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Stefano Civolani
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Copyright © 2007 Stefano Civolani All rights reserved
Fronte Copertina: Cielo stellato: elaborazione grafica di Stefano Civolani
Retro Copertina: Foto di Stefano Civolani
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A Lara per il suo amore
A Federico per il suo sorriso
A Sara per il suo sguardo
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N.B.
I fatti narrati in questo libro sono di pura fantasia. Ogni riferimento ad eventi, persone e
luoghi è puramente casuale.
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CAPITOLO I
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E’ finita, pensò e trasse un lungo sospiro. In lontananza i
rintocchi sordi di una campana le ricordavano il tempo che le
sfuggiva dalle mani. Ma era davvero così? Una fitta le trafisse
il petto. No, non ora pensò, non qui in questa città senza tempo,
così paurosa perchè così conosciuta e allo stesso tempo velata,
trasfigurata, irreale. Il cuore incominciò a batterle forte, come
un tamburo selvaggio nel petto. No, non era la neve, non era la
paura, erano i ricordi che bussavano alla sua porta, che le
sussultavano nel petto per salirle alla mente. Si appoggiò con la
schiena alla spalliera del letto, allungò il braccio e trasse a se il
libro che era sul comodino, lo strinse e si coricò di nuovo. Il
cuore si placò. Chiuse gli occhi e la neve calò pian piano nella
sua mente, cullandola dolcemente…
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CAPITOLO II
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occhi su di lei e disse:
“Andiamo. Portami all’ospedale. Il momento è arrivato.”
Tremava e il sudore gli scendeva dalle tempie sugli zigomi.
Sembrava stesse piangendo.
Alice si chinò su di lui, lo guardò e annuì accarezzando il
piccolo Ravi che dormiva tra le sue braccia, ignaro di tutto. La
musica era cessata, quel costante torrente di note che sentiva
nella testa e che trasmetteva così facilmente alle sue dita
quando impugnavano il sassofono si era improvvisamente
interrotta. Il silenzio. Tanto odiato e tanto amato. L’antitesi
della musica, il suo naturale compagno. Musica e silenzio.
Erano stati tutta la sua vita. John non amava parlare. Era
sicuro: nella sua vita aveva suonato più note di quante parole
avesse pronunciato… e ancora ne sentiva di nuove. Lui
parlava suonando, recitava poesie con il suo sax, poesie
d’amore, violente invettive, dolorose accuse. Era una persona
silenziosa capace di suonare nella maniera più fragorosa e
devastante che si fosse mai udita nel jazz. Suonava la sua
anima, riproduceva ciò che sentiva nella sua mente e ora, ora
che era arrivato questo secondo silenzio, terribile, fatale, aveva
capito che era la fine.
Si appoggiò a una sedia e si alzò in piedi tremante. Mise il sax
nella custodia, si passò una mano sulla fronte per asciugare il
sudore e poi, con in una mano il sassofono e l’altra sul fianco
dolorante si avviò verso la porta ancora immersa nella luce.
“L’ospedale Huntington è il più vicino” disse Alice “Cerco
qualcuno che possa badare a Ravi e ti raggiungo
immediatamente.” Stava piangendo.
“Non piangere Alice. Io sono pronto. Solo ... La musica ... e’
finita … Non la sento più … questo silenzio... È … la …
fine… No, non c’è mai fine. Lo specchio Alice, devo ancora
pulire lo specchio …”
“Lo hai già fatto John, lo hai già fatto. Ora sta ad altri. Vai
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adesso. Arriverò presto.”
John chiuse la porta dietro di se. Buio. Silenzio.
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CAPITOLO III
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persone. Passò oltre. Non poteva attendere. La gente sapeva
della sua fretta. Non poteva non sapere. Gli sguardi torvi
divennero per lui sorrisi mentre si accostava allo sportello
consegnando all’impiegato una serie di lettere.
“Ne curi personalmente la spedizione. L’annuncio è stato dato.
Lei è stato tramite di un evento di portata storica. L’umanità le
sarà per sempre riconoscente.” Allungò del denaro allo
sconcertato impiegato e si avviò verso l’uscita fischiettando e
battendo il suo bastone da passeggio per terra. Girò l’angolo e
il sorriso che aveva stampato sul volto si spense.
Uno schiocco di frusta. Un nitrito. Urla.
Le immagini corsero rapide nella sua mente. Il dolore corse da
quell’animale inerme a lui. Sentì su di se quelle frustate, il suo
corpo nudo piagato dalla violenza di quel gesto. Le contò, una
ad una. Il dolore era insopportabile. Io sono lui.
Ritorna. Ritorna. Ritorna...
Corse verso il cavallo, piangendo e urlando. Lo abbracciò.
Cadde.
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CAPITOLO IV
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CAPITOLO V
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brusco attacco di tosse lo scosse nuovamente. Inarcò la schiena
come a volersi liberare dell’oppressione che sentiva
nuovamente al petto. In quel momento bussarono alla porta.
“Vieni avanti” disse tossendo. Era Pamela. Doveva essere
Pamela. Era stata in giro tutto il giorno con quel suo amico
francese, quella specie di conte. Ma tornava, lei tornava sempre
da lui. Anche lui tornava sempre da lei. Era la sua compagna
cosmica. Ora era giunto il momento di cambiare. Tutto doveva
cambiare.
Sentì la porta d’ingresso aprirsi e dei passi avvicinarsi alla
porta della sala attigua al bagno dove si trovava. Sentì
armeggiare dalle parti del mobile che conteneva il vecchio
giradischi che aveva acquistato qualche giorno prima in una
bancarella sul lungo Senna..
Sentì il tonfo sordo della puntina sul disco, le stanze riempirsi
di musica e subito un brivido lo percorse. Conosceva quella
melodia. E quella voce, la sua voce. The end. La fine.
Da quando l’aveva sentita per la prima volta nella sua testa,
risuonare insieme a mille altre melodie, l’aveva cantata e
suonata con i ragazzi del gruppo centinaia di volte ma non
aveva mai ascoltato la versione incisa sul loro disco di esordio.
Ricordava nitidamente la sera in cui l’avevano registrata e ne
aveva paura.
Quella sera le luci erano spente nello studio di registrazione,
solo quelle dei registratori emanavano un bagliore
intermittente. L’incenso bruciava innanzi a lui, allora come
adesso, di fianco a una candela. La stanza riverberava dei suoni
di John, Robbie e Ray e lui, quando incominciò a cantare, si
sentì come trasportato in un altro luogo. Cantava le sue parole
ma parevano provenire da altrove… This is the end...
L’autobus blu... Strane scene nella miniera d’oro... Pericolo al
confine della città … Cavalca il serpente … Gli stivali… La
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maschera… Padre… Madre… Uccidi… Scopa... La fine
delle notti in cui abbiamo cercato di morire…
Quando quella sera smise di cantare si era sentito vuoto, come
se la sua vita, il suo io fosse fuoriuscito insieme a quelle parole,
a quella musica, a quelle immagini. Era uscito dallo studio di
registrazione senza dire una parola, si era ubriacato e più tardi
vi aveva fatto ritorno, quando ormai non c’era più nessuno, e
aveva distrutto tutto. Non aveva però trovato quei maledetti
nastri. Voleva distruggerli. Erano suoi, era la sua voce, era la
sua vita, il suo io. Giurò a se stesso che non avrebbe più
ascoltato quella voce e quelle parole. Aveva paura. Sentiva che
sarebbe successo qualcosa se quelle parole gli fossero tornate
indietro. Non era pronto.
“Pam, spegni subito quella fottutissima musica! Paamm! Lo sai
che non la voglio sentire! Pam! Mi sono fatto metà della coca
che c’era sul tavolo… Non farmi alzare! PAAMM!”
La porta d’ingresso si chiuse con uno schiocco violento. Jim si
alzò scatto e corse verso la porta.
“Chi diavolo...” Si ritrovò faccia al suolo. Un dolore lancinante
al petto lo aveva fatto vacillare e cadere. La sua voce gli
rimbombava nel cervello… Questa è la fine...
Sì Jim, avevi ragione, questa è la fine. Tossì e un grumo di
sangue gli bagnò la mano.
Bisogna accoglierla degnamente, bisogna gustarsela, si disse.
Arrancò sul pavimento fino alla vasca, vi si aggrappò con uno
sforzo immenso e vi si gettò quasi dentro. Chi era alla porta?
….Cavalca il serpente…... Cosa succederà ora? ….. Fino al lago
antico…... Dio mio ho paura. …..L’assassino si svegliò prima
dell’alba……. Tosse, tosse e quel dolore al petto, alla spalla, al
braccio…… Gli era già successo altre volte ma …… Prese la
maschera dalla bacheca delle reliquie……... Stava arrivando per
lui. ……..Padre, voglio ucciderti!.......... Ansimava, la mano
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premuta sul petto. Dio un’attimo ancora, devo ancora scrivere,
ho tante parole, tante musiche, tante… Madre voglio scoparti! …
La sua voce gli trapanava le tempie. Una falena volò verso la
tenda di fronte alla vasca. Sentì uno strano sibilo. L’urlo della
farfalla!! E’ la fine. Sto sprofondando nel grande sonno… La
fine delle notti in cui abbiamo cercato di morire…. Appoggiò le
braccia sul bordo della vasca, reclinò il capo e con un filo di
voce cantò con la voce che proveniva dal giradischi. This…
is…. the … End!
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CAPITOLO VI
“Il bianco manto della neve, che ricopre di silenzio ogni cosa,
si scioglie negli occhi di chi guarda. Che silenzio!”
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Non sapeva di chi fosse, ma ogni volta che lo ripeteva le
infondeva una strana calma, un distacco pacato e sereno.
Accadde anche questa volta. Richiuse la finestra, recuperò i
vestiti, li indossò e scese in strada.
L’hotel dove la nonna alloggiava era a poco meno di un isolato
e passeggiare sotto la neve le era sempre piaciuto, la aiutava a
pensare. La nonna era arrivata a Londra solo poche settimane
prima, da Parigi. Era arrivata di sorpresa, come suo solito,
senza alcun preavviso. Era sorridente come sempre, ma aveva
una strana fretta, come se sapesse di non avere tanto tempo a
disposizione. Aveva voluto vederla spesso in quelle poche
settimane, a cena, nel pomeriggio quando lei usciva dal lavoro,
dopo cena. Spesso stavano sedute davanti al caminetto della
camera dell’hotel dove alloggiava, in silenzio, ascoltando il
crepitio del fuoco per ore. Si sentiva a casa accanto alla nonna,
come con nessun’altro al mondo, amata, protetta. Era stato così
da sempre, sin da quando lei era piccola. E la nonna lo sapeva.
La sua serenità si poteva percepire e respirare standole accanto.
Pareva quasi brillare. L’ultima volta che l’aveva vista invece
pareva turbata, scossa da un qualcosa, impaziente e nello stesso
tempo impaurita.
Era stata da lei giusto quella sera. Si erano accomodate una
accanto all’altra sul grande divano Luigi XIV della suite dove
la nonna alloggiava; era solita alloggiare sempre nella stessa
camera sin da quando Isobel si era trasferita a Londra per
lavoro e la nonna la veniva a trovare. Diceva che le era
affezionata, e ogni volta che glielo ricordava chiudeva gli
occhi stretti stretti come per ricacciare indietro i ricordi.
La sera scorsa, davanti al caminetto, a differenza di molte altre
sere, si erano messe a parlare. La nonna era stranamente
loquace. Le fece un mucchio di domande, anche personali, su
argomenti che raramente avevano trattato insieme in quel
modo: religione, fede, amore, morte. La morte soprattutto
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sembrava essere il chiodo fisso della nonna, quella sera. Le
chiese se ne aveva paura. Lei rispose che si, ne aveva ma che
preferiva non pensarci. La nonna l’aveva guardata con un
sorriso luminoso sul viso e le aveva detto, prendendole il volto
tra le mani:
“Ricordati del bruco… Non finisce mai Issi, io non finisco qui,
tu non finisci qui, noi non siamo solo noi…”.
Lei si era allontanata spaventata. La nonna aveva sempre avuto
la passione per un certo misticismo orientale, per quelle
filosofie che vedevano l’uomo come parte di un tutto armonico
dell’universo. Ne avevano parlato a volte, ma la nonna era
sempre stata vaga e colma di ironia a riguardo. Ogni tanto le
citava proverbi, frasi celebri di maestri dell’Oriente, ma sempre
con parsimonia e facendoli seguire da battute e da facezie.
Quella volta sembra molto seria, molto convinta. Sapeva anche
che nella sua giovinezza aveva conosciuto una persona che
l’aveva introdotta e interessata a quella materia, ma ogni volta
che aveva provato a chiedere qualcosa su questa persona la
nonna aveva sempre cambiato discorso, infastidita.
“Sai” le disse” proprio stamane ho ricevuto per posta un libro,
un libro che ormai consideravo perduto da tanto tanto tempo.
E’ come se qualcuno me lo avesse spedito dal passato. Questa
sera lo voglio leggere, ma prima di ripartire te lo darò Issi.
Dovrai trattarlo con molta cura e non darlo mai a nessun’altro
fino a quando… lo capirai da te quando sarà il momento.”
La trasse a se e la abbracciò, con una forza che le fece per un
attimo mancare il fiato.
“Addio Issi, domani me ne vado, torno a casa…” le disse con
gli occhi lucidi. “Abbi cura di te.”
Erano le ultime parole che aveva sentito da sua nonna. E quella
mattina, appena aveva sentito suonare il telefono, aveva capito
che la nonna era morta. Capito non era la parola esatta, ma
come diceva spesso la nonna, le parole non sono mai esatte,
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sono imperfette, semplificano, banalizzano, circoscrivono,
limitano. La sera precedente le aveva lasciato questa
consapevolezza inconscia che Isobel era riuscita a mettere a
fuoco solo al suono del telefono che l’aveva come svegliata da
più stati di torpore: dal sonno e dall’oblio che la serata
precedente aveva fatto scendere sul suo cuore. Se ne era andata
dalla stanza della nonna con una strana sensazione che solo
quella mattina era riuscita a comprendere: la nonna le stava
dicendo addio. E lei, una parte di lei, lo aveva percepito e ne
era rimasta segnata.
Era ormai giunta all’hotel. Il lampeggiante dell’ambulanza
parcheggiata di fronte alla hall tingeva di blu la neve
circostante, dando alla strada un’aspetto inquietante. Entrò
nella hall, fece un cenno al ragazzo dietro il bancone
principale, che oramai conosceva dalle numerose visite
precedenti e salì le scale. La porta della camera della nonna era
aperta e un capannello di persone confabulava davanti ad essa.
Con il groppo in gola si sistemò i vestiti, si fece forza e avanzò
con passo deciso.
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CAPITOLO VII
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Il lampeggiante blu colorava la camera e a Isobel parve di
scorgere una farfalla blu che usciva dalla finestra socchiusa. Fu
solo un’attimo.
La sua attenzione fu attratta dal libro che la nonna ancora
stringeva al petto. Era un grosso libro, bordato d’oro, con la
rilegatura di pelle consunta. Non riusciva a leggerne il titolo.
Scostò un braccio della nonna, ma si ritrasse sentendo il freddo
di quelle mani che la sera prima erano a lei così care e calde.
“Lasci fare a me signorina” disse una voce alle sue spalle.
“Sono il dottor Suzuki, sono stato io a darle la notizia poco fa
al telefono.”
Il dottore era fermo sulla soglia, ma subito entrò, si accostò al
letto, prese delicatamente la mano della nonna e la distese
lungo il fianco.
“Ecco, ora lo può prendere.” Disse quasi sussurrando.
Isobel prese il libro fra le mani e lo mise immediatamente nella
borsa, con un gesto rapido che fece inarcare le sopracciglia del
dottore.
“Non ha sofferto?” chiese scostandosi dal letto.
“No, se ne è andata nel sonno, serenamente. Il cuore si è
fermato. Uno dei suoi soliti attacchi. L’ultimo purtroppo.”
Sembrava commosso.
Il dottor Suzuki aveva avuto modo di visitare in passato la
nonna. Era il medico dell’hotel ed era stato chiamato diverse
volte per dei controlli dopo che la nonna aveva avuto uno dei
suoi periodici attacchi di angina. Lei non voleva essere visitata,
ma il direttore dell’hotel non aveva voluto sentire ragioni. Alla
fine aveva stretto un rapporto di amicizia con quel dottore di
origini giapponesi, con il quale si intratteneva dopo le
periodiche visite di controllo in lunghe conversazioni sulla sua
terra d’origine. Isobel sospettava che quella fosse l’unica
ragione per cui la nonna accettasse di sottoporsi ai controlli.
“Grazie dottore, grazie per tutto quello che ha fatto.”
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“Dovere” rispose con un mezzo inchino. “Mi segua, il direttore
dell’hotel desidera parlarle”
Isobel accarezzò delicatamente il viso della nonna, trasse un
respiro profondo e si avviò verso la porta.
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frontespizio, anch’esso bordato d’oro, riportava la seguente
scritta che lei identificò come il titolo:
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Z. E. enthousia
M.T.C. Alterius non sit qui suus esse potest.
P. ένας
icniV ad L.
M.E. !!!
J.S.B. Et Lucem Etiam Ubi Sempiternam Ioventute
J.H. The bottom of a damaged bucket
I.K. La realtà in se
V.V.G. om eindeloze te schilderen
A.R. Elle est retrouvèe. Quoi? L’Eternitè
F.W.N. Astu
C.G.J. NAHTRIHECCUNDE GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH ZUNNUS
A.E. E= mc2 T=∞ ? T=0 ?
K. G.
J.C. F G Ab Bb C
J.D.M The scream of the butterfly
G.G. Slowly fading in the north, the ice, the night. What a silence… What a
music…
T.M. Icci, segui chi mi ha preceduto!
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Si distese sul letto. Aveva sonno. Lasciò il libro al suo fianco e
si immerse nel caldo tepore delle coperte. Senza accorgersene
scivolò in un sonno profondo.
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CAPITOLO VIII
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arrossati, le guance scavate. Il viso che osservava nello
specchio pareva un fantasma, aveva gli stessi occhi che aveva
visto a Bird l’ultima volta che lo sentì suonare, poco prima che
morisse: occhi persi, distanti, opachi, che trasparivano la
nebbia e il torpore della mente. Di lì a poco Bird era morto. Era
stato ed era ancora il suo idolo: grazie a lui aveva deciso di
vivere per la musica, e a causa sua aveva eletto l’eroina a sua
compagna di viaggio. Come tanti jazzman aveva pensato che se
Bird la usava ed era Bird, allora anche lui avrebbe dovuto, per
essere simile al suo idolo. Ma lo specchio gli stava raccontando
un’altra storia. John, tu stai morendo, ti stai uccidendo come
Bird, senza mai essere diventato un vero musicista come lui.
Dov’è la tua musica John? Questa domanda gli rimbombava
nella testa. Era stato un vecchio frequentatore del locale dove
aveva suonato a chiederglielo, uno strano vecchietto che aveva
visto più volte le serate precedenti seduto in un tavolo, in
disparte, sempre da solo, avvolto dal fumo di sigarette che
accendeva una dopo l’altra. Quella sera, mentre stava uscendo
dal locale insieme a Naima, si era sentito tirare per un braccio,
si era voltato e aveva visto il volto sorridente di quel vecchio,
con la sigaretta che gli pendeva dal bordo delle labbra. Prima
che gli potesse chiedere spiegazioni il vecchio gli disse: “Per
chi stai suonando giovanotto? Puoi fare di meglio! Per chi
suona la tua musica? Da dove viene la tua musica? Da un
brutto posto a giudicare da questa serata! E anche quelle
precedenti non erano state diverse. E’ davvero questa la tua
musica?” Avrebbe voluto rispondere anche se non sapeva
come, ma Naima glielo aveva impedito strattonandolo e
spingendolo verso il parcheggio. Qual’è la tua musica John,
sussurrò. Si passò le mani sul viso. La sua immagine riflessa
era come avvolta dalla nebbia. Passò una mano sullo specchio
come per togliere da innanzi a se quell’alone che annebbiava i
suoi contorni. Niente. La passò di nuovo. Non accadde nulla. I
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tremori aumentarono improvvisamente. Si diresse verso il letto
e prese in mano la bottiglia di whisky. Dov’è la tua musica
John? Fissò la bottiglia. Annegata qua dentro e in una
maledetta siringa si rispose inconsciamente. Si fece forza e
riappoggiò la bottiglia sul comodino. Il tremore non cessava.
Cercò di aprire la custodia del sax, ma i suoi movimenti erano
impacciati. Finalmente ci riuscì. Lo afferrò quasi con violenza,
il freddo del metallo ridiede per un’attimo sensibilità alle dita
intorpidite. Portò lo strumento alla bocca, trasse un profondo
respiro e soffiò con quanta forza aveva. Una nota stridula uscì
dal sassofono. Non la pioggia di note che aveva in quel
momento pensato di suonare. Una sola nota, suonata con
quanto fiato aveva, le dita immobili sulle ance. Un’urlo nel
sassofono. Era quella la sua musica? Urlò quella nota fino a
tossire per la mancanza di fiato, poi si gettò sul letto ansimante.
Non tremava più. Sentiva il suo cuore battere e il suo respiro
affannato. E’ questa la mia musica, si disse. Aveva la mente
sgombra ora. Quando il respiro tornò normale si alzò dal letto,
prese la bottiglia di whisky e andò a versarla nel lavandino.
Mentre il whisky gorgogliava nello scarico alzò gli occhi sullo
specchio e vide sul suo volto un piccolo sorriso. Da quanto
tempo non si vedeva sorridere. La sua immagine riflessa aveva
ancora i contorni annebbiati ma quel sorriso spuntato da chissà
dove fece sparire quell’insistente voglia di affondare una
siringa in quella nebbia per dileguarla, almeno per un po’. E’
giunto il momento di farla finita, si disse. Riempì la bottiglia di
whisky con l’acqua del rubinetto e si chiuse a chiave in camera.
Il silenzio fu rotto da una lunga nota di sax che fece vibrare
l’oscurità notturna.
Urla nel silenzio.
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CAPITOLO IX
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Non riuscì a replicare in tempo. Il ragazzo si avvicinò e con un
rapido movimento afferrò il sasso e lo sollevò. Friedrich vide
per un istante la vipera, ma non fece il tempo a vibrare il colpo
che questa si era dileguata in una fenditura di un grosso masso
vicino. Dispiaciuto allungò il bastone al ragazzo.
“Non si preoccupi, non è facile. E’ così tutti i giorni. Tutti i
giorni io le do la caccia, la trovo, la inseguo e lei mi sfugge.
Ormai credo che andrà avanti per sempre. Forse l’unico modo
per prenderla è farmi mordere.. La ringrazio comunque e mi
scuso ancora per il disturbo.”
Friedrich fece un cenno di saluto, abbozzò un sorriso e si
diresse verso il sentiero; poco distante dal ruscello esso si
inoltrava in un fitto bosco di conifere che diedero ristoro con
un po’ di penombra alle membra accaldate e agli occhi
affaticati del professore. Si sedette su un tronco reciso mentre
le parole del pastore continuavano a girargli nella testa. E’ così
tutti i giorni. Tutti i giorni uguali. Per sempre. Farsi mordere.
Cambiare prospettiva. Il serpente. Il pericolo. La possibilità di
cambiare i giorni uguali. L’aquila. Elevarsi al di sopra di ogni
cosa, al di sopra del quotidiano, dello scontato, del già visto.
Occhi nuovi, diversa prospettiva, diversi orizzonti. Lasciarsi
mordere. Morire per spezzare le catene. La testa gli doleva.
Uno dei soliti attacchi di emicrania, pensò. Si alzò in piedi.
Manca ancora poco al lago, si disse e riprese il cammino. Il
sentiero proseguiva nel bosco quasi in linea retta, per poi
svoltare bruscamente sulla sinistra. Percorse un centinaio di
metri quasi in discesa e giunse sul limitare del bosco. I raggi
del sole penetravano tra le fronde degli alberi sempre più radi e
sullo sfondo intravide il barluccichio delle acque del lago di
Silvaplana. Uscì dal bosco e fu investito e accecato dalla luce.
Quando gli occhi si riabituarono potè ammirare lo spettacolo
del lago e delle cime innevate che lo contornavano e vi si
specchiavano. Sospirò. Era uno spettacolo magnifico.
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Incominciò a scendere lentamente per il sentiero che,
costeggiando un piccolo ruscello conduceva al lago. Una
leggera brezza muoveva le fronde e rinfrescava l’aria. Si
trovava nei pressi di un gigantesco masso a forma di piramide
quando sentì nuovamente l’urlo dell’aquila. Alzò lo sguardo.
All’altezza delle cime innevate vide il rapace, imponente,
altissimo, le ali spiegate a contrastare le correnti in quota. Stava
lentamente planando. La sua immagine diventava sempre più
nitida. D’un tratto scorse un qualcosa che pendeva dalle zampe
del rapace, divincolandosi. Una preda. La riconobbe: era una
serpe, che si avvinghiava alle zampe del rapace in un disperato
tentativo di liberarsi da quella presa mortale, anche se questo
avrebbe voluto dire precipitare nel vuoto. Friedrich rimase
come pietrificato. Aquila. Serpente. Mordere. Volare. Spazio.
Tempo. Eternità. Attimo. Un dolore lancinante alla tempia. Un
lampo di luce. Comprese. Tremò. Pianse. L’aquila sfuggì al
suo sguardo, ma egli non la vedeva più. Friedrich era già molto
più in alto di lei.
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CAPITOLO X
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danza con il vento, perpetuando inconsapevolmente un’antico
rituale pagano di saluto al sole che tramontava. Il pennello
corse veloce dalla tavolozza dei colori alla tela, una danza
frenetica, per non perdere l’immagine che aveva dentro di se.
Si sentiva una specie di febbre quando dipingeva, dovuta al
desiderio sempre frustrato di far corrispondere i colori sulla
tela a quelli che egli vedeva; quel giorno però, oltre alla
frenesia aveva anche rabbia, rabbia e paura. Era reduce
dall’ennesima discussione con Paul. Ne era uscito sgomento.
Paul voleva andarsene. A quella notizia aveva avuto uno scatto
d’ira. In quel momento aveva provato il desiderio di fargli
male, per strappargli di dosso le sue regole, quella
insopportabile compostezza e quel sorriso di velata critica che
ogni tanto gli appariva in volto quando osservava le sue tele.
“Devi dipingere ciò che vedi, non ciò che è! Ci vuole metodo,
rigore” gli aveva detto. Come faceva a spiegargli che non
esistevano colori che potessero riprodurre le tavolozze della
sua mente; come spiegargli che la luce che di quando in
quando vedeva circondare oggetti, volti, paesaggi era così
accecante che nemmeno lasciando la tela bianca ne avrebbe
potuto riprodurre l’intensità. Cosa poteva dipingere, cosa
poteva creare che riflettesse se stesso, la sua visione delle cose.
Era arrabbiato e nello stesso tempo si sentiva in colpa e voleva
farsi perdonare. Doveva farsi perdonare. Doveva punirsi per
quel vergognoso scatto d’ira e allo stesso tempo doveva
dimostrare la sua verità, la sua integrità. E poteva farlo solo
disgregando un pezzo di se, donando al nulla un brandello della
sua verità. Lui era la sua arte. Quando finì di dipingere, ripiegò
il cavalletto e si avviò verso casa. Aprì la porta, salì le scale,
entrò nella sua camera e ripose la tela a fianco di quelle dipinte
negli ultimi giorni. Fissò i suoi quadri; il suo sguardo cadde su
di uno dal soggetto del tutto simile a quello appena dipinto: un
seminatore in un campo al tramonto. I colori erano vivaci
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brillanti, nessun contorno netto, tutto sfumato, nessuna ombra a
contrastare il sole, tutto era indistinto, in un’apoteosi di colori.
La serenità e il tormento. Avrebbero dovuto essere accostati
questo quadro e quello appena dipinto. Lo fece. Si sedette sul
letto a fissarli, immobile, rapito dalle sue stesse visioni, dalle
sue stesse opere. Sono pazzo, si disse. Non ascoltare Vincent.
Non devi più ascoltare nessuno, né Paul, né Theo, nessuno!
Impedisciti di ascoltare. Si alzò di scatto e si diresse verso il
bagno. Lo specchio rimandava la sua immagine, circonfusa da
una luce che sembrava partire dalla sua mente, dal centro della
sua fronte. Fissò l’orecchio destro. La lama del rasoio brillò.
Finalmente il Silenzio. Finalmente il dono. Finalmente
l’espiazione. Era in pace.
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CAPITOLO XI
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intrecciavano l’una con l’altra restituendo una musica sublime.
Provò ad associare ad alcune di esse delle parole che gli
sgorgavano improvvise. Le annotò su un notes che portava
sempre con se, per non dimenticare quel fantastico concerto
che si stava svolgendo nella sua mente. Scrisse pagine e pagine
di parole, ognuna delle quali aveva un suono, un’armonia, una
melodia.
D’un tratto sentì una voce che lo chiamava. Jim! Jim! Era Felix
preoccupato della sua assenza. Appena lo vide gli corse
incontro.
“Jim, brutta testa di cazzo, dov’eri finito. Lo sai che quando si
prova quella roba, soprattutto la prima volta, bisogna essere in
compagnia, non si sa in che viaggio di porta. Jim, mi stai
ascoltando? L’LSD non è uno scherzo. Jim! Oh, al diavolo!”
E, imprecando contro di lui, ritornò da dove era venuto. Jim
rideva, una risata limpida e cristallina. Rideva di se,
dell’amico, del mondo, del tramonto, dell’eternità. Si passò la
mano tra i capelli. La musica e le parole continuavano ad
attraversargli la mente. Era pronto. Siete riusciti a entrare? La
cerimonia ha inizio!
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CAPITOLO XII
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“Buongiorno signorina Morrison, il direttore si scusa, ma la
suite dove alloggiava sua nonna è stata sgomberata per l’arrivo
di una importante personalità d’oltre Manica che aveva
prenotato l’appartamento da tempo. Le abbiamo portato gli
effetti personali e le valige della signora.”
