“Che la grazia divina vi guidi” disse l’anziano in un perfetto


inglese non appena il professore e Isobel varcarono la soglia.
“Il mio nome è Omar ben Sheik.” disse rivolgendo uno sguardo
cortese a Isobel.
Isobel salutò con un inchino, poi si guardò intorno: la stanza
era più o meno delle dimensioni di quella della nonna a Eleusi,
fatto salvo per la mancanza della finestra; l’ambiente era nella
semioscurità, rischiarato unicamente da due candele che
bruciavano sul tavolo di legno posto su di un lato. La luce
tremolante delle candele donava alle pareti una colorazione
arancione che rendeva la stanza calda ed accogliente. Isobel e
Barbur entrarono e si sedettero su due sedie mezzo sgangherate
poste intorno al tavolo.
“Professor Barbur, vedo che siete stato raggiunto da una
giovane allieva.” ruppe il silenzio il vecchio sedendosi di fronte
a loro.
“Non allieva ma compagna di ricerche. Le presento Isobel
Morrison, nipote di Tina Morrison di cui vi avevo parlato la
volta precedente.”
“Dharma Mapang?” concluse Omar utilizzando il medesimo
nome con cui la nonna era stata chiamata nel monastero di
Pemakochung. “Sta percorrendo le orme della nonna?”
“Sì. In pochi mesi ha fatto passi che a me hanno richiesto
anni.”
“…quando l’allievo è pronto il maestro appare.” chiosò il
vecchio.
“Mi dica Miss Morrison, qual’è il motivo della sua presenza in
questi luoghi?”
385
“Vorrei approfondire la conoscenza delle vostre tradizioni e le
origini del culto di questo luogo. Spero che voi vogliate
aiutarmi.” disse Isobel impaziente.
“Le nostre tradizioni? E’ un argomento complesso, come
complessi e molteplici sono i sentieri che l’uomo percorre; ma
nessuna mappa descrive il territorio così come nessuna parola
potrà mai svelare completamente l’esperienza.” Così dicendo il
vecchio si accostò al tavolo e si sedette di fronte a Isobel e al
professore, poi, guardando la ragazza negli occhi, riprese:
“Questo luogo racchiude in se molte vie ed è anch’esso una
delle molteplici vie. Questo in origine era un monastero
buddista come dimostravano i grandi Buddha che la follia
dell’uomo ha da poco distrutto; qui vicino nacque Maulānā
Gialāl al-Dīn Rūmī, grande mistico e poeta mussulmano, il
fondatore del nostro ordine, quello dei dervisci danzanti.
Questo luogo è stato per secoli crocicchio di varie culture e
religioni, simulacro della grande leggenda di Lendi Eleusi di
cui voi sicuramente conoscete ogni dettaglio direttamente.”
disse con una punta di ironia sul finale della frase.
”Io mi considero un maestro sufi, indegno successore del
Mevlana, la nostra guida, il sommo poeta Rumi, ricercatore
dell’unità dell’essere, danzatore di musica sacra, sacro cerchio
che nell’Uno trova il suo centro. Ma sufismo, buddismo,
taoismo, induismo sono parole, vuoti involucri; la via è
molteplice ma il traguardo è uno e tutte le parole
ammutoliscono di fronte al traguardo. Il nostro fondatore
diceva che tutti i profeti sono uguali: tra Gesù, Maometto,
Mosè non c’è alcuna differenza, perché le religioni sono forme
diverse di culto che conducono alle stesso Dio. Sono come
centinaia di candele che diffondono la stessa luce di amore. Vi
è una frase scritta dal sommo poeta che dice: Vieni, ritorna,
chiunque tu sia, vieni. Non importa se sei un infedele, un
idolatra o un adoratore del fuoco. Vieni, anche se hai infranto

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il tuo giuramento cento volte, vieni lo stesso. La nostra non è la
porta della disperazione e del tormento, vieni!“
Qui tutti sono i benvenuti perché qui è nessun luogo: qui è
ovunque e ovunque l’uomo che cerca è il benvenuto, purchè la
sua ricerca prescinda da se stesso e da ciò che intende
cercare…“
“Le sue sono parole di amore e tolleranza” interruppe Isobel
”amore e tolleranza che mal si sposano con ciò che accade qua
fuori: spari, guerriglia, uccisioni, violenza, morte! “
“Chi si spoglia di se non avrà alcun motivo per uccidere,
odiare, ferire. La via è stretta e impervia ma in essa non vi è
dolore. La via è l’Uno e chi è Uno non uccide perché uccide se
stesso; il mondo ci volge le spalle ma il mondo andrà a breve
incontro a un baratro: una grossa nube si schianterà sulle
sicurezze di chi ignora le sofferenze e questa ombra e il terrore
che porterà con essa coprirà tutta la terra, seminando morte e
sangue. Ma, come in ogni semina, da essa nasceranno erbacce
e frutti dolci e da tali frutti il sapore del divino colerà in bocche
assetate.”
Il viso di Omar ben Sheik era come rapito, lo sguardo fisso in
alto, la testa ciondolante da una parte all’altra, come se stesse
recitando un testo imparato a memoria o letto sui muri di pietra
che lo circondavano.
“Ma i talebani sembrano privilegiare l’obbedienza all’amore, la
regola alla libertà. Eppure adorate lo stesso Dio e lo stesso
profeta.” disse il professore.
“Questo è vero ma la legge dei talebani è solo la scorza, la
grezza superficie; da essa parte la strada che giunge al
nocciolo, all’essenza. La scorza protegge il nocciolo ma ne
nasconde la vista; la scorza marcisce per dare nutrimento al
nocciolo che sarà pianta, e presto questa marcirà. La scorza è
strumento del nocciolo. Il nocciolo è la vita, il nocciolo è il
contatto con l’Uno.”

387
“Ma che cosa intende per Uno?” chiese Isobel.
“L’Uno è Allah, il principio e il fine di tutte le cose; egli è
l’Uno perché in lui tute le cose perdono la loro distinzione e
ritornano alla loro natura originale e divina. Ogni essere
vivente, oggetto, pietra è un’unica cosa, ha in se l’impronta di
Allah, è unito a lui per nascita e per fine. E’ questa la chiave di
tutto: l’impronta divina.”
E così dicendo si alzò e andò verso un vecchio baule di legno,
lo aprì, vi rovistò all’interno poi lo richiuse e ritornò presso di
loro.
“Questo” disse Omar mostrando una grossa conchiglia a spirale
“è un Nautilus, una conchiglia a spirale. E’ una conchiglia
particolare, che la tradizione indù vuole avesse in mano Shiva
durante la sua danza con la quale creò il mondo. Che cosa ha in
comune questa conchiglia con un girasole, con un ramo di
tiglio, con il Parthenone ad Atene, con un violino Stradivari,
con un pianoforte, con le composizioni di Mozart, Bach,
Beethoven, con gli indici di borsa di Wall Street?”
Isobel lo guardò come si guarda un pazzo. Il professor Barbur
sorrise.
“Non ne ho idea.” disse Isobel rassegnata.
“Tutti contengono in loro un’impronta divina, un’indizio della
comune origine e della comune unione nel divino; il cosiddetto
rapporto aureo o divina proporzione..”
“Rapporto aureo? Di cosa si tratta?” chiese Isobel incuriosita.
“In realtà nè più nè meno che di un numero” interruppe il
professor Barbur ”ma un numero speciale: si dice che doni
armonia e bellezza a ciò che è conforme al suo rapporto.
Questo numero, 1,6180339887….., è un numero irrazionale
(ovvero un numero né intero nè definibile come rapporto tra
altri due numeri) ed ha infinite cifre decimali senza sequenze
ripetitive. Viene indicato convenzionalmente con la lettera Ф
ed è ottenibile come soluzione dell’equazione √5-1 /2. E’

388
l’unico numero esistente, l’unico, ad avere il quadrato uguale a
se stesso +1. A questo rapporto è spesso associata la cosiddetta
sequenza di Fibonacci, una successione di numeri in cui ogni
termine, a parte i primi due, è la somma dei due che lo
precedono; tale sequenza è 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, ....
ed ha questa caratteristica: il rapporto tra un termine e il suo
precedente oscilla ora in eccesso, ora in difetto,
approssimandosi man mano al rapporto aureo. Ma finiamola
qui con le proprietà matematiche di tale rapporto e vediamo ciò
che Omar stava cercando di dirti.”
Isobel annuì, già disorientata da quella sequenza di numeri e
definizioni.
“In tutte le cose che ti ha elencato Omar, ma anche in molte
altre, appare o la sezione aurea o la sequenza di Fibonacci:
ecco perché viene chiamata divina proporzione, perché sembra
attraversare e unire molte cose in natura, come una silenziosa
firma del creatore dell’universo. Vediamo alcuni esempi: la
spirale della conchiglia che ti sta mostrando è configurata
secondo la sequenza di Fibonacci. Allo stesso modo la
sequenza di Fibonacci appare nell’albero genealogico e nella
sequenza riproduttiva dei fuchi, i maschi delle api: infatti in un
alveare le femmine sono tutte generate dall’unione dell’ape
regina con un fuco e si dividono in operaie e regine.
Le api regine sono api operaie nutrite con pappa reale ma,
diversamente dalle operaie, sono in grado di produrre uova.
I maschi nascono dalle uova dell’ape regina.
Quindi possiamo dire che le femmine hanno 2 genitori: l’ape
regina e un fuco, mentre i fuchi hanno un solo genitore: l’ape
regina.
Prendiamo in esame l’albero genealogico di un fuco. Il fuco ha
1 genitore che ha sua volta ha 2 genitori che a loro volta hanno
3 genitori che a loro volta hanno 5 genitori e così via seguendo
la serie di Fibonacci.

389
Anche in botanica registriamo spesso la seqenza di Fibonacci:
nella crescita dei rami di alcune piante: ad esempio nella
Achillea Ptarmica ogni ramo impiega un mese prima di potersi
biforcare. Al primo mese quindi abbiamo 1 ramo, al secondo
ne abbiamo 2, al terzo 3, al quarto 5 e così via.
Le pigne e i girasoli presentano nella loro conformazione
spirali che seguono nella loro evoluzione la sequenza di
Fibonacci.
L’orientamento delle foglie sui rami degli alberi, disposto in
modo che ogni foglia non copra le altre e riceva la luce del
sole, avviene in quasi tutti gli alberi secondo la sequenza di
FIbonacci; se prendiamo come punto di partenza la prima
foglia di un ramo e passiamo di foglia in foglia in senso orario
o antiorario, il numero di giri che compiremo intorno al ramo
prima di trovare una foglia sopra quella di partenza corrisponde
sempre ad un numero di Fibonacci.
Le corolle e i pistilli dei fiori sono spesso organizzati in spirali
i cui numeri seguono la sequenza di Fibonacci…
Potrei continuare a lungo: anche nel corpo umano la coclea,
osso dell’apparato uditivo, è una spirale disegnata in base al
rapporto aureo.
Dalla struttura a doppia elica del DNA, fino alla conformazione
delle galassie a spirali (la Via Lattea, la nostra galassia è una di
queste) molte cose in natura sembrano parlarci attraverso
questo misterioso numero.
E così nei millenni l’uomo ha cercato di introdurre questo
rapporto nelle sue opere, ritenendolo un numero sacro e divino.
Così esso attraversa trasversalmente la storia e le opere più
famose e belle che l’ingegno umano abbia prodotto, lo
troviamo negli oggetti più ricercati come in quelli più banali,
nella costante e vana ricerca dell’uomo di raggiungere la
perfezione divina.

390
La proporzione aurea fu molto utilizzata dagli antichi Greci
come rapporto armonico nelle costruzioni architettoniche: la
ritroviamo nelle piramide egizie e nel Partenone nell'Acropoli
Ateniese, e nelle rappresentazioni scultoree, per esempio nelle
proporzioni delle Cariatidi che reggono l'Eretteo. Il rapporto
aureo fu largamente ripreso anche nel Rinascimento: le
dimensioni della Monnalisa, di Leonardo da Vinci, sono in
rapporto aureo. E ancora fino ai giorni nostri, nell'architettura
moderna: il Palazzo di Vetro delle Nazione Unite ha
proporzioni auree. La sequenza di Fibonacci è
abbondantemente rappresentata anche in musica, ad esempio
nelle “fughe” di Johann Sebastian Bach, nelle sonate di
Mozart, nella Quinta Sinfonia di Beethoven, nella Sonata in la
D 959 di Schubert; l’esempio più elevato di applicazione su
vasta scala degli stilemi improntati alla proporzione aurea è
dato dalla Sagra della Primavera di Strawinski. Si dice che
anche il grande jazzista John Coltrane, appassionato di numeri
e del loro significato escatologico, abbia composto la sua opera
più famosa, il disco A love Supreme, basandosi sulla sequenza
di Fibonacci.”
Il professore tacque e guardò in volto Isobel; una strana
espressione mista a stupore e incredulità era dipinta sul suo
viso.
“E’ difficile non rimanere stupefatti, non è vero?” ruppe il
silenzio Omar “E’difficile non pensare che tutto abbia un
senso, che tutto, anche alla luce di queste cose, abbia un’unica
origine e forse un unico stato fondamentale. Ogni cosa, se
ascoltata con attenzione, ci parla di questo: di una melodia che
unisce in armonia ogni essere, ogni oggetto che pare distinto, di
una nota sottesa a ogni individualità, una specie di melodia
perenne, un sottofondo che ci parla delle nostre origini,
struggente, malinconico. E’ per questo che noi dervisci, in base
agli insegnamenti del nostro Sommo Maestro, preghiamo

391
danzando: per unire la nostra anima e il nostro corpo alla
melodia del creato, alla grande musica delle origini. Ogni
nostra giornata è dedicata a questo.”
“Come si svolge la vostra giornata?” chiese Isobel come
ridestatasi da una specie di trance.
“Tra preghiere, danze, musiche, silenzio, meditazione, letture.
Ognuna di queste cose ha come fine il raggiungimento
dell’Uno. La musica: la musica è il linguaggio dell’anima, la
parola dell’Uno che ogni orecchio può udire e interpretare
aldilà delle distinzioni di lingua, razza, pensiero. La musica è
l’armonia e l’unione dell’Uno, è il richiamo che ci spinge oltre
la nostra realtà e con essa la danza, la libertà del corpo. Il
sommo poeta diceva: Dio ha fatto in modo che l'illusione
sembri reale e il reale un'illusione. Ha nascosto il mare ed ha
reso visibile la schiuma; ha nascosto il vento e manifesta la
polvere. Tu vedi la polvere turbinare, ma come potrebbe
sollevarsi da sola? Tu vedi la schiuma, ma non l'oceano.
Perciò invocalo con le azioni, non con le parole, perché le
azioni sono reali e ti daranno la salvezza nella vita a venire.”
“E’ possibile assistere alla vostra preghiera danzante?” chiese
Isobel.
“Siamo qui per questo” la interruppe il professore.
“Sì, è l’ora della sema, la preghiera danzata, che
quotidianamente viene celebrata da me e dagli altri
appartenenti a questa piccola comunità. Miss Isobel, vuole
onorarci della sua presenza e della sua preghiera durante il
rito?”
Isobel annuì. Il vecchio si alzò e aprì la porta; poi, uscito sul
chiostro, lo attraversò trasversalmente per rientrare nella porta
che dava alla sala dove si era svolto il rito funebre. Il professor
Barbur e Isobel lo seguirono.
Nella sala erano già presenti diverse persone, vestite di lunghi e
ampi mantelli neri e con sul capo uno strano cappello

392
cilindrico. Omar ben Sheik si sedette su di una sedia e fece
cenno a Isobel e Barbur di sedersi al suo fianco; poi, con un
battito di mani diede inizio alla cerimonia.
La preghiera coranica iniziò, dolce e cantilenante. Poi cedette il
passo al suono malinconico di un flauto di canna. Gli uomini
dagli strani cappelli presero posto al centro della sala circolare.
Erano raccolti, concentrati come si conviene agli officianti di
una sacra liturgia.
Il viaggio spirituale verso Dio ebbe inizio. La musica divenne
corale. Si moltiplicarono i flauti, si aggiunsero i tamburi e una
viola fece da contrappunto alle voci. Isobel si ritrovò coinvolta
in un clima di raccoglimento e di profonda preghiera.
Pregavano anche alcuni spettatori, che Isobel notò sul lato
opposto della sala con una mano sul cuore. Pregavano i
dervisci.
“Ogni loro gesto, così come l’abito che li ricopre, ha un
significato religioso.” disse il vecchio a bassa voce
interrompendo il suo raccoglimento per spiegare il rito. “Le
mani, prima di tutto: inizialmente incrociate sulle spalle, a
richiamare l’Elif, la lettera iniziale di Allah in caratteri arabi, si
distendono quando i dervisci iniziano a danzare, con la mano
destra che si gira verso il cielo, per ricevere da Dio, e quella
sinistra che guarda la terra, per comunicare agli altri il dono del
contatto con l’Altissimo.”
Isobel annuì. Come satelliti intorno al sole, i dervisci ruotavano
intorno a sé stessi in un processo di contemplazione sempre più
profonda.
“Nel primo giro si immergono nell’universo, quindi
nell’unicità di Dio, per purificarsi da dubbi e affanni” continuò
il vecchio ”L’unione mistica viene rappresentata dalla caduta
del lungo mantello nero che li ricopre come fa la scorza con il
nocciolo.”

393
In un crescendo di canti suoni e danze l’intensità del rito
crebbe e Isobel si trovò il cuore palpitante seguendo il
vorticoso pregare dei danzatori. Poi all’improvviso il silenzio.
Il vecchio si alzò lentamente dalla sedia e, raggiunto il centro
della sala recitò solennemente una sura del Corano. Poi, con un
battito di mani, diede fine alla preghiera. La sala si svuotò
repentinamente e Isobel e il professore rimasero soli insieme a
Omar ben Sheik. Uno strano silenzio, quello che poteva essere
definito un religioso silenzio, era calato nel salone. Anche
Isobel si sentì come rinfrancata e purificata da quelle voci, da
quella musica minimale ma intensa, da quei movimenti
armonici e rapidi a un tempo.
“Ora vi devo lasciare” disse il vecchio rompendo in qualche
modo l’incantesimo ”Questo è un libro di poesie del grande
maestro Rumi” disse porgendo a Isobel un libretto con la
copertina dorata “Che possa infondervi gioia e serenità e
guidarvi lungo il sentiero. Che la pace divina sia il vostro
cammino.”
Isobel e il professore si inchinarono con devozione.
Isobel uscì dalla sala e rimase accecata dal sole. Sorridendo si
avviò verso la sua capanna.

394
CAPITOLO LII

Dalla bozza del libro di Tina Morrison

Il tempo e l’arte

Sono innumerevoli gli scrittori, i poeti, i pittori che hanno inteso


con le loro opere sfidare ed esplorare il tempo; in realtà
potremmo dire che lo scopo dell’arte è esattamente questo:
trascendere il tempo e conservare le emozioni, i pensieri, i
turbamenti, le gioie e le convinzioni dell’artista nell’opera per
restituirle intatte in ogni istante. L’opera d’arte è quindi
innanzitutto una sfida al tempo: l’opera d’arte trascende il tempo,
è immortale. Quindi, a prescindere dalla tematica dell’opera il
concetto di tempo è comunque presente, se non altro nelle
intenzioni, anche più recondite, dell’artista: durare, non perire,
eternarsi nell’opera. Del resto la parola immortalare reca con se
il concetto di trascendere il tempo, rendere immortali. Ogni
opera d’arte è quindi un frammento di tempo che è stato
scagliato nel futuro e reso immortale dalla potenza e dalla
volontà dell’artista. Immortale è la Pietà di Michelangelo,
immortale la poesia di Leopardi, di Whitman, di Rimbaud,
immortali i romanzi di Proust, di Dostjevski, di Joyce, i quadri di
Veermer, di Van Gogh, di Leonardo. Come magiche macchine
del tempo ci perpetuano le emozioni, i pensieri, le convinzioni
del loro creatore, pur assumendo vita autonoma nella nostra
mente e nelle nostre emozioni. L’arte quindi come sfida alla
mortalità, al tempo comunemente inteso e percepito, come
antitesi della caducità delle cose che il tempo ci pone innanzi ma
arte anche come contrattempo, come inciampo nella routine di
tutti i giorni, capace di scuotere dal torpore, capace di smuovere
le coscienze, di dare emozioni, di stimolare pensieri.
Da questo punto di vista ogni opera d’arte degna di questo nome
è una sfida al tempo ed è una sfida vinta. Da questo punto di

395
vista il tempo diventa un parametro per giudicare lo status di
arte.
Esistono poi opere d’arte non solo nel tempo ma sul tempo.
Innanzitutto i poeti: in molti di essi appare il concetto di
eternità, di assenza di tempo, di unità di tutte le cose. È solo una
licenza poetica, un espediente letterario oppure la sensibilità del
loro animo li ha portati a andare oltre il velo della comune realtà
e percepire uno stato immanente, imperituro, immortale delle
cose, dell’essere, dell’universo?
Questa domanda non ha una risposta semplice, anche se il
ruolo del poeta è quello di guida nei recessi più reconditi del
nostro animo e della nostra realtà. Pensiamo a Rimbaud e alla
sua famosa “Lettera del Veggente” in cui egli reclama al poeta il
ruolo di colui che interpreta appunto la realtà, attraverso la sua
arte e la sua sensibilità, per trasmetterla agli altri. Riportando le
sue parole:

“Il primo studio dell'uomo che voglia essere poeta è la sua propria
conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l'indaga, la tenta, l'impara.
Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si
compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono
molti altri che si attribuiscono il proprio progresso intellettuale! - Ma si
tratta di fare l'anima mostruosa: come i comprabambini, insomma!
Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente
mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le
forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé
tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella
quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale
diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, - e il
sommo Sapiente! - Egli giunge infatti all'ignoto! Poiché ha coltivato la sua
anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all'ignoto, e
quand'anche, smarrito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni,
le avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e
innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti
sui quali l'altro si è abbattuto! Dunque il poeta è veramente un ladro di
fuoco.

396
Ha l'incarico dell'umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire,
palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli
dà forma; se è informe, egli dà l'informe, Trovare una lingua; - Del resto,
dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale!”

Sregolare i sensi, serbare l’essenza del veleno, affrontare la


pazzia, andare oltre. Il poeta come pazzo, come maledetto, come
criminale, come colui che vive ai margini, della realtà e della
società. Tutti concetti che sembrano invitare ad abbandonare la
realtà e le sensazioni consuete per perseguire un compito, quello
definitivo: svelare l’ignoto.
Ma forse mai come in questo caso è opportuno che siano i poeti
a parlare:

Di sera sulla spiaggia, solo

Di sera sulla spiaggia, solo


Mentre la vecchia madre, i flutti ondeggiando, intona roca il suo canto,
E osservo le sfavillanti stelle, formo un pensiero sulla chiave degli universi e
del futuro.
Una vasta similitudine incastra tutto, tutte le sfere, cresciute e non cresciute,
piccole, grosse, soli, lune, pianeti,
Tutte le distanze dello spazio, per quanto vaste,
Tutte le distanze del tempo, tutte le forme inanimate,
Tutte le anime, tutti i corpi viventi per quanto diversi essi siano,
o in mondi diversi essi vivano,
Tutti i processi dei gas, dell'acqua , dei vegetali, dei minerali, i pesci, le
bestie,
Tutte le nazioni, colori, barbarie, civiltà, lingue,
Tutte le somiglianze che siano esistite o possano esistere
su questo mondo o in un mondo qualsiasi,
Tutte le vite e le morti, in passato, presente, futuro,
Questa ampia similitudine tutte le abbraccia, e sempre le ha abbracciate,
E per sempre le abbraccerà, mantenendole compatte, circonfondendole tutte.
- Walt Whitman

397
*************

“L'unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi
paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi.”
- Marcel Proust

“Un uomo che dorme tiene intorno a sé, in cerchio, il filo delle ore, gli ordini
degli anni e dei mondi.”
- Marcel Proust

*************

“La nostra nascita non è che un sonno e un oblio;


l’anima che ci accompagna, stella di nostra vita
d’altro seggio gode, ben d’altrove.
E da tanto lontano è giunta non già
tutta dimenticata di sua prima natura
ne di nudità di se completa che anzi
trascina a noi con se i grandi nembi di gloria
dal Dio che è nostra casa
indugia su noi bambini per un poco il cielo.
- William Wordworth

*************

So che in me non c’è morte. Non c’è dubbio che sono già morto diecimila
volte. Rido di ciò che chiami consumazione e conosco la vastità del tempo.
-Walt Whitman

*************
Sono certo di essere già stato qui, ora come mille altre volte prima d’ora e
spero di ritornarvi altre mille.
-Goethe

Con l’anima dell’uomo succede come con l’acqua: viene dal cielo e al cielo
risale per tornare alla terra in eterna alternanza.
- Goethe

398
*************
E’ passato tanto tempo! Eppure io sono ancora la stessa Margaret. Solo le
nostre vite invecchiano. Noi siamo la dove i secoli contano solo come secondi,
e dopo un migliaio di vite cominciamo ad aprire gli occhi.
- Eugene O’Neil

*************
La verità segreta del mondo è che tutte le cose sussistano per sempre e non
muoiano, ma si sottraggano un po’ alla vista e in seguito facciano ritorno.
Niente muore.
- Ralph Waldo Emerson

*************
Fin dove riesco ad andare indietro con la mia memoria mi rendo conto di
aver fatto istintivamente riferimento a una precedente condizione
d’esistenza…Sono vissuto in Giudea 1800 anni fa ma non sapevo che tra i
miei contemporanei c’era uno che era Cristo. Così come allora le stelle mi
guardavano mentre facevo il pastore in Assiria, ora mi guardano nel New
England
- Henry David Thoreau

*************
Vive e muore mille volte l’uomo,
Fra le sue due eternità,
della stirpe l’una, dell’anima l’altra,
ben lo sapeva l’antica Irlanda.
Sia che nel suo letto muoia,
O che l’atterri un colpo di fucile,
il peggio che deve temere
à una breve dipartita da quiei cari.
Benché la fatica dei becchini
sia lunga affilati sono i loro badili
forti i loro muscoli nell’opera.
Non fanno che ricacciare i loro morti
Nella mente umana ancora.
- W.B.Yeats

399
*************

O me! O vita! Per queste domande ricorrenti, Nelle sterminate folle di


infedeli, nelle città piene di stolti,
In me stesso, sempre a biasimare me stesso (e chi più stolto di me, chi più
infedele?)
Negli occhi che invano bramano la luce, nel significato delle cose, nella lotta
che sempre si rinnova,
Negli scadenti risultati di ognuno, nelle folle sordide e stanche che vedo
attorno a me,
Nei vuoti e inutili anni dell'oblìo, con l'oblìo che a me si avvolge,
La domanda, o me! Così triste e ricorrente - Cosa vi è di buono in tutto
questo, o me, o vita?
Risposta:
Che tu sei qui - che la vita esiste e l'identità, Che il potente gioco continua, e
tu puoi contribuire con un verso.
- Walt Whitman

*************

Consideriamo divine bibbie e religioni, e io non dico che non siano divine, io
dico che sono venute fuori da te e che ancora possono venirne fuori, non sono
esse a dare la vita, sei tu che dai la vita, non si staccano foglie dagli alberi ne
alberi dalla terra più che non si stacchino da te.
- Walt Whitman

*************

RISVEGLI

Ogni mio momento


io l'ho vissuto
un'altra volta
in un'epoca fonda
fuori di me

400
Sono lontano colla mia memoria
dietro a quelle vite perse

Mi desto in un bagno
di care cose consuete
sorpreso
e raddolcito

Rincorro le nuvole
che si sciolgono dolcemente
cogli occhi attenti
e mi rammento
di qualche amico
morto

Ma Dio cos'è?
E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta

E si sente
riavere
- Giuseppe Ungaretti

*************

Oggi un pensiero m’è balzato in mente


Che avevo già vissuto in passato
Ma senza compiersi si è ritirato
Non saprei dire l’anno che a me venne ne dove se ne andò
Ne so spiegarmi perché sia ritornato questa volta
Di cosa si tratti esattamente
Non ho l’arte di dire
Ma nel fondo della mia anima sono certa

401
D’averlo incontrato tempo fa
M’è tornato in mente, questo è tutto
Ed ora è sparito per sempre.
- Emily Dickinson (Life)

*************

"La verità è che moriamo ogni giorno e che nasciamo ogni giorno. Stiamo
morendo e nascendo di continuo. Per questo il problema del tempo ci tocca
più degli altri problemi metafisici. Perché gli altri sono astratti. Quello del
tempo è il nostro problema. Chi sono io? Chi è ognuno di noi? Chi siamo?
Forse un giorno lo sapremo. Forse no. Ma nel frattempo, come disse
Sant'Agostino, la mia anima arde perché desidera saperlo".
- Jorge Louis Borges

“La scrivo, adesso, così: quella pura rappresentazione di fatti omogenei –


notte in calma, muretto limpido, odore provinciale della madreselva, fango
fondamentale – non è semplicemente identica a quella che ci fu in quello
stesso angolo anni fa; è, senza somiglianza né ripetizioni, la stessa. Il tempo,
se possiamo intuire questa identità, è un’illusione: la non differenza e la non
separabilità tra un momento del suo apparente ieri e un altro del suo
apparente oggi, bastano a disintegrarlo”.
- Jorge Louis Borges

*************

Che? l’eternità.
È il mare mischiato
Al sole.
La mia anima eterna,
Osserva il tuo voto
Malgrado la notte sola
E il giorno in fuoco.
Dunque tu ti sgombri
Degli umani suffragi,
Dei comuni slanci!

402
Tu voli secondo...
- Giammai la speranza.
Niente oriente.
Scienza e pazienza,
Il supplizio è sicuro.
Niente più domani,
Braci di raso,
Vostro ardore
È il dovere.
Lei è ritrovata!
- Che? - L’Eternità.
È il mare mischiato
Al sole.
- Arthur Rimbaud

*************

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,


E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo escude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
- Giacomo Leopardi (L’infinito)

*************

403
………..
Dov'è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?
Dov'è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?
- T.S.Eliot (The Rock)

*************

…..e a un tratto dal mezzo dell'acqua morta le zingare e


un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona
e irritante: e del tempo fu sospeso il corso…
- Dino Campana (Canti Orfici)

*************

Se tempo e spazio, come i saggi dicono,


sono cose che mai potranno essere,
il sole che non cede al mutamento
non è per nulla superiore a noi.
Così perché, amore, dovremmo sperare
di vivere un secolo intero?
La farfalla che vive un solo giorno
È già vissuta per l’eternità…..
- T.S. Eliot (Lirica)

*************

Mezzanotte
Per tutti i rettilinei delle strade
serrati in una sintesi lunare,
incanti lunari che bisbigliano
dissolvono i piani della memoria
e tutte le sue chiare relazioni
le sue divisioni e precisioni,
ogni lampione che oltrepasso
batte come un tamburo fatale,

404
e attraverso gli spazi del buio
la mezzanotte scuote la memoria come
un pazzo scuote un geranio appassito
…………………………………..
- T.S. Eliot (Rapsodia di una notte di vento)

*************
Noi moriamo con quelli che muoiono:
ecco, essi partono e noi andiamo con loro.
Noi nasciamo con i morti:
ecco, essi tornano e ci portano con loro.
- T.S. Eliot

*************

Alcuni - Lavorano per l'Immortalità -


La Maggior parte, per il Tempo -
Lui - Paga - nell'immediato -
L'altra - si Limita - alla Fama –

Oro Lento - ma Perenne -


Il Lingotto dell'Oggi -
Contrasta con la Moneta
Dell'Immortalità –

Un Mendicante - il Qui e il Là -
È capace di discernere
Oltre l'intuito del Sensale -
All'uno - i Soldi - all'Altro - la Miniera -
- Emily Dickinson

*************

Il Tramonto di Sera - è naturale -


Ma un Tramonto all'Alba
Capovolge la Natura - Signore -
Così Mezzanotte - diventa - Mezzogiorno.

405
Le Eclissi sono - previste -
E la Scienza è a loro sottomessa -
Ma fa che una si affacci all'improvviso -
L'Orologio di Geova - è guasto.
- Emily Dickinson

*************

Se ciò che Possiamo - fosse ciò che vogliamo -


La scelta - sarebbe ristretta -
È il Limite Ultimo del Parlare -
L'Impotenza di Dire -
- Emily Dickinson

*************

Questo fu un Poeta -
È colui Che
Distilla un senso sorprendente
Da Significati Ordinari -
Ed Essenza così immensa

Da avvenimenti familiari
Che periscono oltre la Porta -
Ci meravigliamo di non esser stati Noi
Ad arrestarli - prima -

Di Visioni, Rivelatore -
Il Poeta - è Colui
Che Ci destina - per Contrasto -
Ad una incessante Povertà -

Di proprietà - così inconsapevole -


Che il Rubare - non può fargli danno -
Lui stesso - di per Sé - un Patrimonio -
Fuori - dal Tempo –
- Emily Dickinson

406
*************

E un astronomo disse: Maestro Parlaci del Tempo.


E lui rispose: Vorreste misurare il tempo, l'incommensurabile e l'immenso.
Vorreste regolare il vostro comportamento e dirigere il corso del vostro spirito
secondo le ore e le stagioni.
Del tempo vorreste fare un fiume per sostate presso la sua riva e guardarlo
fluire.
Ma l'eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo
E sa che l'oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani il sogno di oggi.
E ciò che in voi è canto e contemplazione dimora quieto entro i confini di
quel primo attimo in cui le stelle furono disseminate nello spazio.
Chi di voi non sente che la sua forza d'amore è sconfinata ?
E chi non sente che questo autentico amore, benché sconfinato, è racchiuso nel
centro del proprio essere, e non passa da pensiero d'amore a pensiero
d'amore, né da atto d'amore ad atto d'amore ?
E non è forse il tempo, così come l'amore, indiviso e immoto ?
Ma se col pensiero volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione
racchiuda tutte le altre,
E che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l'attesa.
- Kahlil Gibran (Tempo)

*************

Non c'è un unico tempo: ci sono molti nastri


che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s'intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell'unico tempo. Ma in quell'attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.
- Eugenio Montale (Tempo e Tempi)

407
*************

Le onde rimano
Con il sospiro
E la stella
Con il grillo

Trema sulla cornea


Tutto il cielo freddo,
e il punto è una sintesi dell’infinito.

Ma chi accorda
Onde e sospiri,
stelle
e grilli?

Aspettate che i geni


Si distraggano un attimo.
Le chiavi scorrono tra noi.
- Federico Garcia Lorca (Armonia)

*************
Il tempo lavora come l’acido
Occhi macchiati
Vedi il tempo volare

Il viso muta mentre il cuore batte e respira


Non siamo costanti
Siamo una freccia in volo
La somma degli angoli del mutamento

Il viso il suo viso cambiò in auto


Gli Occhi e la pelle e i capelli rimangono gli stessi
Ma un centinaio di ragazze simili si succedono l’una all’altra.
- James Douglas Morrison (Time Works Like Acid)

408
*************

Se non è un problema perchè parlarne.


Ogni cosa detta significa questo,
il suo opposto e qualsiasi altra cosa.
Sono vivo. Sto morendo.
- James Douglas Morrison

*************

La fine del sogno


Sarà quando conta
Ogni cosa mente
Buddha mi perdonerà
Buddha lo farà
- James Douglas Morrison

*************

Se solo
potessi sentire
Il canto
dei passeri
e sentire l'infanzia
trascinarmi indietro
di nuovo

Se solo potessi sentirmi


trascinare indietro
di nuovo
e sentirmi abbracciato
dalla realtà
di nuovo
Io morirei
morirei felice

409
- James Douglas Morrison

*************

La ricerca Infinita una veglia


Di torri di guardia e fortezze
Contro il mare e il tempo.
Hanno vinto? Può darsi.
Restano ancora e ancora
Vagano nelle loro stanze silenziose
Le anime dei morti
Che osservanno la vita.
Presto le raggiungeremo
Presto ci uniremo a loro
Lungo le mura del tempo. Non avremo rimpianto di nulla
Eccetto l’uno dell’altro.
- James Douglas Morrison

*************

Poteri dello Yoga. Farsi invisibili o piccoli.


Diventare giganteschi e arrivare alle cose più lontane. Cambiare il corso della
natura. Disporsi ovunque nello spazio e nel tempo. Evocare i morti.
Esaltarei sensi e percepire immagini inaccessibili, di accadimenti di altri
mondi, nel più profondo e intimo della nostra mente, o nella mente degli altri
- James Douglas Morrison

*************

Ci accontentiamo del dato nella ricerca della sensazione. Abbiamo subito la


metamorfosi da un corpo impazzito che danza sulle pendici della collina a
un paio di occhi che fissano il buio.
- James Douglas Morrison

*************

410
I Signori ci placano con immagini. Ci regalano libri, concerti, mostre,
spettacoli, cinema. Attraverso l’arte essi ci confondono e ci accecano nel nostro
asservimento. L’arte adorna le pareti della nostra prigione, ci rende quieti,
silenziosi, mansueti, divertiti e indifferenti.
- James Douglas Morrison

Un discorso a parte merita Marcel Proust.: in Proust si hanno


delle fugaci ma spettacolari apparizioni di un tempo altro, di
ricordi passati che riaffiorano dietro un profumo, un luogo, una
sensazione, quasi come se quel tempo, quel luogo, quella
sensazione fosse eternamente presente e eternamente vissuto ma
liberato solo attraverso questi passaggi segreti e inconsci della
nostra mente. Famoso è l’episodio della madeleine tratto dal
primo libro de “Alla ricerca del tempo perduto” di cui riporto un
breve estratto:

“…Così per molto tempo, quando, stando sveglio di notte, ripensavo a


Combray, non ne rividi mai se non quella specie di lembo luminoso, che si
tagliava in mezzo a tenebre indistinte, simili a quelle che la vampa d'un
fuoco di bengala o qualche proiettore elettrico illuminano e sezionano in un
edificio, di cui le altre parti restino immerse nel buio: alla base, piuttosto
larga, il salottino, la sala da pranzo, il richiamo dell'oscuro viale donde
sarebbe giunto Swann, l'autore inconscio delle mie tristezze, il vestibolo per
cui m'incamminavo verso il primo gradino della scala, che mi era tanto duro
salire, e che costituiva da sola il tronco assai stretto di quella piramide
irregolare; e in cima, la mia camera da letto col piccolo corridoio dalla porta
a vetri per cui entrava la mamma; in una parola, sempre veduto alla stessa
ora, isolato da ogni cosa che vi potesse essere intorno, stagliandosi solo
nell'oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quello che si vede
indicato a capo delle vecchie commedie per le rappresentazioni in provincia)
al dramma dello spogliarmi, come se Combray non fosse consistita che in due
piani riuniti da un'angusta scala, e come se là non fossero mai state che le
sette di sera. A dire il vero, a chi m'avesse interrogato avrei potuto
rispondere che Combray racchiudeva anche altre cose ed esisteva in altre ore.
Ma, poiché quel che avrei ricordato mi sarebbe stato offerto soltanto dalla

411
memoria volontaria, la memoria dell'intelligenza, e poiché le notizie che essa
dà sul passato non mi serbano nulla, non avrei mai avuto voglia di pensare
a quel resto di Combray. Tutto questo, in verità, era morto per me. Morto
per sempre? Forse.
Il caso ha una grande parte in tutte queste cose, e un secondo caso, quello
della nostra morte, spesso non ci permette d'attendere a lungo i favori del
primo. Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le
anime di quelli che abbiamo perduto sono prigioniere entro qualche essere
inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per
noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare
accanto all'albero, che veniamo in possesso dell'oggetto che le tiene
prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo
riconosciute, l'incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e
ritornano a vivere con noi.
Così è per il passato nostro. E' inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi
della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde all'infuori del suo
campo e del suo raggio di azione in qualche oggetto materiale (nella
sensazione che ci verrebbe data da quest'oggetto materiale) che noi non
supponiamo. Quest'oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire,
o che non lo incontriamo.
Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma
del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d'inverno,
rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di
prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po' di tè. Rifiutai
dapprima, e poi, non so perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una
di quelle focacce pienotte e corte chiamate « maddalenine», che paiono aver
avuto come stampo la valva scanalata d'una conchiglia.
Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione
d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo
inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel
sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a
quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva
invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le
vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo
stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio
quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi
mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia

412
violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la
sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura.
Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?
Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo
dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della
bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa,
ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere
indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io
sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e
ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per.una spiegazione decisiva.
Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità.
Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente
sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche
il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà
a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che
ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.
E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto,
che non portava con sé alcuna prova logica, ma l'evidenza della sua felicità,
della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a
farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il
primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al
mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la
sensazione che fugge. E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà di
riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l'udito
e l'attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma, sentendo come l'animo
mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che
gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo
supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli
metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me
trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse
come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio
adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate.
Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev'essere l'immagine, il ricordo
visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in
modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde
l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né
chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del

413
suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di
rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si
tratti.
Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo
antico che l'attrazione d'un attimo identico è venuta così di lontano a
richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non
so. Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è ridisceso forse; chi sa se
risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci
volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni
impresa importante, m'ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè
pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani,
che si possono ripercorrere senza fatica.
E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto
di «maddalena» che la domenica mattina a Combray ( giacché quel giorno
non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua
camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di
tiglio.
La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente;
forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri,
la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri
giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori
della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - anche
quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale sotto la sua
veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano
perduto la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la
coscienza. Ma, quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte
degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più
immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo
ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la
rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza
vacillare, l'immenso edificio del ricordo.
E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di " maddalena "
inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo
rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo
mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale
era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione
sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo

414
avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi
mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla
mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo
era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere
in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora
indistinti,, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si
colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e
riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di
Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro
casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien
prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di
tè…”

Il ricordo come evocazione della mente, come rituale magico che


riporta in vita oggetti, fatti, sensazioni sospesi nella nostra mente
come fantasmi, eternamente vaganti nell’attesa di quel momento
in cui potranno risorgere a nuova vita; come faro che illumina
l’oscurità così queste sensazioni, rivelate dall’istante della
rievocazione da un suono, un odore, un sapore, si riappropriano
della loro verità e ci parlano di un tempo ritrovato e mai perduto,
di un tempo che abbiamo riposto e classificato come passato ma
che in realtà sempre ci accompagna e sempre ci sorprende e ci
rende per un istante stupefatti della sua presenza, della sua realtà,
del suo esistere nonostante l’evidenza. Questi brevi, istantanei
balzi nel passato ci precipitano in una realtà che si credeva
sepolta per sempre e che invece ci cammina accanto, come se
ogni bandolo di realtà fosse mossa da noi e a noi dovesse
infinitamente ritornare, come se ogni istante fosse eternamente
presente e con esso le sensazioni che lo accompagnano. E così
come si è consci di aver dimenticato solo se in qualche modo si
ricorda (si ricorda di non ricordare, si ricorda di avere saputo, di
avere vissuto quella cosa) così si riconosce il passato in quanto
ancora in qualche modo presente, incastonato in un luogo, in un
sapore, in uno sguardo, in una gemma perduta di tempo smarrita
tra le molte che compongono la collana della nostra vita.

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E anche nell’ultimo libro de “Alla ricerca del tempo perduto”
Proust parla degli attimi in cui ritorna alla sua infanzia rievocati
dal suono di un campanellino. Quel suono accompagnava i passi
dei genitori ma, come dice lui stesso, in quegli attimi “io li udivo
ancora, li udivo, proprio loro, pur situati lontano nell passato
[…] Era proprio quel campanello a risuonare ancora in me,
senza che io nulla potessi mutare nelle strida del suo
sonaglio[…]. Dunque quel campanellino vi era sempre, e con lui,
fra esso e l’attimo presente, tutto quel passato definitivamente
trascorso che ignoravo portare in me”. Questi però, in un attimo
di somma lucidità o somma follia vengono definiti dall’autore
non come “resurrezioni del passato”, ma “resurrezioni totali del
passato” in cui non vi era solamente “un’eco, un duplicato della
sensazione passata”, “ma proprio quella sensazione stessa”
Egli dunque non rivive quella sensazione, egli è quella
sensazione, egli ha innanzi a se la stessa sensazione già vissuta, ha
innanzi a se il suo passato e lo rivive ora per allora sentendo i
passi dei genitori, ascoltando il tintinnare del campanello…
Quelle sensazioni sono lì innanzi a lui, evocate in un attimo e
disponibili alla vita, alla sensazione, al rimpianto, alla muta
consapevolezza che mai furono o saranno perdute.
Ma dopo il lampo di follia Proust rientra nel consentito, nel reale,
nell’ordinario sostenendo ciò che per un attimo aveva negato:
che il tempo distruggerà quel tempo distruggendo colui che lo
evoca. Ma il fulmine di follia o di somma consapevolezza resta
intatto e illuminante come la paura di pensarlo fino in fondo.