“Prego, accomodatevi” rispose “potete appoggiarle nella mia
stanza. Vi faccio strada.”
Il cameriere entrò seguito da due garzoni che spingevano un
carrello con sopra due pesanti valige. Entrarono in camera e le
deposero sotto la finestra.
“Abbiamo controllato e ricontrollato. Non dovrebbe mancare
nulla. Per qualsiasi problema comunque può contattare
direttamente il direttore. Questo è il biglietto da visita che mi
ha pregato di consegnarLe rinnovandole le più sentite
condoglianze.”
“Ringrazi il direttore da parte mia. Vi accompagno all’uscita.”
Così dicendo si avviò lungo il corridoio, facendo loro strada.
Una volta chiusa la porta ritornò in camera e si sedette
nuovamente sul letto. Le valigie della nonna. Pelle ormai
logora dal tempo e dai viaggi. Adesivi che rimandavano a
viaggi nei paesi più disparati: Cina, Giappone, India,
Argentina, Stati Uniti, Australia, Canada. Ogni adesivo un
viaggio. Ogni adesivo un racconto della nonna che le
riaffiorava alla mente come se lo stesse ascoltando proprio in
quel momento. Tirò verso di se la prima delle due valige e la
aprì. Era estremamente pesante. Al suo interno, sistemati alla
rinfusa, libri e compact disc. La bibbia, una biografia di Bach,
un libro di ricette cinesi, un libro di Nietzsche, Sulla strada di
Keruac, una raccolta di poesie haiku giapponesi, una biografia
di Gandhi, Siddharta di Hesse, il Corano, un libro di leggende
tibetane, biografie di Jim Morrison, Van Gogh e Einstein,
alcuni libri di Luis Borges, un trattato sul pensiero di Jung e
uno sull’inconscio collettivo, compact disc di Beatles, dei
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Doors, le Variazioni Goldberg di Glenn Gould, L’arte della
Fuga di Bach, alcuni dischi jazz di John Coltrane. Riconosceva
gli argomenti che avevano appassionato la nonna per una vita.
Le religioni, le filosofie orientali, la musica. C’erano decine di
libri e decine di compact disc. La nonna era solita viaggiare
con libri e dischi, questo lo sapeva. Era sempre alla ricerca di
qualcosa e il suo terreno di ricerca preferito erano le librerie, le
biblioteche, i negozi di dischi. Si ricordava di un giorno in cui
l’aveva accompagnata a fare un giro nel centro di Londra.
Avevano passato la giornata tra negozi di dischi e librerie,
senza interrompersi per il pranzo. Ricordava il viso della
nonna: era felice come una bambina. Girava sempre con dei
libri nella borsa, ma una valigia piena le sembrava troppo.
C’erano tutti i suoi libri preferiti, certo una parte esigua rispetto
a tutti quelli che riempivano la sua casa a Parigi, ma erano
davvero tanti per una gita di un paio di settimane a Londra per
salutare la nipote. Continuò a rovistare nella valigia. Libri, cd,
solo libri e cd ovunque. Sul fondo della valigia c’era un plico
aperto, era una di quelle buste per la spedizione dei pacchi
postali. Era vuota. Il timbro postale riportava “Toronto 29
giugno 1981” e quello di Londra 3 gennaio 2001. Si ricordò
delle parole della nonna “Stamane ho ricevuto per posta un
libro. E’ come se qualcuno me lo avesse spedito dal passato.”
Dunque non stava scherzando, non stava esagerando, era
davvero arrivato dal passato: vent’anni erano trascorsi tra la
data di spedizione e quella di ricezione. Ma chi era il mittente?
Si alzò e andò verso il letto per recuperare il libro. Era sicura di
averlo lasciato sul letto. Non c’era. Guardò in giro per la
stanza. Nulla. Sul letto c’erano solo i fogli sparsi tra le lenzuola
fitti della grafia della nonna. Cercò per tutta casa, controllò che
non fosse finito tra i libri della nonna. Niente da fare: il libro
era scomparso. Il cameriere dell’hotel! Non poteva essere stato
che lui o il garzone che l’accompagnava, ma perché?
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Si sdraiò sul letto. I fogli si accartocciarono sotto la sua
schiena. Li prese in mano e iniziò a leggerli. Riportavano
appunti, note della nonna, citazioni da libri. Poi, su di un foglio
accartocciato, di nuovo quella serie di frasi, ricopiate dalla
nonna, e la sua, posta in fondo: Icci segui chi mi ha
preceduto!!!!! Questa volta la frase era sottolineata due volte e
rafforzata da tanti punti esclamativi, come a evidenziarne
l’urgenza. Segui chi mi ha preceduto. A chi sta parlando la
nonna? Non era un’esortazione generica, non aveva scritto
seguite ma segui. Si stava rivolgendo a qualcuno. Ma chi? Chi
è che ti ha preceduto nonna? Chi si deve seguire? Era confusa,
quella frase continuava a rimbombargli nella testa, soprattutto
la prima parola, quella sbagliata Icci… Icci… Icci…sentiva la
voce della nonna. Disse la frase ad alta voce e ... capì. Sentì la
nonna che la chiamava. Icci, Issi, la pronuncia era la stessa,
leggendola mentalmente non se ne era resa conto, ma il suono
era quello del suo soprannome, quello con cui la nonna l’aveva
sempre chiamata, fin da piccola.
Issi, segui chi mi ha preceduto. Issi, segui chi mi ha preceduto!
Era per lei, quel messaggio era per lei. La nonna lo aveva
scritto per lei. Ora ne era certa. Segui chi mi ha preceduto…
Chi ti ha preceduto nonna? Chi devo seguire, dimmelo? Cosa
vuoi da me?
Prima la scomparsa del libro, ora la scoperta che la nonna le
aveva lasciato un messaggio. Si sentì prendere dallo sconforto,
gettò via il foglio che stringeva in mano, si vestì velocemente e
uscì per strada. Aveva bisogno di riflettere, e camminare la
aiutava a distendere i nervi e a pensare in maniera più serena e
distaccata. Si diresse verso Hide Park. Il traffico del sabato era
comunque caotico e il suo frastuono incessante la accompagnò
per tutto il tragitto: su di esso, come una litania, una ninna
nanna, un’ossessione, la voce della nonna le ripeteva: Issi,
segui chi mi ha preceduto! Doveva riflettere. Doveva calmarsi.
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Doveva capire, doveva esaminare gli eventi degli ultimi giorni,
dargli un’ordine, un senso. L’arrivo della nonna, la sua morte,
la scoperta del libro, la sua sparizione, la frase scritta dalla
nonna in fondo al libro, il suo significato. Riflettere, doveva
riflettere.
Arrivò a Hide Park. Un pallido sole scioglieva ciò che restava
della nevicata del giorno prima. Due bambini si rincorrevano
tra gli alberi, un cane si rotolava in un cumulo di neve sotto un
boschetto davanti allo sguardo divertito del suo padrone, che
lo osservava seduto su di una panchina. Un gruppo di passerotti
cinguettava sul prato bagnato dalla neve appena sciolta,
accalcandosi sulle briciole di pane che un’anziana signora
aveva appena gettato. Isobel si sedette su una panchina tra due
immensi olmi, le cui chiome spoglie lasciavano filtrare i raggi
del sole. La neve ancora sui rami si stava sciogliendo
velocemente, in un ticchettio di gocce che le cadevano intorno.
Isobel si strofinò le mani per riscaldare le dita intirizzite dal
freddo. Cosa vuole da me la nonna? Chi devo seguire? Cosa
era quel libro? Per quale motivo l’avevano rubato? Di cosa
parlava? Si sforzò di ricordare le poche righe che aveva letto
prima di essere interrotta dal suono del campanello, ma non
riusciva a ricordare niente di particolare, solo una specie di
esortazione e di ringraziamento a una donna che risorge
dall’inferno; un po’ poco per capire. E quelle scritte alla fine
del libro? Era sicura che fossero importanti, ma non capiva in
che modo; segui chi mi ha preceduto. Decise di ubbidire alla
nonna. Doveva andare all’hotel e cercare di rintracciare il
cameriere. Doveva sapere se era stato lui a prendere il libro.
Doveva trovarlo. Doveva seguirlo.
Si alzò, uscì da Hide Park e si diresse quasi correndo verso
l’Hotel. Che stupida, pensò, dovevo andarci subito, ho perso
del tempo prezioso.
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CAPITOLO XIII
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astratta e intoccabile del ghiaccio puro, che raffredda mentre
brucia, che ustiona mentre gela. Era da sempre affascinato dal
nord. Amava e odiava il freddo. Si ricopriva di tre cappotti per
paura del freddo e contemporaneamente sognava di passeggiate
infinite nei ghiacci ascoltando una musica che solo lui sapeva
di poter suonare. D’un tratto si interruppe, l’indice della mano
destra fermo a mezz’aria, impossibilitato a calare sul tasto,
impossibilitato vibrare su quella nota. Si alzò in preda al
panico, la testa annebbiata e confusa dal brusco rientro nel
quotidiano esilio. Lui si sentiva esiliato e si autoesiliava per
spingere alle estreme conseguenze il suo dolore. Si avviò
barcollando verso il bagno, il dito ancora rigido e immobile,
aprì lo stiletto delle medicine e ingoiò due ansiolitici. Un
dolore acuto gli trapanava la tempia sinistra. Ritornò verso il
telefono. Silenzio. La linea era muta, il cordone ombelicale con
la vita di tutti i giorni reciso. Non poteva far altro che
attendere. Stava arrivando. Andò al suo giradischi, vecchio e
impolverato, lo accese e si fece ricolmare della sua musica.
Bach. Lentamente scivolò sulla bianca superficie trasparente
della vita, dall’altra parte del ghiaccio, sotto una coltre
trasparente, finalmente intoccabile, finalmente protetto,
finalmente libero, eternamente libero, su, più su, al nord di ogni
nord, immobile, freddo.
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CAPITOLO XIV
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divorandogli il cuore, la mente, i pensieri. Distillare ogni
veleno per serbarne l’essenza: così aveva scritto quando era
ancora giovane e incosciente. Ma l’essenza del veleno era la
morte, ora lo sapeva. E sapeva che la distanza che separa la vita
dalla morte era labile, breve come uno scoppio di rivoltella,
come uno scintillio di lama, come una vocale urlata nel vento.
Il tremore si fece ossessivo, reclinò il capo e urlò il suo dolore.
Si sentì trasportare via, galleggiando su di un fiume placido, un
battello ebbro, una nenia stanca, un lento sciabordio. La sua
ultima bestemmia. La sua prima preghiera. Allah Karim. Dio lo
ha voluto.
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CAPITOLO XV
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aveva cercato di preservare nel suo cuore. Era come un
richiamo: la canzone delle sirene. Le sue labbra sussurrarono
un nome, mentre il rombo tutto intorno sembrava il sottofondo
di quelle parole. …Naviga da me, naviga da me, lasciati abbracciare *.
Lasciarsi abbracciare, lasciarsi andare alla deriva, come una
foglia in balia delle onde, libero, finalmente libero, senza
direzione, senza meta. Vide i pilastri del ponte. Naviga da me,
naviga da me. Arrivo, pensò. Nuotò verso il ponte, lo raggiunse e
si aggrappo al grigio cemento. Un lontano richiamo. Era Keith.
Stava urlandogli qualcosa. Tese l’orecchio. Un rombo sordo
pareva avvicinarsi, sempre più, sempre più… Si voltò.
L’ombra di un battello lambì il pilastro. Un attimo di silenzio
irreale, poi l’onda lo travolse, improvvisa. Trattenne il fiato.
Nero. Sommerso provò a riaffiorare, ma la corrente lo
trascinava verso il basso. …E non potevo svegliarmi dall’incubo che mi
risucchia e mi trascina in basso **… La sua voce urlava nella sua
mente. Panico. Le scarpe piene d’acqua erano macigni che lo
inchiodavano tra quelle mura di pece nera. Era la fine.
Sballottato perse l’orientamento. Dove il basso? Dove l’alto?
D’un tratto tutto tacque, la corrente si placò. Sfinito sentì la sua
voce chiamare il suo nome, chiuse gli occhi, mandò
un’invisibile bacio. Non ho paura. Sono pronto. ..e li sento
affogare il mio nome così facile da ricordare e da dimenticare con un bacio,
non ho paura di andarmene, ma è così lento***... Lasciami dormire
ora… Ah, la calma sotto quel selvaggio fiume velenoso****… La sua
voce lo avvolse e lo cullò fino a riva. Nascondeva una foglia
tra le mani.
_________
*… Sail to me, sail to me, Let me enfold you… (da Song to the siren – Tim Bucley)
**… And I couldn’t awake from the nightmare that sucked me in and pull me under, pull me under… (da So
real – Jeff Buckley)
***… and I feel them drown my name so easy to know and forget with this kiss I'm not afraid to go but it
goes so slow… (da Grace – Jeff Buckley)
****… Ah, that calm below that poisoned river wild… (da You & I – Jeff Buckley)
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Il lupo aveva affondato le sue zanne su di lui, la foglia era
salpata, la mente era sgombera, finalmente. Voci di angeli,
canzoni per sirene, melodie del cuore; un pensiero, una
preghiera, la più alta mai udita. Un sussurro di vento su un
petalo di rosa.
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CAPITOLO XVI
Vi erano dei tubi che uscivano dal suo corpo, dal naso, dalla
bocca mentre una macchina sopra la sua testa emetteva un bip
continuo e snervante, quanto avrebbe voluto che smettesse,
anche se era consapevole che voleva dire morire. Kurt fissò la
macchina: tu sei mia, pensò, sei frutto anche dei miei studi e sei
incompleta, come tutti. Prese a pensare all’ironia della
situazione: voleva scomparire ma una macchina del cui
funzionamento lui era indiretto ma fondamentale responsabile
lo tratteneva. Dov’era l’errore? Lui sapeva che c’era, ogni cosa
incompleta è errata, ogni teoria, ogni organismo ha la sua
uscita di sicurezza, per non renderlo assoluto, vero, completo.
La completezza era bestemmia, era una offesa alla maestà
divina. Rise, come non faceva da anni, di quella situazione,
della sottile vendetta che qualcuno si stava prendendo su di lui.
Tra poco arriveranno i medici, pensò; ma quando? Se il tempo
non esiste, se ogni istante è assoluto potrei rimanere congelato
in questo istante per sempre.
La non esistenza del tempo: la sua scoperta più sconvolgente,
lui che era abituato a ricercare l’assoluto formale pur lasciando
a Dio il compito di svelarlo. Nessuno si era accorto di quale
implicazione aveva la sua analisi della relatività. La morte del
tempo contro la morte della relatività: un gioco perverso a cui
lui non avrebbe voluto partecipare ma in cui si trovò suo
malgrado invischiato. Einstein era suo amico, non voleva
metterlo in difficoltà, ma nulla gli fece cambiare idea sulla
correttezza di quanto aveva dimostrato: il tempo non esiste o la
relatività non esiste: gli anni, che ironia, diedero ragione a
Einstein, confermando sperimentalmente quanto verificato da
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Albert su carta e tramite intuizioni ma, inspiegabilmente
diedero torto a lui non cogliendo il reale contenuto sovversivo
di quanto aveva dimostrato: non gli interessava il moto
dell’universo, lui aveva ucciso il tempo, e nessuno si era
accorto dell’omicidio. Trasse faticosamente un sospiro: le
energie lo stavano abbandonando. Bene, tra poco nulla sarebbe
servito, neanche tu macchina infernale! La volontà dell’uomo è
più completa della tua, io posso decidere di non nutrirmi e così
mi spegnerò. Ma forse sono già spento e vivo un’istante inutile;
forse sono già morto quando sono nato, forse in me vi è già
ogni evento e ogni oggetto e ogni respiro e ogni movimento.
Questa era forse la completezza del pensiero: una completezza
del corpo e dello spirito, a-temporale, una proiezione eterna di
se, una serie numerica eternamente ascendente, l’infinito che
tocca lo zero, il limite e la potenza, tutti concetti matematici ma
sommamente filosofici. La sua vita, il suo sogno finalmente
completo! Ok, spegniamoci, rendiamoci finalmente completi.
Il suo ultimo teorema, quello della completezza: Zero =
Infinito.
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CAPITOLO XVII
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entro oggi; sa, è la più bella dell’hotel e certi clienti ci sono
proprio affezionati. Sua nonna sarebbe dovuta ripartire oggi,
invece…”
“… invece è andata diversamente.” disse bruscamente Isobel
“Piuttosto, le persone che mi hanno recapitato gli effetti
personali di mia nonna: posso sapere se sono ancora al lavoro?
Avrei bisogno di parlare con loro.”
“A che proposito, mi scusi? Per qualsiasi cosa, come mi ero
raccomandato di rammentarle, può fare riferimento a me”
“Manca un libro.”
“Prego?” disse il direttore arrossendo.
“O meglio, mi è stato sottratto e ho il fondato sospetto che sia
stato, diciamo così, preso in prestito da uno dei suoi dipendenti
questa mattina in casa mia.”
Il direttore si alzò in piedi asciugandosi il sudore.
“Ne è certa Miss Morrison?” le chiese con voce imbarazzata.
“Assolutamente certa. Vorrei parlare con loro, se è possibile.”
“Miss Morrison, lasci a me questo compito. Sono sicuro che si
tratta di uno spiacevole equivoco. Parlerò io con loro e tutto si
risolverà. Non si dia pena per questo.”
“Vorrei comunque parlare con loro: vorrei capire il motivo di
un gesto del genere” rispose Isobel piuttosto irritata.
“Lasci fare a me Miss Morrison, la prego. Una cosa del genere
deve essere trattata in maniera cauta ma inflessibile, ne va della
reputazione di questo hotel e mia personale. Mi lasci parlare
con loro e, se non otterrò nulla, le prometto che la chiamerò e
le farò parlare di persona con loro. Sono brave persone, si
aggiusterà tutto” le rispose il direttore guardandola negli occhi.
Isobel rimase interdetta, poi, con un sorriso annuì.
“Va bene, per il rispetto e l’affetto che la nonna portava a
questo posto. Ma la prego di fare il possibile, è molto
importante per me.” rispose trattenendo a stento la
commozione.
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“Si fidi di me, Miss Morrison. Le prometto che entro domani
riavrà il suo libro. A proposito: di che libro si tratta? Posso
averne il titolo?”
“Il mistero delle esuli. E’ un libro vecchio, logoro, rilegato in
pelle” rispose sforzandosidi ricordare; poi, quasi sottovoce,
aggiunse:
“La nonna ci era molto legata. Significava molto per lei..”
“La signora era una persona eccezionale, di grande cultura, di
grande umanità. Era una persona luminosa, sempre allegra. Era
un piacere averla come cliente e conversare con lei. Era, se mi
posso permettere, una donna molto affascinante”
“E’ vero”rispose Isobel abbassando gli occhi per richiamare
alla mente il dolce viso della nonna “è vero.” e fece per alzarsi.
“Ancora un secondo Miss Morrison. Ho una cosa per lei.”
Isobel sobbalzò sulla sedia.
“Da parte di sua nonna” disse quasi sussurrando. “Me lo diede
la sera stessa in cui morì. Era già tardi e stavo per lasciare
l’ufficio per rientrare a casa quando un cameriere bussò alla
porta e mi comunicò che l’ospite della stanza 4141 aveva
bisogno di parlare urgentemente con me. Mi recai
immediatamente nella sua stanza e trovai la signora Morrison
in vestaglia davanti al caminetto, con lo sguardo perso tra i
tizzoni ardenti e con in mano una busta. Appena mi vide si
passò una mano sul viso come ridestandosi da un sonno
profondo, mi fece uno di quei suoi inconfondibili sorrisi e mi
disse:”La ringrazio infinitamente di essere venuto direttore.
Domani mattina me ne andrò. L’ho saputo solo ora e non ho
potuto avvertire mia nipote Isobel. Lei mi verrà a cercare
domani. La prego di consegnarle questa” e mi allungò la lettera
che stringeva tra le mani. Eccola, è questa”
Isobel allungo la mano e la prese. Un brivido le percorse la
schiena.
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“Mi guardò negli occhi e mi disse: “Sono giunta alla fine di
questo viaggio. Devo prepararmi.” Pensai che si riferisse al suo
rientro a Parigi l’indomani, ma ora, ora ho come l’impressione
che parlasse di un altro viaggio. Mi strinse la mano con forza e
dolcezza assieme e poi mi disse una frase che non mi scorderò
mai:
”Ogni esule che ritorna a casa è triste e felice, ogni cosa ha un
suo rovescio, ogni incontro porta i semi dell’addio, ogni nascita
porta dentro di se la morte, ogni partenza porta dentro di se
un’arrivo. Addio direttore, al nostro prossimo incontro.”
Mi lasciò la mano e ritornò presso il caminetto. La fissai per un
secondo. Sembrava stesse piangendo. È l’ultima volta che l’ho
vista.”
Isobel guardò la lettera. Sul retro con la grafia della nonna la
semplice scritta “Per Issi”. Avrebbe voluto aprirla e leggerla lì
sul posto ma si trattenne e si congedò dal direttore.
“Mille grazie direttore. Aspetto sue notizie per il libro. Mi
raccomando, conto su di lei”
“Sono a sua disposizione Miss Morrison. Si fidi di me. Buona
giornata.” La accompagnò fino all’uscita dell’hotel. Isobel gli
strinse frettolosamente la mano con uno sguardo pieno di
riconoscenza. Il direttore abbassò gli occhi con deferenza
accomiatandosi. Appena uscita Isobel mise in tasca la lettera e
allungò il passo. Non vedeva l’ora di leggere ciò che la nonna
le aveva scritto. Arrivò rapidamente a casa, si tolse il cappotto,
si sdraiò sul letto, aprì la lettera e iniziò a leggere.
Cara Issi,
ieri quando eri qui con me, davanti al fuoco del
camino avrei voluto parlarti di tante cose, ma non ci sono riuscita.
Ed è per questo che ora ti sto scrivendo, perché così mi pare più
semplice. Non so da dove incominciare. E’ sempre difficile dire
arrivederci, è ancora più difficile farlo ora che ho capito che non
sarà il solito arrivederci, che il luogo del nostro prossimo incontro
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nessuna di noi due lo conosce, forse. Si Issi, sento che l’ora è
vicina, so che lo è, ho paura e mi vergogno. Mi vergogno perché
pensavo di essere pronta. Non sono pronta, nonostante tutto.
Non sono pronta perché non sono arrivata alla fine delle mie
ricerche, o forse è proprio questa la fine e il fine delle mie ricerche.
Ti starai chiedendo di quali ricerche sto parlando. Bene Issi, è
giunto il momento che tu lo sappia. Tutto quel mio viaggiare,
leggere era dovuto all’affannosa ricerca di risposte a domande che
riempivano la mia mente fin da quando, ancora piccola, assistetti
alla morte di mio padre (il tuo bisnonno) mentre mi accompagnava
a scuola. Ricordo la scena come fosse oggi. Papà che si abbassa
verso di me per prendermi in braccio e baciarmi come faceva tutti
i giorni, mi solleva, mi guarda negli occhi, fa per pronunciare la
frase di rito (“Fai la brava angelo mio. Sei bella più del cielo.”) e
ad un tratto con un gemito si accascia al suolo stroncato da un
infarto. Non parlai dallo shock per più di tre mesi: visitai dottori,
psichiatri; nulla, non parlavo. Blocco emotivo da trauma fu la
diagnosi di tutti. Nessuna cura. Solo tranquillità e pazienza.
Passavo le giornate guardando fuori dalla finestra, con il naso
appiccicato al vetro, sperando di vedere tornare papà a casa. Le
notti mi svegliavo in preda a un incubo ricorrente: camminavo in
un bosco in una giornata di sole quando, all’improvviso sentivo la
voce di papà chiamare il mio nome. Piangendo incominciavo a
correre cercando di individuare da dove provenisse la sua voce,
chiamandolo a squarciagola. Lui rispondeva con un “Sono qui”
che pareva provenire da ogni parte. Correvo, piangevo, lo
chiamavo ma non riuscivo a trovarlo fino a quando arrivavo a un
piccolo lago su di una radura. La voce sembrava provenire da lì.
Mi fermavo sul bordo del lago con la mia immagine riflessa sulle
piccole increspature dell’acqua. Mi inginocchiai per sciacquarmi il
viso. Guardai la mia immagine ricomporsi e mi accorsi che le mie
labbra continuavano a dire “Sono qui! Sono qui!” con la voce di
papà. Mi svegliavo sempre in quel punto del sogno con una
sensazione mista di serenità e di angoscia. Mia madre aveva
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ormai perso la speranza di tornare a sentire la mia voce quando un
giorno, mi trovavo al parco con mia nonna, fummo sorprese da un
temporale e ci ritrovammo in mezzo agli scrosci d’acqua. Mentre
correvamo per ripararci, mi fermai in mezzo alla strada colpita
dalla sensazione della pioggia sulla mia pelle. La nonna mi tirava
per un braccio dicendomi di correre altrimenti ci saremmo bagnate
tutte, ma io non mi mossi. Scoppiai a piangere e le mie lacrime si
unirono a quelle del cielo. Sentivo il cielo piangere con me. Lo
sentivo Issi. Quelle lacrime e quella pioggia lavarono via la
tristezza per la morte di papà. La prima parola che dissi fu
“Grazie” e in quel momento mi ripromisi che avrei cercato la fonte
di quella voce del sogno, l’origine di quelle lacrime, il destinatario
del mio ringraziamento. E iniziai il mio viaggio che ora sento sta
per concludersi.
Ho passato anni a viaggiare, a leggere, a ascoltare e alla fine mi
sono resa conto che in fondo ogni ricerca è vana se non parti dal
presupposto che non potrai trovare nulla che non sia già dentro di
te. E’ una consapevolezza che ho acquisito e di cui sono
assolutamente convinta Issi. Noi siamo parte del tutto e il tutto è
parte di noi. Questo significa che non vi è nulla al di fuori di noi
che non si trovi, almeno in potenza, dentro di noi. Pensaci Issi.
Pensa al nostro corpo, ai milioni di cellule che lo formano,
composte a loro volta da milioni di molecole, a loro volta
costituite da milioni di atomi, a loro volta composte da miliardi di
particelle subatomiche; oppure, andando dal piccolo al grande,
pensa a noi abitanti di un pianeta, parte di un sistema solare,
parte di una galassia, parte di un universo, parte di miliardi di
universi. Non senti l’armonia, la musica che sprigiona questo
grande caleidoscopio che è la nostra vita, il nostro mondo, il
nostro universo? Tanti l’hanno percepito, chi in un fuggevole
attimo di consapevolezza, chi percorrendo la strada della ricerca
interiore, chi esplorando la propria arte, chi impazzendo, chi
seguendo rituali magici, chi utilizzando droghe, chi semplicemente
fermandosi un solo attimo e osservando il mondo con gli occhi di
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un bambino. Un bambino ha la testa sgombra da parole, pensieri,
categorie, barriere, dalle sovrastrutture che tutte le società
dall’inizio dei tempi hanno posto alla loro base per semplificare,
rendere più facile, più comprensibile, forse anche più accettabile la
vita. Ma è ancora così Issi? Quanto ci stiamo ingannando?
Quanto fa male tutto questo separare, tutto questo dividere?
Semplifica la vita o la rende semplicemente più brutta?
Tanti si sono accorti di questo inganno, di questa illusione e
hanno cercato di togliere il velo, di fare filtrare un po’ di luce. Io
ho cercato con loro, ho cercato di loro e ho incontrato tanti
personaggi fantastici che, partendo da punti, epoche, arti,
occupazioni diverse hanno tentato di mostrarci il lato nascosto
della nostra vita. Cercali anche tu Issi, cerca tra i libri, nella
musica, nei quadri, cerca quegli squarci di luce che ogni tanto
traspaiono nelle biografie, nelle opere, cerca anche tu quel
sottofondo che unisce le opere e le vite di ognuno di noi. Cerca
nelle opere dei grandi come dei piccoli, dei famosi come degli
sconosciuti ma soprattutto cerca dentro di te. La verità non può
essere insegnata, non può essere scritta. Si ripaga male un maestro
se si rimane discepoli, Issi. Cerca in loro ma soprattutto cerca
dentro di te. Tu sei la tua strada. Mi lascerò alle spalle tanti
indizi, tante indagini abortite, tanti barlumi di verità nascoste
nelle pagine di un libro, nelle note di un disco, nei racconti di vite
altrui, nelle esperienze dei viaggi. Cercali Issi e quando li avrai
trovati interrogali ma soprattutto interroga te stessa, il tuo
intimo, la tua essenza. Incontrerai personaggi fantastici,
inquietanti, sorprendenti, terribili: poeti, musicisti, scrittori,
santi, mistici, pittori, pazzi, drogati ma, se ascolterai, se riuscirai
ad alzare il velo della loro sfavillante unicità scoprirai un sottile
filo di seta che li unisce e che unisce te a loro. Cosa li unisce? Tutti
avevano la sensazione di un’altrove, di un posto altro dove in
realtà dimorano quella che noi chiamiamo verità, bellezza,
serenità., comprensione, Conoscenza. Da posti diversi, in epoche
diverse, per strade diverse, tutti hanno sentito il richiamo di
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questa realtà “altra”, di questa realtà ultima che pervade e unisce
ogni forma e ogni essere su questa terra. L’unità. Ecco cosa
percepivano, ecco cosa avevano scorto nel loro suonare, nel loro
dipingere, nel loro scrivere, nel loro meditare. La sensazione, in
qualche caso la consapevolezza, che nulla ci dividerebbe dagli altri
se solo riuscissimo a ritornare all’origine, se riuscissimo a vedere
con occhi puri, a ritornare bambini. Mi rendo conto che può
sembrare un discorso delirante, che può sembrare il delirio
misticheggiante di una fricchettona fuori tempo massimo, ma
troppe sono le coincidenze, troppe le testimonianze dei grandi che
hanno attraversato la storia e che a un certo punto della loro vita
hanno sentito, hanno percepito questa realtà e hanno cercato di
comunicarla tramite la loro arte, tramite le loro parole,
consapevoli peraltro che non è possibile spiegare un’esperienza,
parlare di sensazioni, descrivere un ‘attimo, descrivere l’unità. Ma
se ascoltiamo, se guardiamo con occhi puri e senza preconcetti, se
leggiamo come fossimo fin’ora stati analfabeti, se ascoltiamo come
se fossimo sempre stati sordi forse nel montante brusio della
quotidianità, nell’abbagliante luce dell’effimero mondo
quotidiano riusciremo anche noi a scorgere quel sottile filo, quella
impercettibile melodia che lega il tutto in qualcosa di coerente, di
unico, di magico, di eterno.
Siamo educati fin da piccoli a dividere, a separare. Il bene dal
male, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato, il biondo dal
moro, il dritto dal rovescio. Diamo nomi alle cose per classificarle
e ogni cosa nominata perde una parte della sua essenza, ogni
descrizione è una mutilazione, ogni spiegazione è una
semplificazione. La nostra vita è una semplificazione! Per
proseguire questo nostro insensato vivere arrotolati su noi stessi,
senza mai lanciare uno sguardo che vada al di là di noi e (quando
va bene) delle persone che ci sono vicine abbiamo bisogno di
sentirci unici, di sentirci irripetibili, di sentirci diversi, magari
migliori e per fare ciò dobbiamo recidere parti di realtà che
spingono nella direzione opposta, che ci comunicano unità,
70
integrazione, che ci sussurrano che ogni nostro comportamento ha
effetti su altri e che questi altri siamo noi (non fare agli altri
quello che non vuoi sia fatto a te).
Einstein ha detto “Si potrà avere un’umanità migliore quando
tutte le persone abbandoneranno il proprio io”
L’io. Ciò che ci fa sentire unici e irripetibili. Ciò che ci fa dire mio.
Ciò che ci cala nel presente, che ci parla del passato che ci proietta
nel futuro. Ciò che ci fa volere, desiderare, bramare, ciò che spinge
al possesso, alla ricerca del piacere, del potere, della soddisfazione,
dell’appagamento. L’io è schiavitù Issi, è una catena che imbriglia
il corpo e la mente in un labirinto di attese-delusioni, piaceri-
dolori, vittorie-sconfitte. Ma noi vogliamo solo una parte,
vogliamo solo le vittorie, vogliamo solo il piacere, combattiamo a
testa bassa la realtà della nostra esistenza, una realtà che
sussurra che non c’è piacere senza dolore, che non c’è amore senza
odio, che non c’è pace senza guerra. Il nostro io vorrebbe la nostra
realtà a suo uso e consumo, vorrebbe poter scegliere i frammenti di
realtà che più lo aggradano. Ma la realtà non può essere scissa e
scelta, la realtà è. E più noi decidiamo di non vedere, di non volere
ciò che non ci piace, ciò che non soddisfa il nostro ego, più ci
allontaniamo da noi stessi e dagli altri, dalla vita vissuta nella
sua interezza, con tutte le sue contraddizioni e le sue
sfaccettature. Se non riconosciamo nell’altro una parte di noi, se
non vogliamo vedere le ragioni di chi ha torto, la malattia della
nostra salute, la pazzia della nostra sanità mentale, se non
vogliamo avere consapevolezza della parte che non ci piace di ciò
che siamo, delle azioni che compiamo, se non sentiamo l’unità e
l’interconnessione di ogni gesto, di ogni scelta, di ogni decisione
non arriveremo mai a sentirci in pace, a essere pace.
Non c’è pace senza guerra. La guerra che dobbiamo combattere è
una guerra contro il nostro modo di vivere, il nostro modo di
ragionare, contro le nostre abitudini, contro il nostro io.
La strada è segnata da squarci di luce accesi qua e là da altri.
Diamo modo ai nostri occhi di abituarsi a tale luce, sapendo però
71
che non si vive di luce riflessa e che la nostra luce non può essere
accesa da altri che da noi. Non esistono scorciatoie Issi.
Basta ora non voglio aggiungere altro, altrimenti rischio di
toglierti la gioia e l’emozione di questo viaggio, di questa ricerca.
Solo un’ultima cosa Issi che è forse la più importante: forse le
strade che intraprenderai, le cose che scoprirai non sempre saranno
piacevoli. Ma ricordati Issi che io sarò con te, non so in che forma,
non so in che modo ma ci sarò.
Ti voglio bene! Ti auguro la felicità, quella vera che discende dalla
consapevolezza. Solo la verità ci rende liberi.
Arrivederci Issi. Sono sicura che ci incontreremo in qualche modo.
Ti bacio.
La nonna.
La nonna
72
CAPITOLO XVIII
Si ritrovò nuda sdraiata sulla riva del mare, il cielo sereno che
si confondeva all’orizzonte con l’azzurro cristallino del mare.
Si alzò in piedi e incominciò a camminare sul bagnasciuga, le
piccole onde del mare a lambirgli i piedi. La spiaggia era
deserta, incastonata tra due coste di roccia bianca a strapiombo
sul mare, sorvolate da placidi gabbiani che lanciavano i loro
striduli richiami da mezzo il cielo. Mentre camminava sulla
spiaggia Isobel vide un qualcosa luccicare innanzi a lei. Si
chinò e raccolse una catenina d’oro con appeso un crocefisso
anch’esso d’oro. Conosceva quella catenina. Era di sua madre.
Gliel’aveva regalata il giorno stesso in cui lei e papà erano
morti in quel maledetto incidente. Cosa ci faceva su quella
spiaggia? Se la mise al collo. In quel momento sentì una
musica lontana che la fece voltare. Proveniva da una barca nera
che si stava avvicinando alla riva. La barca aveva due vele, una
bianca e una nera, spiegate e tese dal vento che
improvvisamente aveva incominciato a spirare. Quando fu
abbastanza vicina la barca si fermò e qualcuno ammainò le
vele. Nell’aria una canzone malinconica, cantata da una voce
suadente, decisa. Non riusciva a cogliere le parole, ma sentiva
crescere in lei una strana emozione. Si mise a nuotare verso la
barca. La musica aumentava di intensità e creava un certa
tensione. Era ormai in prossimità dell’imbarcazione quando
improvvisamente scoppiò una tempesta. Il vento increspava le
onde che si abbattevano sulla chiglia della barca facendola
ondeggiare paurosamente mentre Isobel cercava di
73
raggiungerla per porsi in salvo. Ma la barca, trasportata dai
marosi si allontanava lentamente. Il cielo era coperto di nuvole
e il sibilare del vento era rotto da tuoni fragorosi che le
rimbombavano nelle orecchie facendola trasalire mentre,
sempre più in affanno, cercava di mantenersi a galla. Le onde
sempre più alte la sommergevano mentre la barca era spinta
sempre più lontano. Gridò aiuto con quanto fiato aveva in gola,
annaspando e sputando l’acqua salmastra che le riempiva la
bocca e le narici. Gridò di nuovo, con tutte le sue forze. Vide
qualcuno muoversi sulla barca. “Isobel! Isobel! Sei tu?” Era la
voce della mamma. Quanto tempo non la sentiva. “Mamma!
Mamma!” gridò “Mamma aiutami!”.
“Isobel! Isobel! Mark aiuto! C’è Isobel in acqua!!”. Isobel
intravide un’altra sagoma sulla barca. “Isobel resisti!” Era la
voce di papà! Sì era lui. “Papà!! Sono qui!!”. Riusciva a stento
a respirare. Vide il padre chinarsi, afferrare un salvagente e
legarlo ad una corda. Stava per lanciarlo quando Isobel vide
un’onda enorme spuntare da dietro l’albero della barca. Gridò
con quanto fiato aveva in corpo mentre l’onda gigantesca si
incurvava sopra la barca come un’immenso mostro marino che
la stesse inghiottendo. Un rombo terribile soffocò il suo ultimo
grido “Mamma! Papà!”. Fu travolta da un’immensa massa
d’acqua. Mamma! Papà! Addio! Sentì il suo corpo trascinato in
basso mentre il naso e la bocca le si riempivano d’acqua. E’ la
fine. La fine.…
Aprì gli occhi fissando una candela che ardeva accanto a lei, su
di un comodino. Era adagiata su di un letto. Si trovava in una
stanza tutta di legno. In un angolo, accanto al fuoco del
camino, era seduta una persona, le spalle rivolte a lei, intenta a
muovere i tizzoni con una sbarra di ferro. Isobel si alzò e si
sedette a fianco della persona. Nonna. Sapeva che era lei. “Ti
sei svegliata finalmente” le disse senza togliere lo sguardo dal
fuoco che ardeva scoppiettando. “Cosa è successo a mamma e
74
papà? Dove sono?” La nonna si voltò, le prese una mano la
fece alzare e la condusse alla finestra. Erano all’interno di un
faro. Sotto di loro il mare continuava a infrangere enormi onde
sulla scogliera. L’orizzonte era illuminato da una strana luce.
La nonna la guardò negli occhi e le disse: “Guarda Issi, il sole
scaccia la tempesta. E’ bellissimo. La lotta tra la luce e il buio,
tra il sereno e la tempesta. In questo momento le tenebre e la
luce interrompono il loro eterno rincorrersi. Vi sono entrambi e
nessuno. Non senti la grandezza di questo momento? Il grande
meriggio!” Isobel rimase interdetta, poi ritirò la mano da quella
della nonna con un gesto brusco “Non mi importa nulla di tutto
questo!! Voglio sapere dove sono mamma e papà! Li ho visti
su una barca poco fa, stavo per raggiungerli quando…” “Non
puoi raggiungerli Isobel, non ancora. Guardati allo specchio.”
E così dicendo la condusse di fronte a uno specchio. Isobel
sussultò. Era nuda e alle sue spalle le parve di vedere il viso dei
suoi genitori. Si girò di scatto. Nessuno. Anche la nonna era
sparita. La finestra si spalancò all’improvviso, facendola
rabbrividire. Una folata di vento scompigliò e fece frusciare le
pagine di un libro appoggiato sul tavolo a fianco del fuoco.
Isobel chiuse la finestra e andò al tavolo. Riconobbe il libro:
era aperto. La foto dei suoi genitori e della nonna sorridenti
sulla barca con in braccio un neonato era incollata su di una
pagina. Sapeva essere lei quel neonato. Sui visi dei suoi
genitori e della nonna vi era una croce tracciata con un
pennarello rosso. Sulla pagina accanto vi era questa scritta: La
morte vi renderà liberi. Prese il libro e lo scagliò nel fuoco.
Una vampata la investì.
Si svegliò.
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76
CAPITOLO XIX
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e annotarne i titoli e l’autore; questo l’avrebbe aiutata a
ricordarseli. Iniziò a scrivere:
Sollevò la testa dal foglio: non sapevo che alla nonna piacesse
tanto la musica rock.. Prese un altro libro:
I vangeli apocrifi
Herman Hesse - Siddharta
Il corano
Albert Einstein - Come io vedo il mondo
Van Gogh - Lettere a Theo e riproduzioni di quadri
Jerry Hopkins Nessuno uscirà vivo di qui
F. W. Nietzsche La Gaia scienza
Un libro di poesie giapp…
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Sì, l’aveva già sentita ma non riusciva a ricordare dove. Provò
a concentrarsi. Il sogno! Ma certo il sogno, era la musica che
aveva sentito dalla spiaggia, provenire dalla barca di mamma e
papà! Si alzò di scatto e quasi corse allo stereo, prese in mano
il compact disc, guardò il numero della traccia sul display del
lettore e la cercò tra i titoli.
Traccia numero 11: The end
Stoppò il lettore e andò a recuperare il libro con i testi delle
canzoni che aveva trovato poco prima, cercò The end, fece di
nuovo partire la musica e si sdraiò sul letto ad ascoltare.
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E tutti i ragazzi sono impazziti,
Tutti i ragazzi sono impazziti
Aspettando la pioggia estiva.
Cavalca il serpente.
Cavalca il serpente
Fino al lago, al vecchio lago.
Il serpente è lungo, sette miglia.
Cavalca il serpente,
E' vecchio, e la sua pelle é fredda.
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Si prese una maschera dalla galleria delle antichità,
E venne giù per il corridoio.
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D’un tratto di nuovo la pace. Non era più la fine di una storia
d’amore, era la morte. Quella canzone parlava della morte,
degli istinti primordiali che albergano in ognuno di noi.
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I tempi in cui piangevi?
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte
Irrompi dall’altra parte
Vascelli di cristallo
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Dita che disegnano minareti parlando in alfabeti segreti
Imparare a dimenticare
Prima di sprofondare nel grande sonno voglio sentire l’urlo della farfalla
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The scream of the butterfly! L’urlo della farfalla!. Isobel
sobbalzò sul letto. Ecco dove l’aveva già letta! JDM? Riprese
la biografia che stava leggendo e sfogliò le prime pagine finchè
non trovò ciò che cercava: il nome completo di Jim Morrison
era James Douglas Morrison. JDM! Si lasciò andare sul letto.
Jim Morrison aveva posseduto quel libro? Sembrava
incredibile ma tutto portava a crederlo. E cos’era l’urlo della
farfalla? Cosa significava? Ecco il primo indizio della nonna,
ecco da dove partire. Isobel trasse un bel sospiro. La ricerca era
incominciata.
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CAPITOLO XX
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è una seconda casa per me; quando non sono in giro a suonare
mi puoi trovare o qui o nella stanza d’albergo dove vivo. Non
mi sono mai piaciute le case.” Quest’ultima frase la pronunciò
abbassando leggermente lo sguardo, come a scacciare
un’immagine o un pensiero.
Si sedettero e subito il cameriere portò loro la birra e il
whisky, poi si rivolse a Jim dicendo:
“Ehi Jim, quel ragazzo la in fondo, sulla porta, dice di essere
venuto da New York per incontrarti. Dice di essere un tuo fan e
di volerti parlare.”
“Fallo venire John” rispose Jim con lo sguardo corrucciato.
Il cameriere fece un gesto al ragazzo che si precipitò quasi
correndo al tavolo. Era un ragazzo sui venti – ventidue anni,
capelli corti pettinati con la brillantina, un paio di occhiali con
spesse lenti che pendevano dal naso adunco. Si accostò al
tavolo e, senza togliere gli occhi da Jim, gli disse:
“Sei proprio tu? Non ci posso crede! Sei Jim Morrison?”
“Sì, sono io” rispose Jim con un sorriso “Tu come ti chiami?
“A….Alfred” rispose il ragazzo abbassando gli occhi “Volevo
soltanto dirti grazie.”
“E per cosa Alfred?” chiese Jim piuttosto stupito.
“Per avermi aperto gli occhi, con la tua musica, le tue parole.
Mi hanno svegliato, mi hanno fatto male e mi hanno guarito. Io
ho capito Jim, ho capito. Dovevo dirtelo di persona capisci,
dovevo…”
Lo guardò negli occhi, poi si girò di scatto e si avviò verso
l’uscita.
“Ehi Alfred, un momento” disse Jim alzandosi e correndogli
dietro. Anche Lizze si alzò in piedi “Hai dove andare questa
notte?”
“No“ rispose il ragazzo”ma pensavo di dormire sulla spiaggia.
E’ sempre stato un mio sogno.”
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“Tieni questa” disse Jim togliendosi la giacca di pelle e
mettendola sulle spalle del ragazzo ”Fa freddo sulla spiaggia di
notte”
“Ma io…” balbettò il ragazzo incredulo
“E’ tua Alfred, un’autografo da Jim Morrison” gli rispose
facendogli l’occhiolino.
“Grazie Jim. Grazie!” disse il ragazzo uscendo.
Jim si voltò verso il giornalista con aria corrucciata e
ritornarono a sedersi attorno al tavolo. Jim accavallò le gambe
e si accese una sigaretta, lo sguardo al soffitto, pensieroso.
“Possiamo incominciare?” chiese il giornalista tirando fuori
dalla tasca il taccuino e un piccolo registratore che appoggiò
sul tavolo di fronte a Jim.
“Che la cerimonia abbia inizio” rispose Jim con tono enfatico.
"Hai visto come ti guardava quel ragazzo Jim? Per lui eri Dio
in carne e ossa. Pendeva dalle tue labbra. Sei il suo salvatore,
l’uomo che lo ha liberato. Penso che molti dei fan dei Doors ti
vedano così. Che sensazione provi al riguardo? E’ un pesante
fardello da portare, una grande responsabilità non è vero?"
Jim diede un tiro alla sigaretta poi, guardando verso la porta da
dove poco prima era uscito il ragazzo rispose:
"È un assurdo. Come posso liberare chiunque non abbia il
fegato di sollevarsi da solo e di affermare la propria libertà?
Penso che si tratti di una menzogna quella della gente che
afferma di voler essere libera; tutti insistono a dire che la
libertà è ciò che vogliono di più, la cosa più sacra e preziosa
che un essere umano possa avere. Ma queste sono stronzate! La
gente è terrorizzata dall'idea di essere liberata; loro stessi
serrano le loro catene e combattono chiunque cerchi di
spezzarle. Quelle catene sono la loro sicurezza. Come possono
aspettarsi che io o chiunque altro li liberi se in realtà non
vogliono essere liberi?"
90
Lizze rimase colpito. "Perché pensi che la gente tema la
libertà?"
"Penso che la gente faccia resistenza alla libertà perché ha
paura dell'ignoto. Ma è singolare: ciò che per noi ora è l’ignoto
una volta era ben noto. E’ ciò a cui appartengono le nostre
anime. L'unica soluzione è quella di confrontarsi, confrontare il
proprio Io, con la più grande paura immaginabile. Poni te
stesso davanti alle tue paure più profonde. Dopo di ciò, la
paura non ha più potere e la paura della libertà diventerà
sempre più piccola e svanirà. Allora sarai libero".
"Cosa intendi quando dici "libertà"?"
"Ci sono diversi tipi di libertà, e ci sono parecchi equivoci in
proposito. Il genere più importante di libertà è di essere ciò che
si è davvero. Si baratta la propria libertà per un ruolo. Si
barattano i propri sensi per un atto. Si svende la propria
capacità di provare sensazioni, e in cambio si indossa una
maschera. Non potrà esserci alcuna rivoluzione di massa fino a
che non ci sarà una rivoluzione personale, a livello individuale.
Prima deve avvenire all'interno. Si può privare un uomo della
sua libertà politica e non lo si ferirà finché non lo si priverà
della sua libertà di sentire. Questo può distruggerlo".
Jim parlava lentamente, soppesando le parole e con un tono
flebile e gentile. Il giornalista era come ipnotizzato.
"Ma come è possibile privare qualcuno della sua libertà di
sentire?"
"Alcune persone rinunciano volentieri alla propria libertà
mentre altre sono costrette a rinunciarvi. L'imprigionamento
comincia con la nascita: la società, i genitori, si rifiutano di
lasciarti vivere la libertà per la quale sei nato”
Fece una pausa, bevendo d’un fiato il whisky che aveva nel
bicchiere, poi aggiunse:
“Ci sono modi molto sottili per punire una persona che abbia
osato provare sensazioni. Puoi ben vedere che chiunque attorno
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a te ha distrutto la sua vera natura emozionale. Si imita ciò che
si vede, ciò che ci circonda." Così dicendo rivolse lo sguardo
attorno.
"Stai dicendo che noi siamo, in effetti, portati a difendere e
perpetuare una società che priva la gente della libertà di
sentire?"
"Certo. Insegnanti, capi religiosi, anche gli amici, o i cosiddetti
amici riprendono da dove hanno terminato i genitori. Ci dicono
di provare soltanto le sensazioni che essi vogliono e si
aspettano da noi. Per tutto il tempo ci chiedono di recitare per
loro: siamo come attori abbandonati in questo mondo per
vagare alla ricerca di un fantasma, cercando una semi-
dimenticata ombra della nostra perduta realtà. Quando gli altri
ci chiedono di diventare le persone che essi vogliono che noi
siamo, ci costringono a distruggere le persone che siamo
davvero. È una sottile forma di omicidio: i genitori che più
amano compiono questo omicidio con il sorriso sui loro volti e
la consapevolezza di essere nel giusto."
La voce di Jim si era fatta dura, come se stesse reprimendo una
crescente irritazione.
Lizze lo guardò stupito. Le domande sul taccuino non
servivano più. Lo prese e lo ripose nella tasca.
"Pensi che sia possibile per un individuo liberare se stesso da
tali forze repressive da solo?"
Jim sorrise: "Questo genere di libertà non può essere concessa.
Nessuno può conquistarla per te. Si deve fare da soli. Se è
qualcun altro che lo fa per te sarai ancora dipendente dagli altri.
E sarai ancora vulnerabile a quelle repressive, maligne forze
esterne".
"Ma alla gente che vuole questa libertà non è possibile unirsi
combinando le proprie energie per farsi forza reciprocamente?
Deve essere possibile…"
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"Gli amici possono aiutarsi reciprocamente. Un vero amico è
qualcuno che ti lascia la totale libertà di essere te stesso, e in
particolare la libertà di sentire o di non sentire. E’ in questo che
consiste il vero amore: lasciare che una persona sia ciò che
davvero è... La maggior parte delle persone ti amano per quello
che vogliono tu sia... Per ottenere il loro amore, devi fingere,
recitare. Ottieni amore come premio per la tua recitazione. E’
vero, siamo ingabbiati in un'immagine, una messinscena e la
cosa triste è che siamo abituati alla nostra immagine, ci
identifichiamo con essa, cresciamo attaccati alle nostre
maschere. Amiamo le nostre catene. Le persone dimenticano
chi sono in realtà, dimenticano il loro vero essere. E se cerchi
di ricordarglielo ti odiano, si sentono come se tu stessi
cercando di carpirgli le loro proprietà più preziose".
"È molto triste. Non riescono a vedere che quello che stai
cercando di mostrargli è la strada verso la libertà?"
"La maggior parte delle persone non ha idea di quello che sta
perdendo. La nostra società assegna un valore supremo al
controllo, al nascondere ciò che si prova, a celare i sentimenti.
La nostra cultura deride le "culture primitive" e si fa un vanto
della repressione degli istinti e degli impulsi naturali".
Lizze tacque. L’intervista si era trasformata in un dialogo tra
amici. Non vi era nulla di formale, nessuna barriera. Si sentiva
chiamato in causa come essere umano, non come giornalista.
Stava seguendo il filo dei pensieri che la voce di Jim e le sue
parole gli suggerivano. Diede un sorso alla birra e riprese il
discorso.
"In alcune delle tue poesie ammiri apertamente e rendi
omaggio ai popoli primitivi, gli Indiani d'America, per
esempio. Vuoi dire che non sono gli esseri umani in generale
ma è la nostra specifica società ad essere carente e distruttiva?"
"Sì. Guarda come si vive nelle altre culture: in pace totale, in
armonia con la Terra, le foreste, gli animali. Loro non
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costruiscono macchine belliche e non investono milioni di
dollari per aggredire altri Paesi i cui ideali politici contrastano
con i propri".
"Viviamo in una società malata!" disse bruscamente, quasi a se
stesso.
"E’ vero, e parte della malattia è che non siamo coscienti di
essere malati. La nostra società ha troppo da conservare, e
valori come la libertà sono posti alla fine dell'elenco". C’era
una sorta di rassegnazione nella voce di Jim. Lizze sentì una
sorta di fastidio.
"Ma non c'è qualcosa che un artista possa fare?” Pronunciò la
frase ad alta voce. Se ne accorse e aggiunse con tono più pacato
“Se tu, da artista, non senti di poter fare qualcosa, come puoi
andare avanti?"
"Io offro immagini, evoco i ricordi di libertà che possono
ancora essere raggiunti. Ma io posso soltanto aprire le porte,
non posso trascinarvi la gente attraverso. Io non posso liberarli
senza che essi vogliano essere liberi più di ogni altra cosa.
Forse i popoli primitivi hanno meno stronzate in cui credere, a
cui rinunciare, non si tratta soltanto della ricchezza. Tutte le
stronzate che ci hanno insegnato, tutto il lavaggio del cervello
della società. Si deve rinunciare a tutto ciò per raggiungere
l'altro lato. La maggior parte degli individui non è disposta a
farlo".
“Nel tuo materiale dei primi tempi, nel vostro primo album, c'è
la sensazione di una visione apocalittica, "aprirsi un varco",
una ricerca di trascendenza. La vedi ancora come una reale
possibilità?"
"Ora è diverso. A quei tempi si era soliti credere che fosse
possibile generare un movimento, la gente che si solleva e si
unisce in una protesta di massa, rifiutando di essere ancora
repressa. Avrebbero dovuto unire tutte le loro forze per
rompere ciò che Blake definisce "le manette forgiate dalla
94
mente". I tempi della strada dell'amore sono finiti. Certo, è
possibile andare oltre, ma non a livello di massa, non con una
ribellione universale. Deve accadere a un livello individuale,
ogni uomo per se stesso; come si dice? Salva te stesso.
La violenza, come ogni altra cosa, non è di per sè malvagia.
Quello che è malvagio è l'infatuazione per la violenza".
Gli occhi di Jim erano semichiusi, quasi cercasse dentro di se le
parole migliori da usare. Fissava il soffitto e quando parlava lo
faceva a occhi chiusi, lentamente.
"Che cosa provoca l’infatuazione per la violenza?" chiese
Lizze.
"Se le energie e gli impulsi naturali vengono severamente
repressi per troppo tempo, essi diventano violenza. E’ naturale
per qualcosa che è stato a lungo compresso diventare violento
quando viene liberato; una persona che è stata troppo
severamente repressa prova grande piacere in quei rari, brevi e
violenti rilasci... Così si diviene infatuati della violenza".
A Lizze girava la testa. Stava seguendo Jim nei suoi discorsi,
ma gli sembrava di vagare in un labirinto. All’improvviso una
luce. "Ma allora, la vera fonte del male non è la violenza, o
l'infatuazione per essa, ma sono le forze repressive?"
"E’ vero. Ma in qualche caso l'infatuazione di un individuo per
la violenza implica una segreta complicità con i suoi
oppressori. La gente cerca i tiranni. Li adora e li sostiene.
Collabora con le limitazioni e le regole, e risulta incantata dalla
violenza implicita nelle loro brevi e sterili ribellioni".
Lizze sentiva le parole di Jim come vere, ne sentiva la sincerità
sulla pelle, e gli faceva male.
"Ma perché è così?"
"Per tradizione, forse: le colpe dei padri. L'America è stata
concepita con la violenza. Gli americani sono attratti dalla
violenza. Sono attratti oltre il lecito dalla tanto avversata
violenza. Sono ipnotizzati dalla televisione: la televisione è un
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invisibile velo che ci “protegge” dalla realtà. Il male della
cultura del Ventesimo Secolo è l'incapacità di sentire la propria
realtà. La gente si riunisce a grappoli davanti alla televisione, a
vedere telenovelas, film, commedie, idoli pop, e sperimenta
selvagge emozioni attraverso dei simboli. Ma nella realtà della
loro vita, essi sono emozionalmente morti".
Jim pronunciò la parola “morti” con un misto di disprezzo e
compassione. Versò nel bicchiere dell’altro whisky e lo bevve
d’un fiato. Poi mise le mani in tasca, ne trasse un joint, lo
accese e aspirò profondamente.
"Ma perché? Che cosa ci fa rifuggire dalle nostre sensazioni?"
Lizze aspirò profondamente il joint che Jim gli aveva passato.
L’odore di marijuana si spandeva per il locale.
"Abbiamo meno paura della violenza che delle nostre
sensazioni. Il dolore personale, privato, solitario, è più
terrificante di quello che chiunque altro può infliggere".
A Lizze girava la testa.
"Non capisco." Il viso di Jim era sfuocato.
"La gente tenta di nascondere i propri dolori, ma sbaglia. Il
dolore è qualcosa da portarsi appresso. Sperimentando il dolore
puoi sentire la tua forza. Sta tutto in come lo affronti. E’ questo
che conta. Il dolore è una sensazione, le tue sensazioni fanno
parte di te, sono la tua realtà. Se ne provi vergogna, e se le
nascondi, lasci che la società distrugga la tua realtà. Dovresti
combattere per il tuo diritto di sentire il tuo dolore".
Il giornalista guardò Jim attraverso il fumo. I suoi lineamenti
sembravano sfuggenti, la sua espressione serena, concentrata
ma gli occhi erano intensi, severi, vivaci. Sembravano guardare
oltre, scrutarlo nel profondo. Era affascinante e pauroso allo
stesso tempo.
"Ti vedi ancora come lo sciamano? Parecchi dei fan dei Doors
ti vedono come colui che li condurrà alla salvezza. Accetti
questo ruolo?"
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"Non sono sicuro che sia la salvezza quello che la gente vuole,
e neppure che io ve li possa condurre.” Sembrava triste. “Lo
sciamano è un guaritore, come lo stregone. Non credo che la
gente si rivolga a me per questo, non mi vedo come il
Salvatore".
"E allora per cosa si rivolgono a te? Cosa vede in te gente come
Alfred e tutti gli altri?"
"Vedo il ruolo dell'artista come sciamano e capro espiatorio. La
gente proietta le proprie fantasie su di lui e le loro fantasie
prendono vita. La gente può distruggere le proprie fantasie
distruggendo lui. Io obbedisco agli stessi impulsi di ciascuno,
ma non lo ammetterò mai. Attaccando me, punendomi, loro
possono sentirsi sollevati da questi impulsi".
"Era questo che intendevi prima, riguardo al fatto che la gente
prova emozioni selvagge attraverso i simboli, gli idoli pop ad
esempio?"
"Certo. La gente ha paura di se stessa, della propria realtà e,
soprattutto, delle proprie sensazioni. La gente parla di quanto
sia grande l'amore, ma questa è una stronzata. L'amore ferisce.