PITTURA
Per quanto riguarda la pittura essa è in se legata al tempo; essa è
la rappresentazione di un frammento di realtà (interpretata,
distorta, rielaborata anche fino alle estreme conseguenze) ma il
gesto pittorico simboleggia proprio questo: fissare un istante e
renderlo eterno.
Esistono anche quadri sul tempo: l’esempio classico sono gli
“orologi molli” di Salvator Dalì. Lo scioglierisi degli orologi, lo
sciogliersi del tempo e dal tempo, il suo divenire liquido,

416
plasmabile, duttile, relativo…. E’ una interpretazione del tempo
che si lega indissolubilmente con la teoria della relatività. Orologi
che si sciolgono in una terra arida e deserta, liquefatti dal sole,
dall’eterno…. E’ la rappresentazione del tempo psichico e
relativo, del tempo che si modifica e si addatta al soggetto, che si
prostra davanti alla luce dell’eterno. Spiegare meglio!!!!

Capitoli da sviluppare:
Tempo e Eternita’‡

Il tempo e la mente

Il paranormale o l’irruzione di un tempo altro nel nostro

Il tempo e l’estasi mistica

Il tempo e l’Illuminazione

Il tempo e le sostanze psichedeliche

Il tempo in occidente

Il tempo negli animali e in Natura

Ricordi, Storia, Esperienza

La nostra vita senza il tempo


417
418
CAPITOLO LIII

26 Aprile 2001, Bamiyan

Il giorno successivo la guerra entrò prepotentemente nelle loro


vite. Fin dal mattino le esplosioni e gli spari, che nei giorni
precedenti erano stati una specie di sottofondo lontano, si erano
fatti più vicini e più frequenti. L’avanzata del fronte del Nord si
era fatta sempre più prossima a Bamiyan e la linea del fronte
distava ormai poche miglia dal monastero. Isobel stava
passeggiando nel chiostro chiacchierando con Rumi quando un
colpo di mortaio, caduto molto vicino al monastero, fece
tremare il suolo al punto da farle quasi cadere. Spaventate le
due ragazze uscirono dal monastero e si trovarono, sul piazzale
antistante, innanzi ad un gruppo di talebani che stavano dando
ordini ad alcuni abitanti del paese per organizzare la resistenza
all’avanzata dei ribelli. Isobel vide un talebano vestito di scuro
consegnare un kalashnikov a un bambino (avrà avuto sì e no 8
anni) e insegnargli, mimando i gesti, come impugnarlo e come
sparare; gli altri talebani intanto consegnavano le restanti armi
al manipolo di uomini che avevano radunato. Tra di questi
Isobel riconobbe il padre di uno dei tre ragazzi che erano morti
giorni prima. Isobel si girò verso Rumi per dirle che
probabimente era il caso di nascondersi al più presto, prima che
la battaglia avesse inizio quando vide la giovane dirigersi con
passo deciso verso il bambino con il kalashnikov, piegarsi su di
lui e, parlandogli, cercare di togliergli l’arma. Il bambino
cominciò ad urlare attirando l’attenzione del talebano vestito di
nero che allontanò Rumi con uno spintone e, preso per mano il
bambino, lo condusse alla sua postazione di guerra dietro un

419
mucchio di pietre che una volta costituivano il muro di una
capanna.
Isobel corse da Rumi, che era caduta e l’aiutò ad alzarsi
scuotendole la polvere dai vestiti.
“Cosa diavolo ti è saltato in mente?”
“Ma è un bambino Isobel… Un bambino non può combattere,
non può partecipare alla guerra. Lo sai cosa mi ha detto? Mi ha
detto: I ribelli hanno ucciso i miei amici, io ucciderò loro! Un
bambino?! Un bambino Isobel, ti rendi conto?”
Isobel guardò la custode negli occhi; la fierezza del suo
sguardo era velata da calde lacrime.
“E’ l’orrore della guerra Rumi; un orrore vecchio quanto
l’uomo, che non guarda in faccia a nessuno e ti precipita in una
spirale di morte, odio, vendetta, che amplifica le differenze, che
scava fossati tra le persone a suon di morte e dolore. Andiamo
via Rumi, è pericoloso restare qui!”
Mentre pronunciava quelle parole un colpo di mortaio cadde a
una ventina di metri da loro, distruggendo un ovile. Pietrificate
dal terrore si buttarono a terra e lì sarebbero rimaste se due
mani non le avessero costrette a rialzarsi: era Anrham che disse
loro: “Presto seguitemi, non è prudente stare qui ora!”
E così dicendo le prese per mano e le fece rientrare nel
monastero; Anrham sperava che quel luogo sacro fosse
immune dagli attacchi e dalle pallottole. Si rifugiarono nella
biblioteca e attesero.
Per oltre due ore fu l’inferno: spari, esplosioni, grida, si
susseguivano a ritmo vertiginoso
Poi un silenzio irreale scese in ogni dove; Anrham fece cenno
alle due ragazze di aspettarlo mentre andava a controllare
all’esterno. Dopo alcuni minuti fece ritorno facendo cenno di
seguirlo.
Appena uscite dal monastero videro ovunque i resti della
battaglia: buche scavate da colpi di mortaio, case distrutte,

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corpi senza vita distesi per terra tra la polvere. Rumi cercò
istintivamente il bambino ma il suo sguardo cadde su di un
gruppo di persone in piedi davanti ad una jeep, mitra spianato,
mimetiche e lunghe barbe nere. Non parevano talebani. Forse
erano…
“Guerriglieri dell’Alleanza del Nord” finì i suoi pensieri
Anrham “… i talebani hanno perso la battaglia e con essa il
villaggio e hanno arretrato le loro posizioni di qualche
chilometro.”
Due guerriglieri notarono Isobel e Rumi e, staccandosi dal
gruppo, si fecero loro incontro, i mitra ben in vista pronti a
sparare. Anrham gli andò incontro a mani alzate e disse loro
alcune parole in una lingua che Isobel non comprese; questi,
dopo aver perquisito Anrham ritornarono sui loro passi. Ad un
tratto Rumi lanciò un grido e si precipitò innanzi a se; poco
distante, su di un ammasso di pietre spuntava il corpo esanime
del bambino che poco prima aveva cercato di disarmare; Isobel
corse dietro a Rumi e si accostò chinandosi al bambino.
Respirava ancora anche se aveva l’addome e un braccio
ricoperti di sangue. Rumi sollevò delicatamente il capo del
bambino e, tra le lacrime, sussurrò alcune parole. Il bambino
socchiuse gli occhi.
“E’ vivo!” gridò Rumi “E’ vivo! Dobbiamo aiutarlo! Isobel,
vai a chiamare Hani, digli che c’è un bambino ferito che deve
essere portato immediatamente in ospedale…”
“I prigionieri di guerra sono sotto la nostra tutela” disse uno dei
guerriglieri che era sopraggiunto attirato dalle grida di Rumi
“Questo piccolo bastardo ha ucciso tre dei miei migliori
uomini… Avrà la fine che si merita!” disse in un inglese
zoppicante ma comprensibile.
“Ma è solo un bambino” supplicò Rumi mentre l’uomo la
prendeva per un braccio e la trascinava via dal bimbo. Isobel

421
osservò la scena e in un secondo reagì; raccolse un fucile che
giaceva di fianco al bambino e lo puntò contro l’uomo dicendo:
“Ora mi ascolti bene: lasci stare la mia amica e ci lasci
trasportare il bambino all’ospedale!”gridò scandendo bene le
parole per essere immediatamente compresa.
L’uomo sulle prime sembrò sorpreso dalla reazione: si fermò
un attimo poi, con un sorriso sarcastico e sprezzante sulle
labbra gettò a terra Rumi e, estratto un coltello, si abbassò sul
corpo del bambino...
La mente di Isobel cessò di funzionare: alzò il fucile e prese la
mira, le mani che le tremavano; come da un territorio lontano
sentì la voce di Anrham che le gridava di non farlo. Il coltello
dell’uomo scintillò, il dito sul grilleto tremò un istante.
Un rombo di motore e un grido congelarono la scena per una
frazione di secondo: sia Isobel che l’uomo si girarono e videro
una jeep sulla quale, accanto a tre guerriglieri, si ergeva un
uomo, mitra a tracolla, tuta mimetica. Con un balzo scese dalla
jeep e urlò nuovamente in direzione dell’uomo e di Isobel.
L’uomo si irrigidì e si alzò in piedi come se qualcuno avesse
azionato una molla, un riflesso involontario. Lo stesso fecero i
guerriglieri che avevano visto appena uscite dal monastero.
L’uomo sceso dalla jeep si diresse a grandi passi verso Isobel,
si piantò innazi all’uomo senza rivolgere uno sguardo alla
ragazza e al fucile che ancora impugnava e disse alcune parole
incomprensibili, con tono fermo e deciso. L’uomo abbassò il
capo in segno di sottomissione, rimise il coltello nel fodero e si
diresse verso il gruppo di suoi commilitoni.
Nel frattempo era sopraggiunto Anrham che afferrò il fucile di
Isobel e lo gettò per terra. Isobel si voltò come riavendosi da
uno stato di trance e chiese a Anrham:
“Chi è quest’uomo? Cosa gli ha detto?”
Anrham fece per risponderle quando l’uomo si girò verso di
loro e disse in un inglese quasi perfetto:

422
“Il mio nome è Ahmed Sha Massud, sono il comandante delle
forze armate dell’Alleanza del Nord.”
Isobel fissò quell’uomo: viso allungato, sguardo mite ma fiero,
alto, elegante nel portamento, una barba curata a incorniciargli
il viso.
“Portate quel bambino all’ospedale, ha bisogno di cure urgenti:
potete prendere la mia jeep. ”
Rumi, che nel frattempo era sopraggiunta, sollevò il bambino
delicatamente, aiutata da Anrham, e lo trasportò fino alla jeep.
Massud impartì alcuni ordini ai guerriglieri che erano giunti
con lui e questi aiutarono Rumi ad adagiare il bambino nella
vettura.
“Nessuna vendetta; non finchè sarò io il comandante” disse
guardando Isobel negli occhi; poi, voltandole le spalle si
diresse verso i suoi uomini. Isobel raggiunse Anrham e Rumi,
salì sulla jeep e partirono alla volta dell’ospedale dove prestava
servizio Hani. Quando vi giunsero si trovarono innazi
all’inferno; l’ospedale era all’interno di un vecchio fortino,
residuato della dominazione inglese: all’ingresso una fila di
feriti sanguinanti, urlanti, scene di dolore e strazio infiniti
accolsero Isobel e gli altri che, tenendo in braccio il bambino,
si fecero largo tra quella moltitudine urlante, agonizzante e
ferita. Appena entrati Anrham cercò di attirare l’attenzione di
un qualche medico, ma tutti quelli che lui poteva identificare
come tali per via del camice bianco erano impegnati nelle cure
di qualche ferito. In quel momento Isobel scorse Hani in fondo
ad un corridoio, gli corse incontro chiamando il suo nome. Il
viso del ragazzo era pallido, i guanti di lattice che portava
sporchi di sangue, lo sguardo assente. Appena vide Isobel le
corse incontro e, dopo essersi accertato che stesse bene, si fece
condurre dal bambino.
“Karim!” Hani chiamò il ragazzo; nessuna reazione. Il respiro
era debole: Hani aprì i vestiti e controllò le ferite, poi corse in

423
una stanza attigua e ritornò con un medico; insieme lo
sollevarono e lo trasportarono verso una sala attigua. Mentre
portavano via il bambino Hani guardò Isobel e le disse:
“Lo operiamo d’urgenza; forse siamo ancora in tempo” e sparì
dietro un tendone verde.
Isobel sentì le sue gambe cederle ma fu sorretta dalle forti
braccia di Anrham. Guardò Rumi, gli occhi lucidi a cercare di
scrutare movimenti dietro il tendone. La abbracciò, si sedettero
in un angolo e attesero.

424
CAPITOLO LIV

24 Agosto 2001, Bamiyan

I mesi erano trascorsi velocemente. La guerra dettava le leggi e


i ritmi delle giornate, reclamava il suo posto nell’ordinare la
vita di chi le era andato incontro, anche se con l’intenzione di
guarire le ferite che provocava. La battaglia di Bamiyan fu in
tal senso uno spartiacque; gli eventi di quel giorno cambiarono
le priorità di tutti, Isobel per prima. Decise che ogni sua
energia sarebbe stata dedicata da quel momento ad aiutare le
persone di quei luoghi, collaborando come volontaria
all’ospedale dove lavorava Hani. Le ferite, i pianti, le lacrime, i
lutti che giornalmente attraversavano la sua vita erano
compensati dai sorrisi, dagli sguardi dolci e profondi dei
bambini che accudiva, dalle mani protese per un
ringraziamento. Dormiva sonni sereni, nessuna ombra, nessun
incubo. Tutte le domande, tutte le sue inquietudini, tutte le sue
smanie di ricercare, di scoprire si erano infrante e disperse di
fronte alla cruda realtà della guerra, della miseria e della
povertà. Aveva vissuto sulla sua pelle quelle parole che Hani
pronunciò in riva al lago a Lendi Eleusi e che allora le erano
sembrate incomprensibili: cosa te ne fai di conoscere e
indagare le potenzialità dell’essere se poi i bambini muoiono?
Ora lo sapeva: nulla, e aveva deciso, sul campo, che la
conoscenza era sacrificabile per un sorriso di un bambino.
Anche Rumi si era dedicata anima e corpo ad aiutare le
popolazioni di quei luoghi; a lei era anche successo di trovare
un figlio; Karim, il ragazzo che era rimasto ferito durante la
battaglia per la conquista del villaggio era sopravvissuto grazie
all’operazione, era guarito e aveva stretto un legame profondo

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con Rumi. Era un orfano, padre e madre uccisi quando i
talebani avevano preso il potere sette anni prima; aveva vissuto
presso la famiglia di uno dei ragazzi che erano morti il giorno
in cui Rumi e Isobel erano arrivati al villaggio e ora che anche
il padre di quest’ultimo, l’uomo che Isobel aveva riconosciuto
il giorno della battaglia, era morto egli, rimasto solo, si legò a
quella ragazza dagli occhi profondi e dal sorriso sincero che
aveva cercato di disarmarlo quel giorno e che gli era stata
vicino durante tutta la convalescenza. Quando fu dimesso
Karim, solitamente cupo e riservato, chiese a Rumi se si poteva
trasferire nella sua capanna e Rumi, sorpresa dalla richiesta,
accettò con gioia. Da quel momento divennero inseparabili;
dove era lui era anche lei e viceversa. Ridevano, scherzavano,
giocavano… Sembravano mamma e figlio e la cosa riempiva di
gioia entrambi e la popolazione locale che vedeva Karim felice
come mai lo era stato dalla morte dei suoi genitori. Quanto ad
Anrham, sembrava il più irrequieto del gruppo. Ogni tanto
spariva con la jeep per giorni interi lasciando detto che doveva
recarsi a Kandahar per delle commissioni. Passava giornate
intere a parlare con il professor Barbur e con Omar ben Sheik, i
volti scuri, gli sguardi torvi. Con Isobel e gli altri era sempre
prodigo di consigli e li aiutava spesso all’ospedale.
Quel giorno Isobel si svegliò all’alba e, come le capitava
spesso negli ultimi tempi, sorrise scoprendosi abbracciata ad
Hani; da quando si erano riuniti, nonostante la situazione non
facile ed emotivamente impegnativa che affrontavano
giornalmente, si era resa conto di quanto fosse innamorata di
quel ragazzo e di come la sua sola presenza le infondesse gioia
e serenità. Si alzò dal letto e aprì la porta della capanna
rabbrividendo all’aria frizzante del mattino; il sole stava
sorgendo all’orizzonte, su quella tavola rasa e arida che era
l’altopiano su cui era costruito il villaggio; i colori dell’alba
infiammavano le rocce circostanti insanguinando il panorama.

426
Isobel, per la prima volta da molto tempo, fu colta da cupi
pensieri; si guardò intorno: tutto era immobile; le capanne
circostanti erano immerse nel silenzio; Rumi stava sicuramente
dormendo accovacciata con Karim tra le braccia mentre la
capanna di Anrham era vuota da diversi giorni. Il vecchio era
partito ormai da una settimana per non meglio precisate
commissioni da effettuare a Kabul. Era in pensiero per lui
perchè quel viaggio significava dover attraversare per due volte
la linea del fronte. Isobel scrollò le spalle come a cacciare i
cattivi pensieri e rientrò nella capanna; riattizzò le ceneri e vi
mise sopra la caffettiera. Mentre attendeva il caffè lo sguardo
di Isobel cadde sulla valigia della nonna, ricolma di libri,
appoggiata in un angolo e ormai piena di polvere; da quando
era in quel luogo non aveva più preso in mano un libro, nè
aveva letto nulla del libro che le aveva consegnato il professor
Barbur. Era come se quel luogo, quella situazione avesse
cancellato ogni sua curiosità, ogni sua domanda sorta in quel di
Lendi Eleusi. Anche i Misteri delle Esuli, il libro che fino a
pochi mesi prima sembrava essere il centro della sua vita e lo
sprone per la sua ricerca era divenuta una presenza impolverata
in un angolo della sua memoria. Mentre sorseggiava il caffè
guardando dalla finestra l’orizzonte riprendere i normali colori
del giorno, vide un uomo correre all’impazzata verso la sua
capanna: era uno dei dervisci del monastero, un ragazzo alto e
magro di nome Alì. Isobel aprì la porta e il giovane, ansimante
e sudato, entrò e, senza attendere di riprendere fiato, le disse in
un inglese strascicato:
“Miss Isobel… Il professore… Venga subito…”
Isobel trasalì:
“E’ successo qualcosa al professore?” chiese afferrando il
giovane per un braccio.
Il ragazzo fece segno di sì con la testa poi aggiunse “ Morto..”.

427
Isobel si sentì per un attimo mancare; si precipitò da Hani, lo
svegliò e insieme corsero al monastero seguiti a distanza dal
ragazzo, troppo stanco per tenere il loro passo.
Giunsero in breve all’ingresso del monastero dove ad attenderli
c’era il vecchio Omar che, con un triste sorriso dipinto sul
volto, fece loro segno di seguirlo. Il vecchio li condusse al
chiostro e si fermò dinnazi a una porta davanti alla quale si
affolavano alcuni dervisci. Hani e Isobel si fecero largo ed
entrarono. Il corpo del professore era a letto, il volto sereno, un
mezzo sorriso a illuminagli il viso. A Isobel venne
immediatamente in mente la scena che aveva vissuto mesi
prima quando aveva visto la nonna morta sul letto dell’albergo.
“Ci stavamo recando ai riti del mattino” ruppe il silenzio Omar
”quando, passando davanti alla stanza, mi sono stupito di
trovare la porta ancora chiusa; di solito il professore si
svegliava molto presto e ogni mattina lo vedevo presso la
fontana del chiostro a fare yoga; così mi sono insospettito e ho
provato a bussare. Non ottennedo risposta ho aperto la porta.
Pensavo dormisse… Mi sono avvicinato e mi sono accorto che
non respirava.”
Isobel si avvicinò al letto e baciò il volto sereno del professore
mentre le lacrime le rigavano il volto. Con la mente corse
all’ultima volta che lo aveva visto: il giorno prima lo aveva
incrociato per caso mentre rientrava alla capanna sfinita dopo
una giornata passata all’ospedale; si erano salutati, il professore
le aveva chiesto se aveva avuto modo di leggere il libro che le
aveva dato; lei aveva cambiato discorso imbarazzata e si era
allontanata con una scusa. Se solo avesse saputo… Le
tornarono in mente le parole che aveva udito mesi prima al
funerale dei tre bambini, sempre lì in quel luogo, pronunciate
da Omar: perché dare per scontato che arrivi il giorno
successivo, perché immergersi poi nei rimpianti? Con un gesto
istintivo fece per sistemare le coperte del letto quando si

428
accorse che il professore stringeva in una mano, quella
nascosta sotto le lenzuola, un foglio. Gli aprì delicatamente la
mano; era ancora calda… Prese il foglio e lo guardò: era il
disegno di una farfalla. Ciò che il bruco chiama fine del mondo
il resto del mondo chiama farfalla, sussurrò. Dunque il
professore sapeva di stare per morire: il disegno della farfalla
non poteva essere una coincidenza, era una specie di
messaggio, un messaggio per lei.
Il Vincolo… Isobel trasalì. Il Vincolo aveva colpito ancora si
disse. Guardò Hani che comprese immediatamente quali
pensieri avesse Isobel. La strinse a se. Piansero insieme e
mentre la stringeva a se Hani le disse:
“Ricordatene sempre. Quello che il bruco chiama fine del
mondo il resto del mondo chiama farfalla! Me lo hai insegnato
tu….”
Isobel annuì. Proprio in quel momento entrò nella stanza Rumi,
con Karim in braccio; si accostò al letto e mise una mano sulla
fronte del professore mormorando una incomprensibile
preghiera, poi uscì dalla stanza per farvi ritorno pochi minuti
dopo con una farfalla tra le mani che liberò mormorando :
“Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo
chiama farfalla. Vola libera e che la tua forma sia splendida
come le ali che ti sostengono. Che la pace sia il tuo sentiero!”
Poi si accostò a Isobel e la abbracciò piangendo.
“Il vincolo” le sussurrò.
“Sì, il vincolo…” disse Isobel “Ma non posso stare qui ad
attenderlo! Il professore avrebbe voluto che continuassi le sue
ricerche…”
In un istante nella sua mente fu chiara la decisione:
“Devo continuare ciò che la nonna e il professore hanno
iniziato. Ho perso abbastanza tempo. Se solo sapessi dove
trovare quel maledetto libro…”

429
Rumi la guardò stupita: gli occhi di Isobel, ancora bagnati dalle
lacrime, sembravano fiammeggiare di una rabbia e di una
convinzione che nessuno aveva mai visto in lei.
“Forse ho qualcosa che potrebbe aiutarti, se questo è il tuo
intento.” disse Rumi guardandola negli occhi.
“Lo è!” rispose Isobel decisa.
“Allora seguimi” disse Isbel uscendo dalla stanza non dopo
aver ripreso in braccio il piccolo Karim.
Isobel accarezzò il volto del professore per l’ultima volta poi,
accompagnata da Hani, seguì Rumi e Karim fino alla loro
capanna. Una volta entrati Rumi prese il pesante zaino con cui
aveva affrontato il viaggio da Lendi Eleusi fino a lì, estrasse
alcuni fogli e li porse a Isobel. Lei la guardò con aria
interrogativa.
“Ricordi quando parlasti davanti al consiglio e ci mostrasti
quegli appunti di tua nonna sul libro?”
Isobel fece cenno di sì.
“Bene. In quell’occasione tu ci consegnasti gli appunti affinché
noi potessimo cercare di capire chi poteva celarsi dietro gli
acronimi e le scritte incomprensibili riportate. Questi sono i
risultati di quelle ricerche. Ovviamente l’analisi non è completa
ma credo che ti possa comunque essere utile. Avevo intenzione
di darteli subito, ma mi sono resa conto che la tua mente e i
tuoi desideri erano altrove. Le tenni per me; sapevo che
sarebbe giunto questo momento prima o poi”
Isobel prese i fogli e incominciò a leggerli. Di fianco alle
iniziali e alle scritte vi erano, annotati in corsivo, le traduzioni
delle citazioni e il nome del presunto autore delle sigle e della
citazione.

P.T. epopteuos thaumaston teleiotaton mystêrion epoptikon il grande e


mirabile e perfettissimo mistero visionario ????

430
P. E. είµαστε αιώνιοι και αιώνια είµαστε Siamo eternamente e
eternamente siamo Parmenide di Elea
Z. E. enthousia Essere invasi dal divino ??????
M.T.C. Alterius non sit qui suus esse potest. Non appartenga a un altro chi
puo’Ú appartenere a se stesso Marco Tullio Cicerone
P. ένας L’Uno Plotino
icniV ad L. Leonardo da Vinci
M.E. !!! ??????
J.S.B. Et Lucem Etiam Ubi Sempiternam Ioventute Sia luce sulla gioventu’˘
eterna (le iniziali formano Eleusi) Johan Sebastian Bach
J.H. The bottom of a damaged bucket Il fondo di un secchio sfondato?????
I.K. La realtà in se ??????
V.V.G. om eindeloze te schilderen Dipingere l’infinito Vincent Van Gogh
A.R. Elle est retrouvèe. Quoi? L’Eternitè Ella Ëe’ stata ritrovata. Chi?
L’eternita’ Arthur Rimbaud
F.W.N. Astu Friedrich Wilhem Nietzsche
C.G.J. NAHTRIHECCUNDE GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH ZUNNUS
A.E. E= mc2 T=∞ ? T=0 ? Albert Einstein
K. G.

Kurt
Godel

431
J.C. F G Ab Bb C ???????????
J.D.M The scream of the butterfly L’urlo della farfalla Jim Morrison
G.G. Slowly fading in the north, the ice, the night. What a silence… What a
music… Dissolvendosi lentamente verso nord….il ghiaccio, la notte. Che
silenzio………..Che musica….. ??????
T.M. Icci, segui chi mi ha preceduto! Tina Morrison

Man mano che scorreva quelle annotazioni e quei nomi lo


stupore di Isobel cresceva: la maggior parte di loro li
conosceva o per fama o per avere in qualche modo avuto
contatto con le loro opere ma… come poteva il libro essere
passato tra le mani di alcuni dei più influenti artisti, filosofi,
poeti, musicisti dell’occidente?
Leggendo quei nomi sembrava che il possesso di quel libro
legasse opere e personaggi distanti nel tempo; un misto di
inquietudine e di curiosità le si insinuò nella mente. Guardò
Rumi con aria interrogativa.
“So’ a cosa stai pensando” le disse la ragazza “è stupefacente e
inquietante a un tempo pensare in quali mani quel libro sembra
essere passato nei secoli. Il professor Barbur e tua nonna hanno
cercato per una vita di dare un nome a coloro che erano entrati
in possesso del libro e ne erano stati influenzati, ma il loro
tentativo era disperato; cercare un concetto univoco, una trama
sottostante e invisibile nelle opere più disparate… Eppure in
questa ricerca si sono avvicinati alla verità forse più di
chiunque altro perché ha permesso loro una visione d’insieme
e un approfondimento di varie discipline: solitamente, almeno
in occidente, vi sono separazioni nette tra filosofia e fisica, tra
pittura e poesia. Credo che il cercare una comune ispirazione,
una comune sottotrama abbia portato il professore e tua nonna
molto vicini all’intuizione finale. Manca solo un passo: il
recupero del libro. E’ giunto il momento che tu decida cosa
432
fare del tempo che ti sarà concesso di vivere” e così dicendo la
guardò negli occhi con sguardo accigliato e penetrante.
Isobel si sentì confusa, pressata da emozioni contrastanti: la
morte del professore, il disegno della farfalla, i feriti
dell’ospedale e, sullo sfondo, l’ombra del castigo per la
violazione del vincolo, l’ombra della morte. Passò una mano
sul foglio, raccolse i suoi pensieri sparpagliati in mille rivoli, in
mille direzioni e disse:
“Voglio trovare questo stramaledetto libro: lo devo alla nonna,
al professore ma, forse più di tutto, lo devo a me stessa, alla
mia pace interiore, a tutte le persone che hanno vincolato la
loro esistenza a quel libro. Ma… non saprei da dove
incominciare” disse mettendosi le mani nei capelli con aria
tormentata.
“…dal dottor Suzuki, e da dove se no?”
L’arrivo di Anrham colse tutti di sorpresa.
“Anrham” disse Isobel andandogli incontro e abbracciandolo”
il professor Barbur è…”
“Sì, lo so. Prima di venire qui mi sono fermato al monastero e
Omar mi ha dato la notizia. Ora è venuto il momento di fare ciò
che lui e tua nonna avrebbero fatto se avessero avuto le
informazioni che abbiamo noi.”
“Ma che informazioni abbiamo?” disse Isobel ”Un foglio su
supposti passaggi di mano del libro e l’identità di chi mi ha
sottratto il libro; ma immagino che bussando a casa del dottor
Suzuki non lo troveremo; sarà sparito da tempo…”
“Sì, è sparito ma io so dove possiamo trovarlo…” disse
Anrham sorridendo.
Isobel, Rumi e Hani lo guardarono stupiti.
“Ma come puoi saperlo? E, dove sarebbe?” chiese Isobel
incredula.

433
“In Irlanda. Ho ancora degli amici nelle redazioni dei giornali
di mezza Europa e se chiedo un favore tendenzialmente me lo
fanno… “ disse Anrham con noncuranza.
“In Irlanda?” disse Hani.
“Sì, in Irlanda. Effettivamente dalla morte di Tina non ha più
rimesso piede nella sua casa di Londra, che ha affittato a una
coppia di Liverpool. Per un po’ si sono perse le sue tracce ma
ieri il corrispondente di Der Spiegel a Dublino mi ha contattato
per comunicarmi che il dottor Suzuki era nella sua casa vicino
a Killerny. Pare sia stato operato e ora sta trascorrendo la
convalescenza nella sua casa delle vacanze. Ho il suo indirizzo
esatto.”
“Anrham, ma io pensavo tu fossi contrario a che io proseguissi
la ricerca del libro...” disse Isobel sempre più confusa.
“E’ vero, lo ero; ma parlando con il professore mi sono reso
conto della passione che lo animava, passione che trascendeva
la paura, la vecchiaia, la stanchezza, la voglia di lasciarsi
scorrere addosso le cose del mondo e ho capito che, come
l’assistere i feriti è un modo per dire no a come vanno le cose,
altrettanto lo è cercare di avanzare la conoscenza dell’uomo per
farlo irrompere in territori dove la conoscenza non è più fine a
se stessa ma connaturata all’uomo e alla sua piena
consapevolezza: e un uomo consapevole è un uomo salvo,
consapevole e insieme distante dalle brutture del mondo e tale
distanza, che io reputavo fuga, può essere ciò che salva la
nostra reale umanità: il compenetrarci l’uno nell’altro. E ho
finalmente capito che la ricerca di Tina non era meno preziosa
di una mano calata sugli occhi di un moribondo, perché il loro
fine era il medesimo: alleviare le sofferenze dell’uomo e
accompagnarlo nel suo percorso, qualunque fosse il
traguardo…”
Isobel gli sorrise.

434
“…per cui se hai deciso di andare fino in fondo nella ricerca
del libro sappi che avrai la mia approvazione e tutto il mio
aiuto.”
Isobel lo abbracciò e disse:
“Sì, ho deciso: andrò in Irlanda per incontrare il dottor Suzuki e
sapere dove si trova il libro”.
“Anch’io verrò con te Isobel” le disse Hani.
Rumi sorrise guardando i tre, poi il suo sguardo si abbassò sul
piccolo Karim che era seduto in un angolo e giocherellava con
dei sassi.
Non sarebbe partita.

435
436
CAPITOLO LV

3 Settembre 2001, Killerny

Nella sala da pranzo del bed and breakfast una radio lontana
diffondeva One, la canzone degli U2. Isobel si infilò lo zaino,
aiutata da Hani, e uscì dalla porta dopo aver salutato la padrona
di casa che ricambiò cordialmente. All’esterno li attendeva
Anrham con tre biciclette appoggiate al bianco muro della
casa; la giornata era limpida e tersa, una rarità in Irlanda dove
le nuvole e la pioggia erano molto frequenti. Isobel si guardò
intorno: la campagna irlandese riluceva davanti a lei, con i prati
verde smeraldo a fondersi con il limpido azzurro del cielo. Fin
da quando erano arrivati in Irlanda Isobel si era resa conto di
quanto le mancasse il verde: i mesi trascorsi nella polvere
dell’altopiano afgano le avevano fatto dimenticare la bellezza e
la pacifica serenità che le donava osservare un prato verde o i
verdi rami di un albero scossi dal vento. Si trovavano a una
decina di chilometri dal centro abitato di Killerny, una piccola
cittadina nel cuore della regione del Ring of Kerry. Avevano
scelto quel bed and breakfast isolato e in aperta campagna
perché si erano resi conto, fin dal momento in cui erano
sbarcati all’aereoporto di Dublino dal volo diretto da Kabul,
che il traffico, le automobili, il vociare delle persone per strada
erano a loro insopportabili: i mesi tracorsi nella quiete e nel
silenzio di Lendi Eleusi prima e nell’arido altipiano di
Bamiyan poi li avevano abituati a ritmi e suoni che rendevano
il traffico e il caos in cui era immersa Dublino infernale. Chi
soffriva maggiormente di questa situazione era sicuramente
Anrham: per sua ammissione infatti erano almeno quindici anni
che mancava dall’Europa e almeno dieci che non si spostava da
Lendi Eleusi.
437
Isobel controllò il fogliettino di carta che la padrona del bed
and breakfast le aveva consegnato con le indicazioni per
raggiungere la strada dove si trovava la casa del dottor Suzuki.
“Andiamo” disse dopo aver inforcato una bicicletta ”secondo la
signora O’Riordan la casa del dottor Suzuki dista non più di
quindici minuti in bicicletta; seguitemi.”
E così dicendo montò in sella e diede un paio di vigorose
pedalate. Anrham e Hani la seguirono prontamente.
La piccola strada sterrata che stavano percorrendo fendeva
zigzagando la collinetta su cui era situato il bed and breakfast.
Sul lato sinistro un boschetto di querce nascondeva il sole
ancora basso sull’orizzonte, mentre sul lato destro pascolavano
placide una decina di mucche, all’interno di una serie di
muriccioli di pietra che delimitavano gli spazi loro consentiti.
La discesa li condusse fino a un incrocio con un'altra strada
sterrata seguendo la quale, secondo le indicazioni della signora,
sarebbero giunti al lago di Killerny. Isobel ammirava il
paesaggio mentre la fresca aria del mattino le accarezzava il
viso: il verde era da sempre il suo colore preferito e quelle
immense distese di smeraldo la mettevano di buon umore e le
infondevano un senso di pace e tranquillità. Giunsero in breve
al lago; Isobel accostò di lato fermandosi per osservarlo e per
controllare il percorso.
Era piuttosto grande, soprattutto se rapportato al laghetto della
cascata di Lendi Eleusi, pensò Isobel. Alla sua sinistra un
rudere di un antico castello medievale si tuffava direttamente
nelle acque del lago, anch’esse di un verde intenso, mentre
sugli altri lati lo specchio d’acqua era circondato da un fitto
bosco di querce: due cigni bianchi solcavano placidamente le
sue acque. Sullo sfondo il profilo dei monti si stagliava placido
nell’azzurro cielo.
Isobel si accertò che Anrham e Hani l’avessero raggiunta, poi
riprese la marcia. Costeggiarono per alcuni minuti il lago poi,

438
attraversato un piccolo paese, si inoltrarono per una strada
sterrata che saliva su di una collinetta in cima alla quale,
circondata da alberi, stava una casetta. Isobel accostò
ansimando e, indicando la casetta disse:
“Deve essere quella, anche la via corrisponde”.
Anrham e Hani annuirono.
Giunsero innazi alla casa, appoggiarono le biciclette ad un
muricciolo di pietre e si guardarono intorno: le acque del lago
brillavano da basso mentre i verdi prati circostanti, accarezzati
dal vento, sembravano formare onde che si infrangevano le une
sulle altre in un perpetuo rincorrersi.
Isobel si distolse dall’ammirare il panorama e si accostò alla
casa: nessun rumore, nessun segno di vita. Bussò alla porta e
tese l’orecchio per ascoltare eventuali rumori dall’interno. Una
voce lontana rispose:
“Venite avanti! E’ aperto”.
Isobel spinse la pesante porta di legno verniciata di rosso che si
aprì cigolando ed entrò, seguita da Anrham e Hani.

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440
CAPITOLO LVI

3 Settembre 2001, Killerny

La sala era in penombra; a stento riuscivano a distinguere il


profilo dei mobili che l’arredavano. Il pavimento scricchiolò
sotto i loro passi.
“Da questa parte Miss Morrison, da questa parte…”
La voce proveniva dal piano superiore.
“Le scale sono proprio di fronte a voi” li guidò una voce.
”Un’unica raccomandazione Miss Morrison: sento che lei è
accompagnata. Le chiedo la cortesia di salire da sola….”
Isobel guardò Hani e Anrham. Entrambi fecero segno di non
andare.
Lei prese le loro mani e li rassicurò con una sguardo deciso e
convinto.
“Come desidera dottor Suzuki. Sto’ arrivando” e prese a salire
le scale.
Giunta al primo piano si diresse verso una porta socchiusa,
dalla quale filtrava della luce, bussò e attese.
“Si accomodi Miss Isobel”. Il dottor Suzuki pareva ansimare.
Isobel spinse la porta ed entrò. Il dottore era a letto, una
mascherina collegata a una bombola di ossigeno sul volto, le
lenzuola e una coperta a scacchi multicolori a coprirne il corpo.
“Buongiorno Miss Isobel” disse alzando un braccio in segno di
saluto ”Si accomodi” le disse indicando una sedia posta di
fianco al letto.
“Erano diversi gioni ormai che attendevo la sua visita; pensavo
non arrivasse più in tempo…”
“In tempo?” chiese Isobel accostandosi al letto ma restia a
sedersi al capezzale di quell’uomo.
441
“Lo vede l’ossigeno?” disse indicando la bombola rossa di
fianco al letto “Tumore ai polmoni… Metastasi ovunque…
Morfina tre volte al giorno. Era stato solo un appuntamento
ritardato: il vincolo alla fine si è ricordato di me, una volta
compiuta la missione.”
“Dov’è il libro?” disse bruscamente Isobel ricordandosi il
motivo per cui era lì.
“Una cosa per volta Miss Isobel, una cosa per volta... Vi sono
molte cose da dire, molte da spiegare…“ rispose pacatamente
Suzuki.
“Perché me lo ha rubato?”chiese Isobel impaziente.
“Prima del perché viene il cosa Miss Isobel. Che cosa le ho
rubato? Immagino lei sappia già tutta la storia di Eleusi, della
fuga, del libro eppure a lei come a tanti altri sfugge la sua reale
importanza. Ma è giusto, non avendo avuto l’opportunità di
leggerlo, uno può solo fare supposizioni su una cosa che
sembra più mitologica che reale. Solo chi mi ha commissionato
la ricerca e il furto sembra veramente comprendere
l’importanza decisiva che questo libro ha nella storia del
mondo e per il futuro dell’umanità..”
Isobel accennò un breve sorriso sarcastico.
“Vedo che mi reputa pazzo, ma quando avrò finito il mio
racconto forse la penserà diversamente…” replicò il dottore
pacatamente ”Ma si sieda, non ho intenzione di farle alcun
male e anche se volessi, cosa che le garantisco non è, come può
ben vedere sono praticamente immobilizzato a letto. Ogni
piccolo movimento mi richiede uno sforzo immenso, ed è così
doloroso…”
Una smorfia di dolore gli attraversò il viso.
Isobel si accostò al letto e si sedette.
“Bene…” disse il medico sospirando “Dove eravamo rimasti?
Ah sì, che cosa è il libro? Il libro contiene, come lei forse può
immaginare, i segreti che venivano comunicati ai mystes

442
durante i riti iniziatici di Eleusi. Essi sono il punto cruciale di
tutto… Molti studiosi di Eleusi e della Grecia antica sono
incuriositi dal mito di Eleusi, ma pochi si sono avventurati in
uno studio serio sulle sue simbologie e sull’importanza che tali
segreti possono aver avuto in quel passato, figuriamoci se
possono avere l’ardire di pensare che abbiano una seppur
minima importanza oggi. Eppure oggi più che mai tali segreti
possono dirimere la storia del mondo, anche se poche orecchie
sarebbero disposte ad ascoltarli. “
“Non le sembra di esagerare?” chiese Isobel ”In fondo è solo
un libro e, purtroppo o per fortuna, nessun libro ha mai
cambiato il mondo.”
“Ne è davvero convinta?” chiese il dottor Suzuki ”Prendiamo
la Bibbia, o il Corano o, anche se l’accostamento può
sembrare blasfemo, il Mein Kampf di Hitler o il Capitale di
Marx. Questi libri hanno cambiato il corso della storia, questi
libri hanno guidato guerre, rivoluzioni, genocidi, conversioni,
crociate, guerre sante, stermini. Questi libri e le idee che
veicolano sono stati protagonisti della storia come noi la
conosciamo e ne hanno condizionato pesantemente il corso.
Senza questi libri il mondo non sarebbe come noi lo
conosciamo e forse io e lei non esisteremmo. Quindi bisogna
essere più cauti quando si dice che i libri sono innocui: forse
essi lo sono ma le idee che veicolano possono essere più
esplosive e dirompenti di una bomba nucleare. Sì, credo che
nessuno storico potrebbe smentire che ne ha uccisi più il Mein
Kampf che l’orrendo bombardamento atomico americano su
Hiroshima e Nagasaki. Le azioni dell’uomo sono spesso
crudeli, soprattutto quando a guidarle sono una fede o
un’ideologia, un qualcosa che lo trascenda e che renda
qualsiasi mezzo subordinato al fine. Quando il fine è diverso
dall’uomo il problema è lungi dall’essere superato….”

443
“Ciò che lei dice risponde al vero” disse Isobel ”Ma quale
messaggio può avere, come lei ha detto, un’importanza
decisiva per l’umanità? Perché, aldilà della valutazione
soggettiva del messaggio, esso deve essere anche diffuso,
compreso e accettato, e questi sono processi lunghi che non
possono essere eterodiretti.”
“Su questo può aver ragione Miss Isobel. Ma lei non si rende
conto della importanza e della decisività del messaggio
contenuto nel libro; e quale messaggio è più dirompente e
pericoloso di quello che dice, anzi che prova, che il tempo non
esiste, che il nostro io non esiste, che la realtà che
sperimentiamo ogni giorno è illusione e che noi siamo,
fondamentalmente, una cosa sola con il nostro prossimo? Lo
so, tutto ciò ha un suono vagamente hippy, vagamente new
age, ma questo messaggio travalica le sterili definizioni e
attraversa il tempo, lo spazio e le culture che il nostro pianeta
ha ospitato durante i millenni… Questi concetti, presenti in
oriente nel Buddismo, nell’Induismo e nel Sufismo, non hanno
mai avuto, almeno palesemente, alcun corrispettivo nella
cultura occidentale. La vostra cultura, che vuole caparbiamente
diventare la cultura egemone in tutto il mondo e vuole imporsi
ad esso attraverso il Dio-libero mercato, fin dall’epoca dei
greci sembra aver impostato tutto sulla ragione, sulla
razionalità, sull’efficienza, sull’efficacia. Il culto della ragione,
che ha avuto il suo culmine nell’Illuminismo, è iniziato in
Grecia con Socrate, con Platone e la loro filosofia, la loro
logica, la loro dialettica... “ il dottor Suzuki parlava come a una
platea, lo sguardo ispirato, la gestualità teatrale.
“Ed è questa l’importanza e la pericolosità di individui come
Zenone, come Parmenide: essi tentavano di dimostrare con la
ragione che la ragione può avere, e in alcuni casi ha, torto.
Zenone e Parmenide combattevano la logica occidentale con le
sue stesse armi, con la logica, con il dialogo e la dialettica. Essi

444
hanno testimoniato, con i pochi frammenti delle loro opere
giunti sino a noi, che se la logica è contro ciò che
sperimentiamo è possibile che sia ciò che sperimentiamo
errato, se la logica è applicata con coerenza e imparzialità. Di
Parmenide e Zenone di Elea ci sono giunti pochi scritti, per lo
più riportati da altri filosofi, ad esempio Platone e Aristotele. Il
loro messaggio originale è perduto eppure, pensando a Zenone,
i suoi tre paradossi sul moto e lo spazio hanno attraversato i
secoli senza che nessuno abbia potuto in qualche modo
confutarne la portata: si sono semplicemente ignorati, messi da
parte e i pochi che si sono cimentati nel tentativo di trovare il
loro punto debole, la contraddizione che disinnescasse la loro
azione demolitrice della realtà per come noi la conosciamo, ne
sono usciti con le ossa rotte; persino Aristotele da molti
giudicato il più grande logico che sia vissuto… I paradossi di
Zenone sono là, granitici, inespugnabili, moniti inascoltati
dell’irrealtà delle nostre percezioni quotidiane.”
“Ma sono, appunto, paradossi” lo interruppe Isobel.
“Sì, lo sono. Ma normalmente dove nascono paradossi è perché
la teoria che si sta applicando non è coerente e non è completa.
I paradossi segnalano i punti deboli di ogni teoria. E ai
paradossi di Zenone se ne stanno sommando altri. Il progresso
del pensiero e della scienza, soprattutto in questo ultimo
secolo, ci ha portato a risultati che in qualche modo si
avvicinano a quei concetti di irrealtà del tempo, di fallacia delle
nostre percezioni della realtà, di comunicazione non locale e di
unione tra persone. La scienza è divisa in migliaia di branche,
la fisica, la biologia, la medicina, la psichiatria, la matematica,
e in tutte queste discipline vi sono state scoperte che hanno
avvicinato il nostro grado di conoscenza a quei concetti di unità
di cui parlavo prima: il problema è che tale parcellizzazione fa
sì che si perda la visione d’insieme delle cose, si osserva la
parte e si dimentica il tutto.