Le sensazioni sono fastidiose! Alla gente è stato insegnato che
il dolore è maligno, è pericoloso. Come possono avere a che
fare con l'amore se hanno paura di sentire?"
"E per questo che hai detto: "Mia sola amica, la Fine"? Parlavi
della morte vero?"
"Talvolta il dolore è troppo grande perché lo si esamini, o
anche solo perché sia tollerabile. E comunque questo non lo
rende maligno, o necessariamente pericoloso. Ma la gente ha
paura della morte, e più ancora del dolore. E’ strano che abbia
paura della morte. La vita ferisce molto di più della morte. Al
momento della morte, il dolore è finito. Sì, credo che sia
un'amica..."
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"La gente vede il sesso come il grande liberatore. Parecchie tue
canzoni sembrano indicare una strada che conduce alla libertà
attraverso il sesso?"
"Il sesso può essere liberatorio, ma può anche essere una
trappola".
"Che cosa fa la differenza?"
"Dipende da quanto una persona ascolta il proprio corpo, le
proprie sensazioni. La maggior parte delle persone sono troppo
occupate a coprire le proprie sensazioni per poterle ascoltare".
"Il sesso non può essere un modo per amplificare le
sensazioni?"
"La sessualità è zeppa di menzogne. Il corpo tenta di dire la
verità. Ma solitamente è troppo represso dalle regole per essere
ascoltato, è legato da catene così strette che difficilmente può
muoversi. Noi ci rendiamo zoppi con le nostre menzogne". Jim
chiuse gli occhi e scosse la testa.
"Come possiamo aprirci un varco tra regole e menzogne?"
Jim si lasciò andare sullo schienale della sedia. Spense il joint
nel posacenere, frugò nelle tasche e si accese una sigaretta.
"Ascoltando il nostro corpo, aprendo i nostri sensi. Blake ha
detto che il corpo sarà la prigione dell'anima fino a che i cinque
sensi non saranno pienamente sviluppati e aperti. Lui
considerava i sensi le "finestre dell'anima". Quando il sesso
coinvolge tutti i sensi, può essere una sorta di esperienza
mistica".
Lizze ascoltava quelle parole accurate, quelle citazioni colte,
guardava quei gesti eleganti e ne era estasiato. Raccolse i
pensieri, recuperò la concentrazione e disse:
"In diversi dei tuoi brani, come Crystal Ship, Soft Parade, Soul
Kitchen, presenti il sesso come una fuga, un rifugio o un
santuario. Io sono sempre stato affascinato dal modo in cui i
tuoi testi propongono paralleli tra sesso e morte: Moonlight
98
Drive ne è uno splendido esempio. Ma questo non è il
definitivo rifiuto del corpo?"
"Niente affatto, è l'opposto. Se si rifiuta il proprio corpo, esso
diventa la tua cella di prigionia. E’ un paradosso: bisogna
andare oltre i limiti del corpo, ci si deve immergere in esso, si
devono spalancare i propri sensi... Non è così facile accettare il
proprio corpo; ci hanno insegnato che il corpo è qualcosa da
controllare, da dominare, processi naturali come pisciare e
cagare sono considerati sporchi. Le tendenze puritane muoiono
lentamente. Come può essere liberatorio il sesso se in realtà
non si vuole toccare il proprio corpo, se si tenta di eluderlo?"
Lizze rimase in silenzio. Si sentiva svuotato e allo stesso tempo
sereno e inquieto. I pensieri turbinavano nella sua mente in
maniera confusa. Cercò di riordinare le idee e, con uno sforzo,
provò a pensare a un’altra domanda. Che senso aveva un’altra
domanda, pensò. La sua rabbia aumentò. Rabbia e frustrazione.
Sentiva la verità delle parole di Jim, sentiva la prigione intorno
a se, sentiva il peso del suo recitare, il sudore sotto la maschera
ormai pesante sul suo viso.
Jim lo guardò e sorrise. “Basta con queste stronzate da filosofo.
Sono una rockstar ricordi? Sesso droga e rock and roll! E poi i
filosofi finiscono per impazzire abbracciando cavalli
piangendo!” Rise ma il suo sguardo era triste. ”Andiamo, ho
un paio di ragazze che mi aspettano in un altro posto. Vieni con
me?”
“No, ti ringrazio Jim. Vado a casa ora.” Si alzò e gli strinse la
mano. Jim gli diede una pacca sulla spalla.
“Come vuoi” rispose. E si avvio caracollando verso l’uscita,
canticchiando.
Lizze lo vide scomparire dietro la porta. Si guardò intorno. Il
locale era ormai vuoto. Spense il registratore, lo raccolse dal
tavolo, lo mise in tasca e uscì. La luce della luna piena gli fece
stringere gli occhi. Si avviò verso la spiaggia e vi si sdraiò.
99
Poco distante da lui riconobbe Alfred infagottato nel giubbotto
di Jim. Sorrise. Anche lui era un’esule di Jim si disse. E con
questo pensiero si addormentò.
100
CAPITOLO XXI
101
giorno successivo, mentre stava per uscire a fare due passi
aveva ricevuto la telefonata dell’avvocato che le comunicava
che la cerimonia di saluto, così l’aveva chiamata, si sarebbe
tenuta il giorno successivo a Parigi al cimitero di Pere Lachaise
e che aveva già prenotato un volo aereo per lei per la mattina
successiva. Isobel guardò l’orologio. Era ora di partire.
Telefonò al taxi, mise le ultime cose nella valigia, scese per
strada. Il freddo era pungente. Si strinse nel giaccone di velluto
mentre il taxi accostava in perfetto orario. La valigia era
pesante e il taxista la aiutò a caricarla nel baule dell’auto.
Aveva portato solo un paio di vestiti e, per il resto, era colma
dei libri della nonna. Li aveva presi con se tutti; aveva cercato
di scegliere quelli da lasciare a casa, ma le sembrava di doverli
portare tutti, una specie di tributo alla memoria della nonna.
Infilò la mano in tasca e lesse il biglietto su cui aveva preso gli
appunti sull’indirizzo dell’albergo e sul cimitero. Il cimitero di
Pere Lachaise: dove era sepolto Jim Morrison. Coincidenze,
ancora coincidenze. Si mise a pensare all’ultima volta che era
stata a Parigi. Non ricordava bene, era passato così tanto
tempo. Lei era nata a Parigi e ci aveva vissuto con mamma e
papà fino a… Ma non voleva pensarci ora. Era già abbastanza
doloroso pensare alla nonna.
Il taxi procedeva veloce nel traffico caotico. Arrivarono
all’aereoporto dopo una ventina di minuti che Isobel aveva
trascorso con il naso appiccicato al finestrino guardando le
strade, le auto e la gente passargli accanto. Congedò il taxista
con una mancia e si trascinò con la pesante valigia sino al
check in. Prese posto nel suo sedile di fianco al finestrino e per
tutto il viaggiò fissò le nuvole grigie sotto di lei. Una strana
sensazione di leggerezza e di pericolo la avvolse. Si immaginò
rimbalzare su quei soffici cuscini bianchi, sentì la sensazione di
libertà e il desiderio e la paura di provare. Scosse la testa. Che
cosa stupida! Guardò nuovamente fuori dal finestrino. Stavano
102
sorvolando il canale della Manica. Vedeva l’azzurro tappeto
del mare ricamato da rare onde biancastre che davano notizia di
loro fin lassù. Poi di nuovo nuvole. Il comandante comunicò
che erano ormai prossimi all’atterraggio. Si allacciò le cinture.
L’atterraggio fu brusco: Isobel trasse un sospiro di sollievo. I
viaggi in aereo le mettevano sempre un po’ di agitazione che
passava d’incanto con lo stridire delle ruote sull’asfalto della
pista di atterraggio.
Un taxi la condusse direttamente al cimitero. Mancava solo
mezz’ora alla cerimonia, non c’era tempo per passare all’hotel.
Parigi era illuminata da un pallido sole che rendeva l’atmosfera
quasi primaverile rispetto all’uggia e al grigio di Londra. Isobel
si sentiva rinfrancata: le accadeva tutte le volte che tornava
nella sua città natale, una sensazione di ritorno a casa, di
familiarità nonostante il caos da grande metropoli. Il taxi si
fermò dinnanzi al muro esterno del cimitero. Non era mai stata
in quel luogo prima d’ora. Si avviò verso l’ingresso: una serie
di vialetti ordinati, contornati da piccole case con delle croci
sulla sommità si intrecciano tra loro creando un labirinto di
dolore e pace, di serenità e tormento. Lapidi illeggibili, fiori
secchi, luci fulminate a fianco di mazzi di rose fresche, lapidi
lucide e curate: questo era il cimitero, un’interminabile dedalo
di fiori, tombe, lapidi, croci. Ogni vialetto aveva un nome,
come le strade delle città: erano le strade della città dei morti.
Isobel mise la mano in tasca ed estrasse il biglietto con gli
appunti che aveva preso durante la telefonata dell’avvocato
francese. Doveva trovare Avenue des Combattentes Etrangers
morts pour la France, dove doveva svolgersi la cerimonia
funebre della nonna. D’un tratto la sua attenzione fu attirata da
un gruppo di ragazzi, avranno avuto quindici-sedici anni, fermi
davanti a una tomba. Lasciò il vialetto che stava percorrendo e
si avvicinò; erano otto tra ragazzi e ragazze, gli sguardi assorti
a fissare la tomba innanzi a loro. Non aveva mai visto un
103
gruppo di ragazzi in un cimitero: si avvicinò ancora. Uno di
loro piangeva mentre gli altri si stavano passando una bottiglia
di birra alzandola ogni volta verso la tomba in segno di saluto.
In un attimo Isobel realizzò: era la tomba di Jim. Aspettò che i
ragazzi finissero la birra e, quando se ne furono andati, si mise
innanzi alla lapide: una semplice lapide con il nome e il
cognome e una scritta in greco che significava: fedele al suo
spirito. Fedele al suo spirito. Isobel rimase immobile per un
interminabile minuto in cui le passarono per la mente tutte le
parole e tutte le musiche che aveva letto e ascoltato nei giorni
scorsi, poi, come risvegliandosi da un sogno, ritornò al vialetto.
Guardò l’orologio: era in ritardo. Chiese indicazioni a una
signora anziana e si diresse quasi correndo nella direzione che
le era stata indicata. Scorse un gruppo di persone accalcate di
fianco a quella che sembrava una cappella. Arrivò ansimante e
si fece largo tra la folla. Una persona che non conosceva era al
centro e stava leggendo da un foglio che reggeva tra le mani. Si
avvicinò e si mise ad ascoltare.
104
riservare a voi solo gli avanzi della vostra vita, di
dedicare al vostro equilibrio interiore solo il tempo
che ormai non può essere impiegato per nessuna
attività? E’ troppo tardi incominciare a vivere
quando ormai è ora di smettere. Impegnamoci:
solo in questo modo la vita sarà un bene: altrimenti
è solo un inerte attardarsi. E vergognoso anche, se
ci si attarda fra infamie e ignobili intenti.
Cerchiamo dunque che ogni momento ci
appartenga: ma non sarà possibile se, prima, non
cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.
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rimase senza fiato, gli occhi semichiusi per il fastidioso
riflesso. Intorno a lei piombò il silenzio. Tremava senza
ragione, gli occhi serrati, il respiro affannoso. Sentiva tutti gli
sguardi degli astanti su di lei e questo la faceva sentire a
disagio, le sembrava di essere nuda, con sguardi lascivi che le
percorrevano le forme del corpo. Indietreggiò sperando di
sfuggire al riflesso, ma continuava a intravvederne il bagliore
che filtrava tra le palpebre serrate. Provò ad aprire gli occhi.
Dinanzi a se vide l’uomo di prima che, sorridendo, le porse lo
specchio dicendo “Ogni volta che cercherai la nonna, qui la
troverai.” Le pose in mano lo specchio e si allontanò tra la
folla. Isobel fissò il suo viso riflesso nello specchio. In silenzio
ciascuno degli astanti si recò innanzi alla cappella, chi facendo
il segno della croce, chi appoggiando un sasso sui gradini, chi
legando una fettuccia di stoffa alla grata della finestra, chi con
un semplice inchino, chi abbassando la testa, chi
inginocchiandosi. Isobel guardava questa scena con un misto di
tristezza e di stupore.
“Miss Isabel?”
Una voce la scosse dall’ammirare quel muto pellegrinaggio, si
voltò e vide un ragazzo il cui viso le pareva conosciuto.
Il cameriere dell’hotel!! Era incredula.
“Sì Miss Isobel, o forse dovrei chiamarLa Issi, sono io.
Sorpresa di vedermi qui?”
“Tu chi sei? Cosa fai qui? Cosa cerchi da me? Restituiscimi il
libro della nonna brutto bastardo!” urlò Issi strattonandolo per
la giacca.
Il ragazzo rimase immobile, abbassando lo sguardo. Isobel
lentamente si calmò e, ansimando, si sedette, le mani sul viso.
“Non sono stato io, anche se non ho fatto nulla per impedirlo”
le si avvicinò e le si sedette accanto “ ora sono qui per chiederti
perdono e per aiutarti.”
106
“Aiutarmi?” si alzò di scatto Isobel “Ladro, sei solo un volgare
ladro! In cosa potresti aiutarmi?”
“A recuperare il libro e a svelarne l’importanza, ma…..”
“Cosa intendi dire?” disse Isobel fissando il giovane negli
occhi come se si fosse resa conto per la prima volta di cosa
stessero parlando “Qualcuno ti ha ordinato di rubare il libro?
Chi? Perché?”
“E’ un discorso molto lungo Miss Isobel. Ma prima mi
permetta di presentarmi. Mi chiamo Hani. La prego di
ascoltarmi perché ho molte cose da dirLe. Ma non possiamo
stare qui, occorre un posto più discreto” disse alzandosi e
invitando Isobel a fare altrettanto.
La piccola folla che si era riunita per l’ultimo saluto alla nonna
era ormai sparita. Solo una signora con un tailleur nero con al
fianco una bimba dai lunghi capelli biondi era ferma innanzi
alla cappella. La bambina si girò e corse incontro a Isobel, la
prese per mano e la condusse di fianco alla cappella.
“Grace, non importunare la signora!!”
La bambina si chinò e iniziò a frugare con le mani nell’erba.
“Ecco!”disse soddisfatta”Guarda cosa ho trovato!”
Isobel si chinò per osservare da vicino. Una timida primula
gialla ancora in boccio cresceva in una crepa tra i mattoni.
“Una primula il 9 di gennaio a Parigi? E’ incredibile!”
“Non è bellissima?” le chiese Grace sorridendo “Non riempie il
cuore di allegria?” Poi correndo tornò ad aggrapparsi alla
gonna della madre che l’attendeva lungo il viottolo. Isobel
risistemò l’erba in modo da nascondere e proteggere quel
fragile bocciolo, poi si alzò in piedi. Hani era dietro di lei e le
stava sorridendo.
Isobel lo guardò intensamente. Non sapeva per quale motivo
ma sentiva che doveva fidarsi di questo sconosciuto. Si
avvicinò all’ingresso della cappella, rivolse un’ultimo pensiero
alla nonna e si avviò per il vialetto. Hani la stava aspettando
107
accanto a un cipresso. Lo raggiunse e si avviarono fianco a
fianco per i vialetti del cimitero.
108
CAPITOLO XXII
109
«Non avete mai sentito parlare di quell'uomo pazzo che, in pieno mattino,
accesa una lanterna, si recò al mercato e incominciò a gridare senza posa:
"Cerco Dio! Cerco Dio!"
Trovandosi sulla piazza molti uomini non credenti in Dio, egli suscitò in loro
grande ilarità. Uno disse: "L'hai forse perduto?", e altri: "S'è smarrito come
un fanciullo? Si è nascosto in qualche luogo? Ha forse paura di noi? Si è
imbarcato? Ha emigrato?". Così gridavano, ridendo fra di loro... L'uomo
pazzo corse in mezzo a loro e fulminandoli con lo sguardo gridò: "Che ne è di
Dio? Io ve lo dirò. “
“Ma come potemmo farlo? Come potemmo bere il mare? Chi ci diede la
spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la terra dal
suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non
continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati e in avanti? C'è ancora un alto
e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla
forse lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e
sempre più notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno? Non sentiamo
nulla del rumore dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo
l'odore della putrefazione di Dio? Eppure gli Dei stanno decomponendosi!”
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“ Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso! Come troveremo
pace, noi più assassini di ogni assassino? Ciò che vi era di più sacro e di più
potente, il padrone del mondo, ha perso tutto il suo sangue sotto i nostri
coltelli. Chi ci monderà di questo sangue?”
“ Con quale acqua potremo rendercene puri? Quale festa sacrificale, quale
rito purificatore dovremo istituire? La grandezza di questa cosa non è forse
troppo grande per noi? Non dovremmo divenire Dei noi stessi per esserne
all'altezza? Mai ci fu fatto più grande, e chiunque nascerà dopo di noi
apparterrà per ciò stesso a una storia più alta di ogni altra trascorsa".
Chiuse gli occhi attendendo ciò che per lui era ormai
inevitabile. Non accadde nulla. Riaprì gli occhi ansimante. Non
111
c’era nessuno, eppure sentiva l’effetto delle sue parole, il
terrore propagarsi intorno a lui, il vuoto, la desolazione, l’eco
della sua terrificante verità. Cosa impediva a quella casa di
crollare, cosa al mondo di collassare su se stesso, cosa
impediva al fulmine di incendiare il mare, al mare di soffocare
le nuvole. Ogni punto di riferimento era cancellato, ogni
orizzonte era ucciso, ogni sicurezza disciolta, ogni verità
confutata. Dio, il fondamento primo e ultimo dell’esistenza era
morto e tutto era destinato a crollare con lui. Rise, di un riso
amaro, e mentre rideva tremava, tremava della stessa gioia e
della stessa paura che può provare un bambino appena venuto
al mondo, inconsapevole di tutto e perciò sommamente
consapevole.
L’uomo potrà avere la sua rivincità, l’uomo dovrà oltrepassare
se stesso, l’uomo dovrà irrompere nella vita con l’innocenza di
un bambino e la follia di un’ubriaco, abbeverandosi a se stesso
e risultandone mai sazio. Nessuna promessa, nessuna
punizione, nessun premio. La sua volontà, il suo desiderio, il
suo istinto. Nessun valore più alto di lui, della sua vita. Quel
pensiero lo fece vacillare.
In quell’istante sentì un lento mormorio. Sembravano i rami
degli alberi mossi del vento, ma pian piano il mormorio si
trasformò in una voce, dapprima flebile e sottile, poi man mano
sempre più forte e veemente. Tese l’orecchio per percepirne le
parole. Gli parve di udire la parola eterno. Si avvicinò alla
finestra e la spalancò. La corrente d’aria spense la fiamma della
candela e fece sobbalzare Friedrich che cadde carponi sul
pavimento, come schiacciato da un peso invisibile. Erano i
suoi pensieri, la sua mente che lo stavano schiacciando: quel
pensiero aveva come liberato una serie di pensieri che
covavano in lui da tempo immemore, inconsciamente, sotto
una cenere di convenzioni, tabù, ritualità, valori intoccabili, usi
millenari e insensati. Quel pensiero aveva spazzato via la
112
cenere come il vento aveva spento la fiamma della candela, ma
ora una nuova luce si era accesa, una promessa di rivincita, il
riscatto dell’uomo padrone di se stesso. Sentiva le catene della
morale impedire ai suoi pensieri di percorrere le altitudini,
sentiva la necessità di un fine, di uno scopo, la necessità di
un’eterno a cui confinare e confidare le sue paure. Strinse i
denti e si rialzò. Sentiva la maledizione di quel Dio che aveva
sentito morto dentro di se, sentiva di avere aperto una partita
con la sua mente, una sfida mortale il cui prezzo sarebbe stato
la libertà o la follia. Eterno. Eterno. Il vento continuava a
mormorare ai suoi orecchi come un canto di sirena, un filo di
Arianna che lo seduceva e lo faceva smarrire.
Un lampo. Il tuono. Un’ombra alla finestra. Urlò. Si tappò le
orecchie per non udire la verità, una verità che aveva già
sfiorato in una passeggiata solitaria a Sils Maria ma che ora si
sentì pronunciare da labbra deformi stampate sul vetro: parole
terribili. L’unica eternità era quella? Meglio il Dio morto pensò
tremante. Vattene! Vattene!
Silenzio. La persiana della finestra sbatteva. Friedrich si alzò,
tornò al tavolo. La candela era di nuovo accesa. Si mise gli
occhiali e scrisse le parole che aveva udito e che ancora gli
tormentavano le orecchie.
Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella
più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: "Questa vita, come tu ora la vivi
e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e
non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni
pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita
dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure
questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io
stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu
con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra digrignando i
denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto
una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata latua risposta: "Tu
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sei un Dio e mai intesi cosa più divina"? Se quel pensiero ti prendesse in suo
potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti
stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: "Vuoi tu questo ancora una
volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il peso più
grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare
più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?”
114
CAPITOLO XXIII
115
all’incoscienza. Non sapeva esattamente quando si fosse
innamorata di lui, forse già a Londra. Ricordava le parole di
Hani come se le avesse udite in quel momento. Le ripercorse di
nuovo, così come aveva fatto diverse volte nelle ultime
settimane, come per convincersene, per verificare se qualche
tassello non fosse stato coerente col mosaico che Hani le aveva
fatto intravvedere.
“Dunque Isobel” le aveva detto il ragazzo ”Io non le ho rubato
il libro, è stato uno dei garzoni che erano con me. Non lo ha
fatto per un capriccio, è stato un furto su commissione.”
“Su commissione?” disse Isobel incredula “Su commissione di
chi? E per quale motivo?”
“Questo devo ancora scoprirlo. So’ che il fattorino appena è
tornato in Hotel ha fatto una telefonata poi si è recato dal
direttore. Sono stati chiusi nel suo ufficio diverso tempo, poi il
garzone si è congedato. E’ successo poco prima del suo arrivo
all’albergo.”
“Ma chi può avere interesse in un vecchio libro, un interesse
tale da organizzare un furto? E per quale motivo?”
“Sua nonna saprebbe risponderci. E’ per lei che io mi trovo qui
ora, come è per tener fede ad una promessa fatta a lei che sono
venuto io a casa sua a portarle gli effetti personali della signora
Morrison il giorno del furto.”
“Una promessa? Che genere di promessa?” chiese Isobel
incuriosita.
“La sera stessa in cui sua nonna morì stavo recandomi nel
nostro ufficio per togliermi la divisa e rincasare quando la
incontrai nel corridoio. La salutai ma lei mi fermò e mi rivolse
queste parole: non le dimenticherò mai:
“Hani” mi disse ”sei un ragazzo in gamba. Ti ho osservato tutti
questi anni: hai lo sguardo limpido e l’occhio puro. Stasera
termino la mia permanenza qui; l’ho capito ora e non ho fatto
in tempo preparare ogni cosa come avrei voluto. Devi farmi
116
una promessa: posso contare solo su di te ora: veglia su Isobel
mia nipote, avrà bisogno di aiuto e conforto nei prossimi
giorni.. Non so quanto ci metteranno a sapere dov’è… Se
capita qualcosa di strano, di insolito fate perdere il prima
possibile le vostre tracce e partite per il Nepal: lì cercate un
villaggio chiamato Namche Bazar e chiedete di un sherpa
chiamato Alpang Tenzing. Una volta trovato mostrategli
questo, lui capirà e vi condurrà in un luogo sicuro.” e così
dicendo mi porse questo anello”
Hani mostrò a Isobel un anello d’argento che riproduceva due
draghi intrecciati tra loro intenti a mordersi l’un l’altro la gola.
Io le dissi che non potevo lasciare il lavoro e che, comunque lei
non si sarebbe fidata di me. Sua nonna mi sorrise, con quel suo
modo unico che aveva di farlo, mi diede una busta contenente
20.000 sterline e mi disse:
“Queste dovrebbero aiutarti a mantenere la tua promessa.
Capisco che non sia facile per te e che in questo momento tu
sia molto confuso ma non posso spiegarti altro, non c’è più
molto tempo. Quanto a mia nipote Isobel ha un caratteraccio lo
so, è testarda e cocciuta, ma se le sarà ostile o mostrerà di non
crederle le dica che “dalle teste di marmo sono nate opere
d’arte, da quelle di legno solo segatura.” ”
Isobel, che fino a quel momento era restata incredula e scettica
sul racconto si fermò sorpresa. Era una frase che le ripeteva
spesso la nonna quando da piccola facevai capricci. Faceva
parte di quel linguaggio intimo che si viene a creare tra persone
che crescono insieme, quelle ritualità spesso ripetute e che
appena ascoltate danno subito la sensazione di casa, di già
visto, anche se a pronunciarle era un ragazzo pressocchè
sconosciuto.
“E tu hai accettato?” chiese Isobel sempre più stranita.
“Per questo sono qui”
117
“Tu pensi che mia nonna sia stata uccisa?” chiese Isobel a
bruciapelo, come fulminata da quel pensiero, con la voce
tremante dalla rabbia.
“E’ un pensiero che ho avuto anch’io ma in fin dei conti non
credo. Se lo scopo era il libro, non vedo perché non prenderlo
una volta uccisa sua nonna. Ce ne sarebbe stato tutto il tempo e
tu, posso darti del tu vero, non te ne saresti mai accorta. No,
credo che tua nonna sia morta di morte naturale e che questo,
anzi, abbia leggermente sconvolto i piani di questi individui.”
“Mia nonna le ha parlato del libro?”
“No, assolutamente. Sulle prime infatti non ho dato importanza
alla cosa (di furtarelli noi impiegati di hotel ne vediamo e ne
facciamo tanti, esiste una specie di complicità tra di noi) fino al
momento in cui ho visto il garzone telefonare e poi andare
direttamente nell’ufficio del direttore, cosa di per sé parecchio
inusuale. Poi quando, dopo il tuo arrivo precipitoso all’Hotel il
direttore ci ha convocato comunicandoci che il garzone si era
licenziato e che il giorno successivo sarebbe partito per le ferie,
ferie che non aveva in alcun modo preventivato, e dopo questo
annuncio ed aver passato le consegne aveva lasciato l’hotel in
maniera abbastanza affrettata, mi si sono aperti gli occhi e ho
capito che forse lui c’entrava qualcosa in quel furto, anche se
oramai era troppo tardi. Ho provato a ritrovare il garzone, ma
lo conoscevo da poco e non sapevo come rintracciarlo. E poi
immagino che fosse all’oscuro di tutto, che avesse solo
obbedito a un ordine un po’ strano del suo datore di lavoro o di
qualcun’altro.. Del resto in Hotel questo non sarebbe nemmeno
classificabile tra gli ordini più strani che ci vengono impartiti.”
Erano giunti ai giardini del Lussemburgo. Isobel si fermò.
“E ora che cosa facciamo?” era completamente disorientata. La
frase pronunciata dal ragazzo per conto della nonna aveva
abbattuto molte resistenze, ma il suo racconto continuava a
sembrarle fantascientifico anche se, una vocina nella testa le
118
sussurrava di fidarsi di quel giovane dallo sguardo superbo e
dal sorriso sincero.
Hani la guardò negli occhi.
“Dobbiamo prendere il primo volo per il Nepal. Ma prima
dobbiamo far perdere le nostre traccie. Può darsi che vi fosse
qualcuno mandato ad osservarla al funerale, nel qual caso non
sarà passato inosservato il nostro incontro e la nostra partenza
insieme. Non può tornare in albergo, non può tornare a
Londra.”
Isobel tacque. Le sembrava tutto così assurdo. In una settimana
la sua vita era stata sconvolta e, a quanto pareva, quello era
solo l’inizio.
“Non posso andare in Nepal” disse a bassa voce, più a se stessa
che a Hani “devo rientrare a Londra. Ho il lavoro, la casa…”
Ma mentre pronunciava quelle parole le venne in mente quanto
c’era scritto nella lettera che la nonna le aveva lasciato.
“Cerca Issi, ma soprattutto cerca dentro di te” Era incerta. In
realtà voleva capire: capire la nonna, le sue ricerche, e poi c’era
quel libro. Con somma incoscienza accettò.
“Va bene, ma credo che dovremmo usare parte delle 20.000
sterline che ti ha lasciato mia nonna. Io ho con me solo la carta
di credito e non basterà a lungo”
Hani sorrise. Anche lui pareva sconvolto dalla piega che la sua
vita aveva preso negli ultimi giorni, ma ormai il sorriso di
Isobel gli era entrato nel cuore.
Rimasero a Parigi per un’intera settimana, cambiando hotel
tutti i giorni per precauzione. Una precauzione che a lei
sembrava inutile ed eccessiva visto che nessuno pareva in
alcun modo interessarsi a loro. Durante quella settimana Isobel
potè far visita a tutti i luoghi cari alla sua infanzia e quel
viaggio nel tempo le fu sì salutare ma aumentò quella
malinconia che la perdita della nonna le aveva lasciato: ora era
sola. In realtà non era così. Lei e Hani si erano innamorati, e ci
119
misero poco a riconoscerlo. La morte della nonna le aveva
portato in qualche modo in dono l’amore di quel ragazzo. Lei
all’inizio era titubante; sconvolta dagli ultimi avvenimenti
aveva paura di scambiare, nella confusione emotiva di quei
giorni, la sua fragilità e il suo bisogno di protezione per
l’amore. Ben presto si dovette ricredere. Era innamorata come
mai pensava si potesse essere e anche Hani sembrava
ricambiare con uguale ardore.
Isobel si riscosse dai suoi pensieri quando le braccia forti di
Hani le strinsero le spalle facendola sdraiare sul letto.
“Dobbiamo vestirci e preparare gli zaini. E’ tardi, Alpang
Tenzing ci aspetta.”