445
Ma questi concetti, a ben guardarci, erano già presenti sin
dall’epoca dei greci: la caverna di Platone come metafora del
fatto che la realtà che percepiamo è solo un’ombra della realtà
vera; l’uno di Plotino come origine indistinta di ogni
particolarità e luogo in cui ogni individuo si compenetra con
ogni altro; Parmenide e l’eternità dell’essere; Zenone e
l’irrealtà dello spazio e della molteplicità per come noi li
percepiamo. Tutti questi concetti erano presenti, ma sono stati
sfumati, anestetizzati, resi innocui. Si dice che siamo la civiltà
della ragione: in realtà, ad analizzare le cose, sarebbe più giusto
dire che siamo la civiltà della rimozione, che ha abbandonato la
ragione per la realtà percepita. Ma i nostri sensi possono
apprezzare solo una briciola della realtà. La ragione era più
vicina alla realtà di quanto non lo sia la nostra percezione di
essa: i paradossi di Zenone sono qui a dimostrarcelo, come lo
sono la teoria dei quanti, la relatività e il paradosso EPR in
fisica, gli archetipi, l’inconscio collettivo, i deja vù, le
regressioni ipnotiche e gli studi sulla schizofrenia in psicologia,
le esperienze psichedeliche e mistiche nelle religioni arcaiche e
moderne, il concetto di infinito e il teorema dell’incompletezza
in matematica. Il problema è che ognuna di queste discipline
ragiona come se esistesse solo lei, non vi è nessuno che
raccolga i dati e guardi il quadro d’insieme che emerge. Questo
una volta era il compito della filosofia: dare un substrato
concettuale ai risultati delle varie scienze e, in qualche caso
anticiparne i risultati stessi; ma oggi la filosofia è schiava della
scienza e della tecnica, ne subisce il fascino, non ha un suo
essere autonomo ed è stata relegata, da disciplina fondante di
ogni sapere e predittiva delle sorti e della direzione presa dal
mondo quale era un tempo, ad un ruolo subordinato, a
speculazione fine a se stessa e slegata da ogni realtà, quando
non a studio facoltativo per persone con neuroni da far girare a
vuoto. Solo le grandi religioni monoteiste sono rimaste come

446
baluardi al dilagare della tecnica e della scienza. Libri contro
altri libri, concetti che si contrappongono. Sei ancora convinta
che i libri non abbiano importanza? Tre libri sono alla testa
delle grandi religioni monoteiste, e questi tre libri guidano le
sorti di miliardi di persone: le loro interpretazioni, giuste o
sbagliate che siano, hanno spesso voluto dire la vita o la morte
di persone, di popoli, di civiltà. “
Isobel ascoltava interdetta: il dottor Suzuki era ormai un fiume
in piena.
“….Ma anche queste religioni hanno in se frammenti di tali
verità; anche il messaggio cristiano, prima che fosse riveduto e
corretto da mille concili e da mani preoccupate più del potere
che della conservazione del messaggio originale di Gesù, aveva
fondamentalmente un messaggio simile. I passaggi dei vangeli
sulla povertà, sulla purezza di cuore, sull’innocenza dei
bambini sono stati interpretati in maniera letterale, quando essi
tendono a definire quello stato d’animo in cui è possibile,
distanti da ciò che ci lega al qui e ora, alla materia, alla terra,
accedere a una coscienza diversa delle cose e del mondo;
basterebbe leggere le vite e le opere dei grandi mistici cristiani
per capire come le loro esperienze mistiche li abbiano portati
verso stati di realtà in cui i concetti stessi di realtà, spazio,
tempo venivano meno, vinti e assorbiti dall’unione del tutto
nell’Uno….
Per quanto riguarda l’Islam vi è il sufismo: in esso ritroviamo i
medesimi concetti: la fondamentale indistinzione di ogni
essere, l’annullamento di ogni desiderio e pensiero per
giungere al nocciolo della realtà, all’unione mistica con Allah.
La via del sufi, pur con molti distinguo, approda allo stesso
luogo in cui conducono la via del Tao, l’ascesi mistica
cristiana, la meditazione buddista.
Un poeta sufi, Mahmud Shabestari vissuto nel 1200 scrisse,
cito a memoria:

447
Sappi che il mondo intero è uno specchio
e in ogni atomo si trovano cento soli fiammeggianti.
Se tu fendi il cuore di una sola goccia d'acqua,
ne scaturiscono cento puri oceani.
Se tu esamini ciascun grano di polvere,
Mille Adamo possono essere scoperti...
In un seme di miglio è nascosto un universo
tutto e raccolto nel punto presente...
Da ogni punto di tale cerchio
sono tratte forme a migliaia.
E ciascun punto, nel suo ruotare in cerchio
è ora un cerchio, ora una circonferenza che gira.

Ora io vorrei che lei paragonasse questi versi con quelli famosi
vergatida William Blake, mistico cattolico londinese, nato in
una famiglia borghese nel 1750. Egli scrisse:

Vedere un mondo in un grano di sabbia,


E un cielo in un fiore selvatico,
Tenere l'Infinito nel palmo di una mano,
E l'Eternità in un'ora.

Non trova sorprendente che persone di culture diverse,


religioni diverse, distanti nello spazio e nel tempo si siano
trovate a sperimentare e riportare quasi con le medesime parole
lo stesso concetto, ovvero che nell’infinitamente piccolo sta
l’infinitamente grande, che ogni cosa si specchia in ogni altra e
tutte sono riflessi dell’infinito? Cosa restituiscono gli specchi
se sono posti l’uno di fronte all’altro? Una immagine infinita di
se. Ecco, se noi sapessimo specchiarci e riconoscersi negli altri
vedremmo la nostra eternità….”
Isobel era ormai affascinata; le sembrava di essere tornata a
Lendi Eleusi con il professor Barbur.

448
“E’ triste scoprire come certi concetti siano vecchi quanto il
mondo” continuò il dottor Suzuki” Ad esempio un’attenta
analisi della mitologia greca e di altre mitologie dovrebbe far
cogliere come certe culture fossero giunte a una comprensione
delle cose pressoché identica: prendiamo ad esempio il
concetto di creazione e del tempo e la rappresentazione che ne
dà la mitologia greca. La storia è la seguente: Crono figlio di
Urano e Gea, rispettivamente il cielo stellato e la terra, era
l'ultimo dei Titani, il più giovane della serie di figli generati da
queste due divinità primordiali in perenne simbiosi e
accoppiamento, e dal padre nascosti nelle profondità della terra
stessa. Questo enigmatico, e tuttavia simbolico, odio del padre
per i figli si riproduce nella vicenda di Crono: sottratto dalla
madre al destino degli altri fratelli Titani, Crono non solo li
libera dalla loro prigionia, ma compie sul padre una
emblematica vendetta evirandolo. Divenuto re dell'universo,
sposa la sorella Rea, e avvertito da una profezia che uno dei
suoi figli lo avrebbe detronizzato, a mano a mano che essi
nascevano li inghiottiva.
Oscuri sono i significati del ripetersi di questo annullamento
dei figli: certamente vi si può leggere un tentativo di arrestare
l'evolversi delle vicende terrestri che tendono fatalmente ad
instaurare il regno degli uomini distruggendo il regno degli dei.
E in questo è implicita anche la volontà di impedire il flusso
del tempo bloccandolo in una fase che precede l'inizio della
storia.
Il regno di Crono è infatti la mitica età dell'oro che precede
ogni esperienza umana, l'età primigenia di una felice e intatta
infanzia del mondo.
Ma anche per Crono viene la rivolta e la vendetta dell'ultimo
figlio, Zeus, sottratto dalla madre alle fauci paterne, allevato
nell'isola di Creta dalla capra Amaltea, protetto dai guerrieri
Cureti che coprirono i vagiti del neonato con il rumore delle

449
armi cozzanti. Zeus detronizzerà ed esilierà Crono, sposerà la
sorella Era, e porrà fine all'età dell'oro. I1 tempo comincia a
scorrere secondo il ritmo degli uomini, scandito da guerre,
fatica, nascita e morte.
L’interpretazione che può essere data a questo mito è la
seguente: il cielo e la terra, il divino e l’umano (Urano e Gea)
erano uniti un tempo (e il sommo simbolo dell’unione tra uomo
e divino è l’atto sessuale, atto in cui si perpetua il miracolo
della vita). Il concetto di tempo (Crono) ha separato
violentemente l’uomo da Dio (il mondo spirituale da quello
materiale, il cielo dalla terra) e con questo atto egli è diventato
il re del mondo. Divorando i suoi figli poi dimostra come egli
(il concetto di tempo) impedisca una qualsiasi evoluzione delle
umane vicende in senso spirituale. Solo una lotta epocale
(quella di Zeus, un Dio) può mettere in catene il tempo, ma
neanche Zeus può ucciderlo ed egli continuerà a scandire le
vicende umane. La scissione tra umano e divino operata dal
tempo sembra irreversibile. Di più, dal membro di Urano
tagliato da Crono usciranno alcune gocce di sangue che
genereranno le Erinni, le dee della vendetta (il concetto di
vendetta ha effettivamente senso solo nel tempo) e con esse il
sentimento di rivalsa e di sopraffazione.
E’ interessante a questo punto notare come nel Corano si dica:
“I miscredenti non sanno che i cieli e la terra formavano una
massa compatta e unica. Poi noi l’abbiamo separata e tratto
dall’acqua ogni forma vivente…” Il medesimo, concetto:
l’unione fra cielo e terra, tra Dio e l’uomo. Anche la Genesi,
con il racconto del Paradiso terrestre ci parla di un mondo in
cui l’uomo era a diretto contatto con Dio e che fu da esso
diviso dalla sua volontà di mangiare il frutto dell’albero della
conoscenza del bene e del male: ovvero l’uomo fu diviso da
Dio nel momento in cui iniziò a distinguere il bene dal male,
non comprendendo che sono l’uno complementare all’altro,

450
uno indissolubilmente legato all’altro. Non esiste il bene
assoluto e non esiste il male assoluto. Le distinzioni sono
creazioni della nostra mente; come diceva Plotino: “Non puoi
vedere il sole se non diventi prima Sole”. Le distinzioni sono
semplificazioni. Come sosteneva Gandhi:
“Tu e io non siamo che una cosa sola. Non posso farti del male
senza ferirmi.”
Pensa alla portata rivoluzionaria di un concetto del genere;
pensalo applicato nella pratica; non fare agli altri quello che
non vuoi fosse fatto a te perché tu sei gli altri!”
Il viso del dottore era sereno, le parole fluivano in un continuo,
Isobel era ormai presa nel vortice.
“Ma ora basta con le fumisterie metafisiche, ho divagato
troppo… Che cosa è quel libro? E’la testimonianza che i riti
fondanti e i misteri di Eleusi derivano dagli insegnamenti di
Parmenide e di Zenone ed in esso sono contenuti una serie di
loro scritti che si ritenevano perduti per sempre. Questo è un
ritrovamento di capitale importanza perché le pagine di Zenone
e Parmenide, con una chiarezza disarmante, pongono problemi
sulla realtà che noi tutti conosciamo che non sono facilmente
eludibili: e i nostri concetti di realtà, di molteplicità, di spazio e
di tempo passati al vaglio di queste due menti immense
vengono destrutturati e confutati fino a renderne evidente
l’illusorietà delle premesse. E’ una lettura inebriante e
spiazzante al tempo stesso, una vera iniziazione.”
Isobel sgranò gli occhi mentre la sua curiosità aumentava di
parola in parola.
“Immagino che ti starai chiedendo perché ti ho sottratto il libro,
vero? L’ho fatto per prima cosa perché volevo assolutamente
leggerlo, poi perché penso sia giunto il momento che il mondo
sappia, è giunto il momento che la vera storia di Eleusi e dei
suoi misteri venga rivelata. Ho discusso anni con tua nonna
Isobel, su cosa avremmo fatto se un giorno avessimo ritrovato

451
il libro, e su questo non ci trovammo mai d’accordo; io volevo
che fosse reso pubblico, che fosse reso noto il suo contenuto,
qualunque esso fosse stato. Avrei voluto diffondere e
pubblicare il libro, renderlo noto a quante più persone possibili
in modo da far comprendere, ne ero sicuro, in quale vicolo
cieco si sia gettata la cultura occidentale. Tua nonna invece
sosteneva che avremmo creato un nuovo libro sacro, una nuova
religione e avremmo ripercorso gli errori che altre culture e
altri libri hanno fatto percorrere all’umanità; lei sosteneva che
la battaglia per una nuova consapevolezza dovesse essere
individuale, un percorso personale e unico ogni volta. Io le
ribadivo l’importanza e la grandezza che avrebbe avuto il
messaggio, lei mi ribadiva che ogni messaggio, anche il più
puro può essere male interpretato e utilizzato per fini che se ne
discostano radicalmente. Tina sosteneva che ogni cosa indotta
dall’esterno è limitata perché non proviene dall’esperienza
diretta. Fu in quel periodo che venni contattato da un uomo, mi
disse di essere un miliardario, che mi comunicò di avere notizie
del libro e mi promise che, se lo avessimo trovato, lo avrebbe
pubblicato a sue spese e lo avrebbe diffuso in tutto il mondo. E
ora che l’ho letto a maggior ragione credo di essere nel
giusto…”
“Chi è quell’uomo?”chiese Isobel.
“Non l’ho mai visto: ci siamo sentiti diverse volte
telefonicamente e, quando andai a Lendi Eleusi, via lettera. Mi
disse di accedere a quante più notizie potevo sul libro e, una
volta avute, di andarmene da Lendi Eleusi. Mi disse anche che
il Vincolo, di cui non so come ma era a conoscenza, non
avrebbe ostacolato chi voleva diffondere il messaggio di verità
di Eleusi. Scappai da Lendi Eleusi pieno di timori e di paure,
convinto che presto avrei trovato la morte, ma quando appresi
che l’aereo dove dovevo salire e che persi per un banale ritardo
era caduto e che dei passeggeri non era rimasto nessun

452
superstite, capii che quell’uomo aveva ragione. Quella
coincidenza aveva un messaggio da comunicarmi, e il
messaggio era che la mia strada era quella giusta!
Ripresi la mia professione di medico a Londra ma dedicavo
ogni momento libero alla ricerca di indizi e del luogo dove
poteva essere custodito il libro. Brancolavo nel buio quando un
giorno, si potrebbe dire per caso ma certe sincronicità hanno un
senso superiore a quello che noi possiamo afferrare, mentre
passeggiavo per Londra, incontrai tua nonna. Fu molto sorpresa
di vedermi perché, come tutti gli ospiti di Lendi Eleusi, mi
riteneva morto nell’incidente aereo. Le chiesi di mantenere il
silenzio sulla mia sorte, se mai fosse tornata a Lendi Eleusi, e
in cambio io le rivelai parte di quello che conoscevo del libro.
Tua nonna mi diede molte informazioni preziose che mi fecero
fare grandi passi avanti nella mia ricerca; ogni volta che tua
nonna veniva a Londra a farti visita ci si ritrovava o in albergo
o, se il tempo lo permetteva, a Regents Park, per aggiornarci
reciprocamente sulle nostre ricerche. Dopo anni eravamo a
buon punto: avevamo ricostruito quello che, ragionevolmente,
poteva essere il contenuto dei misteri professati a Eleusi;
sapevamo, grazie a Tina, che uno degli ultimi passaggi del
libro era stato dalle mani di Jim Morrison a Los Angeles e che
era stato da lui spedito a Toronto.”
Il dottore si interruppe, allungò una mano sul comodino, prese
un bicchiere colmo d’acqua, ne bevve un sorso, poi riprese:
“Non avevamo ancora compreso i meccanismi che regolavano
il passaggio del libro: partimmo per Toronto ma era come
cercare un ago in un pagliaio. Tornammo a Londra sconsolati e
avviliti per il buco nell’acqua: arrivati in albergo Tina trovò ad
attenderla una lettera che la invitava a recarsi al più presto a
Lendi Eleusi; tua nonna rimase laggiù per parecchi anni,
venendo informata dal consiglio e ricevendo il Vincolo. Poi,
per qualche ragione, decise di andarsene da Lendi Eleusi e

453
tornò a Londra: il resto lo conosci. La sera in cui morì mi aveva
telefonato in preda a una grande agitazione, dicendomi che
aveva ricevuto un pacco da Toronto… Io avevo un impegno
quella sera e le dissi che avrei fatto un salto da lei la mattina
seguente. Il resto lo sai: quando ho visto che prendevi il libro,
ho pensato che quella sarebbe stata l’unica occasione per
entrarne in possesso: tua nonna era morta, la rottura del
Vincolo non l’aveva perdonata… Io ero vivo nonostante la
rottura del vincolo: avevo una missione da compiere e dovevo
portarla a termine. Non pensai nemmeno di chiedertelo: troppe
spiegazioni, troppe domande e il miliardario aveva fretta: la
sera stessa infatti mi aveva chiamato per avere notizie sulla
ricerca e, una volta appreso la novità mi fece pressioni perché
recuperassi il libro immediatamente, ad ogni costo. Assoldai
tramite il direttore dell’hotel il fattorino che ebbe gioco facile
nel sottrarti il libro. Non pensavo avresti insistito nella sua
ricerca, ma evidentemente tua nonna era riuscita in qualche
modo a farti capire l’importanza di quel libro… E aveva
ragione! Quando lo lessi rimasi incantato e impressionato dalla
potenza e dalla chiarezza del messaggio. Avevo ragione: quel
libro avrebbe cambiato il mondo. Quando poi lessi le ultime
pagine e compresi chi erano stati alcuni dei possessori del libro
mi resi conto della portata di quella scoperta: alcune delle più
grandi menti dell’Occidente erano entrate in possesso di quel
libro e i suoi echi inascoltati erano udibili nelle loro opere.
Quando quell’uomo mi contattò nuovamente mi disse di
recarmi il prima possibile a Washington e di prelevare una
busta con le istruzioni da seguire per la consegna in una
cassetta di sicurezza della filiale della Abbey National Bank di
cui mi avrebbe mandato la chiave. Ma come vedi le mie
condizioni sono drammaticamente peggiorate. Il tumore che mi
era stato diagnosticato due anni fa negli ultimi mesi ha avuto

454
una evoluzione repentina e del tutto inaspettata. Il mio compito
qui sta per terminare…”
“Quindi il libro è qui?” chiese Isobel…
“Sì, è qui.” e allungando la mano indicò il cassetto del
comodino di fianco a lui.
Isobel fece per alzarsi ma il dottor Suzuki la fermò dicendo:
“Aspetta ancora un momento; c’è un ultima cosa che debbo
dirti prima che tu prenda quel libro: è una cosa che mi disse tua
nonna e che mi ossessiona da tempo: un giorno, mentre
stavamo discutendo come nostro solito di cosa ne avremmo
fatto del libro lei mi disse:
“Lo sai che esistono profezie legate al ritrovamento del libro da
parte di un iniziato? Lo sai che tutte parlano di grandi sventure
e di un epoca di grandi sconvolgimenti? Queste cose mi
inquietano, ma ciò che più mi inquieta è quello che ho appreso
poco tempo fa dal Capo del Consiglio di Eleusi: esisterebbe un
gruppo che, di generazione in generazione, si tramanda lo
scopo di distruggere il mito di Eleusi e di recuperare e
distruggere il libro. Il motivo? L’opposto di quello per cui tu
reputi decisivo che il mondo venga a conoscenza della sua
esistenza: proteggere e perpetuare le fondamenta della civiltà
occidentale, i suoi valori, la sua realtà. Essi vedono il libro
come un pericolo mortale, da neutralizzare a tutti i costi. E se il
libro è giunto sino ai nostri giorni è già di per sé un miracolo.
Queste forze sono in atto da millenni e l’obiettivo del gruppo si
è tramandato di generazione in generazione: si fanno chiamare
i Custodi del Tempo… Non ti fidare di nessuno” concluse
“solo di te stesso….”
Ora queste parole riecheggiano nella mia mente. So’ di potermi
fidare di te Isobel, ma tu ti puoi fidare delle persone che ti
circondano? E chi è quest’uomo sbucato dal nulla che dice di
essere miliardario, che sembra sapere molte cose sul libro e che
desidera pubblicarlo? Sono tutte domande che affollano la mia

455
mente e che non hanno risposta. Sono inquieto e ho la strana
sensazione che cedendoti quel libro ti cederei una specie di
maledizione.”
“Anche a me non piace la figura di quest’uomo venuto dal
nulla, senza volto ma puntuale nei suoi interventi e
manifestazioni” disse Isobel ”ma forse è giunto il momento di
guardare in faccia il nemico. Un nemico che opera nell’ombra è
sempre più pericoloso, affrontarlo in campo aperto può avere
degli svantaggi ma ha sicuramente dei vantaggi. Anch’io sono
inquietata da questa figura che mi hai descritto e lo sono ancor
di più sull’opportunità di pubblicare un libro del genere, ma
forse è giunto il momento, dopo millenni, di affrontare il
nemico, se esiste.”
“Cosa avresti intenzione di fare?” chiese il dottore.
“Prendere i libro e andare a Washington, seguire le istruzioni e
incontrare questa persona! “
“Ma…”
“Può essere pericoloso, lo so, ma non ho intenzione di passare
la vita a guardarmi le spalle. Affronterò la cosa alla luce del
sole e se mi sarò sbagliata e costui è solo un milionario
eccentrico e ben informato tanto meglio…” disse risoluta
Isobel “Del resto, dopo la rottura del vincolo, non ho nulla da
perdere.”
“Quindi io potrei essere stato uno strumento inconsapevole tra
le loro mani.” disse Suzuki sconsolato.
“Oppure lo sono io ora” aggiunse Isobel “… Ma a questo punto
che importa… Bisogna andare fino in fondo!”
Il dottor Suzuki fece cenno di sì con la testa e guardò il
comodino.
Isobel si alzò e con una certa emozione aprì il cassetto e
estrasse il libro: era di nuovo tra le sue mani. Riconobbe la
copertina in pelle consunta e logora, le pagine bordate di
filigrana dorata. Lo aprì e lesse il titolo: Il mistero delle esuli e

456
più in basso, vergata con un inchiostro ormai sbiadito dal
tempo la frase in latino: Et Lucem Etiam Ubi Sempiternam
Ioventute a formare con le iniziali la scritta ELEUSI. Era
proprio lui, il libro che abbracciava la nonna quando è morta,
quello che aveva incominciato a leggere nella sua stanza a
Londra: era nuovamente tra le sue mani.Era emozionata…
“Allora sei decisa Isobel?” chiese il dottor Suzuki guardandola
in volto e sorridendo.
“Sì! Andrò a Washington, aprirò quella cassetta e vedrò il da
farsi” disse con convinzione.
“Allora ti servirà questa” disse Suzuki togliendo da una tasca
del pigiama una chiave legata ad uno spago. “Questo è
l’indirizzo” le disse allungandole la chiavetta e un foglietto di
carta a quadretti ripiegato.
Isobel prese la chiavetta e il foglietto e li mise in tasca; poi
guardò il dottor Suzuki e disse:
“Non avrei mai pensato di farlo ma sento di doverla
ringraziare” e gli strinse la mano.
“Sono io che ti ringrazio: senza di te Isobel avrei fallito il
compito che mi ero dato. Senza di te, senza la tua voglia di
sapere e di capire questo libro sarebbe entrato per sempre
nell’oblio… Io presto morirò, ma che la mia storia ti sia da
monito: il Vincolo non è ineluttabile. Qualunque fosse il mio
destino il Vincolo mi ha risparmiato almeno per un po’… Forse
perché non esiste, forse perché è una stupida superstizione,
forse perché ero destinato ad altro. Spero che lo stesso sia per
te.”
“Anch’io lo spero… Addio!! E che la pace sia il tuo sentiero.”
disse Isobel avviandosi verso la porta.
“Un’ultima cosa Isobel.” la fermò il dottore ”Non fidarti di
nessuno se non di te stessa… I custodi del Tempo mi staranno
cercando e forse saranno già sulle tue tracce.”

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“Lo farò” disse Isobel con uno sguardo cupo. E così dicendo
uscì dalla porta e discese le scale meditando sul da farsi.
Appena fu al piano di sotto Anrham e Hani le si fecero incontro
con sguardi di attesa.
“Allora?” chiese Hani impaziente.
“Eccolo qui” disse Isobel alzando il libro al cielo. Hani la
abbracciò e Anrham le diede un buffetto sul capo.
Uscirono e si fermarono sulla soglia ammirando il panorama.
“E ora?” chiese Anrham.
“E ora si va a Washington”disse Isobel con noncuranza.
“Washington?” replicò Hani disorientato.
“Sì Washington.” disse Isobel “Ho alcune faccende da sbrigare
laggiù. Ma andrò da sola...”
“Io vengo con te “ ribadì Hani con fermezza.
“Non ti libererai così facilmente di me” disse Anrham.
”Verremo con te a Washington.”
“Va bene” disse Isobel in qualche modo rincuorata dalla loro
presenza ”Partiamo tra tre giorni.”
E inforcata la bicicletta si avviò pedalando per la stradina.

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CAPITOLO LVII

03 Settembre 2001, Killerny

Mentre, pedalando lentamente, scendevano dalla collinetta


dove era situata la casa del dottor Suzuki, Isobel raccontò per
sommi capi ciò che era successo. Hani e Anrham la
ascoltavano con interesse ma, quando arrivò la parte
riguardante la partenza per Washington, Hani espresse alcune
perplessità:
“Abbiamo il libro Isobel. Cosa ti importa di un milionario
fanatico, ammesso che esista? Può solo essere pericoloso…
Non sappiamo chi ci troveremo davanti e abbiamo solo da
perderci… Riflettici Isobel. E’ finita, abbiamo raggiunto lo
scopo.”
Isobel lo guardò in viso pensierosa.
“Ci ho riflettuto Hani, ci ho riflettuto e ho pensato che se questi
fantomatici Custodi del Tempo esistono e quest’uomo ne fa
parte, credo sia giusto affrontarli a viso aperto, senza vivere nel
perenne sospetto che chiunque ti si avvicini sia uno di loro.”
“Credo che Isobel abbia ragione” aggiunse Anrham “ Abbiamo
il libro, ma non sappiamo ancora cosa farcene: se quest’uomo
fosse in buona fede l’idea di divulgare il messaggio potrebbe
essere da prendere in considerazione, se fosse uno di questi
fantomatici “Custodi del Tempo” beh… sapremo di avere un
nemico senza vivere anni spaventandoci per delle ombre di
cose che non esistono.”
Isobel annuì, poi all’improvviso girò sulla sinistra in una
stradina che scendeva verso il lago, dicendo:

459
“Aspettatemi al Bed and Breakfast, ho bisogno di stare sola e
di riflettere!!”
Anrham e Hani proseguirono sulla strada del ritorno; Isobel
discese la stradina e, una volta in prossimità del lago, fermò la
bicicletta presso un abete, prese il libro, si sedette con la
schiena contro il tronco, e lo aprì: come ricordava dalla volta in
cui aveva incominciato a leggerlo prima che gli fosse rubato, il
libro era scritto in greco e, nel retro pagina, vi era la traduzione
in inglese, scritta in corsivo con una calligrafia chiara e
armoniosa. Trasse un sospiro, diede uno sguardo alle calme
acque del lago innazi a lei e incominciò a leggere…

“Fermati lettore, e prona il capo dinnanzi alla grandezza e alla 
sapienza  di  colei  che  risorge  dagli  inferi  e  dona  a  noi  le  gioie 
delle  stagioni,  della  rinascita,  della  vera  vita.  Loda  colei  che 
toglie  il  velo  dai  tuoi  occhi  bagnandoli  di  lacrime  di 
riconoscenza, colei che disvela il cerchio della vita e della morte, 
colei che, sposa suprema e suprema regina, offre la più grande 
consolazione,  la  consapevolezza  dell’eternità.  Sia  lode  ai 
Misteri!  Felice  chi  fra  gli  uomini  che  vivono  sulla  Terra  li  ha 
contemplati! Chi non è stato perfezionato nei sacri Misteri, chi 
non vi ha preso parte, mai avrà, dopo morto, un destino simile 
al  primo,  oltre  l’orizzonte  oscuro.  La  mano  trema,  il  pensiero 
tace  di  fronte  al  silenzio  e  al  bagliore  di  tale  realtà.  La  vita  si 
volge e si prostra dinnanzi ai misteri di Persefone, regina della 
vita  e  della  morte  e  di  Demetra,  madre  coraggiosa  e  spirito 
indomito.  Udite  le  loro  parole  e  tremate  e  gioite,  come  cuore 
umano possa e voglia: 
Cronos  è  un  impostore,  il  suo  potere  sull’universo  è  corrotto. 
Egli  divorò  i  suoi  figli  perché  non  poteva  divorare  se  stesso. 

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Egli regge le sorti umane ma il suo moto è pura finzione. Egli è 
padre di Ade, ma il signore degli Inferi nulla può se non sotto il 
potere  di  Cronos.  Senza  Cronos  non  esiste  Ade.  Cronos  è  il 
nulla.    Le  catene  di  Zeus  imprigionano  il  nulla  e  nulla  può 
sulle umane sorti questo vecchio mentitore. Illusione e malia è 
la sua ombra sui mortali, che nessun mortale schiavo di ombre 
potrà  mai  sorgere  agli  Eterni.  Eterno  è  l’istante,  eterno 
l’Essere. Entra in questo mistero, sciogli le catene di Cronos e 
liberati dalla sua schiavitù. L’eternità dimora in te e la somma 
signora  che  tutto  ottenebra  sia  per  te  un  istante  nell’eternità. 
Nulla e tutto. Il tuo essere sia tutto. Specchio e immagine tu sei 
di  ogni  cosa  e  in  ogni  dove  e  in  ogni  tempo.  Malia  e  magia 
convivono  in  te,  ogni  tempo,  moto,  spazio,  essere,  potere  sono 
attorno  a  te  incorniciati.  Scegli  la  via  ma  molte  vie  si 
dischiudono  nel  mentre.  Essere  molti  è  il  nostro  reale.  Essere 
tutti è il nostro potere. Tu sei specchio e rifletti ogni direzione 
dell’Universo,  e  l’Universo  riflette  te.  Come  in  cielo  così  in 
terra. Come nel grande così nel piccolo. Sia la tua vita la Vita. 
Sia  il  tuo  tempo  Eterno.  Sia  il  tuo  essere  Uno.  Che  tu  sia  lo 
Specchio  di  Narciso  se  Narciso  è  il  mondo.  Le  Eumenidi  si 
ritireranno  piangendo  al  cospetto  della  tela  eterna  del  tuo 
essere.  Siamo  istanti  di  Tempo  corrotti  dalla  mente.  Nulla 
muore nell’eternità. I mondi e il futuro sono dietro di te se tali 
misteri  avranno  posto  nel  tuo  cuore.  Ricerca  l’eternità 
nell’attimo e risorgi dall’Ade del tempo come la sua regina ogni 
primavera. Che la tua primavera sia eterna, che il tuo essere sia 
primavera,  senza  tempo,  senza  leggi.  Quale  responsabilità 
uomo  se  ogni  tuo  gesto  è  Eterno!  Quale  potere  Cronos  ti  ha 

461
sottratto.  Ma  ciò  che  Cronos  sottrae,  Demetra  disvela,  con 
coraggio e convinzione. Ogni verità è circolare. Ogni cerchio è 
perfetto.  L’eterno  è  una  sfera  senza  tempo  ai  limiti  del  nostro 
sentire. Uccidi Cronos, e uccidi Zeus che vessa i suoi figli con 
l’ombra  del  padre.  Gli  Dei  esistono  solo  fuori  dal  tempo  e  per 
raggiungerli  anche  tu,  piccolo  uomo,  te  ne  devi  liberare.  Non 
c’è tempo e spazio che possano contenerti, Tu sei in ogni essere. 
Sii degno di tale sapere. Che la pace sia il tuo sentiero.”  

Contro la molteplicità dell’essere  
di Zenone di Elea 

Un  chicco  di  grano,  cadendo,  non  produce  alcun  rumore.  Un 
sacco di grano invece si. Come può una somma di silenzi dare 
origine a un rumore? 
 
 
Se le cose sono molteplici (ovvero divise e distinte le une dalle 
altre) devono per forza essere separate da altre cose intermedie, 
ma che cosa stabilisce il numero di questi intermedi, essendo il 
molteplice, per sua stessa natura, indefinito? 
 
Se gli enti sono molti è necessario che siano tanti quanti sono e 
non di piú né di meno. Ma se sono tanti quanti sono saranno 
limitati.  Se  gli  enti  sono  molti  sono  infiniti:  sempre  infatti  in 
mezzo  agli  enti  ve  ne  sono  altri  in  mezzo  a  questi  di  nuovo 
degli altri. E in tal modo gli enti sono infiniti. 
 
462
 
 
Contro Il Tempo e lo Spazio  
di Zenone di Elea 
 
Non  si  può  arrivare  all’estremità  di  uno  stadio,  giacché 
bisognerebbe  arrivare  prima  alla  metà  di  esso  e  prima  ancora 
alla  metà  di  questa  metà  e  così  via  all’infinito.  Ma  non  è 
possibile percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio. 
 
 
La  freccia  scoccata  che  appare  in  movimento  è  in  realtà 
immobile:  difatti  essa  occuperà  ad  ogni  istante  soltanto  uno 
spazio determinato, pari alla sua lunghezza; poiché il tempo in 
cui  si  muove  è  fatto  di  infiniti  istanti,  per  ognuno  di  questi 
istanti, e per tutti, la freccia sarà immobile.  
Quindi il moto risulta impossibile, in quanto da una somma di 
immobilità  e  di  istanti  fermi  in  se  stessi  non  può  risultare 
qualcosa di diverso (il movimento). 
 
 
Un punto mobile va ad una certa velocità e simultaneamente al 
doppio  di  essa,  a  seconda  che  sia  rapportato  ad  un  punto 
immobile oppure ad un punto che si muove alla stessa velocità 
ma di verso contrario. 
Quindi  si  genera  l’assurdo  logico  che  “la  metà  del  tempo  è 
uguale al doppio”. 
 

463
 

Achille piè veloce è sfidato nella corsa da una lenta tartaruga, 
alla quale egli concede un vantaggio iniziale. Supponiamo che 
la velocità di Achille sia di 10 m/s e quella della tartaruga sia di 
1 m/s. Dato che un segmento di retta, secondo l’insegnamento 
dei  Pitagorici,  è  formato  da  infinite  porzioni  di  infinitesima 
grandezza, anche una pista da corsa deve rispondere agli stessi 
requisiti.  

Prima  di  poterla  raggiungere  Achille  (  A  )  deve  pervenire  al 


punto da cui la tartaruga è partita ( T = Aʹ ), ma nel frattempo 
questa  sarà  avanzata  di  un  po’  (  Tʺ  ).  Quindi  Achille  non 
raggiungerà mai la tartaruga perché questa si sarà spostata in 
avanti (Aʺ, A’’’, ecc). 

 
Consideriamo sempre Achille piè veloce: egli, l’uomo più veloce 
della  terra  percorre  la  lunghezze  di  uno  stadio  in  un 
determinato tempo che definiamo X. 
E’  plausibile  che  con  allenamento  egli  possa  migliorare  il  suo 
tempo di percorrenza di uno stadio ad un valore di X‐1/10. 
E’  altrettanto  plausibile  che  in  un  tempo  successivo  lui  o 
qualcuno  per  lui  trovi  quella  stilla  di  energia,  quel  refolo  di 

464
vento che faccia sì che si percorra uno stadio in un tempo X – 
1/9; 
Questo ragionamento può essere ripetuto un numero infinito di 
volte  presupponendo  che  il  tempo  impiegato  possa  essere 
migliorato  di  un  infinitesimo  rispetto  al  tempo  precedente. 
Reiterando  il  ragionamento  all’infinito  si  giunge  alla 
conclusione  che    un  giorno  un  uomo  percorra  la  distanza  di 
uno stadio in un tempo X = 0 
 
Isobel sollevò la testa dal libro: le pagine scritte in greco
continuavano, ma la traduzione terminava lì e lei il greco non
lo conosceva. Si mise a riflettere su quanto aveva letto: mentre
cercava di ragionare sui paradossi che Zenone aveva elencato
aveva avuto come la sensazione che il suo cervello girasse a
vuoto, come se mancassero al suo ragionamento appigli,
strutture fondamentali a cui ancorare i concetti e farli
proseguire. Era una sensazione strana, una specie di vertigine;
aveva provato una cosa del genere cercando di ragionare su
alcuni koan zen. Si ricordò quanto aveva letto sul libro della
nonna a proposito dei koan: ovvero che erano predisposti per
scardinare i concetti o meglio i preconcetti della mente e
condurre all’Illuminazione; ricordava anche come fosse sottile
la linea che separava la schizofrenia dalla Illuminazione, come
certi messaggi di maestri zen potessero forzare situazioni fino
al limite della pazzia. Lo stesso effetto, la stessa sensazione le
davano i paradossi di Zenone; sentiva la mente incepparsi,
scivolare e continuare a farlo senza muoversi di un millimetro.
In quel momento le vennero in mente le parole del dottor
Suzuki sul fatto che nel libro erano presenti nuove
argomentazioni di Zenone: in realtà tutti quei paradossi le
erano in qualche modo già noti, le sembrava di conoscerli. Poi
le tornò in mente la visione che aveva avuto a Lendi Eleusi e

465
come nel dialogo fra Einstein, Nietzsche e Jung fosse stato
enunciato il paradosso del record del mondo che effettivamente
non ricordava di aver mai sentito altrove: era molto
probabilmente uno dei nuovi paradossi ritrovati e custoditi nel
libro, mentre gli altri erano lì, scritti in greco, in attesa di una
traduzione per rivelare la loro efficacia e potenza
destabilizzante per la nostra realtà percepita.
Provò a immaginare gli individui che erano stati possessori del
libro: il pensiero che stava leggendo un libro che era stato nelle
mani di Nietzsche, di Einstein, di Van Gogh le dava una certa
emozione…
Si mise a riflettere sul da farsi: era giusto, moralmente giusto,
tenere per se quel libro, la sua storia, il suo messaggio? Era
giusto che il mondo fosse privato di un pezzo così importante
di se, di una parte che parlava al cuore della cultura occidentale
e ne minava le fondamenta creando contemporaneamente un
legame strettissimo con altre culture, quelle orientali in primis,
ma anche quelle sciamaniche che noi chiamiamo
dispregiativamente primitive? Più ci pensava più riteneva utile
e opportuno tentare di dare notorietà al libro, anche se
riconosceva il rischio di sovrastimare le potenzialità
rivoluzionarie dei concetti in esso espressi o di creare una
specie di nuovo culto, di cui a stento riusciva a individuare i
rischi e i pericoli. Poi il suo pensiero andò a questi fantomatici
Custodi del Tempo. Capiva il significato del loro nome:
custodire il tempo significava infatti proteggere la realtà così
come era, salvandola dalla sua destrutturazione che sarebbe
stata inevitabile una volta scardinato il concetto di tempo
normalmente percepito; ma quanta gente sarebbe stata disposta,
sulla unica base di speculazioni logiche ad abbandonare la sua
millenaria percezione del tempo e del divenire delle cose?
Come far concepire al mondo l’intrinseca unità di tutte le cose
e di ogni uomo quando nella vita di ogni giorno si crede di

466
sperimentare divisioni, singolarità, unicità, tempo? E’
un’impresa disperata, pensò, eppure sentiva che doveva
tentare… Le vennero in mente gli sguardi dei bambini feriti
che aveva curati in Afghanistan e sentiva, in modo assurdo e
irrazionale, che era giusto tentare, per loro, anche se ci fosse
stata una possibilità su un miliardo che la diffusione del
messaggio di Eleusi potesse cambiare e migliorare la loro
situazione… Capiva che se esso fosse stato capito e recepito
fino in fondo, se la frase di Gandhi che le aveva detto il dottor
Suzuki, non posso ferirti senza ferire me stesso, fosse stata
interpretata in senso letterale e non come una metafora, se il
messaggio avesse fatto breccia nei cuori di qualcuno allora
forse le cose sarebbero andate meglio. Si sentiva una illusa, una
illusa utopista ma non riusciva a seppellire quella
consapevolezza sotto il cinismo di chi pensa di conoscere già le
reazioni altrui: doveva tentare. Non aveva nulla da perdere che
non rischiasse già di perdere. Si alzò e fissò l’orizzonte: il
verde smeraldo dei prati le infondeva una serenità infinita che
scacciò ogni residuo dubbio. Sarebbe andata a Washington e lì
avrebbe cercato di raggiungere quell’uomo che aveva proposto
al dottor Suzuki la pubblicazione del libro: in fondo al suo
cuore era certa che anche la nonna e il professor Barbur
sarebbero stati d’accordo con lei. Prese un sasso dal terreno e
lo gettò nelle acque del lago. Poi, salita sulla bicilcletta, riprese
la strada per il Bed and Breakfast.

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468
CAPITOLO LVIII

11 Settembre 2001, Washington

Isobel iniziò a sfogliare il Washington Post. Anrham aveva


detto loro di attenderli lì, nella sala d’aspetto dell’aereoporto, e
Isobel aveva deciso di ingannare il tempo comprando un
giornale all’edicola di fronte alle biglietterie.
Hani, seduto al suo fianco, guardava le file dei passeggeri che
si accalcavano ai check in. D’un tratto Isobel sobbalzò sulla
sedia; rilesse la notizia sperando di essersi sbagliata:

AFGHANISTAN: MORTO IL COMANDANTE MASSUD

Afghanistan: di una emittente marocchina.


Fonti dell’Alleanza del Nord La bomba era nascosta nella
confermano la notizia telecamera che stavano
dell’uccisione del generale utilizzando per una finta
Ahmad Shah Massud. intervista. Nell’attentato
L’uccisione sarebbe hanno perso la vita uno degli
avvenuta il giorno 9 attentatori, una donna, Rumi
settembre a Khvajeh Baha Jamal e un bambino di 7
od-Din ad opera di due arabi anni, Karim al Jafahri……..
che si fingevano giornalisti

Isobel si alzò di scatto dalla sedia, le mani nei capelli, le


lacrime che le gonfiavano gli occhi.
“Isobel che accade?” chiese Hani.
“Rumi e Karim….. Sono morti!!! Un attentato… Uccisi da due
terroristi insieme al comandante Massud… Non è possibile! “ e
scoppiò in un pianto irrefrenabile.
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Hani la prese tra le sue braccia e stettero così immobili per
diversi minuti, mescolando le lacrime che scendevano copiose.
“Il vincolo!” disse Isobel tra i singhiozzi ”Non c’è speranza
Hani, non c’è alcuna speranza…”
Hani prese il viso di Isobel tra le sue mani e, guardandola negli
occhi le disse:
“C’è sempre speranza Isobel, fino a che l’ultima stilla di vita e
di coscienza ci abita vi è e vi deve essere speranza.”
Isobel scosse la testa in segno di assenso… Se ancora qualche
dubbio le era rimasto, quella notizia lo dissipò definitivamente:
avrebbe incontrato quell’uomo a Los Angeles e lo avrebbe
fatto anche per Rumi.
Quando, il giorno prima, lei e Hani erano andati alla Abbey
National Bank e avevano aperto la cassetta di sicurezza,
avevano trovato al suo interno un biglietto aereo della
American Airlines per il giorno successivo per la tratta
Washington – Los Angeles e un biglietto scritto al computer
con un indirizzo: 10050 Cielo Drive Los Angeles. Era evidente
l’invito a recarsi per l’incontro a quell’indirizzo.
E ora si trovavano in aeroporto per prendere quell’aereo e
stavano attendendo Anrham, che era andato a chiedere se vi
fossero altri due posti per il volo di cui avevano ricevuto il
biglietto.
Il decollo era previsto per le ore 8:10. Isobel si asciugò le
lacrime e controllò il libro nello zainetto. Hani si alzò in piedi
andando incontro ad Anrham che stava sopraggiungendo.
“Era rimasto un solo posto” disse Anrham mostrando il
biglietto. “Ho preso comunque un biglietto su di un volo che
parte alle ore 9…”
“Andrò io con Isobel Anrham. Tu ci raggiungerai con l’altro
volo” disse Hani.