Isobel lo guardò, gli prese il volto tra le mani e accostò le
labbra alle sue. Questo Alpang Tenzing avrebbe aspettato
ancora un po’…
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CAPITOLO XXIV
121
musica. Chiuse gli occhi: sputò via il silenzio soffiando una
nota stridente, interminabile. Il tintinnare dei piatti di Elvin lo
riportarono alla realtà, sentì il pulsare di Jimmy e si conformò
a quella melodia per poi variarne gli accenti, mentre l’Amore
Supremo gli si avvitava nelle carni: scandì quelle note finchè
sentì che tutto era stato ormai suonato ma che forse occorreva
essere più chiari. Più chiari delle note di un sax? Lo specchio,
bisognava pulire lo specchio. Quasi senza accorgersene aveva
smesso di suonare, il ritmo di Jimmy, di Elvin e di McCoy era
rallentato, quasi si fossero accorti della solennità del momento.
John avvicinò le labbra al microfono del sax e… Supreme, a
Love Supreme, un Amore Supremo. Scandì quelle parole con
voce profonda, una voce che sembrava venire dal nulla e che
dal nulla si rivolgeva all’Eterno. Non c’erano più note, non
c’erano più strumenti, lui stesso era ora lo strumento e la lode,
l’amore supremo era tutto ciò che sentiva, tutto ciò di cui
risuonava e risplendeva il mondo intorno a lui: non più John,
non più McCoy, non più Elvin, non più Rudi laggiù dietro al
mixer; nulla esisteva più, solo la sua voce tremola, gutturale,
sgraziata, profonda in lode dell’Amore Supremo. Essere
strumento dell’eterno, finalmente! Lentamente tutto si spense,
il battito cessò, la voce cedette. Silenzio. L’Amore Supremo,
supremo.
Finita l’Ammissione fu la volta della Decisione, lunga sofferta,
spasmodica ma inevitabile e alla fine serena, poi venne la
Ricerca, caotica, viscerale, contorta, violenta e infine il Salmo,
il Ringraziamento.
John prese fiato e sistemò nuovamente il foglietto sul leggio:
era il momento in cui il suo sax avrebbe lodato Dio, Quale
presunzione! Come essere degni di ciò, come pregare e sentire
la preghiera oltre le note. Chiuse gli occhi e incominciò a
recitare la preghiera con il sax, scandendo le parole nota dopo
nota, accento dopo accento, aggettivo dopo aggettivo.
122
Conoscere Dio… Ogni vibrazione, suono, parola, discorso,
pensiero, paura, emozione. Tutte in relazione. Tutte create da
un unico e nell’unico riunite. A che Dio si stava rivolgendo?
Dio respira attraverso di noi. Ho visto la divinità. Cercare Dio
ogni giorno, in ogni modo. Il sax scandiva le note della
preghiera lento, solenne, accorato. Una benedizione e un invito.
Una richiesta di santità, un ringraziamento per le ore buie.
Il cielo dell’orizzonte e l’abisso delle note trascorse, l’incubo
delle note presenti e del silenzio tra di esse: eleganza.
Esaltazione. Grazia.
Appoggiò il sax, si asciugò la fronte, prese il foglietto tra le
dita, lo mise in tasca e uscì dallo studio, in silenzio, quasi in
punta di piedi. Nessuno lo vide più fino al giorno seguente.
Non una parola, non un gesto. Tutto inutile di fronte all’Amore
Supremo.
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124
CAPITOLO XXV
126
CAPITOLO XXVI
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disse scendendo con un balzo dallo sperone. Issi e Hani si
guardarono stupiti. “Non vieni con noi?” chiese Issi.
“Non mi è concesso varcare il sacro suolo, non ancora: narra la
leggenda che chiunque varchi il portale del sole ai piedi del
monastero e non decida di restarvi per il resto della sua vita
andrà incontro alla morte entro un’anno da quel giorno.” Issi
sbiancò in volto e strinse la mano di Hani facendolo
sobbalzare.
“Grazie Alpang, grazie per la tua preziosa guida. Che il
sentiero ti sia propizio” disse Hani che sembrava non essere
minimamente turbato dalla leggenda appena udita. “Andiamo
Issi, le risposte alle nostre domande sono lassù” e indicò il
monastero sopra la cascata. Issi lo guardò per chiedergli se ne
valeva la pena ma, quando incrociò il suo sguardo capì che era
la cosa giusta da fare.
“Andiamo!” disse infine risoluta e incominciarono a discendere
rapidamente il sentiero. Si trovarono su di un falsopiano: il
sentiero girava bruscamente a sinistra per finire sul greto di un
torrente che scorreva tempestoso pochi metri più in basso;
sopra di esso, teso fra due alberi, un ponte tibetano indicava il
prosieguo del loro cammino. Uno alla volta affrontarono il
guado, solleticati dagli spruzzi del torrente che mugghiava
sotto i loro piedi. Quando misero piede sull’altra sponda si
sedettero sull’erba a riposare e ad ammirare nuovamente quello
splendido paesaggio da una nuova prospettiva. Erano ormai in
prossimità del lago, quasi a ridosso del costone di basalto da
cui cadevano le acque della cascata e da cui potevano scorgere
i contrafforti del monastero. Issi e Hani si alzarono quasi
all’unisono e si incamminarono sul sentiero che era tracciato
tra un fitto bosco di conifere e il torrente. Lo scroscio della
cascata si unì al rombo delle acque del torrente in un rumore
crescente che sovrastava qualsiasi suono. Issi e Hani si
abbracciarono mentre il sentiero esauriva la sua corsa sul
128
limitare del lago. Innanzi a loro l’arco dell’arcobaleno fendeva
in due la cascata, mentre una nebbia fine e rinfrescante li
avvolgeva. Il sole era alto sopra di loro e tutto sembrava come
sospeso, una fissità affascinante e spettrale allo stesso tempo,
come ragnatele d’argento cullate da una brezza notturna. Si
ripresero dal torpore che li aveva circondati e iniziarono a
guardarsi intorno alla ricerca del sentiero che doveva condurli
al monastero. Iniziarono a vagare intorno al lago ma non
trovarono nulla. La parete della montagna era liscia e bianca,
senza alcun sentiero visibile che la risalisse. Cercarono in ogni
direzione ma non riuscirono a trovare il benchè minimo segno
di un passaggio, di un sentiero. Si sdraiarono sull’erba in preda
allo sconforto. “E ora?” chiese Isobel sconsolata? “Ci deve
essere un passaggio, Alpang ha parlato di una fantomatica
Porta del Sole…..”
“La porta del sole si cela agli occhi dei novizi perché essa porta
alla conoscenza, e la conoscenza è solo di chi sa osservare con
occhio puro!”
Hani e Isobel si voltarono di scatto per la sorpresa: alle loro
spalle, appoggiato a un alto abete stava un uomo alto, con il
viso bruciato dal sole, i capelli bianchi raccolti dietro la nuca a
lasciare l’ampia fronte scoperta e una lunga barba anch’essa
bianca che incorniciava un sorriso spontaneo e sereno.
“Chi è lei?” chiese Isobel bruscamente.
“Un pellegrino signora, un semplice pellegrino.”
“Lei sa dove si trova la porta del sole?”
“Certamente, è da lì che vengo.”
“E potrebbe dirci dove si trova?” chiese Isobel impaziente.
“Prima però dovete dirmi per quale motivo volete recarvi al
Monastero di Eleusi.” disse il vecchio avvicinandosi
lentamente ”Come fate a conoscere l’esistenza di questo luogo?
E poi, due giovani come voi cosa possono mai cercare in
questo posto?”
129
Isobel e Hani invitarono il pellegrino a sedersi accanto a loro e
gli spiegarono per sommi capi lo scopo del loro viaggio,
inventando una storia su come erano venuti a conoscenza di
Lendi Eleusi e di come erano decisi a recarsi al monastero per
cercare delle risposte alle loro domande.
Il vecchio li ascoltò in silenzio senza battere ciglio. Quando i
due finirono il loro racconto prese il bastone che aveva con sé e
che aveva appoggiato al suo fianco e con esso incominciò a
tracciare dei segni sul terreno. Poi, traendo un profondo
respiro, disse:
“Bene, credo che vi mostrerò la Porta del Sole. Prima però
voglio che mi ascoltiate attentamente e, una volta che avrò
terminato mi direte se sarà ancora vostra intenzione sapere
dove si trova l’ingresso al Monastero. Narra una leggenda di
questi luoghi che ogni essere umano, uomo o donna che sia, ha
a disposizione tre momenti nell’arco della propria esistenza in
cui raggiunge e tocca il Divino: due sono comuni a tutti, la
nascita e la morte, il terzo è, o dovrebbe essere, ciò che
potremmo definire “il momento culminante della nostra
esistenza”. Si dice che ogni uomo che abbia calpestato questo
pianeta ha avuto la possibilità, almeno una volta nella vita, di
toccare il Divino, di elevare il proprio spirito su di un piano
superiore, di oltrepassare il limite fisico che ci incatena
quaggiù: questi attimi possono essere improvvisi e imprevisti
come folgori, oppure possono essere raggiunti attraverso anni
di ricerca, di affannoso adoperarsi nei più svariati modi per
arrivare al contatto ma tutti, stando sempre alla leggenda,
hanno almeno una occasione. A tanti però tali momenti
sfuggono, distratti dalla loro quotidianità, intorpiditi dal
proprio benessere o obnubilati dalla ricerca del successo, della
fama, del denaro; la maggior parte di noi esseri umani non
coglie tale possibilità unica e irripetibile. Ci sono però persone
che lo hanno fatto, che in un attimo fecondo hanno sfiorato
130
l’Assoluto e di alcune di esse possiamo tentare di ricordare le
gesta e le opere affinché possano essere da monito e da
esempio per chi li seguirà. In quei momenti infatti ciò che
opera attraverso l’uomo, che ne sia consapevole o meno questo
non importa, è pura Ispirazione, pura Creatività, pura
Immaginazione, pura Estasi, pura Consapevolezza e le opere
prodotte in tali momenti travalicano il loro significato primo,
superano le barriere del nostro animo per parlarci in una lingua
universale, che coglie l’essenza di ogni essere umano e ce le
restituisce nella forma più pura. Da questo punto di vista
grande importanza rivestono le opere di filosofi, poeti,
musicisti pittori, quelli che noi chiamiamo artisti o pensatori.
Le loro opere, quando sono toccate da tale Ispirazione, sono
come dei talismani, delle chiavi per accedere a una
consapevolezza superiore o comunque “altra” rispetto a quella
che abbiamo tutti i giorni. In certe opere sono rimasti
incastonati frammenti di quelle visioni, di quelle sensazioni e
da tali opere occorre partire per decifrare il messaggio o, forse,
per trovare la strada per amplificarlo e diffonderlo.
Ecco sulla base di tale leggenda, che poi leggenda non è, le
persone che stanno in quel monastero lassù hanno scelto di
dedicare la loro vita allo studio e alla ricerca delle e sulle opere
toccate dalla Somma Ispirazione, da “attimi di divino” che esse
portano in se come nocciolo oscuro e lucente al tempo stesso.
Qui ogni uomo può trovare risposte, ma può porre anche
domande e, se reputate degne, tali domande saranno discusse in
una pubblica riunione con tutti gli ospiti del monastero. Ma è
un evento raro: si narra che l’ultima persona che sia riuscita a
porre una domanda degna della pubblica discussione fu Xiao
Deng più di XX secoli fa. L’onore di tale risposta ha però un
vincolo: colui che pone tale domanda e che ne riceve pubblica
discussione e risposta non potrà più lasciare il monastero e
portare la risposta ricevuta nel mondo, o andrà incontro a morte
131
certa entro un anno. Questo vuole la leggenda e la tradizione di
questi luoghi.” Si interruppe lisciandosi con la mano sinistra la
folta barba poi, continuando a tracciare linee sinuose sul
terreno, chiese: “Volete dunque che vi mostri l’ingresso?”
Isobel e Hani si guardarono per un istante, poi Isobel annuì
impercettibilmente.
“Ragazza, lo vuoi?” chiese il vecchio guardandola negli occhi.
“Sì, voglio andare al monastero, e che succeda quello che deve
succedere.” disse tutto di un fiato.
“Va bene, allora seguitemi” e appoggiandosi al bastone si
sollevò in piedi e si avviò con passo deciso dentro al lago
immergendosi sino alle spalle.
“Avanti, che aspettate? Seguitemi!” li ammonì voltandosi.
Isobel e Hani si scambiarono uno sguardo interrogativo, poi
presero a entrare nel lago. L’acqua era gelida e Isobel si chiese
come facesse il vecchio a non mostrare il minimo segno di
disagio. I denti le battevano e, alle sue spalle sentiva quelli di
Hani fare altrettanto. Erano giunti ormai con l’acqua fino alla
gola quando il fondale del lago si rialzò lentamente,
permettendo a Issi di riprendere fiato, rotto dal gelo e dai
tentativi di restare a galla. Erano ormai in prossimità della
cascata, e sopra le loro teste l’arcobaleno incoronava il loro
affannoso avanzare. Attraversarono lo scroscio seguendo il
vecchio, che videro fermo dinnanzi a una caverna scavata nella
roccia della montagna.
“Ecco la Porta del Sole, oltre l’Arcobaleno, sotto la roccia,
entro la terra, attraverso l’acqua. Qui parte la galleria che vi
condurrà al Monastero. In essa ardono numerosi fuochi, in essa
i quattro elementi si riunificato: Acqua, Terra, Aria, Fuoco. Il
vostro percorso spirituale continua. Che il sentiero vi sia
propizio. Io ritorno alla mia dimora. Quando arrivate al
monastero dite che Anrham vi ha mostrato la Via.”
132
“Anrham? E’ questo il tuo nome?” chiese Isobel tremando per
il freddo.
“Anrham è il nome con cui sono conosciuto dalle genti di
questi luoghi ma voi potete chiamarmi Leo, come il grande Da
Vinci. Arrivederci e che la pace sia il vostro sentiero!” e così
dicendo ritornò sui suoi passi, oltre la cascata, oltre
l’arcobaleno.
Isobel e Hani si guardarono poi, senza parlare, incominciarono
a inoltrarsi nella grotta. Trovarono, dopo una stretta svolta sulla
loro destra, una serie di torce accese attaccate alla roccia. Hani
ne prese una e fece strada a Issi nel buio.
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134
CAPITOLO XXVII
135
con aria stupita. Si guardò nuovamente intorno: sul lato sinistro
del portone vi era un piccolo gong con il suo martelletto appeso
al fianco. Guardò Hani che le fece cenno di sì con la testa,
prese il martelletto e colpì il gong. Il suono acuto e squillante si
propagò per la terrazza fino a fondersi con lo scroscio della
cascata. Attesero in piedi quelli che a loro parvero diversi
minuti prima che un rumore di sbarra che si solleva
preannunciasse l’aprirsi lento della pesante porta innanzi a
loro. Alla loro vista si presentò un monaco tibetano, di
corporatura minuta, con la tunica arancione-amaranto, i capelli
rasati, un ampio sorriso dipinto sul volto.
“Benvenuti stranieri, benvenuti al Monastero di Eleusi. Cosa vi
porta in questi luoghi?” disse il monaco sorridendo ma con uno
sguardo interrogativo e penetrante.
“Siamo due cittadini del mondo. Cerchiamo risposte. Anrham
ci ha indicato la via attraverso la Porta del Sole.” rispose Isobel
sentendosi alquanto a disagio per quei due occhi intensi che la
fissavano.
“Che le domande siano ben poste e che le risposte possano
illuminare le vostre esistenze. Venite, entrate, vi mostrerò
l’alloggio dei pellegrini. Attenderete lì la convocazione del
Consiglio. Posso sapere i vostri nomi?” disse il monaco dopo
alcuni attimi di silenzio.
“Io mi chiamo Hani Hanjour, lei è Isobel Morrison.”
Per una frazione di secondo sul volto del monaco apparve
un’ombra di sorpresa, o così sembrò a Isobel.
“Benissimo! Seguitemi.”e così dicendo spalancò il portone.
Ciò che nascondeva era un’ampia loggia ad arco con affreschi
e decorazioni alle pareti che percorsero fino a un chiostro
interno. Da lì seguirono il monaco per un’ampia scalinata che li
condusse al piano superiore. Durante il tragitto incrociarono un
altro monaco, alto, robusto, con un grande paio di occhiali e un
giovane occidentale, jeans e maglietta che camminava di fretta
136
attraverso il chiostro. Isobel e Hani si guardarono intorno
stupefatti dalla bellezza degli ambienti che stavano
percorrendo: seguirono il monaco per un lungo corridoio, sul
lato destro del quale si aprivano numerose porte mentre,
dall’altro lato, una immensa vetrata dava vista sul panorama
mozzafiato delle montagne circostanti e sul lago nella radura
sottostante. Il monaco superò la vetrata, si fermò innanzi ad
una porta, la aprì e li invitò ad entrare.
“Attendete qui. Il consiglio è stato indetto tra un’ora. Se sarete
fortunati sarete ammessi per quel tempo, altrimenti dovrete
attendere nuove notizie. Vi prego di non muovervi fino a nuova
indicazione” e con un’inchino uscì chiudendo la porta dietro di
se.
Isobel si guarò intorno. Quella stanza le era in qualche modo
famigliare anche se non riusciva a capire come potesse esserlo.
Sulla parete destra c’era un caminetto, con il fuoco acceso,
sulla parete sinistra uno scrittoio sormontato da alcuni scaffali
ricolmi di libri. Si fronte alla porta c’era una piccola finestra
chiusa d un’inferriata. Isobel si avvicinò alla finestra e ammirò
nuovamente il panorama circostante, seppure con una visuale
meno ampia ed emozionante di quella che aveva sperimentato
dalla vetrata. Si sedette sulla sedia di fronte allo scrittoio. Hani
era di fianco alla finestra, lo sguardo perso nel panorama delle
cime innevate.
“Che strano posto, strano e affascinante allo stesso tempo”
disse Isobel “ha un’aria famigliare, mi sembra di esserci già
stata, soprattutto questa stanza, ma non riesco a capire co...” la
porta si aprì all’improvviso e il monaco con gli occhiali che
avevano incrociato prima sulle scale entrò, fece loro un inchino
poi, guardando Isobel disse:
“Seguitemi, il consiglio vi attende.”
“Ma non doveva essere tra un’ora?” chiese Isobel.
137
Il monaco non rispose ma fece cenno nuovamente di seguirlo.
Si mossero entrambi verso la porta, ma il monaco disse
rivolgendosi a Hani:
“Lei dovrà aspettare qui” Hani si irrigidì, ma Isobel lo guardò
facendogli un cenno di assenso.
Issi e il monaco uscirono nel corridoio, lo percorsero a ritroso
e, giunti alle scale, salirono al piano superiore, girarono a
sinistra in un’ampia loggia del tutto simile a quella d’ingresso
con un’ampia vetrata che mostrava le montagne all’orizzonte.
La loggia terminava presso un grande portone dorato. Il
monaco si fermò e si congedò da lei con un inchino. Isobel
afferrò uno degli enormi battenti, anch’essi raffiguranti due
draghi avvinghiati tra loro e percosse la porta. L’eco del colpo
si propagò per la loggia, rimbombando sinistramente. Poi
lentamente la porta si aprì e Isobel entrò.
Si ritrovò in un’ampio salone con una immensa vetrata sulla
parete destra. Sulle altre pareti, disposti a semicerchio vi erano
una serie di persone sedute. Isobel esaminò i loro visi
rapidamente: tutti avevano lo sguardo rivolto a lei e così potè
memorizzare rapidamente le fisionomie di molti di essi. Vi
erano persone di ogni età, razza, sesso, una congregazione
eterogenea, molto colorata e composta. Isobel si sentiva in
soggezione con quegli sguardi puntati addosso, anche se in
nessuno di quelli che incrociò notò il benchè minimo astio o
segno di ostilità. Le persone erano sedute su dei sedili di legno
scuro in un semicerchio che ricordava i cori delle cattedrali
gotiche europee. Al centro del semicerchio era posta una specie
di fontana dalla quale zampillava un rivolo d’acqua. Di fronte
alla fontana, su di un seggio posto leggermente più in alto
rispetto a quello degli altri convenuti, stava un vecchio, di età
indefinibile, con una lunga barba bianca che ricordava quella di
Anrham, i tratti somatici occidentali, lo sguardo intenso e
138
penetrante. Indossava una tunica azzurra e teneva tra le mani
un libro.
“Salute a te viandante. Benvenuta al Monastero di Eleusi.
Accosta le tue labbra alla Fonte della Purezza e monda i tuoi
pensieri da tutte le scorie depositate dalla stanchezza e dalle
consuetudini. Poi potrai raccontarci la tua storia e porci i tuoi
quesiti. Ricorda: ogni domanda è figlia di altre domande e
nasce gravida di molte altre ancora. Le risposte sono aghi che
trafiggono, possono toccare e ferire ma se pronunciate con
serenità non sono mai per il peggio.” Il vecchio sull’alto
scranno aveva pronunciato queste parole alzandosi in piedi e
con un tono solenne ma rasserenante. Isobel sentì la tensione
sciogliersi. Si avviò verso la fontana, si bagnò le mani e da esse
bevve un sorso di quell’acqua zampillante poi, rivolta al
vecchio sullo scranno, chinò il capo in segno di saluto e di
rispetto.
“La pace sia con te. Quali sentieri ti hanno portato fino a
questo posto, il più remoto tra i remoti e, prima ancora, qual è
il tuo nome?”
“Mi chiamo Isobel Morrison e il motivo per cui sono qui è la
ricerca di un libro” disse Isobel schiarendosi la voce per
l’emozione. Al pronunciare il suo nome un brusio si levò dagli
astanti. Isobel girò il capo con aria interrogativa.
“Isobel Morrison? La nipote di Tina Morrison?”
Isobel impallidì e annuì. Conoscevano la nonna? Fece per
parlare ma fu interrotta dalle parole del vecchio:
“Tina Morrison è stata nostra ospite per molto tempo, in molte
occasioni e ci ha aiutato portando avanti importanti ricerche.
Ma forse è meglio, prima che tu ci racconti la tua storia, farti
capire cos’è questo luogo e perché persone di ogni età, razza,
religione convergono dai più disparati paesi in questo piccolo
rifugio sperduto nello spazio e nel tempo. In questo luogo, che
non è luogo di culto ma che ha i suoi riti, che non è una
139
istituzione ma che ha le sue regole, che non è fine a se stesso
ma che ha le sue tradizioni, si studia e si ricerca l’uomo o
meglio si cerca ciò che accomuna e rende insieme irripetibile
ogni uomo: la sua natura spirituale o, se vuoi, divina. In ogni
uomo esiste una spinta verso il trascendente, più o meno
consapevole, più o meno avvertita, più o meno assecondata.
Anche l’uomo più materialista ha incontrato, vissuto, letto,
ascoltato cose che lo hanno fatto interrogare sul suo fine, sullo
scopo della sua esistenza, sul significato del mondo in cui noi
viviamo. Non tutte le persone hanno la voglia, la capacità, gli
strumenti, noi lo chiamiamo “il dono” di affacciarsi e
sprofondarsi in queste domande ma, nel corso della storia vi
sono stati diversi uomini che hanno interrogato se stessi e la
propria arte e che, in attimi sfuggenti o in giornate febbrili sono
stati toccati da quella che noi chiamiamo Somma Ispirazione e,
sotto il suo influsso, hanno scritto, dipinto, scolpito, suonato,
lasciando in queste loro opere o gesta brandelli di
Consapevolezza, di Illuminazione, di Grazia, di Divino.
Ebbene in questi luoghi si ricercano e studiano tali opere, le
vite e i percorsi di chi le ha compiute. Lo scopo di tutto ciò è
cercare nelle opere quel filo conduttore che le guida tutte e che
si può percepire a tratti solo in certi magici momenti, in cui
tutto sembra “avere senso”, in cui tutto si risolve nell’Unità,
nell’Armonia, in quello che potremmo chiamare Divino,
termine che non ha per forza una connotazione religiosa, ma
spirituale. Ecco, qui si ricerca il Divino che esiste in ogni opera
e in ogni vita. Qui sono passati poeti, matematici, fisici,
musicisti, pittori ma anche gente comune, muratori, impiegati,
negozianti, persone che hanno percepito un filo sotteso alle
proprie vite, alle proprie azioni, al mondo che ci circonda e
hanno deciso di seguire tale filo e questo inseguimento li ha
spesso condotti qui. Tina Morrison è stata per lunghi periodi
una di queste persone anche se la sua partenza improvvisa ha
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lasciato in molti di noi l’amarezza di un’esperienza incompiuta.
Ma questo è un altro discorso. Ti prego, quando tornerai da lei
di portarle la mia benedizione e la mia pace.”
“Mia nonna è morta, signore. E’ morta a Londra non più tardi
di due mesi fa. Il cuore. Mi ha lasciato tutti i suoi libri, uno dei
quali è il motivo della mia presenza qui”
Un moto di stupore attraversò gli astanti. Tina Morrison era
morta.
Il vecchio, udite quelle parole, si alzò in piedi e così fecero
quelli che le sedevano intorno, poi scese dallo scranno, si
diresse verso una piccola porta che stava alle sue spalle e vi
entrò; ne uscì poco dopo con le mani giunte innanzi a se, si
pose davanti all’immensa finestra e fece un cenno a una donna
che stava in piedi al suo fianco. Questa, apparentemente senza
alcuno sforzo, aprì la finestra. Il vecchio vi si affacciò e aprì le
mani dicendo:
“Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo
chiama farfalla. Vola libera e che la tua forma sia splendida
come le ali che ti sostengono. Che la pace sia il tuo sentiero!”
Isobel fu stupita dall’udire di nuovo la frase che le ripeteva
sempre la nonna, ma lo fu ancora di più quando vide una
farfalla dalle bellissime ali blu volare via dalle mani del
vecchio. Si voltò e vide che tutti gli astanti, in piedi accanto ai
loro scranni, abbassarono la testa con devozione. A Isobel si
bagnarono gli occhi di lacrime che trattenne a stento. Il vecchio
ritornò al suo posto e si sedette, così come tutte le persone
intorno a Isobel.
“Quella frase,” disse Isobel quasi sottovoce “quella frase me la
ripeteva spesso la nonna. E quella farfalla: feci anch’io una
cosa simile il giorno in cui morirono i miei genitori. E’ tutto
così confuso…” Calde lacrime le scendevano ora lungo le gote.
Si nascose il viso tra le mani singhiozzando quando sentì una
carezza sulla testa. Si voltò e tra le lacrime vide la figura di una
141
ragazza che, anche lei con le lacrime agli occhi, le prese una
mano e la strinse a se con forza. Quella stretta le fece smettere
di piangere, e sentì come una nuova pace, una strana euforia
inondarle il cuore. Si asciugò le lacrime e si rivolse al vecchio
dicendo:
“Conoscete un libro chiamato “Il mistero delle Esuli”?”
Gli astanti furono percorsi da un fremito e da un brusio
sommesso, mentre il vecchio si ricompose velocemente dopo
aver lanciato un’occhiata torva e minacciosa intorno a se. Il
brusio non accennava a placarsi. Isobel osservava esterrefatta
quelle persone che parlottavano concitatamente. Di colpo il
rumore di un gong ridusse tutti al silenzio. Il vecchio si alzò e
disse con voce potente e severa.
“Giunge a noi inaspettata la domanda che ognuno di noi ha nel
cuore.” E poi rivolgendosi a Isobel: “La tua domanda merita
una risposta, e una risposta del Consiglio. Ma per udire tale
risposta vi è un prezzo da pagare. La risposta non deve uscire
da queste mura, pena la morte entro un anno di chi se ne fa
portatore all’esterno. Non è una minaccia Isobel, è la
tradizione. Nessuno di noi può modificare gli eventi. Ciò che è
stato in passato si ripeterà in futuro. Non è in mio potere
rompere il sigillo dell’esilio posto sulle risposte del Consiglio
dei Saggi. Nessuno di noi ti rincorrerà per fermarti se romperai
il sigillo dell’esilio. Altri hanno infranto tale vincolo e sempre
la morte li ha colti entro un anno. Tua nonna è l’ultima di
queste persone. Noi non portiamo la morte, ma non possiamo
fermarla. E’ una tradizione, voto che nessuno può spezzare.
Puoi non accettarlo e nel farlo rinunciare alla tua domanda, ma
se deciderai di volere risposta sappi che a tale risposta sarà
legato il tuo destino, qualunque decisione tu possa prendere.”
Isobel guardò il vecchio con aria frastornata: Anrham le aveva
accennato a questa possibilità, ma lei non aveva minimamente
pensato al fatto che chiedere spiegazioni sul libro rubatole
142
potesse richiedere una risposta dell’intero consiglio e che
quindi dovesse sottostare al vincolo. A dire la verità aveva
considerato il discorso della morte entro l’anno in caso di fuga
dal monastero dopo aver ricevuto la risposta né più né meno
che una minaccia folcloristica, ma quell’accenno fatto dal
vecchio alla nonna come l’ultima di una lunga serie l’aveva
fatta sussultare mentre un sudore freddo le bagnava la schiena.
Fece per parlare ma il vecchio la interruppe dicendo:
“E’ una decisione importante e difficile, me ne rendo conto.
Non può e non deve essere presa all’istante, da una persona
appena giunta in questi luoghi, senza che abbia conosciuto le
nostre genti, i nostri usi, i nostri studi. Sarai nostra ospite per
un mese Isobel Morrison, e in questo mese potrai avere libero
accesso ai luoghi di questo monastero, ai suoi libri, al suo
sapere, e potrai rivolgere la parola a chiunque. Alla fine del
mese sarai di nuovo convocata davanti a questo consiglio e lì ci
comunicherai la tua decisione e riceverai, nel caso, la risposta
alla tua domanda. So che altre mille domande si affacciano ora
alla tua mente, ma ad esse potrai dare risposta tu stessa in
queste settimane. Chiedi a chiunque qualsiasi cosa, ma nulla
che riguardi la tua Domanda o il libro da te cercato” poi
rivolgendosi agli astanti “Sono stato chiaro? Questa ragazza
avrà libero accesso ai luoghi del monastero e ognuno di noi
avrà il compito di guidarla nel cammino che ella intende
intraprendere dando risposte alle sue interrogazioni, qualsiasi
argomento esse trattino, tranne naturalmente domande inerenti
il libro. Esse sono di competenza del Consiglio e dovranno
essere trattate secondo la Regola. Non saranno tollerate
eccezioni”.