470
Isobel, senza proferire parola gli si avvicinò e gli mostrò il
giornale; Anrham sbiancò in volto e, con una smorfia,
accartocciò il giornale e lo gettò via.
“Bastardi!!” disse mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime
“Bastardi vigliacchi!” E così dicendo abbracciò Isobel con
tenerezza.
L’altoparlante dell’aereoporto chiamò all’imbarco i passeggeri
del volo 77 dell’American Airlines.
“Bisogna che vi avviate al gate d’imbarco” disse Anrham
sciogliendo l’abbraccio di Isobel “Ci vediamo all’aereoporto di
Los Angeles”.
Isobel si asciugo gli occhi, prese per mano Hani e si diresse
verso il Gate. Quando passò vicino al giornale si chinò, lo
raccolse e lo affidò a Hani come lettura durante il viaggio.

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472
CAPITOLO LIX

465 avanti Cristo, Elea

Il dolore gli annebbiava la mente. I ferri della tortura che fino a


poco prima gli laceravano le carni erano ora davanti ai suoi
occhi, mostrati ancora sporchi del suo sangue per incutere
maggiore terrore, per convincere dell’insensatezza di ogni
resistenza, di ogni rifiuto a collaborare.
L’odiato tiranno si fece largo tra gli aguzzini, gli si pose
davanti e disse:
“E ora, o Zenone, usa la tua eloquenza e la tua rinomata
ragione per dirmi i nomi di chi con te ha cospirato contro la
mia persona. Dimmelo e porrò fine a questo supplizio.”
Zenone lo guardò negli occhi. La sua mente, sempre pronta a
trovare contraddizioni, errori logici, vie di fuga retoriche da
qualsiasi argomentazione era come svuotata, colma solo del
dolore e dell’odio che provava per quel volto e per quello che
rappresentava: la tirannia, il dispotismo del più potente e del
più sciocco, la forza che vince sulla ragione, la violenza sulla
parola. Cosa poteva rispondere? Cosa dire a chi negava la
parola a chiunque, pronto al comando, a difendere se stesso ad
ogni costo, il potere per il potere, la violenza per la violenza?
Aveva paura di cedere, paura che per una volta il dolore del
corpo vincesse sulla saldezza e sul rigore della sua mente.
Sentiva il dolore scardinargli la volontà, il corpo martoriato
urlare per un’oasi di pace… Si sforzò di allontanare tutto ciò
dalla mente, almeno per un attimo… Via il dolore, via le voci,
via le immagini, via i suoni: doveva farsi vuoto di tutto per
poter trovare una via d’uscita… Sapeva di non potersi fidare
del corpo, delle sensazioni, di ciò che era fisico. Mille
paradossi aveva trovato, mille ragioni per non fidarsi delle
473
apparenze, delle percezioni, dei sensi, della realtà che crediamo
di toccare con mano. Poteva fidarsi del suo corpo dolorante?
Poteva pensare che il dolore non avrebbe vinto sulla sua
volontà? Come non tradire gli amici, chi aveva con lui sperato
di rovesciare l’odiato tiranno e restituire serenità a quei luoghi?
Il dolore ebbe nuovamente il sopravvento. Fece cenno al
tiranno di avvicinarsi: avrebbe parlato, basta che ponesse fine a
quel supplizio. Il tiranno si avvicinò con aria trionfante e un
sorriso maligno sul volto; avrebbe potuto allungarsi e staccargli
il naso con un morso, ma a violenza non si poteva rispondere
con altra violenza o avrebbe dimostrato che il suo governo non
sarebbe stato dissimile da quello del tiranno; la spirale di
violenza andava interrotta con un atto decisivo e irrimediabile.
Il viso del tiranno era raggiante di gioia per la vittoria
imminente sull’odiato nemico… Zenone capì: doveva impedire
al corpo la parola… Un lampo e la decisione fu presa: con un
colpo secco chiuse la mascella e sputò la sua lingua in faccia al
tiranno inorridito. Nulla poteva vincerlo ormai; aveva vinto di
nuovo; l’argomento del dolore confutato dall’argomento del
silenzio, dalla volontà che esige il silenzio perché non si
venisse a compromessi con il dittatore, con il nemico. I supplizi
ripresero più atroci di prima ma la mente di Zenone era di
nuovo chiara e limpida; un sorriso scarlatto gli dipinse il viso:
la sua mente aveva vinto ancora… su di se….

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CAPITOLO LX

11 Settembre 2001, American Airlines Flight 77

Isobel si sedette al posto assegnatole, aprì lo zaino e estrasse il


libro. Una hostess le passò accanto urtandola e facendola
sobbalzare. L’altoparlante gracchiò e la voce del capitano
Charles Burlingame si diffuse per la fusoliera. Il capitano si
scusò del ritardo e comunicò che nel giro di due minuti
sarebbero decollati. Isobel si voltò verso il posto di Hani… Sul
suo volto scorse uno sguardo terrorizzato. Isobel appoggiò il
libro sul sedile e fece per andare da lui. La hostess di prima la
invitò a sedersi e ad allacciarsi le cinture di sicurezza. Ubbidì
guardando sempre il volto di Hani, smarrito e spaventato.
Avrà paura dell’aereo, pensò ma poi si ricordò con quale
tranquillità aveva affrontato i viaggi precedenti, quello da
Parigi a Katmandù, quello da Kabul a Londra e poi Dublino,
quello da Dublino a Washington. Si voltò nuovamente verso
Hani. L’aereo iniziò a muoversi sulla pista.
Guarda i sedili, le disse mimando lentamente le parole con le
labbra… I sedili? E cose doveva vedere dei sedi...
L’aereo era mezzo vuoto!! Non ci aveva fatto caso prima ma
ora che osservava si rese conto che all’interno dell’aereo non
c’erano più di una cinquantina di passeggeri, quindi vi erano
tanti sedili vuoti… e l’aereo non faceva scali intermedi. Si
ricordò le parole di Anrham. Aveva detto che l’aereo era
pieno… Si guardò intorno sconcertata. Perché mai Anrham gli
avrebbe mentito? L’aereo era in fase di decollo e piccole
vibrazioni si ripercuotevano sul sedile. Come un fulmine a ciel
sereno Isobel si ricordò della parte finale del sogno che aveva

475
fatto a Lendi Eleusi su quell’ombra che sorvolava con un
rumore assordante il bosco vicino al lago e del monito di Rumi
a non prendere aerei… I viaggi dall’Afghanistan all’Irlanda e
dall’Irlanda agli Stati Uniti si erano svolti serenamente, senza
alcun intoppo e questo le aveva fatto dimenticare la
raccomandazione di Rumi. Fece per slacciarsi la cintura ma,
guardando fuori dal finestrino si rese conto che erano già
decollati. Si voltò verso Hani, bianco in volto. Tentò di
abbozzare un sorriso a cui il ragazzo si sforzò di replicare ma
senza grande successo. Attesero che l’aereo raggiungesse la
quota di navigazione e quando venne dato il via libera dalle
hostess, i due ragazzi si vennero incontro.
“Cosa sta succedendo?” chiese Isobel con lo sguardo smarrito..
“Non lo so Issi, non lo so ma non mi piace affatto. Ora però
non possiamo più tornare indietro. Restiamo ai nostri posti e
quando saremo a Los Angeles vedremo il da farsi….”
Si abbracciarono, un lungo, tenero abbraccio mozzafiato.
Isobel si mise al suo posto, prese in mano il libro, lo aprì e
incominciò a leggere.
Il cielo limpido e terso faceva sembrare l’aereo immobile...
Isobel alzò gli occhi dal libro. Un’urlo alle sue spalle… Si girò
di scatto. Il libro le cadde dalle ginocchia e si richiuse… per
sempre.

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CAPITOLO LXI

11 Settembre 2001, Washington

Anrham guardava attraverso i vetri della sala d’aspetto l’aerero


muoversi sulla pista e, non appena lo vide decollare estrasse il
telefono di tasca e compose il solito numero.
“Tutto come previsto… Sono decollati ora…”
“Sì, il volo 77 dell’American Airlines, confermo…”
“No, è decollato con circa dieci minuti di ritardo….”
“Non ci resta che attendere….. “
Anrham chiuse la comunicazione; aveva eseguito gli ordini: la
fase decisiva del piano era andata come previsto. Il suo
compito era quello di sorvegliare la ragazza e assicurarsi che
salisse su quel volo, al resto ci avrebbero pensato altri. Non
sapeva cosa sarebbe successo ma sapeva che quella sarebbe
stata una giornata decisiva per il mondo intero. Loro, i Custodi
del Tempo, avevano intercettato il libro e stavano per
distruggerlo, e questo piccolo particolare si inseriva in un
contesto più generale di cui lui non era minimamente
informato, in cui enti e organizzazioni esterne avevano un
ruolo fondamentale; altro non sapeva e non gli era dato sapere.
Era meglio così, pensò: si sarebbe goduto la sorpresa. Per
trent’anni aveva perseguito quell’obiettivo: trovare e
distruggere il libro dei misteri di Eleusi: egli era l’anello di una
lunga catena che si snodava da oltre due millenni ed era colui
che aveva appena posto fine a quella instancabile cerca: il suo
compito era terminato, il compito dei Custodi era terminato:
proteggere la cultura occidentale nel suo tentativo di diventare
egemone e contrastare qualsiasi tentativo di revisione della

477
genesi del pensiero occidentale. Una nuova era stava nascendo,
l’alba di una nuova epoca e quello era il giorno decisivo: il
sapere di Eleusi sarebbe stato annientato per sempre,
l’Occidente non avrebbe mai avuto consapevolezza della sua
follia; ogni ipotesi di unità e di fratellanza tra diverse culture e
diverse civiltà stava per essere recisa nella maniera più radicale
e decisiva e, nell’abbagliante e terrificante luce di un’evento di
portata storica, ve ne sarebbe stato uno assolutamente
incompreso, taciuto, che nessuno mai menzionerà ma che
simbolicamente si sarebbe unito al roboante scoppio per
decretare l’inizio di un conflitto che avrebbe portato una
divisione netta e definitiva tra l’Occidente e il resto del mondo.
Il libro sarebbe scomparso e con lui Lendi Eleusi e le sue
ricerche…
Anrham uscì dall’aereoporto, chiamò un taxi e si fece condurre
vicino al Campidoglio. Scese e si infilò in una roadhouse dove
ordinò una birra. La televisone accesa mostrava le immagini
del World Trade Center in fiamme. Era solo l’inizio.

478
CAPITOLO LXII

04 gennaio 2002, Lendi Eleusi

Alpang Tenzing arrivò presso il lago all’alba; due monaci


erano presso le rive intenti a lavare alcuni panni. Si accostò e
disse loro alcune parole; i due monaci indicarono in direzione
della cascata e Alpang, titubante, si avviò in mezzo al lago fino
a scomparire sotto lo scroscio d’acqua.
Dopo avere salito le ripide scale si ritrovò innanzi al grande
portone di Lendi Eleusi. Suonò il piccolo gong sul lato del
portone e, dopo poco, un monaco si presentò alla porta.
“Devo consegnare questo plico al capo del consiglio. E’ stato
recapitato a casa mia ma vi è una scritta che mi prega di
recapitarlo personalmente a Lendi Eleusi e al Capo del
Consiglio”
Il monaco fece entrare Alpang, lo condusse fino alla stanza del
capo del consiglio e, dopo averlo annunciato, lo fece entrare.
Alpang porse il plico al vecchio che lo appoggiò sul tavolo e
iniziò a scartarlo con calma. Appena squarciato l’involucro
però i movimenti del vecchio si fecero più frenetici e
impazienti finchè non ebbe liberato una serie di fogli
fotocopiati rilegati tra loro con una spirale di plastica. Sul
primo foglio campeggiava la scritta “I misteri delle Esuli”. Il
vecchio incominciò a tremare mentre lacrime gli bagnavano il
viso. Alpang era sconcertato dalla scena che stava vedendo. Il
vecchio sfogliò freneticamente il libro…
“Devo consegnarvi anche questa..” disse porgendo al vecchio
una lettera ”E’ arrivata insieme al pacco”.

479
Il vecchio chinò il capo in segno di ringraziamento, prese la
lettera, la aprì e incominciò a leggere.

Dublino, 9 settembre 2001

Sono Isobel Morrison.


Le scrivo questa lettera sperando che un giorno possa essere
seguita da un mio ritorno a Lendi Eleusi. Sarà felice di sapere
che il libro è stato ritrovato e ora è nelle mie mani. Non le
descrivo le circostanze e le peripezie attraversate per il suo
recupero… Il risultato è stato conseguito anche se a caro
prezzo.
Le ho inviato le fotocopie del libro nella speranza che un
giorno io possa portarle l’originale, ma data la missione che mi
accingo a compiere ho reputato opportuno fotocopiarne le
pagine affinché possano essere conservate, ricopiate, tradotte e
quindi, in qualsiasi evenienza, il loro messaggio e le parole del
libro non conoscano mai più l’oblio… Mi accingo a recarmi
negli Stati Uniti dove mi dovrò incontrare con una persona che
pare avere a cuore le sorti del libro. Potrebbe essere tutta una
messinscena ordita dai Custodi del Tempo, ammesso che
esistano. Non ho modo di saperlo ma devo tentare, il libro deve
essere diffuso, il suo messaggio deve essere conosciuto anche
se credo che nulla cambierà: occorre dare una possibilità
all’uomo, all’Occidente, occorre dare un diverso punto di vista,
un modo per ricominciare da capo e credo che il libro possa
essere un piccolo contributo a ciò. Forze difficilmente
comprensibili razionalmente sembrano attorniare il libro: le
lugubri profezie che accompagnano il suo ritrovamento, il
vincolo e la scia di morte che si lascia, forse per pura
coincidenza, alle spalle e ora questi misteriosi Custodi del
Tempo.

480
Mi sento precipitata in una specie di spy-story di quart’ordine:
se non fosse che certi lutti li ho vissuti sulla mia pelle ci
sarebbe quasi da sorridere.
Rumi è morta.
Il professor Barbur è morto; è morto senza avere la possibilità
di vedere il libro alla cui ricerca e al cui studio ha dedicato
buona parte della sua vita. E’ morto, forse, per una stupida e
insensata tradizione e forse anch’io morirò per lo stesso
motivo… E’ così assurdo….
Leggete il libro voi che conoscete il greco classico, leggetelo e
traducetelo: io ho potuto leggerne solo una minima parte
perché non conosco il greco, ma le argomentazioni che ho
trovato tradotte mi sono parse di per sé decisive: leggete quale
messaggio porta e capirete quanto assurdo sia conoscere e non
far conoscere, capire e non far capire; occorre scendere dai
monti e tornare dove la vita scorre pienamente e
insensatamente; occorre svuotarsi dopo essersi riempiti,
occorre donare dopo aver ricevuto.
E questo soprattutto quando il messaggio parte da tante
direzioni e converge indiscutibilmente nello stesso punto,
soprattutto quando questo messaggio potrebbe essere
importante nel riconsiderare alcuni modelli di vita e alcune
percezioni errate della realtà.
William Blake scrisse: Se le porte della percezione fossero
purificate l’uomo vedrebbe le cose come realmente sono:
infinite.
Il concetto di infinito e di eterno è un qualcosa con cui l’uomo
si è confrontato dalla notte dei tempi: è la caratteristica propria
del divino, di qualcosa che trascende l’uomo eppure gli è
intimamente legato. Ogni Dio o divinità viene definito eterno;
l’eterno è il segno distintivo del divino. Essere senza tempo e
senza dimensione, compenetrare tutte le cose e da esse essere
compenetrato: questo è Dio, il divino, ovunque e in ogni luogo,

481
ora e per sempre, che tutto vede, che tutto compenetra, che
tutto giudica. L’eterno travalica lo spazio e il tempo.
E se il tempo non esistesse? Se fosse il tempo quel velo posto
sulle nostre percezioni, come diceva Blake e come sostengono
molte religioni orientali, per far sì che noi non vediamo le cose
come realmente sono? Se l’inganno del tempo mascherasse
l’eterno esistere di ogni momento, di ogni tempo, di ogni cosa?
Se la realtà fosse velata ai nostri occhi dall’illusione dello
scorrere del tempo? Tanti indizi si possono trovare a proposito
dell’inesistenza del tempo nelle più svariate discipline. E il
messaggio di Eleusi è in questo senso convergente: Crono è
un’impostore! Ora: noi conosciamo e ammettiamo un’unica
cosa eterna: la luce. Einstein ci dice che la luce che noi
osserviamo è eterna. La luce è ciò che ci consente di vivere, ciò
che permette la fotosintesi nelle piante che è il processo alla
base del ciclo della vita. La luce è vita. La luce è eterna. La
conseguenza logica è che la vita è eterna! E i nostri pensieri?
Non sono forse impulsi elettrici? E se così è anch’essi possono
essere considerati luce? Sono quindi eterni?
Il buddismo cerca l’illuminazione. Non è forse questo un modo
per dire che cerca la sua origine, la sua luce interiore, il suo
essere eterno?
L’uomo cerca da sempre l’eterno, ma se si guardasse allo
specchio con occhi puri non dovrebbe vedere altro che se
stesso all’infinito, come specchio posto davanti ad altro
specchio. Quanto è difficile anche solo trovare le parole per
descriversi e sentirsi eterni: quante risate causerebbero in molti
uomini questi discorsi. Eppure le moderne discipline e le
antiche religioni convergono in maniera sorprendente su questi
punti…
L’uomo però si considera finito, finito e unico. La sua pretesa
unicità alimenta la sua arroganza e il suo credersi al di sopra di
ciò che lo circonda; sentirsi diverso e separato lo autorizza a

482
volere, a dominare, ad usare ciò che lo circonda. Il tradimento
dell’essere ha moltiplicato la necessità e la voglia di avere. E
avendo perduto la propria intrinseca eternità ha delegato questa
a Dio, agli Dei, in modo da allontanarne da se il peso e la
responsabilità: ma con esse ha allontanato anche la gioia
dell’eternità. La pretesa unicità dell’uomo rende ogni cosa, in
quanto a lui esterna, usabile e sfruttabile, senza tenere
minimamente conto delle conseguenze di tale uso, avendo
perso il legame originale che lega il molteplice nell’unità
dell’Essere. Le guerre, il dolore, gli sfruttamenti, la schiavitù, il
dolore che ci circonda sono figli di questo fraintendimento. Il
pensiero di Parmenide e Zenone è stato ucciso, l’Occidente ha
scelto l’Avere all’Essere, ha scelto la potenza e la tecnica al
posto dell’eternità e della gioia che essa dona qui e ora e questa
scelta è stata tanto precoce quanto consapevole e determinata.
Forse è in questo senso che va letto l’aforisma di Nietzsche:

“Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse


quello apparente?... Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello
apparente! (mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine del lunghissimo
errore; apogeo dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA).”

Il mondo vero, quello dell’essere e quello apparente, quello


dell’avere. Volere il mondo vero vuol dire, dopo il suo
abbandono l’abbandono anche dell’illusione del dominio
dell’uomo sulla natura, del recupero del senso della terra, della
rinuncia al mondo dell’avere, a mondi dietro il mondo. Forse
questo è il destino che attende l’umanità, a cui prima o poi
deve giungere per poter risolvere il suo errore originario: la
totale distruzione di ogni valore per fare tabula rasa di ogni
realtà supposta e ritornare all’essenza dell’Essere. Forse
l’umanità sta per intraprendere questo doloroso ma necessario
cammino.

483
Goethe ha detto: “Tra tutti i popoli nessuno ha sognato meglio
dei greci il sogno dell’esistenza”. Forse è opportuno modificare
tale frase in questo modo: “Tra tutti i popoli nessuno ha
sognato meglio dei greci il sogno dell’esistenza trasformando
subito tale sogno in incubo”.
Questa è l’origine misconosciuta dell’uomo: l’uomo è uno
nella diversità ed ha tutto in se: ogni tempo, ogni luogo, ogni
essere.
Questo è l’altro messaggio di Eleusi: essere parte di ogni cosa e
di ogni essere, avere un luogo comune dove esperienze, vite,
ricordi, tempi si unificano e rimangono sospesi, in bilico tra un
sogno e un barlume di realtà. L’origine comune, l’unione
mistica dei molti nell’Uno; anche questi concetti travalicano il
tempo e le culture e un tempo non erano estranei all’Occidente:
Plotino, i mistici cristiani avevano fatto risuonare parole simili.
Il secolo della ragione aveva zittito ogni misticismo, ogni
tentativo trascendente, ma con lo sviluppo delle scienze,
ovvero con la ragione applicata alla tecnica, si è giunti
nuovamente lì dove si era partiti. Vi sono evidenze che ci
parlano dell’io come di una sovrastruttura fittizia, che nulla in
realtà ci separa da ogni altro oggetto o essere, fino ad arrivare
all’ipotesi dell’ologrammaticità della nostra realtà. La scienza
si è riunificata alla tradizione mistica e filosofica; la mitologia
e le tradizioni riprendono concetti che la scienza oggi pare
avvicinare per la prima volta. Occorre trovare una sintesi di
tutto ciò, scendere dai monti e camminare tra gli uomini. Non
come nuovi portatori di verità, nuovi santoni e predicatori di
libri divini, ma come uomini che hanno una storia da
raccontare, che hanno una nuova visione da condividere, che
hanno una assurda speranza: rendere questo mondo, e quindi
ogni singolo individuo, consapevole, non migliore o peggiore
ma semplicemente consapevole delle sue azioni…

484
Ed è proprio per la vostra consapevolezza e saggezza che vi
chiedo di abbandonare il vostro isolamento, soprattutto se si
dovessero avverare le nefaste profezie che circondano il
recupero del libro. Da parte mia ho adempiuto al mio compito,
a quello che la nonna mi aveva chiesto in una lettera scritta
forse nelle medesime condizioni in cui io sto scrivendo questa:
ho seguito la mia strada, ho conosciuto persone straordinarie,
ho scoperto e capito cose di cui semplicemente ignoravo
l’esistenza. Avere questo libro tra le mani è stringere l’eternità
in un’ora, è avere il sudore di Nietzsche sui polpastrelli che
sfogliano le carte, è annusare l’odore dell’inchiostro che Gödel
usò per vergare la sua laica preghiera a Dio… Mi sento parte di
tutto ciò… I mie pensieri, la mia luce sono vostri, ora e in
eterno…
Che la luce illumini la vostra via.

Isobel Morrison

Il vecchio ripiegò lentamente i fogli e li ripose nella busta. Poi


si recò vicino alla scrivania, aprì il cassetto e estrasse un
giornale stropicciato. Lo sfogliò lentamente fino a che non
trovò quello che cercava. Lesse ad alta voce:

Lista delle vittime degli attentati dell’11 settembre


………………………
Isobel Morrison: passeggera del volo AA77 schiantatosi sul
Pentagono alle 9:36 dell’11 settembre 2001; deceduta.

Hani Hanjour: passeggero e dirottatore del volo AA77;


secondo gli inquirenti è colui che ha pilotato il boeing e lo ha
portato a schiantarsi sul Pentagono alle 9:36 dell’11 settembre
2001; deceduto.
………………………

485
Alpang rimase scioccato. Il vecchio uscì dalla stanza facendo
segno ad Alpang di attenderlo. Dopo alcuni minuti rientrò, le
mani giunte innanzi a sé. Chiese ad Alpang di aprire la finestra
e affacciatosi aprì le mani facendo volare una splendida farfalla
azzurra dicendo:
“Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo
chiama farfalla. Vola libera e che la tua forma sia splendida
come le ali che ti sostengono. Che la pace sia il tuo sentiero!”
Poi chinò il capo. Alpang fece altrettanto. Una leggera brezza
entrò nella stanza portando con sé il rumore della cascata. La
farfalla si posò un attimo sul davanzale, poi allargando le ali
volò verso il sole. La luce abbagliò i loro occhi e la farfalla
scomparve alla loro vista: l’eternità e l’effimero si fusero nei
loro occhi, tatuandoli per sempre.

486
487
488
BIBLIOGRAFIA

FISICA E SCIENZE:
Titolo: La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura
Autore: Barbour Julian
Anno: 2005
Editore: Einaudi

Titolo: Figli di Crono. Undicesima cattedra dei non credenti


Autore: Martini Carlo M.
Anno: 2001
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà


Autore: Greene Brian
Anno: 2006
Editore: Einaudi

Titolo: Un mondo senza tempo. L'eredità dimenticata di Gödel e Einstein


Autore: Yourgrau Palle
Anno: 2006
Editore: Il Saggiatore

Titolo: Il significato della relatività. Ediz. integrale


Autore: Einstein Albert
Anno: 2005
Editore: Newton & Compton

Titolo: Gödel. L'eccentrica vita di un genio


Autore: Casti John L.; Depauli Werner
Anno: 2001
Editore: Cortina Raffaello

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Titolo: Gödel, Escher, Bach. Un'eterna ghirlanda brillante.
Una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll
Autore: Hofstadter Douglas R.
Anno: 1990
Editore: Adelphi

Titolo: La prova di Gödel


Autore: Nagel Ernest; Newman James R.
Anno: 1992
Editore: Bollati Boringhieri

Titolo: La quarta dimensione. Un viaggio guidato negli universi di ordine superiore


Autore: Rucker Rudy
Anno: 1994
Editore: Adelphi

Titolo: Alice nel paese dei quanti. Le avventure della fisica


Autore: Gilmore Robert
Anno: 1996
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Dall'io al cosmo. Arte, scienza, filosofia


Autore: Barrow John D.
Anno: 2000
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Il tao della fisica


Autore: Capra Fritjof
Anno: 1989
Editore: Adelphi

Titolo: Bohm. La fisica dell'infinito


Autore: Teodorani Massimo
Anno: 2006
Editore: Macro Edizioni

Titolo: Dove il tempo finisce


Autore: Krishnamurti Jiddu; Böhm David
Anno: 1986
Editore: Astrolabio Ubaldini

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Titolo: I conigli di Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli
Autore: Bruce Colin
Anno: 2006
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Entanglement. Il più grande mistero della fisica


Autore: Aczel Amir D.
Anno: 2004
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Nuove immagini dell'universo. Dialoghi con fisici e cosmologi


Autore: Gyatso Tenzin (Dalai Lama)
Anno: 2006
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Fermare il tempo. Un'interpretazione estetico-scientifica della natura


Autore: Tiezzi Enzo
Anno: 1996
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Sincronicità. Il legame tra fisica e psiche. Da Pauli e Jung a Chopra


Autore: Teodorani Massimo
Anno: 2006
Editore: Macro Edizioni

Titolo: Psiche e natura


Autore: Pauli Wolfgang
Anno: 2006
Editore: Adelphi

Titolo: La prova matematica dell'esistenza di Dio


Autore: Gödel Kurt
Anno: 2006
Editore: Bollati Boringhieri

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Titolo: Il velo di Einstein. Il nuovo mondo della fisica quantistica
Autore: Zeilinger Anton
Anno: 2006
Editore: Einaudi

Titolo: C'era una volta un paradosso. Storie di illusioni e verità rovesciate


Autore: Odifreddi Piergiorgio
Anno: 2006
Editore: Einaudi (collana Einaudi tascabili. Saggi)

Titolo: La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni
Autore: Livio Mario
Anno: 2003
Editore: Rizzoli (collana Saggi stranieri)

Titolo: Causalità e caso. La fisica moderna


Autore: Böhm David
Anno: 1997
Editore: CUEN (collana Antitesi)

Titolo: Sei pezzi facili


Autore: Richerd Feynman
Anno: 2000
Editore: Adephi

Titolo: Sei pezzi meno facili


Autore: Richard Feynman
Anno: 2004
Editore: Adelphi

Titolo: L’infinito. Breve guida ai confini dello spazio e del tempo


Autore: John Barrow
Anno: 2006
Editore: Mondadori

Titolo: Dio, la scienza, la filosofia


Autore: Henry Margenau
Anno: 2001
Editore: Armando

492
Titolo: La strada che porta alla realtà
Autore: Roger Penrose
Anno: 2006
Editore: BUR

Titolo: Finito o infinito? Limiti ed enigmi dell’universo


Autore: Liminet - Lachieze
Anno: 2006
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Zero. La storia di un’idea pericolosa


Autore: Seife
Anno: 2002
Editore: Bollati Boringhieri

Titolo: Guida alla teoria della relatività. Dalle previsioni di Einstein alle conferme sperimentali
Autore: Silvestrini Vittorio
Anno: 2007
Editore: Editori Riuniti

Titolo: La luce. Natura, teoria, storia, colore, ombra, metafisica, scienza, poesia, mistero
Autore: Mariani Guglielmo
Anno: 2005
Editore: Gangemi

Titolo: Sopra un raggio di luce


Autore: Bryce DeWitt
Anno: 2005
Editore: Di Renzo Editore

Titolo: Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio?


Autore: Carlo Rovelli
Anno: 2005
Editore: Di Renzo Editore

493
FILOSOFIA:

Titolo: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno


Autore: Nietzsche Friedrich
Anno: 1976
Editore: Adelphi

Titolo: La Gaia Scienza


Autore: Nietzsche Friedrich
Anno: 1976
Editore: Adelphi

Titolo: Elogio della follia


Autore: Erasmo da Rotterdam
Anno: 2005
Editore: Einaudi

Titolo: L' enigma della serpe secondo Nietzsche. Guida ai simboli dello Zarathustra
Autore: Biondi Graziano
Anno: 2001
Editore: Manifestolibri

Titolo: L' anima


Autore: Platone
Anno: 2006
Editore: Mondadori

Titolo: Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro


Autore: Galimberti Umberto
Anno: 2000
Editore: Feltrinelli

Titolo: Enneadi. Testo greco a fronte


Autore: Plotino
Anno: 2000
Editore: Bompiani

494
Titolo: La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire
Autore: Severino Emanuele
Anno: 2006
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

Titolo: Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica


Autore: Severino Emanuele
Anno: 2006
Editore: Rizzoli

Titolo: L' anello del ritorno


Autore: Severino Emanuele
Anno: 1999
Editore: Adelphi

Titolo: La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell'esistenza


Autore: Severino Emanuele
Anno: 2000
Editore: Rizzoli

Titolo: Poema sulla natura


Autore: Parmenide
Anno: 2006
Editore: Medusa Edizioni

Titolo: Parmenide. Testo greco a fronte


Autore: Platone
Anno: 2003
Editore: Laterza

Titolo: La Repubblica
Autore: Platone
Anno: 2006
Editore: Laterza

Titolo: L' irrealtà del tempo


Autore: McTaggart John E.
Anno: 2006
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

495
Titolo: La sfida di Parmenide. Verso la rinascenza
Autore: Sangiacomo Andrea
Anno: 2007
Editore: Il Prato (collana I cento talleri)

Titolo: Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967


Autore: Colli Giorgio
Anno: 2003
Editore: Adelphi (collana Biblioteca filosofica)

Titolo: Zenone di Elea. Lezioni 1964-1965


Autore: Colli Giorgio
Anno: 1998
Editore: Adelphi (collana Biblioteca filosofica)

Titolo: I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone


Autore: Toth Imre
Anno: 2006
Editore: Bibliopolis

Titolo: Il Tao di Nietzsche


Autore: Montanari Moreno
Anno: 2006
Editore: Mimesis

PSICOLOGIA:

Titolo: Genio e follia. Strindberg e Van Gogh


Autore: Jaspers Karl
Anno: 2001
Editore: Cortina Raffaello

Titolo: Storia della follia nell'età classica


Autore: Foucault Michel
Anno: 1998
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

496
Titolo: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione
Autore: Foucault Michel
Anno: 2005
Editore: Einaudi

Titolo: La mente estesa


Autore: Sheldrake Rupert
Anno: 2006
Editore: Apogeo

Titolo: La mente olotropica. Le esperienze che conducono ai livelli più profondi della psiche
Autore: Grof Stanislav
Anno: 2007
Editore: Red Edizioni

Titolo: Verso un'ecologia della mente


Autore: Bateson Gregory
Anno: 1977
Editore: Adelphi

Titolo: Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia


Autore: Minkowski Eugène
Anno: 2004
Editore: Einaudi

Titolo: L' io diviso. Studio di psichiatria esistenziale


Autore: Laing Ronald D.
Anno: 2001
Editore: Einaudi

Titolo: Conversando con i miei bambini


Autore: Laing Ronald D.
Anno: 2000
Editore: Einaudi

Titolo: L' uomo e i suoi simboli


Autore: Jung C. Gustav
Anno: 2004
Editore: TEA

497
Titolo: Ricordi, sogni, riflessioni
Autore: Jung C. Gustav
Anno 1998
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

Titolo: I fenomeni occulti


Autore: Jung C. Gustav
Anno: 1980
Editore: Bollati Boringhieri

Titolo: La sincronicità
Autore: Jung C. Gustav
Anno: 1980
Editore: Bollati Boringhieri

Titolo: Anima e morte


Autore: Jung C. Gustav
Anno: 1978
Editore: Bollati Boringhieri

Titolo: La schizofrenia
Autore: Jung C. Gustav
Anno: 1980
Editore: Bollati Boringhieri

Titolo: La rappresentazione del mondo del Fanciullo


Autore: Jean Piaget
Anno: 1973
Editore: Bollati Boringhieri

LETTERATURA:

Titolo: La colomba pugnalata


Autore: Citati Pietro
Anno: 1998
Editore: Mondadori

498
Titolo: Ulisse
Autore: Joyce James
Anno: 2000
Editore: Mondadori

Titolo: Finnegans Wake. Testo inglese a fronte. Vol. 2: I-II.


Autore: Joyce James
Anno: 2004
Editore: Mondadori

Titolo: Alla ricerca del tempo perduto


Autore: Proust Marcel
Anno: 2005
Editore: Mondadori

Titolo: Finzioni
Autore: Borges Jorge L.
Anno: 2005
Editore: Einaudi

Titolo: L' aleph


Autore: Borges Jorge L.
Anno: 2003
Editore: Feltrinelli

Titolo: Storia dell'eternità


Autore: Borges Jorge L.
Anno: 1997
Editore: Adelphi

499
POESIA:

Titolo: Canti orfici


Autore: Campana Dino
Anno: 2005
Editore: Einaudi

Titolo: Poesie. Testo inglese a fronte


Autore: Dickinson Emily
Anno: 2004
Editore: Mondadori

Titolo: Poesie
Autore: Eliot Thomas S.
Anno: 2000
Editore: Bompiani

Titolo: Tempesta elettrica. Poesie e scritti perduti


Autore: Morrison Jim
Anno: 2002
Editore: Mondadori

Titolo: Una stagione all'inferno-Illuminazioni


Autore: Rimbaud Arthur
Anno: 2002
Editore: Mondadori

Titolo: Canti
Autore: Leopardi Giacomo
Anno: 2006
Editore: Feltrinelli

Titolo: Foglie d’erba


Autore: Walt Whitman
Anno: 2005
Editore: Einaudi

500
PITTURA:

Titolo: L' Arte e la Morte


Autore: Artaud Antonin
Anno: 2003
Editore: Il Nuovo Melangolo

Titolo: Van Gogh il suicidato della società


Autore: Artaud Antonin
Anno: 1988
Editore: Adelphi

Titolo: Lettere a Theo


Autore: Van Gogh Vincent
Anno: 2006
Editore: Guanda

MUSICA:

Titolo: Nessuno uscirà vivo di qui. La sconvolgente biografia di Jim Morrison


Autore: Hopkins Jerry; Sugerman Daniel
Anno: 2005
Editore: Kaos

Titolo: Jeff Buckley


Anno: 1997
Editore: Giunti Editore

Titolo:Mirabilmente singolare. Racconto della vita di Glenn Gould


Autore: Bazzana Kevin
Anno: 2004
Editore: E/O

Titolo: Glenn Gould. Piano solo, aria e 30 variazioni


Autore: Schneider Michel
Anno: 1991
Editore: Einaudi

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Titolo: Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane
Autore: Giacopini Vittorio
Anno: 2005
Editore: E/O

Titolo: A love supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane


Autore: Kahn Ashley
Anno: 2004
Editore: Il Saggiatore

Titolo: Ascension. Vita e musiche di John Coltrane


Autore: Nisenson Eric
Anno: 2002
Editore: Testo & Immagine

Titolo: Rimbaud e Jim Morrison. Il poeta come ribelle


Autore: Wallace Fowlie
Anno: 1997
Editore: Il Saggitore

STORIA, MITOLOGIA, RELIGIONI:


Titolo: I Vangeli apocrifi
Autore: Vari
Anno: 2005
Editore: Einaudi

Titolo: Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo
Autore: Santillana Giorgio de; Dechend Hertha von
Anno: 2003
Editore: Adelphi

Titolo: I miti greci


Autore: Graves Robert
Anno: 1983
Editore: Longanesi

502
Titolo: L' universo, gli dèi, gli uomini
Autore: Vernant Jean-Pierre
Anno: 2005
Editore: Einaudi

Titolo: Le nozze di Cadmo e Armonia


Autore: Calasso Roberto
Anno: 2004
Editore: Adelphi

Titolo: La regola celeste-Il libro del Tao


Autore: Lao Tzu
Anno: 2004
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

Titolo: Il silenzio della mente. Meditazioni sul vivere. Vol. 2


Autore: Krishnamurti Jiddu
Anno: 2005
Editore: Mondadori

Titolo: Centouno storie zen


Anno: 1973
Editore: Adelphi

Titolo: Gli stati molteplici dell'essere


Autore: Guénon René
Anno: 1996
Editore: Adelphi (collana Piccola biblioteca Adelphi)

Titolo: Scritti sull'esoterismo islamico e il taoismo


Autore: Guénon René
Anno: 1993
Editore: Adelphi (collana Piccola biblioteca Adelphi)

Titolo: Il regno della quantità e i segni dei tempi


Autore: Guénon René
Anno: 1982, 270 p.
Editore: Adelphi (collana Collezione Il ramo d'oro)

503
Titolo: L' uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
Autore: Guénon René
Anno: 1992, 172 p.
Editore: Adelphi (collana Collezione Il ramo d'oro)

Titolo: 11 settembre. Cosa c’è di vero nelle teorie del complotto


Autore: David Ray Griffin
Anno: 2004
Editore: Fazi

Titolo: Il mito dell’11 settembre e l’ipotesi Dottoer Stranamore


Autore: Roberto Quaglia
Anno: 2006
Editore: PSM

DISCOGRAFIA
Titolo: Grace
Autore: Jeff Buckley
Anno: 1994
Casa Discografica: Columbia

Titolo: The Doors


Autore: The Doosr
Anno: 1967
Casa Discografica: Elektra

Titolo: Absolutley Live


Autore: The Doors
Anno: 1970
Casa Discografica: Elektra

Titolo: A love Supreme


Autore: John Coltrane
Anno: 1964
Casa Discografica: Impulse

504
Titolo: The 1955 Goldberg Variation
Autore: Johann Sebastian Bach
Interprete: Glenn Gould
Anno: 1955
Casa Discografica: Sony

Titolo: The Goldberg Variation


Autore: Johann Sebastian Bach
Interprete: Glenn Gould
Anno: 1981
Casa Discografica: Sony

505
QUADRI

Titolo: Il seminatore al tramonto


Autore: Vincent Van Gogh
Anno: 1888 Novembre
Museo: Stiftung Sammlung E.G. Bührle Zurigo

Titolo: Il seminatore al tramonto


Autore: Vincent Van Gogh
Anno: 1888 Novembre
Museo: Van Gogh Museum Amsterdam

Titolo: Seminatore con il sole che tramonta


Autore: Vincent Van Gogh
Anno: 1888 Giugno
Museo: Kroller Muller Museum Otterlo

Titolo: Campo di grano con corvi


Autore: Vincent Van Gogh
Anno: 1890 luglio
Museo: Van Gogh Museum Amsterdam

Titolo: Notte stellata


Autore: Vincent Van Gogh
Anno: 1889 giugno
Museo: The museum of Modern Art New York

Titolo: Autoritratto
Autore: Vincent Van Gogh
Anno: 1889 settembre
Museo: Musée d’Orsay Parigi

506
WEB

http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale

http://www.filosofico.net/

http://www.fisicamente.net

http://www.riflessioni.it/

http://ulisse.sissa.it/

http://www.vialattea.net/

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INDICE:

CAPITOLO I..................................................................................................................................5
CAPITOLO II ................................................................................................................................7
CAPITOLO III............................................................................................................................ 11
CAPITOLO IV............................................................................................................................ 15
CAPITOLO V ............................................................................................................................. 17
CAPITOLO VI............................................................................................................................ 21
CAPITOLO VII .......................................................................................................................... 25
CAPITOLO VIII ......................................................................................................................... 31
CAPITOLO IX............................................................................................................................ 35
CAPITOLO X ............................................................................................................................. 39
CAPITOLO XI............................................................................................................................ 43
CAPITOLO XII .......................................................................................................................... 47
CAPITOLO XIII ......................................................................................................................... 53
CAPITOLO XIV......................................................................................................................... 55
CAPITOLO XV .......................................................................................................................... 57
CAPITOLO XVI......................................................................................................................... 61
CAPITOLO XVII ....................................................................................................................... 63
CAPITOLO XVIII ...................................................................................................................... 73
CAPITOLO XIX......................................................................................................................... 77
CAPITOLO XX .......................................................................................................................... 87
CAPITOLO XXI....................................................................................................................... 101
CAPITOLO XXII ..................................................................................................................... 109
CAPITOLO XXIII .................................................................................................................... 115
CAPITOLO XXIV.................................................................................................................... 121
CAPITOLO XXV ..................................................................................................................... 125
CAPITOLO XXVI.................................................................................................................... 127
CAPITOLO XXVII .................................................................................................................. 135
CAPITOLO XXVIII ................................................................................................................. 145
CAPITOLO XXIX.................................................................................................................... 153
CAPITOLO XXX ..................................................................................................................... 157
CAPITOLO XXXI.................................................................................................................... 161
CAPITOLO XXXII .................................................................................................................. 173
CAPITOLO XXXIII ................................................................................................................. 181
CAPITOLO XXXIV................................................................................................................. 191
CAPITOLO XXXV .................................................................................................................. 215
CAPITOLO XXXVI................................................................................................................. 239
CAPITOLO XXXVII................................................................................................................ 241
CAPITOLO XXXVIII .............................................................................................................. 247
CAPITOLO XLIX .................................................................................................................... 255
CAPITOLO XL......................................................................................................................... 271
CAPITOLO XLI ....................................................................................................................... 297
CAPITOLO XLII...................................................................................................................... 311
CAPITOLO XLIII .................................................................................................................... 325
CAPITOLO XLIV .................................................................................................................... 331
CAPITOLO XLV...................................................................................................................... 339
CAPITOLO XLVI .................................................................................................................... 349
CAPITOLO XLVII................................................................................................................... 359
CAPITOLO XLVIII.................................................................................................................. 365

509
CAPITOLO XLIX .................................................................................................................... 373
CAPITOLO L ........................................................................................................................... 377
CAPITOLO LI .......................................................................................................................... 385
CAPITOLO LII......................................................................................................................... 395
CAPITOLO LIII ....................................................................................................................... 419
CAPITOLO LIV ....................................................................................................................... 425
CAPITOLO LV......................................................................................................................... 437
CAPITOLO LVI ....................................................................................................................... 441
CAPITOLO LVII...................................................................................................................... 459
CAPITOLO LVIII .................................................................................................................... 469
CAPITOLO LIX ....................................................................................................................... 473
CAPITOLO LX......................................................................................................................... 475
CAPITOLO LXI ....................................................................................................................... 477
CAPITOLO LXII...................................................................................................................... 479
BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................... 489
DISCOGRAFIA........................................................................................................................ 504
QUADRI ................................................................................................................................... 506
WEB .......................................................................................................................................... 507

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RINGRAZIAMENTI

A Lara per il tuo amore e la tua pazienza. Se questo libro esiste lo devo soltanto a te.
A Federico e Sara per aver subito le mie assenze. Vedrò di rimediare.

A Deborah per la paziente lettura.


A tutti quelli che mi hanno sopportato.
A Robbie per le discussioni, per il nostro non essere d’accordo ma in fondo per esserlo.

Questo libro è, tra le altre cose,un tentativo di rispondere,a questo verso di poesia:

“Dove saranno i tuoi occhi quando sarà tutto finito?


Dove saranno gli occhi tuoi quando si chiuderanno i miei?”
Tratta da “More than This” di Roberto Parenti

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