E così dicendo fece un rapido cenno e uscì dalla stanza
accompagnato dal rimbombo di un gong. Tutti i presenti lo
seguirono tranne la ragazza che le stava stringendo la mano. La
fissò: era una ragazza indiana, la carnagione scura, due occhi
143
bruni profondi e limpidi, i capelli corvini raccolti in trecce
sottili e sciolti sulle spalle coperte da uno scialle scarlatto. Un
odore d’incenso pareva avvolgerla. Era veramente splendida.
La ragazza le sorrise dolcemente poi, con perfetto accento
inglese le disse:
“Seguimi Isobel. Posso chiamarti Isobel?”
“Certo che puoi. Qual’è il tuo nome?” chiese Isobel un po’
frastornata
“Mi chiamo Rumi. Se vuoi seguirmi ti porterò nella stanza
dove ha alloggiato per gli anni dei suoi studi tua nonna; se
vorrai potrai alloggiare lì per questo mese. Sai, è rimasta come
tua nonna l’ha lasciata per disposizione del Sommo Anziano.”
E così dicendo, sempre tenendola per mano, la fece uscire dal
portone da cui era entrata e la portò al piano inferiore,
fermandosi davanti a una porta.
“Ecco, questa è la stanza in cui Miss Morrison ha dimorato
negli anni degli studi. Questa è la chiave. Buona permanenza.
Se hai bisogno di qualsiasi cosa chiedi di me. Che tu possa
camminare su sentieri luminosi.” E così dicendo si congedò
con un rapido inchino.
Isobel rimase immobile per alcuni secondi, osservando ora la
chiave ora la porta, cercando di fare ordine nei suoi pensieri,
poi infilò la chiave nella toppa ed entrò.
144
CAPITOLO XXVIII
145
completamente dimenticata di lui. Appena entrato gli gettò le
braccia al collo e lo strinse a se con tutta la forza che aveva.
Era tremendamente felice di vederlo, la sua presenza la
rinfrancava e la colmava di gioia. Lo prese da parte e gli
raccontò tutto quanto era successo in quella giornata. Lui la
ascoltò in silenzio annuendo e sgranando gli occhi.
Quando Isobel ebbe finito il suo concitato racconto Hani la
prese per mano, la fece alzare e le disse:
“Seguimi, ho qualcosa da mostrarti” aprì la porta e uscì.
Percorse la loggia e si fermò innanzi a una porta, la socchiuse e
fece cenno alla ragazza di avvicinarsi e di guardare all’interno.
Isobel rimase a bocca aperta: all’interno vi era una stanza
immensa, illuminata da quattro enormi candelabri che
pendevano dal soffitto; le pareti erano costituite da un’immensa
serie di scaffali intarsiati di legno scuro stracolmi di libri
ordinatamente riposti. Era una vista imponente e stupefacente:
scale di legno e ponteggi anch’essi finemente intarsiati
permettevano di raggiungere i libri posti in alto; una serie di
soppalchi in legno costituivano una specie di labirinto sospeso
che collegava i vari scaffali. Il soffitto della immensa sala era
alto almeno dodici metri e da esso pendevano i due lampadari
che brillavano di candele accese. L’imponente visione fece
restare Isobel a bocca aperta.
“Guarda” gli disse Hani “Guarda laggiù!” e indicò il fondo del
salone dove, dietro una serie interminabile di leggii e scrittoi in
legno si vedevano due enormi statue di un marmo cangiante,
raffiguranti una donna che porgeva una mela ad un uomo e, sul
lato opposto, un’albero dal tronco nodoso e forte che
nascondeva tra le sue fronde un serpente. Isobel rimase
interdetta: non era difficile dare un senso a quella
raffigurazione: l’albero della conoscenza del bene e del male
del giardino dell’Eden e Eva che seduce Adamo porgendogli il
frutto dell’albero proibito. Era una storia che l’aveva sempre
146
incuriosita, ma sulla quale non si era mai soffermata a
riflettere. Fece per entrare nell’immensa biblioteca quando vide
dal fondo del salone un’ombra avanzare a piccoli ma veloci
passi verso di loro. Isobel indietreggiò, ma quando l’ombra fu
vicina alle luci delle candele scorse il dolce profilo del viso di
Rumi e la tensione si sciolse in un sorriso. Rumi fece un
inchino e disse:
“Non è consentito l’ingresso alla Sala del Silenzio durante le
ore notturne se non al consiglio e alla Custode del Silenzio, la
cui carica mi onoro di ricoprire.”
“Custode del Silenzio?” chiese Isobel “Cosa significa?”
“E’ colui o colei che custodisce e disciplina gli ingressi in
questo luogo, la restituzione dei testi consultati, la
catalogazione di quelli acquisiti.”
“E’ un posto stupendo” sussurrò Isolbel.
“Sì, lo è!” annuì timidamente Rumi “Questo è il vanto e
l’orgoglio di questo luogo, il motivo per cui tante persone
decidono di intraprendere il viaggio per questo monastero da
ogni parte del mondo ed è il motivo per cui questo posto deve
rimanere il più possibile segreto: questo è “L’Orizzonte del
Mondo” il luogo ultimo del sapere, il fulcro del prestigio e
della sacralità di questo monastero. In esso potete trovare
qualsiasi libro che sia stato scritto e che la storia o la leggenda
ricordi… è la biblioteca di Babele, la biblioteca di Alessandria,
fonte di eterno sapere. Chi ha il privilegio di accedervi ha la
possibilità di immergersi in un mondo senza tempo, in cui
studiare e ricostruire storie dalle fonti originali e autentiche.
Qui vi è la summa del sapere del mondo. E’ un luogo sacro,
coltivato e custodito nei secoli, ma come tutti i luoghi sacri può
essere pericoloso. Il sapere da solo può essere ingannevole se
non è accompagnato dalla Consapevolezza e dalla Conoscenza
che prescinde dalle fallaci deduzioni umane ma che deriva
dall’esperienza diretta del divino.” Gli occhi di Rumi
147
brillavano mentre pronuciava queste parole, e un’espressione
severa e allo stesso tempo serena le attraversò il dolce viso.
Isobel guardò Hani.
“Anche mia nonna aveva accesso a questo luogo?” chiese Issi.
Rumi si guardò intorno, poi con un gesto affrettato fece loro
cenno di entrare, si avviò con passo deciso tra i banchi e dopo
aver girato a destra alla fne di essi si fermò davanti a una porta,
estrasse da una tasca una chiave, la inserì nella toppa, la girò e
spinse con la spalla. I cardini cigolarono e la porta lentamente
si aprì. All’interno, nella penombra creata da una finstra che
permetteva alla luna piena di far filtrare la sua luce, Isobel vide
una serie di scrivanie sulle quali erano posti alcuni schermi di
computer. Hani ne fu sbalordito:
”Com’è possibile? In questo luogo dei computer? E come
vengono alimentati?”
Rumi sorrise: evidentemente si aspettava lo stupore dei sue
giovani.
“In questo luogo vengono catalogati tutti i libri presenti e
vengono effettuate le ricerche con i più avanzati strumenti
informatici. E’ indispensabile il loro utilizzo data l’enorme
mole di libri presenti. L’energia necessaria al loro
funzionamento è fornita da una grande dinamo alimentata dalla
forza delle acque della cascata”
“Una centrale idroelettricaelettrica?” chiese Isobel stupefatta.
“Una specie, molto ridotta ma che ci consente di avere energia
sufficiente per alimentare i computer necessari al lavoro di
catalogazione ed indagine” disse Rumi avviandosi verso una
scrivania.
“Ecco, questa era la scrivania di tua nonna Isobel; seduta qui ha
passato anni e anni; è ancora come lei l’ha lasciata.”
Isobel e Hani si avvicinarono alla scrivania. Ai lati dello
schermo vi erano diverse pile di libri, alcuni molto antichi, altri
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modernamente rilegati. La polvere ricopriva la tastierea e parte
del monitor.
“Possiamo restare?” chiese Isobel “Vorrei poter dare
un’occhiata al lavoro che stava svolgendo mia nonna. A
proposito Rumi, tu ne sai nulla?”
Lo sguardo di Rumi si fece per un istante severo:
“A nessuno è dato conoscere i motivi degli studi di chi
frequenta questo posto, ma credo che negli ultimi anni Tina si
si a dedicata alla ricerca di un libro e alla soluzione dei suoi
misteri.”
“Stai parlando del Mistero delle Esuli vero? Dimmi, cosa sai di
quel libro? E di quali misteri parli?”
Rumi aggrottò le ciglia:
“A queste domande solo il consiglio può rispondere. Potete
restare ma non potete portare nulla fuori da questi luoghi senza
la mia autorizzazione. Tra un‘ora tornerò e a quell’ora dovrete
fare ritorno nelle vostre stanze. Non è consentita la vostra
presenza qui.” E così dicendo si voltò e uscì dalla stanza. Issi
attese qualche secondo poi, dopo un fugace sguardo d’intesa
con Hani si sedette alla scrivania e iniziò a esaminare i libri;
anche in questo caso rappresentavano un’accozzaglia di vari
autori, generi, epoche, argomenti: Il mulino di Amleto, Essere
e Tempo di Heidegger, una biografia di Salvator Dalì,
riproduzioni di quadri di Leonardo, una biografia di Johan
Sebastian Bach, un saggio sulla schizofrenia di Jung, un libro
di fisica quantistica, uno di fisica relativistica, le Upanishad,
un trattato di psicanalisi, un libro sulle estasi mistiche di Santa
Teresa d’Avila, la Divina Commedia di Dante. La solità
varietà di argomenti, di autori, di temi. Mancava una chiave di
lettura, qualcosa che legasse tali tematiche così disparate, un
argomento, un fatto, una vicenda che rendesse chiaro l’ordine
interno che tale varietà di argomenti doveva avere. Isobel si
girò verso Hani:
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“Che cosa cercava la nonna, Hani? Che cosa c’entra Heidegger
con Teresa d’Avila, Bach con Jung? Ci capisci qualcosa tu?”
gli chiese speranzosa. Hani scosse la testa. Prese in mano un
libro e incominciò a sfogliarlo. D’un tratto posò il libro.
”A meno che…” disse accendendo il computer “...a meno che
non riusciamo a trovare qualcosa qui..”.
Prese la tastiera e si mise con la sedia di fronte allo schermo.
Isobel odiava i computer, li aveva sempre trovati degli inutili
strumenti che faceva fatica ad usare, anche se al lavoro era
obbligata a farlo. Hani invece la pensava diversamente.
“Cosa fai?” chiese Isobel incuriosita.
“Cerco di capire cosa stesse facendo tua nonna. Ecco vedi,
questo è l’archivio dei documenti e dei libri consultati da tua
nonna, aspetta che lo stampiamo. Questo invece è l’elenco
delle ricerche su internet effettuate da questo terminale
nell’ultimo anno. Presto, vai a prendere le stampe, ho visto la
stampante proprio a fianco della porta. Fa in fretta, prima che
torni Rumi….”
Isobel gli sorrise e si diresse verso la porta.
“Aspetta un attimo” disse Hani concitatamente ”vieni qui,
guarda cosa ho trovato!”
Isobel si accostò ad Hani. Dalle pagine di un libro uscivano
diversi fogli in parte scritti al computer, in parte scritti a mano.
“Che hai trovato?” chiese Isobel
“Guarda qui” rispose Hani “Guarda il titolo” gli disse
indicando il primo foglio.
Isobel si avvicinò: sulla sommità della pagina con la chiara
calligrafia della nonna c’era il suo nome: Issi.
“Prendiamolo presto” disse Isobel piegando i fogli e infilandoli
sotto la camicietta mentre si avviava verso la stampante.
Isobel prese i fogli dalla stampante e li mise anch’essi sotto la
camicia.
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“Spegni ora, sta arrivando” sussurrò Isobel con veemenza.
Hani ubbidì a malincuore. Fece appena in tempo a spegnere
che Rumi spalancò la porta e si avvicinò a grandi passi alla
scrivania.
“E’ tardi, dovete andare, vi ho fatto stare anche troppo in
questo luogo” lo sguardo di Rumi corse da Isobel a Hani
“Potrete farvi di nuovo accesso domattina. Ora è meglio che
rientriate nelle vostre stanze”.
“Va bene” rispose Isobel. “Posso prendere questo libro?“ le
chiese indicando il primo che ebbe sotto gli occhi.
“Non ora” rispose Rumi “domattina avrai, come previsto dal
Consiglio, libero accesso a questi luoghi e potrai esaminare
tutti i libri che vorrai”
“Perfetto” disse Isobel mentre Rumi li accompagnava all’uscita
“allora a domani.”
Ripercorse i corridoi a ritroso fino alla sua stanza, salutò Hani,
chiuse la porta a chiave dietro di se, accese la candela e estrasse
da sotto la maglietta i fogli che avevano stampato e quelli che
aveva recuperato in mezzo al libro, li mise sul tavolo e
incominciò a leggere. Pian piano un sorriso si dipinse sul suo
viso mentre il filo dei pensieri della nonna si stava lentamente
riannodando innanzi a lei.
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CAPITOLO XXIX
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“Non è possibile ingannarsi su questo punto” si disse battendo
il piede sulla sabbia e sollevandone una piccola nube “sarebbe
come affermare che l’esistenza o la non esistenza dello scorrere
oggettivo del tempo dipende dal modo particolare in cui la
materia e il suo moto sono disposti nel mondo e questo è
logicamente inaccettabile!”
Si fermò. Si accorse che stava ansimando. Gli capitava spesso
quando seguiva i suoi pensieri al di là del confine del
conosciuto e del conoscibile. Sentiva lo sforzo, la resistenza di
quella che normalmente chiamiamo realtà, che gli suggeriva di
errori, di esagerazioni; sentì i ricordi di una vita affollargli la
mente per ricordagli il suo passato, per fermare il pensiero alle
evidenze empiriche. Mise la mano nel taschino del gilet ed
estrasse l’orologio che il padre gli aveva regalato per il suo
quindicesimo compleanno. Il tempo, il ricordo, il passato. Lo
guardò, poi lo lanciò con tutte le sue forze nel mare. Disegnò
brillando l’arco di una cometa nel cielo. L’araba fenice del
tempo si inabisso nei flutti. Si sentì libero ma terrorizzato:
innanzi a se il passato e il futuro si dispiegarono in un istante…
sentì il bip bip di uno strano congegno meccanico... Tubi...
Letto bianco... Capì e ne fu sollevato; sapeva di non poter
morire, se il tempo non esiste tutto è eterno. Non aveva altra
scelta, doveva scomparire, divenire trasparente. Sapeva come,
sempre meno energia e la velocità sarebbe diminuita e lui
avrebbe potuto scendere da quel carrozzone infernale. Sorrise,
raccolse un pugno di sabbia e se la fece scivolare tra le dita.
Era di nuovo sereno.
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CAPITOLO XXX
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parete abbattendo il muro. Si affacciò dallo squarcio provocato
dalla sfera. Da lì partiva un sentiero che, attraverso un bosco,
portava verso una catena di monti innevati. Vi si incamminò,
l’aria frizzante che gli accarezzava il volto; un nugolo di
farfalle multicolori si levò al suo passaggio lasciandolo senza
fiato per lo stupore e l’emozione. Intorno a lui correvano fauni,
unicorni e altri esseri mitologici. In cielo vide un’aquila con,
avvinghiata tra gli artigli, una serpe. Una volta inoltratosi nel
bosco una sensazione di panico lo avvolse; spaventato si mise a
correre mentre sentiva occhi crudeli puntati su di lui. Uscì
ansimando dal bosco e si ritrovò su di una radura che
circondava un lago nelle cui acque si tuffava, da un costone di
roccia, una cascata, incorniciata da uno spettacolare
arcobaleno. Ai lati della cascata erano poste due porte: su di
una vi era la scritta TEMPO, sull’altra la scritta SPAZIO. Carl
Gustav esitò quando vide innanzi a se un bambino e una
bambina che, nudi e mano nella mano, correvano nell’acqua
lasciando dietro di loro spruzzi e gioiose risate. Correndo si
infilarono sotto la cascata e scomparvero. Carl trasse un
sospiro, si spogliò e, nudo, corse anch’egli sotto la cascata.
L’oscurità lo avvolse e lo cullò. Si voltò e vide dietro di se la
terra, come la si vedrebbe da distanze siderali, che ruotava in
maniera vorticosa su se stessa e attorno al sole. L’orizzonte
degli eventi. Il tempo racchiuso in un istante. Un senso di pace
lo avvolse. Aveva terminato il suo viaggio nel tempo. La realtà
ultima era innanzi a lui.
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CAPITOLO XXXI
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Il significato della relatività (Albert Einstein)
Teoria dei Quanti di luce (Albert Einstein)
Psiche e natura (Wolfgang Pauli)
Gravità e spazio-tempo (John Wheeler)
L’io diviso (R. D. Laing)
Il tempo esiste?
Credo che sia una di quelle domande che l’uomo si porta con se
da quando ha iniziato a interessarsi a ciò che gli accade intorno.
Alla domanda di cui sopra viene da rispondere istintivamente di
sì, visto che noi abbiamo la consapevolezza dello scorrere
immutabile degli eventi e delle nostre azioni. Ma, innanzitutto,
occorre dire che in questo scorrere immutabile noi vi siamo
immersi, o ci sentiamo immersi, e per poter giudicare una cosa in
maniera oggettiva occorrerebbe uscire da questo fluire del tempo
e degli eventi e osservarli in maniera distaccata: in altre parole per
giudicare il tempo occorrerebbe essere fuori da esso. E poi:
siamo sicuri che il tempo fluisca. Siamo abituati a ragionare il
tempo e nel tempo e a suddividerlo in passato, presente e futuro;
ma sin da queste “banali” suddivisioni abbiamo subito a che fare
162
con dei problemi: abbiamo la prova della realtà del concetto di
tempo? Il passato non può definirsi reale, al più un ricordo, il
presente nel momento stesso in cui noi lo viviamo, o lo
pensiamo è già passato e il futuro è un ininterrotta rincorsa verso
un punto che si allontana progressivamente da noi man mano
che cerchiamo di afferrarlo. Da questa piccola analisi dei concetti
di passato, presente e futuro derivano delle oggettive difficoltà
nel definire e delineare il concetto di tempo. Eppure sulla base
di un concetto così astratto e sfuggente l’uomo occidentale ha
eretto buona parte della sua struttura sociale, conformando e
plasmando su di esso i suoi ritmi di vita fino a trovarsi schiavo di
una sua creatura: da questo punto di vista ciò che molti scrittori
di fantascienza hanno paventato per il futuro (e cioè il dominio
delle macchine sull’uomo) si è già verificato in maniera più
silente e perniciosa. L’uomo è ormai schiavo del tempo. Lo
rincorre, lo desidera, lo prega, lo bestemmia ma le sue regole gli
sono ormai sfuggite di mano: il tempo doveva servire a dare
ordine alle cose, a dare un riferimento comune agli istanti di vita,
a globalizzare quel senso di impermanenza e precarietà che tutti
sentiamo su questa terra, ma lo strumento si è ribellato e si è
fatto fine: da quando il tempo è denaro la velocità è diventata la
sua compagna indispensabile: viviamo in un continuo anticipo,
cercando di rubare istanti all’eternità, istanti al momento della
morte. Rinneghiamo o rimpiangiamo il passato, temiamo il
futuro e anticipiamo il presente. Questo è il nostro delirante stile
di vita che, a prima vista, potrebbe sembrare a-temporale, ma che
in realtà ha eletto il tempo a suo solo, unico, vero e indiscusso
dio. Morto il Dio trascendente l’uomo occidentale si è votato
anima e corpo al Dio-Tempo, sacrificando ad esso la pace
interiore, la lentezza, gli affetti. Ritagli di tempo, come se il
tempo esistesse e si potesse ritagliare. Dal momento in cui ci
alziamo da letto al momento in cui ci corichiamo l’inseguimento
comincia: esiste un orario per tutto, un ritardo per tutto, un
tempo per tutto, tranne che per noi stessi. Ogni cosa è funzione
del tempo, ogni nostro atto, gesto quotidiano. Persino le nostre
paure hanno senso solo se calate in un contesto temporale: non
esistono paure senza tempo. Se ogni istante fosse eterno non vi
163
sarebbe l’ansia di cose che non sono e che non sarebbero per
l’eternità: sarebbe vivere l’istante eterno, il qui e ora immobile,
immutabile e perfetto perché senza termine. La morte fa paura
nel tempo, o meglio fa paura anche perché non ha una
collocazione temporale precisa, il trascorrere del tempo in se fa
paura.
Guardiamo gli animali: hanno paura della morte? Sanno cos’è la
morte? Sanno cos’è il domani? O è il loro istinto che rende
natura essere preda, scappare dal predatore, allattare i cuccioli?
Astratte dal tempo le paure hanno senso solo nel momento in
cui sono inevitabili, non esiste l’ansia anticipatoria, il pensiero
della paura. Esso è legato al futuro e al passato.
E se il tempo non esistesse? Se ci fossimo resi schiavi di una
sovrastruttura che si sta rivelando dannosa e straniante, che ci
distoglie dal nostro vero essere, che ci dona più dolori che gioie?
Può la nostra mente funzionare senza il concetto di tempo? E se
sì, come sarebbe la nostra vita?
Questa estrema saggezza (o estrema follia) era già nota in tempi
remoti, quelli della Grecia dell’età classica. La non esistenza del
tempo era forse il segreto che gli iniziati ai misteri di Eleusi
apprendevano, che rendeva loro più dolce il vivere e il morire?
Leggiamo cosa sosteneva Cicerone iniziato anch’egli a tali
misteri: “Abbiamo conosciuto gli inizia, i veri principi della vita e
abbiamo ricevuto non solo una ragione per vivere lietamente, ma
anche un motivo per morire con una migliore speranza.”
Ma cosa muore di noi se muore il concetto di tempo, se il tempo
finisce? Muore il nostro io, perché esso esiste solo in relazione al
nostro vederci immersi nel tempo. Io posso dire “Io sono” solo
se intendo un luogo e un tempo. L’essere assoluto non ci
appartiene, o ci siamo dimenticati di esso. Tutto ciò pare una
follia, il solo pensare alla non esistenza del tempo pare assurdo,
ma tale assurdità percorre in maniera trasversale tanti settori della
nostra realtà: il concetto di tempo è da sempre studiato in Fisica,
in Filosofia, in Psicologia, in Etologia e nelle arti. In esse si
possono trovare (basta saperli cercare e analizzare) esperienze e
studi che contraddicono il nostro concetto di tempo e di realtà.
164
Proviamo ad immergerci in questa follia sperando di uscirne più
sani e consapevoli di ora.
165
a rivedere drasticamente la nostra concezione di realtà. Ciò che è
reale per i nostri sensi e per la nostra esperienza viene spesso
contraddetto dalle analisi scientifiche. Del resto di esempi se ne
possono fare diversi: sappiamo ad esempio che la terra gira
intorno al sole, anche se la nostra esperienza quotidiana ci
comunica l’esatto contrario: è il sole che sorge e tramonta e noi
sembriamo fermi e immobili come il pianeta che ci ospita mentre
il sole si sposta nel cielo. O ancora, sappiamo che la terra è
rotonda e non piatta anche se la nostra percezione del suolo
dove poggiamo costantemente i piedi ci dice il contrario. Ebbene
la fisica moderna ha rovesciato e messo in discussione numerose
percezioni comuni della realtà che ci circonda, dandone
spiegazioni e dimostrazioni sorprendenti e radicalmente difformi
dal nostro vissuto quotidiano. Da questo punto di vista l’atto
fondante della fisica moderna, la teoria della relatività, ne è il
paradigma.
La teoria della relatività di Albert Einstein ha infatti spazzato via
il concetto di tempo come assoluto, rendendo il tempo relativo al
sistema di riferimento in cui lo si analizza. Senza addentrarsi nei
meandri della teoria della relatività all’aumentare della velocità il
tempo rallenta rispetto a un sistema di riferimento dato. Ovvero
se io viaggio a 100.000 KM all’ora e voi mi seguite a 5 KM all’ora
e entrambi ci fermiamo dopo che per voi è trascorsa un’ora, per
me saranno trascorsi soltanto 59,99999999999999999999999999
minuti (non ho fatto calcoli e ho usato unità di misura insensate
per poter apprezzare la variazione, ma volevo solo fare capire il
concetto). Naturalmente più io mi avvicino alla velocità della luce
(che la teoria della relatività indica come la massima velocità
teorica raggiungibile) più il “mio tempo” da voi misurato rallenta
rispetto “al vostro” che continuate a muovervi a 5 km all’ora. Ma
io non mi accorgerei di nulla perché il mio tempo proprio, quello
da me misurato, rimarrebbe invariato: per me l’orologio non
risulterebbe rallentato.
Secondo la teoria della relatività quindi all’aumentare della
velocità il tempo si dilata e lo spazio si contrae. Ma come si è
giunti a questo risultato che va oltre le nostre quotidiane
esperienze? Questo assunto deriva da una caratteristica peculiare
166
(verificata sperimentalmente) della luce ovvero il fatto che essa
ha una velocità di 300.000 chilometri al secondo a prescindere
dal sistema di riferimento in cui noi la osserviamo.
Noi siamo abituati nella realtà di tutti i giorni a valutare la
velocità nel seguente modo: se noi siamo su una automobile che
viaggia a 100 chilometri all’ora e veniamo superati da una
automobile che viaggia a 150 chilometri all’ora vedremo
l’automobile che ci sorpassa allontanarsi da noi a 50 chilometri
all’ora, ovvero la sua velocità rispetto a noi che siamo in moto è
di 50 chilometri all’ora. Allo stesso modo se noi siamo su di un
auto che viaggia a 100 chilometri all’ora e sulla corsia opposta
transita un’auto che viaggia a 50 chilometri all’ora noi la vediamo
approssimarsi a noi alla velocità di 150 chilometri all’ora. Noi
siamo abituati a sommare e sottrarre le velocità per determinarne
il reale ammontare rispetto a un sistema in movimento. Ebbene
la luce ha una caratteristica unica e stupefacente: pur avendo
come velocità nel vuoto 300.000 chilometri al secondo, qualsiasi
sia la velocità del sistema in cui ci troviamo noi la vedremo
sempre allontanarsi o avvicinarsi a noi a 300.000 chilometri al
secondo. Per tornare all’esempio dell’automobile che viaggia a
100 chilometri all’ora essa osserverà la luce che la supera sempre
e comunque alla velocità di 300.000 chilometri al secondo.
Questo accade a prescindere dalla velocità del sistema di
riferimento in cui l’osservatore si trova. Per assurdo
un’osservatore che viaggia a 290.000 chilometri al secondo vedrà
la luce superarlo e allontanarsi da lui sempre a 300.000 chilometri
al secondo e non a 10.000 chilometri al secondo.
Ma se la velocità della luce è costante rispetto a qualsiasi sistema
di riferimento in movimento questo può significare solo che, per
rispettare il fatto che la velocità è data dal rapporto tra lo spazio
percorso e il tempo impiegato a percorrerlo, in un sistema di
riferimento in movimento (inerziale) affinché io possa
continuare a vedere la luce allontanarsi a 300.000 chilometri al
secondo a prescindere dalla velocità del sistema occorre che per
esso lo spazio si contragga e il tempo si dilati. La dilatazione del
tempo e la contrazione dello spazio sono state verificate
sperimentalmente. Ma Einstein non si è fermato qui. Nella teoria
167
della relatività generale ha introdotto un’ulteriore elemento: la
gravità.
Nell'Universo di Einstein spazio e tempo costituiscono un
continuo quadridimensionale influenzato dalla presenza della
materia. Tale influenza della materia (o meglio della sua massa)
sul tempo agisce causando una curvatura alle linee di tempo. Più
la massa aumenta più le linee di tempo si incurvano. Questo
significa che, a differenza di quanto siamo portati a percepire,
non esiste un istante assoluto di tempo comune a tutti i sistemi, a
tutti i luoghi. Questo adesso non è il medesimo qui e su una
astronave in viaggio alla velocità della luce. Ma non basta: gli
effetti di velocità prossime a quelle della luce si hanno non solo
sul tempo: più la velocità si approssima a quella della luce più la
massa di quel corpo tende all’infinito e il suo spazio si contrae;
questo perché lo spazio e il tempo non sono più grandezze
distinte ma intimamente correlate.
La fisica ha anche spazzato via il concetto, per la nostra
percezione quotidiana assolutamente incontrovertibile, di
unidirezionalità della freccia del tempo. Per la nostra esperienza il
tempo ha una direzione, parte dal passato e si dirige verso il
futuro. Per la fisica esistono processi fisici che sono indifferenti
alla direzione del tempo.
Per dirla con Einstein: “Per noi che crediamo nella fisica la
differenza tra presente, passato e futuro è solo un’illusione”.
La freccia del tempo infatti è un concetto che deve essere
introdotto perché quasi tutti i processi fisici sono simmetrici
rispetto al tempo, vale a dire che le equazioni usate per
descriverli hanno la stessa forma se la direzione del tempo è
invertita, anche se quando descriviamo i fenomeni a livello
macroscopico, c'è, o meglio sembra esserci, una direzione del
tempo.
168
Fisica: aveva sempre odiato quella materia; formule, grafici,
numeri. Aveva sempre sentito quella disciplina come astratta,
lontana, senza alcun aggancio alla realtà.. Quelle poche righe
che aveva appena letto però le avevano fatto nascere dubbi e
curiosità. La incuriosiva soprattutto il discorso sulla relatività
del concetto di tempo. Ricordava di aver letto qualcosa a
proposito, un racconto su due gemelli, uno dei quali partiva per
un viaggio nello spazio su di una astronave che viaggia quasi
alla velocità della luce e dopo un certo numero di anni torna
sulla terra e si ritrova più giovane del gemello rimasto sul
nostro pianeta. Era un racconto che l’aveva sempre incuriosita
perché, implicitamente, indicava la possibilità, seppur remota,
di viaggiare nel tempo, o almeno questo era ciò che a lei
sembrava. Tra l’altro quel discorso sulla freccia del tempo
pareva corroborare la sua sensazione rispetto al racconto dei
gemelli. Si era sempre ripromessa che avrebbe approfondito la
questione un giorno. Sembrava che il momento potesse essere
arrivato anche se mai avrebbe immaginato di farlo in quella
situazione e, cosa per lei incredibile, sulla base di uno scritto
della nonna del cui interesse per la fisica era assolutamente
all’oscuro. Impaziente di proseguire riprese a leggere da dove
si era interrotta.
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Tutti i fisici si sono affannati a dimostrare ed asserrire che il tipo
di universo ipotizzato da Gödel, coerente con le equazioni di
Einstein, non era minimamente compatibile con le caratteristiche
dell’universo in cui noi ci troviamo, escludendo in tal modo la
possibilità di viaggiare nel tempo.
Se ciò è pur vero e mantenendo come veritiere e fondate le
equazioni di Einstein, i fisici che si sono affrettati a smentire
Gödel si sono però dimenticati di un particolare fondamentale:
se le equazioni di Einstein sono corrette (come pare) e se le
ipotesi di Gödel sono matematicamente ad esse coerenti (e lo
sono) può esistere in potenza una configurazione di universo che
renderebbe possibile andare a ritroso nel tempo o visitare il
futuro. Ma l’implicazione logica, immediata e devastante quanto
dispersa e sottovalutata è che allora il tempo non esiste perché se
io posso visitare il passato vuol dire che esso non è in realtà MAI
passato e questo è in contraddizione con il concetto stesso di
tempo: quindi almeno in quel tipo di universo il tempo (almeno
così come noi lo concepiamo) non esiste. Ma se il tempo non
esiste in un universo compatibile con le leggi che governano il
nostro, logicamente non esiste e non può esistere il tempo
neanche nel nostro universo. E’ quindi irrilevante sostenere che
l’universo di Gödel ruota invece di espandersi come il nostro. I
casi sono due: o le equazioni di Einstein sono errate o il tempo
non esiste. Negare questo ragionamento, sostenne Gödel,
equivarrebbe ad affermare “che l’esistenza o la non esistenza
dello scorrere oggettivo del tempo (cioè il fatto che esiste un
tempo nel senso comune della parola) dipende dal modo
particolare in cui la materia e il suo moto sono disposti nel
mondo”.
170
la bontà dei calcoli e delle equazioni (su questo si sarebbe
dovuta fidare) ma, per quanto riguardava il ragionamento che
ne derivava le appariva logicamente corretto e ineccepibile. “Se
i calcoli di costui sono corretti il nostro concetto di tempo può
essere una approssimazione semplicistica del concetto reale del
tempo”. Si stupì del pensiero che aveva appena formulato. Del
resto effettivamente alcune nostre percezioni, come aveva
scritto la nonna, potevano essere fuorvianti. In quel momento
le affiorò nella mente l’immagine della farfalla. Anche per il
bruco, si sorprese a pensare, la sua trasformazione in farfalla
può essere percepita come morte, come fine della vita di bruco
(e in parte lo è) e forse allo stesso modo la farfalla non ha
coscienza del suo essere stato bruco. Forse allo stesso modo il
tempo, il prima e il dopo sono solo un modo che la nostra
mente ha di ordinare gli accadimenti, forse il bruco è anche
farfalla e la farfalla è bruco contemporaneamente. Sciocchezze,
si disse. Eppure l’immagine della farfalla le rimase nella
mente. Il tempo circolare… Questo sembravano indicare quelle
“curve chiuse di tempo”. Effettivamente, pensò, la natura è
ciclica: il sole sorge e tramonta ciclicamente, le stagioni calde e
fredde si susseguono immutabilmente, tutto in natura ci parla di
cerchio, la nostra stessa vita potrebbe essere rappresentata da
un cerchio di cui noi conosciamo solo la parte illuminata ma
forse, come il sole quando tramonta non muore, semplicemente
sparisce dalla nostra vista, così anche il nostro tramonto, il
nostro morire può essere visto come una parte nascosta di un
cerchio di cui noi possiamo coscientemente percepire la parte
illuminata, quella che va dal nostro sorgere al nostro sparire.
Forse il tempo, il nostro tempo può essere circolare. Mentre
così pensava aveva disegnato su di un foglio un cerchio diviso
a metà da una linea, poi colorò la metà sottostante di nero.
Ecco, noi nasciamo e moriamo nella parte bianca, ma forse
171
dalla morte si ritorna attraverso un viaggio nella parte che ci è
preclusa ai sensi di nuovo all’inizio.
172
CAPITOLO XXXII
173
quella che stava osservando in quel momento che, correndo
oltrepassò il cedro dirigendosi verso il boschetto di betulle
poco distante. Stava per mettersi all’inseguimento di quella
ragazza quando, voltandosi nuovamente verso la ragazza ferma
dinnanzi al cedro del libano la vide estrarre dalla tasca una
corda, arrampicarsi sul vicino cedro del libano, avvolgerla a un
ramo e infilarsi il cappio al collo. Con un urlo balzò fuori dal
cespuglio e corse verso l’albero gridando:”Fermati!!! Ti prego
fermati!!” L’urlo le si smorzò in gola quando vide la ragazza
spiccare un salto dal ramo e udì il rumore sordo dello strattone
della corda. Isobel corse verso la bambina, cercando di
sorreggerla, ma era pesante, troppo pesante: “No!!” gridava
“Nooo!!” con tutto il fiato che aveva nei polmoni, poi esausta
cadde a terra. Passarono pochi secondi che a Isobel parvero
ore; alla fine si rialzò e volse il suo sguardo verso l’albero: il
corpo immobile della ragazza ondeggiava leggermente, le
braccia tese lungo gli esili fianchi, i capelli lunghi a
nascondergli il viso. Si avvicinò lentamente e, tremando e
singhiozzando e le scostò i capelli per vederne il viso. Con un
urlo cadde a terra. Era lei, quella ragazza era lei. Non era il
vestito che era uguale, quella era proprio lei. Una specie di
sorriso beffardo illuminava il viso che stava fissando, il suo
viso. Era morta.
Si alzò di scatto e iniziò a correre, gli occhi annebbiati dalle
lacrime: d’un tratto sentì un urlo, poi un altro seguito da
un’invocazione di aiuto. Corse nella direzione da dove
sembravano provenire le grida e vide la ragazza che prima era
corsa via da davanti al cedro, era sicura che si trattasse di lei,
che cercava di divincolarsi dalle braccia di un uomo che,
strattonandola, la trascinava via. Sconvolta e atterrita invocò
aiuto con quanto fiato aveva in gola ma il cuore le si fermò
quando sentì una mano afferrarle una spalla e scuoterla
violentemente...
174
“Isobel, Isobel svegliati”. Era la voce di Hani. Pian piano
Isobel si destò dal torpore del sonno e vide, con lo sguardo
velato dalle lacrime, Hani che con un dolce sorriso sul volto le
accarezzava i capelli cercando di tranquillizzarla.
“Stavo venendo a svegliarti” le disse il ragazzo asciugandole le
lacrime “quando ho sentito che urlavi, ho provato a bussare ma
non ti svegliavi, allora ho chiesto a Rumi, che passava di lì, se
aveva modo di aprire la porta, lei ha estratto una chiave da una
tasca e ha aperto.”
Isobel lo abbracciò, cercando di scacciare le sensazioni che
quel sogno le aveva incollato addosso e, mentre stringeva forte
a se il ragazzo, come un lampo di luce che squarcia le tenebre i
ricordi si fecero chiari. Ora ricordava ogni cosa: quella mattina,
il giorno dei funerali dei suoi genitori aveva deciso di
uccidersi. Ricordava perfettamente come aveva organizzato
tutto fin nei minimi particolari: la corda, la richiesta alla nonna
di fermarsi al parco, il cedro del libano che sin da piccola
amava scalare e sul quale aveva deciso di impiccarsi. Tutto era
pronto, era decisa, assolutamente determinata a raggiungere i
suoi genitori. Non vedeva altre soluzioni, non vi era che quella
via d’uscita. Nulla poteva fermarla. Poi, appena scesa dall’auto,
dopo aver pregato la nonna di attenderla a bordo si era
incamminata verso il boschetto attraversando un prato verde
pieno di margherite in fiore. Mentre si avvicinava con passo
deciso al boschetto due farfalle, una bianca e una nera con un
puntino azzurro sulle ali, le si erano messe a volare intorno al
viso, in maniera insistente e anche un po’ fastidiosa. Poi, quasi
d’incanto, una di esse, quella bianca, le si era posata sulla
spalla. Isobel si era fermata di colpo. La farfalla aveva chiuso
le ali e stava immobile. In quell’istante anche l’altra farfalla le
si posò sull’altra spalla e lì si era fermata. D’un tratto, in
maniera assurda e inconsapevole le balenarono in mente le
parole che, scherzando, le rivolgevano spesso mamma e papà
175
quando passeggiavano insieme: “Isobel” le dicevano
appoggiandosi l’uno su una spalla, l’altra sull’altra “tu sarai il
bastone della nostra vecchiaia. Senti che spalle robuste.
Mantieniti forte che un giorno ti serviranno per reggerci
davvero..”
Era una scena che si ripeteva spesso quando andava a
passeggio con mamma e papà e che si concludeva con risate,
scherzi e schiamazzi..
Isobel si era inginocchiata e aveva incominciato a singhiozzare
nascondendosi il viso tra le mani. Le due farfalle avevano
preso il volo e le si erano posate sulla mano; Isobel le aveva
chiuse delicatamente ed era tornata dalla nonna. La corda era
rimasta in mezzo al prato. I suoi propositi erano svaniti in un
lampo, spazzati via in un battito d’ali di farfalla.
Isobel era confusa. Cosa significava quel sogno? Quelle molte
lei che avevano sorti diverse, cosa rappresentavano? E chi era
quell’uomo che la stava trascinando via?
Raccontò ogni cosa ad Hani, a partire dalle sue letture e dalla
scoperta del legame che univa le ricerche della nonna. Hani la
ascoltò attentamente e, quando ebbe finito, abbracciandola le
disse: “Hai visto i bivi che hai attraversato in quel particolare
momento della tua vita e hai visto cosa sarebbe potuto accadere
se non ti fossi fermata ad osservare le farfalle, se avessi deciso
di non salire sul cedro ma di andare nel boschetto di betulle..
Erano futuri possibili, posti innanzi a te sotto forma di scelte.
Tu hai scelto e sei qui, ma forse una Issi è ancora in quel
boschetto, un’altra è sotto terra, un’altra è regina di un atollo
della Polinesia. E’ uno strano sogno, legato probabilmente alle
tue letture di ieri sera sul concetto di tempo.”
“Forse hai ragione” rispose Issi con un mezzo sorriso “ma la
sensazione è stata orribile!”
Hani la strinse forte a sé. “Andiamo” le disse “ Rumi ci aspetta
alla Sala del Silenzio. Si è raccomandata di non tardare.”
176
Isobel prese i fogli stampati la sera precedente, li piegò e se li
mise in tasca, poi trascrisse su di un foglio il titolo che aveva
sottolineato la sera prima, aprì la porta e, affiancata da Hani, si
recò alla Sala del Silenzio. La porta, che la sera precedente era
socchiusa, era in quel momento aperta e all’interno erano
presenti già diverse persone, Isobel ne contò una ventina, che
vagavano tra gli scaffali o sfogliavano libri ai banconi. Appena
entrati nella immensa sala Rumi, che stava consegnando un
libro a un vecchio frate con il saio francescano, fece loro un
cenno con la testa, si congedò dal religioso e li raggiunse.
“Che la pace illumini il suo giorno Isobel” le disse rivolgendole
un dolce sorriso “non le chiedo se ha passato una bella notte
perché ho sentito che ha fatto brutti sogni. Capita spesso alle
persone, soprattutto i primi giorni del loro soggiorno qui; con il
tempo a molti non accade più, ma ci sono persone che hanno
incubi per tutta la durata del loro soggiorno a Lendi Eleusi…”
Poi, guardandola diritta negli occhi “Ha sognato per caso una
farfalla blu con delle macchie bianche sulle ali?”
Isobel la guardò sconvolta annuendo timidamente “Come fai a
saperlo?”
“E’ un elemento tipico dei sogni di questo luogo. Studio questo
fenomeno da anni. A dire il vero è uno dei motivi per cui mi
trovo qui. Mi può raccontare il suo sogno?”
Isobel guardò Hani, che le sorrise, poi iniziò a raccontare il
sogno a Rumi senza tuttavia accennare alla lettura dello scritto
della nonna ma facendo un generico riferimento ad alcune
letture sul problema del tempo in fisica.
“Il tempo” disse alla fine Rumi “Ha chiaramente a che fare col
tempo, con la memoria, con i ricordi. Alcuni dei sogni nei quali
mi sono imbattuta in questo luogo avevano a che fare con il
concetto di tempo, e questo sembra proprio essere fra questi..”
“Ma hai idea del significato delle farfalle?” chiese Isobel
incuriosita.
177
“Non ancora, ma sono sicura che anch’esse hanno a che fare
con il concetto di tempo, sicuramente di trasformazione; in
realtà è ciò che esse simboleggiano nel rituale che hai visto al
consiglio in memoria di tua nonna, ma sono sicuro che non è
tutto qui; probabilmente anch’esse sono un archetipo, un
simbolo a cui i nostri inconsci attingono in particolari
situazioni. E’ una simbologia molto usata, oltre che nella
poesia, anche in alcuni trattati di filosofia orientale.”
Mentre stavano discutendo di questo, in piedi di fianco a un
enorme scaffale ricolmo di libri, un anziano signore si avvicinò
loro chiedendo se potevano farlo accedere alla mensola nella
quale doveva riporre un libro. Isobel si spostò con un gesto di
scuse..
“Professor Barbur, mi permetta di presentarle Isobel Morrison,
nipote di Tina Morrison “ disse Rumi inaspettatamente.
“Molto lieto” disse l’anziano professore in un perfetto accento
inglese “Ho saputo della triste notizia della scomparsa di sua
nonna. E’ stata una grande perdita. Sua nonna era una
splendida persona e una mente vivace e ricettiva. Ricorderò
sempre con gioia le nostre discussioni…”
Isobel lo guardò incuriosita.
“Il professore è un importante studioso di fisica. E’ stato a
contatto con i più grandi fisici del 900, da Einstein a Pauli, da
Feyman a Dyson e Wheeler….. “
“E’ passato, tutto passato…..forse” mormorò il vecchio
facendo cenno a Rumi di smettere..
“Professore” interruppe Isobel “lei è uno studioso di fisica?
Avei bisogno di chiederle alcuni chiarimenti, è possibile?”
“Certamente” rispose “qualunque cosa per la nipote di Tina
Morrison; mi segua, andiamo all’aperto, per certi argomenti è
opportuno avere aria fresca e un cielo limpido piuttosto che
quattro mura seppur austere e severe come queste.”
178
E così dicendo ripose il libro che teneva in mano sullo scaffale
e, con passo incerto si diresse verso l’uscita. Isobel lo seguì,
non prima di aver dato ad Hani il foglio con il titolo del libro
che voleva recuperare, raccomandandogli di cercarlo.
“Non ti preoccupare Issi, ci penso io.“ rispose Hani
inoltrandosi tra gli immensi scaffali.
179
180
CAPITOLO XXXIII
182
incominciasse a camminare i nostri “adesso” incomincerebbero
a divergere; sto ovviamente parlando di divergenze
infinitesimali, ma la teoria della relatività ristretta ci comunica
proprio questo: due osservatori che si muovono l’uno rispetto
all’altro hanno concezioni diverse di ciò che esiste in un
determinato momento e hanno pertanto concezioni diverse
della realtà. Ovviamente tale divergenza aumenta all’aumentare
della velocità del moto o all’aumentare della distanza nello
spazio tra i due. Due osservatori posti a grande distanza
(poniamo su pianeti diversi) entrambi fermi hanno la medesima
percezione dell’adesso che stanno vivendo (ovvero la loro lista
di eventi costituenti il loro “adesso” coinciderebbe). Ma se uno
dei due incominciasse a camminare la loro lista di eventi
incomincerà a divergere e tale discrepanza sarà tanto maggiore
quanto più grande sarà la distanza tra i due osservatori. Se,
poniamo, un osservatore si trova sulla Terra e l’altro su di un
pianeta a dieci miliardi di anni luce dalla Terra stessa basterà
una passeggiata alla velocità di sedici chilometri all’ora per far
sì che gli eventi che per lui si stanno svolgendo sulla terra si
sono in realtà svolti per chi è sulla terra 150 anni fa!”
“E….” Sussurrò Isobel sconcertata
“E, mi scusi concludo il ragionamento, se il nostro osservatore
passeggiando invece di allontanarsi da chi è rimasto sulla Terra
si avvicinasse il suo adesso coinciderebbe con eventi che per
chi è sulla Terra si verificheranno 150 anni nel futuro. Da ciò
ne deriva, e può sembrare assurdo ma non lo è, che se lo spazio
è infinito la realtà comprende tutti gli eventi dello spazio-
tempo, quelli che noi chiamiamo passati, quelli presenti e
quelli futuri. Ed è per questo che Einstein potè scrivere: Per noi
che crediamo nella fisica la differenza tra presente, passato e
futuro è solo un’illusione.”
Isobel era frastornata e affascinata. Quell’ultima frase poi le
aveva ricordato quanto aveva scritto la nonna.
183
“Ma lei mi sta dicendo che ogni momento passato e futuro è
già reale? Questo è assurdo: io prima ero nella biblioteca e ora
sono qui con lei…”
“Questo è ciò che interpreta il suo cervello. Glielo ripeto: dal
punto di vista della fisica ciò che lei giudica come passato fa
ugualmente parte della realtà quanto il momento della sua
morte. E’ il modo con cui la nostra mente interpreta la realtà a
rendere il tempo come un flusso ordinato e orientato di eventi.
Si immagini per un momento che tutto il tempo, tutti gli
adesso, quelli che per noi formano passato presente e futuro
siano le caselle di una immensa scacchiera. In una casella c’è
Giulio Cesare che attraversa il Rubicone, in un’altra Napoleone
a Sant’Elena, in un’altra Colombo che posa i piedi nelle
americhe, in un’altra il vincitore dei cento metri delle
Olimpiadi del 2150, in un’altra noi che stiamo parlando qui in
questo luogo: ogni possibile adesso passato, presente e futuro è
rappresentato da una casella di questa immensa scacchiera. Ora
immagini che la nostra mente sia un raggio di luce che illumina
uno di questi adesso: quello è ciò che lei chiama presente e in
esso lei riconosce una sequenzialità di eventi che la hanno
condotto a quella casella; in altre parole lei è in grado di
ricordare le caselle che la sua mente ha illuminato in
precedenza. Ma è possibile, almeno in teoria illuminare una
qualsiasi di queste caselle, quella con Giulio Cesare come
quella con le olimpiadi del 2150. Quindi il tempo come noi lo
percepiamo potrebbe essere, in ultima analisi, una parte del
tempo assoluto che il nostro cervello non riesce ad assimilare e
a gestire: questo spiegherebbe come soggetti in stati alterati di
coscienza indotti attraverso la meditazione, l’estasi mistica,
l’assunzione di sostanze psicotrope e l’ipnosi regressiva ci
parlino di un concetto e di una percezione del tempo assai
diversa da quella che noi definiamo normale. E anche i
cosiddetti malati mentali presentano stati di coscienza del
184
tempo alterati rispetto a ciò che noi consideriamo la norma. Ma
in questo tipo di analisi era molto più brava sua nonna di me.”
“Mia nonna?” chiese Isobel
“Sì, lei non ha idea di quante ore abbiamo trascorso io e lei a
parlare di queste cose.” sollevò lo sguardo verso il cielo ”Ci
perdevamo in discussioni di ore e ore e il tempo sembrava
davvero fermarsi; era una donna straordinaria” concluse quasi
tra se e se.
“Sì lo era.” Rispose Isobel “Quindi era di questo che
discutevate con mia nonna del concetto del tempo?”
“Sì: lei era affascinata dai nessi che le pareva intravedere tra la
concezione del tempo della fisica e quella che si può ritrovare
in certi filosofi, in certe descrizioni dell’estasi mistica, in certi
stati alterati di coscienza. Io non so quale fosse lo scopo della
sua ricerca, ammesso che la ricerca debba avere uno scopo,
glielo chiesi in diverse occasioni ma mi rispose sempre in
maniera evasiva. Sono certo però che stesse cercando ciò che
unisce le nuove scoperte della fisica con alcune speculazioni
filosofiche e religiose sull’esistenza, la vita e il suo senso, la
realtà, il tempo. Ricordo che, in particolare, era rimasta molto
affascinata da un aspetto particolare della teoria dei quanti: la
non località. Ne discutemmo un giorno fino a tarda notte e
smettemmo solo perché io ero esausto. Due giorni dopo lasciò
di nascosto Lendi Eleusi e nessuno qui la rivide più.. “.
Si voltò verso le montagne e parve asciugarsi una lacrima dagli
occhi.
“Professor Barbur” riprese Isobel “ che cos’è la teoria dei
quanti e questa, come la ha chiamata… non località, che
incuriosiva maggiormente mia nonna?”
“Una cosa alla volta piccola, una cosa alla volta” rispose il
vecchio con un sorriso” Prima occorre che tu, posso darti el tu
vero, comprenda e assimili ciò che ti ho detto prima; a tal
proposito occorre che io aggiunga e introduca alcuni ulteriori
185
concetti altrimenti la spiegazione precedente può risultare
fuorviante. Prima ti ho detto che dal punto di vista fisico la
realtà non può essere scissa in passato, presente e futuro ma
che essi fanno tutti parte della realtà. Ho anche detto che è la
mente che opera un ordinamento cronologico degli eventi.
Questo però non è del tutto esatto e io mi sarei aspettato una
qualche obiezione”
“La morte: la morte nega la mancanza di un ordine temporale.
La nascita e la morte sono il segno del ciclo della vita e dello
scorrere del tempo. Esistono eventi irreversibili, eventi che
tracciano il senso dello scorrere del tempo non solo nella nostra
mente, ma anche nella nostra carne: Cicatrici... Ricordi…
Memorie… Scomparse… Distruzioni… Reliquie… Rovine...
Tutto ciò ci parla di un “era” e di un “è”, di un “ora” e di un
“allora”. L’irreversibilità della morte, l’irreversibilità della
nascita, l’irreversibilità dello scrosciare dell’acqua della
cascata, tutto ci parla della direzione, dello scorrere del tempo.
La nonna un tempo era qui, ora non più, ciò che muore non
torna in vita! Come dice quel saggio detto popolare ”Non ha
senso piangere sul latte versato” perché il latte una volta sparso
per terra non può più ritornare allo stato iniziale. Il tempo
scorre e con esso il dolore e la rassegnazione che si porta
appresso…”
“E’un grande problema, forse il problema che ogni fisico si
trova davanti: sposare le nostre percezioni con le evidenze
sperimentali e, in più di un caso dovere ammettere che sono le
prime a essere sbagliate. E’ un problema antico ma sempre
attuale: oggi nessuno si sentirebbe di confutare il fatto che il
sole è fermo e la terra gira anche se i nostri sensi sperimentano
l’esatto contrario. Per il tempo è lo stesso, così come per alcuni
aspetti della teoria quantistica e della relatività: dobbiamo
abbandonare le nostre percezioni se esse si dimostrano errate e
questo è quanto di più difficile si possa immaginare perché
186
significa abbandonare, almeno in parte, la nostra concezione di
realtà. Quello che tu chiami irreversibilità in realtà per la fisica
è esclusivamente legata al concetto di probabilità e al concetto
di entropia. L’entropia, che potremmo definire come la misura
del disordine di un determinato sistema, è un concetto fisico
valido per il passato e per il futuro. La seconda legge della
termodinamica dice che ogni sistema tende a variare da uno
stato di ordine a uno di disordine, ovvero aumenta il suo grado
di entropia. Questo significa che vedremo il latte passare dalla
bottiglia al terreno. Ma ciò non nega di per se che non possa
avvenire il contrario, attribuisce solo a tale evento una
probabilità molto bassa. Questo significa che il concetto di
irreversibilità non è una costante ma una condizione il cui
verificarsi ha una probabilità altissima; la possibilità teorica
che si passi da uno stato di massima entropia a uno di entropia
minore quindi esiste. Questo, tornando al detto popolare,
significa che rimane la possibilità di vedere il latte versato
rientrare nel suo contenitore.”
Isobel lo guardò riluttante.
“Non è possibile, è contro ogni logica..”
“E invece ti dico che è possibile, altamente improbabile ma
non impossibile.”
“E per quale motivo nella realtà noi percepiamo solo il
passaggio irreversibile dall’ordine al disordine?” chiese Isobel
concitatamente.
“Questa è la domanda!”esclamò Barbur “ed è una domanda
molto importante. Hai mai sentito parlare del Big Bang?” le
chiese a bruciapelo.
“Sì, dovrebbe essere quella grande esplosione da cui ha avuto
origine l’universo” disse Isobel titubante.
“Esattamente; ed è da questa ipotesi sull’origine dell’Universo
che si fa discendere, tra le altre cose, l’orientamento temporale
che ognuno di noi sperimenta ad ogni istante, lo scorrere del
187
tempo, la irreversibilità e il verso che gli eventi prendono.
Secondo tale teoria quell’evento ha fatto nascere il tempo e il
verso del tempo; essa assume che si sia partiti da una
situazione di entropia bassissima e che tale livello di entropia
dal momento di quella esplosione iniziale si espanda con
l’universo. L’espansione dell’entropia da quel momento
iniziale ha dato e continua a dare il senso irreversibile degli
eventi che noi tutti percepiamo; in altre parole ha creato la
freccia del tempo. Occorre però che si tenga presente che il big
bang è una teoria e che, in mancanza di essa, l’orientamento
temporale che percepiamo non è irreversibile.”
Isobel restò in silenzio, affascinata e sconcertata a un tempo.
Poi, dopo alcuni minuti in cui non fece altro che fissare un
punto lontano nell’orizzonte, disse:
“Mi sta dicendo che l’ipotesi del Big Bang è necessaria per
giustificare l’irreversibilità del procedere del tempo dall’ordine
al disordine e non viceversa?”
“Esattamente.”
“Ma un grado di entropia bassissimo, o uno stato
massimamente ordinato, non è altamente improbabile? E chi o
cosa ha innescato il Big Bang?”
“Vedo che incominci a capire. Noto una certa famigliarità nelle
domande”
“...ma, più di ogni altra cosa, il mondo sta evolvendo verso il
disordine in maniera irreversibile? L’ordine intrinseco che uno
percepisce guardando il cielo, l’universo, la natura in realtà è
un lento inesorabile cammino verso il disordine, il caos?”
“Questo è ciò che ci dice la seconda legge della termodinamica.
Ma non precipitarti nel trarre conclusioni, è troppo presto.
Questo è solo il primo passo in un mondo nuovo per te, e dai
sentieri impervi e panorami imprevisti, con incroci insospettati
e vicoli ciechi.”
188
Il vecchio guardava le montagne all’orizzonte i cui fianchi,
candidi di neve, scintillavano del riflesso del sole. Poi si girò
verso Isobel e le disse con tono gentile ma fermo: “Per oggi
credo sia opportuno interrompere qui la nostra chiacchierata.
Hai già abbastanza di cui riflettere..”
“E la teoria dei quanti o come diamine si chiama?!?” protestò
Isobel delusa.
“Un passo per volta signorina” sorrise il vecchio “o si rischia di
inciampare.” E così dicendo si avviò verso la porta da cui erano
giunti. “Ci vedremo qui tra una settimana per proseguire la
nostra discussione. Credimi, certi concetti hanno bisogno di
essere metabolizzati e approfonditi prima di aggiungerne altri.
Ora seguimi ti prego, voglio farti vedere una cosa” e così
dicendo rientrò nel monastero e la condusse nuovamente nella
Sala del Silenzio, si accostò a un bancone e prese in mano un
vecchio libro, lo scrollò e da esso fuoriuscirono alcune vecchie
foto. Il vecchio le prese e le porse a Isobel.
“Ecco vedi, questo sono io con Albert Einstein e Kurt Gödel
durante i miei anni di dottorato in fisica all’Università di
Princeton” le disse il vecchio con un’aria triste.
“Ebbi la fortuna di conoscere, anche se per poco, due delle
persone più geniali che la storia dell’umanità abbia mai
conosciuto…”
“Kurt Gödel? Ho letto qualcosa di lui in alcuni appunti della
nonna: chi era esattamente e cosa ne fa una delle persone più
geniali della storia?” chiese Isobel provando a riprendere la
discussione.
“Tra una settimana Isobel, tra una settimana risponderò a
questa domanda e proverò a darti qualche cenno sulla teoria dei
quanti. Ora ti devo salutare...” e così dicendo ripose le
fotografie nel libro, se lo mise sotto il braccio e uscì dalla
biblioteca.
189
Isobel lo osservava sempre più incuriosita quando una mano le
si poggiò sulla spalla. Si girò di scatto. Era Hani.
“L’ho trovato!” le disse portandosi un dito alla bocca e
ricacciandole in tal modo un urlo di spavento in gola. Gli
mostrò un piccolo libercolo, saranno state una ventina di
pagine, sulla cui copertina campeggiava il titolo “I misteri di
Eleusi”.
“Ma ho scoperto una cosa strana.“ le disse con un sussurro
nell’orecchio “Il computer di tua nonna, ho provato ad
accenderlo per vedere se vi erano altri dati interessanti ma non
c’è più nulla, nulla di nulla”
“Non c’è più nulla?”disse Isobel incredula.
“Sì, hanno cancellato la memoria. Tutto ciò che tua nonna
aveva fatto e lasciato sul computer è andato perduto per
sempre.”
“Ma io ho questo” disse Isobel toccandosi la tasca dei pantaloni
dove teneva le pagine del elenco di libri che avevano stampato
la sera precedente. “Andiamo in camera mia, voglio capire di
quali misteri parla questo libro.”
E così uscirono, con passo spedito dal salone.
190
CAPITOLO XXXIV
191
cambiamento di un’altra particella, indipendentemente
della distanza che le divide.
192
Il tempo in psicologia (L’io e il Tempo)
193
Sentire ogni passato, non solo il proprio dentri di se, sentire ogni
essere passato agire, pensare e vivere attraverso di se, sentire la
nostra realtà come un sogno da cui non ci si può svegliare.
Ancora:
“Io parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre
vivo ancora ed invecchio […] Conosco l’una e l’altra cosa, sono l’una e
l’altra cosa.”
194
ed essere che contraddistinguono la nostra “normalità”. Il suo
essere viene ad assumere altre identità, il suo tempo è dilatato,
infinito, si dice testimone di tutta la storia. Possono essere
presenti allucinazioni che confondono il reale con l’immaginario.
Ma cosa è reale e cosa è immaginario? Siamo noi nella posizione
adatta per poter giudicare con serenità tali persone e tali
comportamenti?
Noi siamo quelli che si difiniscono normali, i portatori sani della
realtà, i detentori della certezza e della salute. Ciò che è diverso
da noi viene allontanato ed etichettato come insano, malato…
Soprattutto quando tale diversità ci ricorda di una possibilità che
noi abbiamo scartato, che noi dobbiamo scartare, ovvero che la
ragione sia loro e che il nostro modo di vedere il mondo sia la
vera follia.
“[.........]. La nostra sanità non è una sanità vera, la loro pazzia non è vera
pazzia. La pazzia dei nostri "pazienti" è un risultato artificiale della
distruzione operata da noi contro di loro e da loro contro se stessi. Nessuno
creda di poter incontrare la vera pazzia più di quanto si possa credere a
un'autentica sanità. La pazzia che riscontriamo nei nostri "pazienti" è un
volgare travestimento, una parodia, una grottesca caricatura di ciò che
potrebbe essere la guarigione naturale di quell'alienata integrazione che
chiamiamo sanità. [.........]. Ciò che noi chiamiamo pazzia è in realtà un
viaggio. [.........]. Basta non voler tenere gli occhi chiusi per accorgersi che il
trattamento (elettroshock, tranquillanti, talvolta anche la psicoanalisi)
consiste in vari modi nell'arrestare lo svolgimento di questo viaggio. Ma non
si capisce che questo viaggio non è ciò da cui abbiamo bisogno di essere curati,
ma è esso stesso un mezzo naturale per guarire il nostro spaventoso stato di
alienazione chiamato normalità? [.........].”
195
contrapposizione al dilagare della propria identificazione con
l’ambiente e con altre persone. Si dice che lo schizofrenico perda
la sua sintonia con il mondo circostante: in realtà si potrebbe dire
anche che egli prende contatto con un altro mondo ed entra in
sintonia con esso. Come nota Eugene Minkowski nel suo libro
“Il tempo vissuto” lo schizofrenico tende a dare una nozione
spaziale al tempo, sostituendo il quando al dove. Egli spezza il
legame che ci congiunge con il divenire diventando in un certo
senso, puro essere, staccandosi del tutto dalla materialità e
accostandosi all’Assoluto. Dalle parole di uno schizofrenico
riportate da Minkowski:
“C’è qualcosa che non mi permette di considerare l’avvenire. Vedo
l’avvenire come ripetizione del passato…….. Ieri a mezzogiorno ho
guardato il pendolo. C’era qualcosa di particolare: il pendolo non aveva
nulla da dirmi; come avrei potuto mettermi in rapporto con il pendolo? Mi
sentivo come riportato indietro, come se qualcosa di passato ritornasse verso
di me….. come se alle 11:30 fossero di nuovo le 11:00… Mi sforzavo di
considerare il tempo come normale ma non ci riuscivo ed ecco che veniva a me
un senso spaventoso di attesa……Adesso continuo a vivere nell’eternità,
non ci sono più giorni nè notti. Fuori il tempo continua ma per me il tempo
non passa. L’orologio cammina come prima. Ma non voglio guardarlo, mi
rattrista……. Il tempo è immobile; si esita tra il passato e l’avvenire….. e
poi a volte tutto è talmente fatto a pezzi e questi pezzi appartengono a un
tutto. Un uccello cinguetta in giardino. Sento l’uccello e so che cinguetta ma
che è un uccello e che cinguetti….sono così distanti l’uno dall’altra…C’è un
abisso….Il tempo scivola nel passato, i muri sono caduti. Il tempo? Quello
viene da lontano… Cosa devo fare con il pendolo? Devo sempre guardarlo.
Mi sento spinto a guardarlo. C’è tanto tempo e io sono diversamente in ogni
momento. Se al muro non ci fosse il pendolo dovrei perire. Non sono io stesso
un orologio a pendolo? Dappertutto, in tutti i luoghi? …. La lancetta è
costantemente un’altra, adesso è la, poi fa un salto, per così dire, e gira così.
Non sarà costantemente un’altra lancetta? Forse qualcuno sta dietro al
muro e ci mette sempre una nuova lancetta… Come dicevo sono l’orologio
vivente, sono ovunque l’orologio.”
196
Sono parole che ci raccontano un profondo disagio, il disagio di
chi non sente più come vero un concetto a cui prima era abituato
ed ancorato: il tempo. Questa persona sente di vivere l’eternità:
guarda il pendolo, lo vede muoversi ma sente la fissità eterna di
ogni istante, quasi che qualcuno faccia passare meccanicamente
le lancette da una posizione all’altra per simulare lo scorrere del
tempo. Qui il concetto di tempo sembra aderire a quella
successione di adesso tutti egualmente presenti che ci suggerisce
la fisica. Manca la connessione tra causa e effetto, tra l’uccello e il
suo cinguettio e questo è dovuto all’atemporalità vissuta da
questa persona. Egli si aggrappa al pendolo come ultima
reminescenza del tempo che regolava quella che lui sentiva come
normalità. Egli si sente diversamente in ogni momento,
percepisce se stesso in ogni istante, ma ogni istante è disgiunto
da quello precedente. I muri sono caduti: ogni volta che prova a
considerare il tempo un senso di attesa e di angoscia lo pervade.
Forse davvero se il tempo scorresse sarebbe angoscioso,
trascinandoci stancamente verso la nostra fine, eppure ha
bisogno dell’orologio per non perire, per non abbandonare
l’ultimo legame con il suo stato mentale precedente.
Bisognerebbe chiedersi: se nulla intorno a lui gli parlasse del
“vecchio concetto di tempo” se egli sentisse il suo stato come
sano avrebbe angoscia, ne sentirebbe la lacerante ambiguità?
Essere sul confine tra una realtà e l’altra, forse questo è
un’aspetto insondato della schizofrenia, un aspetto che non viene
preso in considerazione perché per noi non esistono realtà
ulteriori rispetto alla nostra; ma così facendo straziamo questi
viaggiatori dell’inconscio, che si trovano sul confine con tutto il
mondo passato che li reclama al raziocinio e tutto il loro essere
che li spinge oltre. Forse è questa doppia tensione ciò che crea il
crollo psichico. Forse Nietzsche resistette troppo a lungo
anziché cedere alla tentazione del viaggio. Nelle parole del più
grande (insieme a Freud) psicologo del novecento, Carl Gustav
Jung, ritroviamo concetti non dissimili da quelli pronunciati in
precedenza dallo “schizofrenico”:
197
“Non avrei mai pensato che si potesse provare un’esperienza del genere. Le
mie visioni e le mie esperienze erano effettivamente reali, nulla era soltanto
sentito, soggettivo, anzi possedevano tutti i caratteri dell’assoluta oggettività.
Rifuggiamo dalla parola eterno ma posso descrivere la mia esperienza solo
come la beatitudine di una condizione non temporale nella quale presente,
passato e futuro siano una cosa sola. Tutto ciò che avviene nel tempo vi era
compreso in un tutto obiettivo, nulla era più distribuito nel tempo o poteva
essere misurato con concetti temporali. Tale esperienza potrebbe semmai esser
definita come una certa condizione del sentimento, che non si può però
immaginare. Come posso immaginare di essere contemporaneamente così
come ieri l’altro oggi e dopodomani? Qualcosa non sarebbe ancora
cominciato, altro sarebbe chiarissimo presente e altro ancora sarebbe già
terminato: eppure tutto sarebbe una cosa sola! La sola cosa che il sentimento
potrebbe cogliere sarebbe una somma, un tutto iridescente, contenente allo
stesso tempo l’attesa di un cominciamento, sorpresa per ciò che accade al
momento e soddisfazione o delusione per ciò che è accaduto. Un tutto
indescrivibile, una trama della quale si è parte: eppure siamo in grado di
percepire il tutto con assoluta obiettività.”
198
La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell'universo, e ciò
che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più
soggettivi recessi dell'anima.
Carl Gustav Jung “Ricordi, Sogni, Riflessioni”
199
(come possono essere i gesti, gli atteggiamenti, il tono di voce), e
la situazione sia tale per cui il ricevente il messaggio non abbia la
possibilità di decidere quale dei due livelli, che si contraddicono,
accettare come valido, e nemmeno di far notare a livello esplicito
l'incongruenza) come spiegazione delle sindromi schizofreniche
scrive:
“Nel buddismo zen si persegue lo scopo di raggiungere l’Illuminazione, che il
maestro tenta in vari modi di indurre nel suo discepolo. Ad esempio il
maestro alza il bastone sulla testa del discepolo e gli dice con tono
minaccioso: “Se tu dici che questo bastone è reale ti colpisco. Se tu dici che
questo bastone non è reale ti colpisco. Se non dici nulla ti colpisco.” A noi
sembra che lo schizofrenico si trovi continuamente nella stessa situazione del
discepolo ma, invece di raggiungere l’Illuminazione raggiunge la follia”
Cosa fa sì che il discepolo non impazzisca? O forse
l’illuminazione è follia? Forse è la nostra classificazione della
patologia ad essere errata? O forse è solo lo scopo, il contesto
sociale, la preparazione che rendono il discepolo illuminato e
Nietzsche pazzo?
O forse non è l’esperienza in se a definire la follia ma piuttosto il
nostro modo di rapportarci ad essa, condizionato dal contesto
simbolico nella quale essa si manifesta. Il “pazzo” si discosta
dall’ordine dominante e condiviso, ne calpesta le regole, i simboli
e le convenzioni, rinnega quanto fino a quel momento condiviso
e vissuto, entra in un altrove a noi inaccessibile. Il nostro
richiamo all’ordine è ciò che gli è fatale.
Forse è il caso qui di ricordare la lettera che un altro celebre
“folle“, Antonin Artaud inviò ai direttori dei manicomi francesi:
Signori,
le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano.
Questa giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l’esercitate a vostra
discrezione. Lasciate che ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei
sapienti, dei governanti dota la psichiatria di non si sa quali lumi
sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il verdetto
anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza,
né la dubbia esistenza delle malattie mentali. Ma per ogni cento
200
classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere
utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo
cerebrale in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad
esempio, il sogno del demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono
altra cosa che un’insalata di parole?
Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il
quale non ci sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il
diritto attribuito a uomini di vedute più o meno ristrette di sanzionare
mediante l’incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito
umano.
E che incarcerazione! Si sa - e ancora non lo si sa abbastanza - che gli
ospedali, lungi dall’essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle
quali i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le
sevizie sono la regola, e questo voi lo tollerate. L’istituto per alienati, sotto la
copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile alla caserma, alla
prigione, al bagno penale.
Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per
evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran
numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione
ufficiale, sono, anch’essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si
interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo,
altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane.
La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica
quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono
le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa
individualità, che è propria dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di
questi prigionieri forzati della sensibilità, perchè è pur vero che non è nel
potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.
Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle
manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di
apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della
realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.
Possiate ricordarvene domattina, all’ora in cui visitate, quando tenterete,
senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete
riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza.
Antonin Artaud
201
Il tempo e il sogno
202
appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non
voglio perire!”
“...Alla luce di quanto abbiamo detto fino a questo punto sembra prendere
forma la possibilità che quello stato che noi riteniamo abitualmente di veglia
possa venire considerato come uno stato di sonno da svegli”
(Cavallo M., Leone F.).
“Noi sappiamo che il sogno avviene, e probabilmente occupa gran parte della fase
REM, che nell'adulto corrisponde a circa il 20% del sonno totale, ovverosia
circa 80-90 minuti per notte. Si ritiene inoltre che il sogno, per quanto articolato
e complesso, può avvenire nell'arco di pochi secondi. Ora, mediamente, a parte
rare eccezioni legate ad un sonno molto leggero ed interrotto, al mattino in genere
si ricordano solo pochi sogni. Quindi dobbiamo ritenere che di tutta la
complessiva produzione onirica, noi riusciamo a ricordarne solo una parte
minima. Dobbiamo dedurre che ci deve essere una differenza tra la complessiva
attività onirica ed il sogno o i sogni che ricordiamo. Nel senso che probabilmente
l'attività onirica nel suo insieme ha funzioni numerose e complesse, il sogno
ricordato ha una funzione specifica diversa. I sogni che si ricordano, riguardano
esperienze oniriche significative e strettamente collegate con le dinamiche
psicologiche conflittuali o comunque più importanti in quelmomento, per quella
persona. Possiamo pertanto pensare che i sogni che si ricordano, sono tentativi di
visualizzare e a volte di risolvere, conflitti, problemi o possono essere una libera
produzione di gioco della mente.”
“Ma la vera profonda differenza è basata sul fatto che nel processo onirico
manca il senso del tempo come categoria vettoriale: manca la “freccia del tempo”
che è invece fondamentale nel pensiero cosciente.
Questa mancanza rende possibile di non tener conto del prima e del dopo, e
quindi invertire per cui il dopo può avvenire prima: è la base del principio di
contraddizione, l’esatto opposto di quel principio basilare della logica che è il
203
principio di non contraddizione. Per questo nel sogno possono accadere
avvenimenti con situazioni antitetiche ed opposte che non destano, nel sognatore,
nessun stupore o incredulità. Quindi la struttura del linguaggio onirico è
caratterizzata da spostamento, condensazione, assenza del principio di
continuità e contiguità e di quello di non contraddizione.”
Il tempo e i bambini
“Se c'è un qualche cosa che vogliamo cambiare nel bambino, prima dovremmo
esaminarlo bene e vedere
se non è un qualche cosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi”
204
significato per lui: nel momento in cui gli prendete la palla per lui
la palla è morta, quel momento è finito e non arriverà più, e non
esiste il concetto di dopo e non esiste nessuna rassicurazione che
lo convinca che quel momento tornerà: in effetti ha ragione lui,
quel momento non tornerà affatto. Allo stesso modo se un
bambino desidera una cosa, ad esempio un gelato, quel desiderio
è lì presente e deve essere soddisfatto nel medesimo momento in
cui viene espresso e non esiste consolazione nel dirgli “tra 5
minuti quando usciamo lo comperiamo” perché quel “tra 5
minuti” per il bambino equivale a mai. Per il bambino il tempo
non esiste! Lo stesso dicasi per il neonato: il neonato ha esigenze
che manifesta non appena sorgono, e tali esigenze sono la loro
vita e devono essere soddisfatte: mangiare, dormire, ecc…. Non
esiste un dopo per queste attività, come non esiste un dopo per
qualsiasi attività o esigenza manifestino i bimbi più grandi. I
bambini sono completamente al di fuori del tempo, immersi
totalmente in una sequenza ininterrotta di adesso. Occorrono
molti sforzi e molta pazienza per insegnare a un bambino il
concetto di tempo; ma è giusto, ha un senso la nostra educazione
al tempo?
Credo di essere nel giusto quando dico che l’ottanta per cento
dei litigi tra genitori e figli fino ai tre quattro anni (quando cioè il
concetto di tempo incomincia a fare breccia in loro) sia dovuto al
fatto che noi adulti siamo completamente immersi nel tempo, i
bambini ne sono completamente al di fuori, concentrati sul
momento, sull’essere, sull’Adesso.
Quando si vuole uscire di casa e loro stanno giocando non basta
rassicurarli che si tornerà a casa e potranno ricominciare a
giocare: nel momento in cui li si allontanerà dai giochi
piangeranno e si ribelleranno perché quello era il momento del
gioco e non esisterà più e nulla li fa supporre che: torneranno in
quella stanza; troveranno quel giocattolo; giocheranno di nuovo.
E quando dopo strilli e pianti decideranno di seguirvi, nel
momento in cui torneranno a casa e voi gli direte “Ecco ora puoi
tornare a giocare con quelle costruzioni che ti piacevano tanto e
con le quali hai passato l’intero pomeriggio” a loro molto
probabilmente non interesseranno più, perché il momento per
205
quel gioco è irrimediabilmente perso per sempre. Vi torneranno
a giocare, forse, ma non sarà lo stesso.
La maggior parte dei conflitti genitori e figli sono dovuti al
tempo: per noi esistono gli orari: quello della nanna, quello della
pappa, quello dei giochi, quello del lavoro, per loro esistono solo
gli attimi, sospesi in un vuoto a-temporale. E lo scontro tra
queste due visioni della vita è inevitabile. La nostra vita è scandita
dal tempo, ordinata in maniera logica e razionale, la nostra
socialità, il nostro comunicare stesso è legato al tempo. Ne
sentiamo l’esigenza, ci sentiamo spaesati senza orologi, abbiamo
organizzato tutta la nostra società, le nostre relazioni, le nostre
vite in funzione del tempo: rincorrendolo, maledicendolo,
pregando per averne altro, rifiutandolo. Il tempo è il nostro vero
Dio, invisibile eppure presente in ogni nostro gesto, che ci
fornisce regole e precetti a cui non possiamo non obbedire e non
conformarci: è la religione dell’uomo moderno. I bambini sono
qui a dimostrarci come il concetto di tempo sia molto lontano
dall’essere istintivo e naturale, quanto invece pare essere una
mera esigenza nostra. Dal concetto di tempo derivano molte
delle nostre paure, molte delle nostre ansie: ansia per il futuro,
per la morte, per il domani, ansia per ciò che sappiamo, o
temiamo potrebbe succedere dopo. I bambini ci insegnano che
tutto ciò potrebbe essere superfluo, inutile se non dannoso. I
bambini hanno paura, certo, ma non hanno ansie anticipatorie,
non hanno paura del futuro, non hanno paura della morte,
hanno paura di una cosa nel momento stesso in cui la
percepiscono e quando questa cosa sparisce, sparisce anche la
paura. I bambini senza tempo sono immersi nell’attimo. In esso
riversano tutte le loro energie, tutte le loro attenzioni, tutte le
loro doti, tutto il loro impegno. Ed è per questo che cose per noi
insignificanti sono per loro tragedie immani: perché l’emotività
investita in quel gioco, in quell’attimo, in quell’oggetto, in
quell’attività è la massima loro consentita e se, ad esempio, quel
giocattolo si rompe, non esiste alcuna rassicurazione nel dire
“Dopo usciamo e ne compriamo uno uguale”: quel gioco deve
essere lì subito, quando ne hanno l’esigenza; dopo non esiste,
206
perché dopo non esisterà più la stessa esigenza, la stessa
passione, lo stesso coinvolgimento.
I bambini sono senza tempo: le loro vite non sembrano avere un
ordine temporale, così come la loro memoria: i loro ricordi
sembrano in qualche modo a-personali, possono ricordare un
posto ma non si collocano nel passato in esso. Possono
riconoscere una persona, ma non associano ad essa situazioni ed
eventi passati, solo sensazioni. Un altro fatto peculiare dei
neonati è che essi, nei primi mesi di vita, non siano in alcun
modo interconnessi e sincronizzati con il ciclo (per noi adulti
scontato e vitale) delle ventiquattr’ore. Recenti studi (Theodor
Hellbrugge, Università di Monaco) hanno mostrato come il
battito cardiaco dei neonati non varia la propria frequenza (come
negli adulti) nelle ore notturne se non dopo i tre mesi. Le
funzioni renali e la secrezione di ormoni nonché la temperatura
corporea e la pressione arteriosa mostrano, negli adulti, un
aumento nelle fasi diurne e una diminuzione in quelle notturne,
cosa che nei bambini non avviene se non dopo un anno e cinque
mesi. Tali variazioni dei nostri ritmi vitali in base al tempo sono
presenti non solo all’interno del singolo giorno ma anche nel
corso dell’anno. La temperatura corporea, le pulsazioni e la
secrezione ormonale aumentano d’estate e diminuiscono
d’inverno. Persino la crescita dei capelli varia al variare delle
stagioni (0,305 millimetri al giorno in gennaio, 0,538 millimetri al
giorno in agosto) eppure persino tali variazioni non sono
presenti nei bambini. Anche in questo caso i bambini e i neonati
sembrano essere estranei dal punto di vista fisiologico allo
scorrere del tempo.
E se avessero ragione loro e il nostro volerli immergere nel
tempo non sia una violenza gratuita, inutile e snaturante? E’
innegabile che il tempo rappresenti per noi molte volte una
schiavitù: i bambini sono qui per ricordarcelo, con il loro essere e
i loro comportamenti: quando si è in attesa della nascita di un
bambino, oltre alle ansie legate alla salute della mamma e del
nascituro qual’è la principale preoccupazione dei genitori? Quella
di non avere, dopo la nascita del bambino, più lo stesso tempo
da dedicare a loro stessi. E in questo senso i bambini, fin da
207
neonati dovrebbero insegnarci la via, una via che ci era ben nota
da bambini e che abbiamo forse a malincuore dovuto
dimenticare: il tempo non esiste, esiste solo Adesso, è Adesso
che puoi fare ciò che desideri e dedicare a ciò che desideri tutte
le tue energie.
“Ce l’hai una lunga pertica? E una scala? Voglio buttare giù il sole e darlo
alla mamma da cuocere e poi lo mangiamo….”
“La mia faccia è la mia pancia, la mia pancia è i miei occhi, i miei occhi
sono la mia lingua, la mia lingua è le mie caviglie, le mie caviglie sono le mie
mani.”
“Ho paura del puzzle cinese. Ci sono i cattivi dentro. Allora l’ho dato al
gatto.”
“Riesci a sentire quello che stai dicendo? Se muovi le orecchie insieme a ogni
cosa che pensi la tua sedia potrebbe alzarsi per aria.”
208
“Sai, questa scala non era qui finché non ce l’hanno messa.”
209
sono mie incarnazioni, come pure Lord Bacon, il poeta di Shakespeare. Da
ultimo, ancora, sono stato Voltaire e Napoleone, forse anche Richard
Wagner... Ma questa volta vengo come Dioniso il vittorioso, che farà della
terra una giornata di festa... Non avrei molto tempo... I cieli si rallegrano
che io sia qui... Sono stato anche appeso alla croce...”
“Il mondo è trasfigurato, perché Iddio è sulla terra. Non vede come tutti i
cieli esultano? Ho appena preso possesso del mio regno, getterò il papa in
prigione e farò fucilare Guglielmo, Bismarck e Stoecker.”
“Vado dappertutto nel mio vestito da studente, qua e là batto sulla spalla a
qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura…
Domani viene il mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che qui,
però, riceverò ugualmente in maniche di camicia.
Il resto per la signora Cosima… Arianna… Di quando in quando si
fanno incantesimi. Ho fatto mettere in catene Caifa; l’anno scorso sono stato
crocefisso in maniera molto penosa dai medici tedeschi. Aboliti Guglielmo,
Bismarck e tutti gli antisemiti.
Di questa lettera lei può fare qualsiasi uso che non mi diminuisca nella
considerazione dei basileesi.”
alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non
ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato, da tralasciare, per
causa sua, la creazione del mondo. Lei vede, bisogna fare sacrifici, come e
dove si viva. – Tuttavia, mi sono riservata una piccola camera da studente
che si trova di fronte al Palazzo Carignano (- nel quale sono nato come
210
Vittorio Emanuele) e oltre a ciò permette di sentire, dal proprio tavolo di
lavoro, la magnifica musica nella Galleria Subalpina. Pago 25 franchi con
servizio, preparo il mio tè e faccio tutte le spese da solo, soffro di stivali rotti e
ringrazio ogni momento il cielo per il vecchio mondo, per il quale gli uomini
non sono stati abbastanza semplici e silenziosi. – Poichè sono condannato a
intrattenere la prossima eternità con cattive spiritosaggini, ho qui un’attività
scrittoria, che invero non lascia nulla a desiderare, molto carina e
nient’affatto faticosa. La posta è a cinque passi, imbuco io stesso le lettere
per trasmettere il grande fogliettonista “der grande monde”. Naturalmente,
sono in stretti rapporti con il Figaro, e affinchè lei abbia un’idea di quanto
io possa essere innocuo, ascolti le mie prime due cattive spiritosaggini:
Non prenda troppo sul serio il caso Prado. Io sono Prado, sono anche il
padre di Prado, oso dire che sono anche Lesseps…. Vorrei dare ai miei
parigini, che amo, una nuova idea - quella del criminale dabbene.
Seconda spiritosaggine. Saluto gli immortali. Daudet appartiene ai
quarante.
Friedrich Nietzsche (Biglietto a Jackob Buckhardt)
211
ascoltare le loro parole e forse per la prima volta avremmo la
strana sensazione che le loro parole siano la vera saggezza,
perchè provengono da un terreno comune dimenticato e
incontaminato, da un’isola perduta affondata nella nostra
razionalità, da una somma innocenza dell’essere, del sentire,
libera dalla schiavitù del divenire. In tanti nei secoli hanno
parlato della necessità di essere “innocenti come bambini” di
“lasciare che i bambini vengano a Gesù”, tanti poeti, filosofi,
religiosi, scrittori, pittori hanno inneggiato alla leggiadria, alla
innocenza, alla purezza dell’infanzia contrapposta alla rigidità,
alla razionalità, all’aridità dell’essere adulti ed evoluti.
Essere bambini, diventare bambini, serbare il bambino che è in
ognuno di noi non vuol dire anche e soprattutto sapere cogliere
da loro questi insegnamenti? E se oltre all’assenza di tempo i
bambini ci dovessero insegnare anche l’assenza di spazio inteso
come distanza tra esseri, l’assenza di un Se intesa come somma
separazione del singolo dalla natura, dall’ambiente che lo
circonda, dai suoi simili e in fondo l’assenza del nostro io? Le
espressioni prima citate sembrano infatti provenire da uno strano
luogo in cui la separazione razionale fra noi e le cose, tra noi e la
natura cede il passo a una compenetrazione di tutto ciò che è ed
esiste: La mia faccia è la mia pancia…..
212
Della sua essenza vitale.
Strillando il giorno intero
Non ha mai la voce roca
E’ lo sviluppo già completo
Dell’armonia più naturale.
E’ avere l’armonia in se
Vuol dire poi durare da veri illuminati.
E’ cosa sempre infausta
Far forza sulla vita
E se è la mente a controllare
Il proprio soffio vitale
Vuol dire diventare duri
E chi ha rigidità è chi finisce.
Questo è contrario alla via
E chi è contro la Via presto perisce
“Hai tenuto queste cose nascoste ai sapienti e agli avveduti e le hai rivelate ai
semplici e ai piccoli”
Vangelo secondo Luca (10, 21)
“Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli. Beati i puri di
cuore perché vedranno Dio.”
Vangelo secondo Matteo (5, 3)
213
Toni Maraini, Quello che andavo libera pensando, in Poema d'Oriente,
Roma, Semar, 2000
214
CAPITOLO XXXV
Isobel uscì dalla sua stanza quasi correndo. Era il giorno in cui
avrebbe ripreso il dialogo con il professor Barbur. Durante
quella settimana erano successe diverse cose che le avevano
fatto ricordare i discorsi fatti quel giorno nel giardino sopra la
cascata. Le era anche capitato di incrociare il professore nel
Salone del Silenzio un paio di volte, ma in entrambi i casi si
erano scambiati poche frasi di circostanza rinnovandosi
l’appuntamento per riprendere la discussione interrotta. Isobel
però, impaziente e ormai presa dal vortice degli eventi aveva
per tutta la settimana cercato di approfondire gli argomenti
sorti con il professore la volta precedente e aveva fatto incetta
di libri sulla teoria dei quanti. Aveva anche continuato la
lettura del documento della nonna, cosa che le aveva
continuato a suscitare quella sensazione mista a gioia e
sconcerto. E poi aveva letto il libro “I misteri di Eleusi”: forse
quella lettura era stata la più sconvolgente di tutte quelle, ed
erano molte, che aveva affrontato in quei giorni.
Giunse davanti alla Sala del Silenzio, entrò e fece un cenno ad
Hani che era assorto nella lettura seduto su di un bancone. Hani
replicò al saluto con un cenno d’intesa. Isobel si guardò
intorno: nonostante fosse mattino presto il salone era già pieno
di gente che vagava da uno scaffale all’altro sotto lo sguardo
vigile di Rumi. Il professore non c’era. Forse era già sul
terrazzo ad attenderla. Percorse il corridoio e in pochi attimi fu
sul terrazzo. La panchina era vuota. Non c’era nessuno. Isobel
si sedette. Forse era in anticipo. Da quando aveva gettato via
l’orologio, un paio di giorni prima, era la prima volta che ne
sentiva la mancanza. L’attesa l’aveva sempre snervata,
215
soprattutto quando l’appuntamento era tanto atteso come in
questo caso. Ritornò per un attimo con la mente ai giorni
appena trascorsi. I misteri di Eleusi. Aveva pensato che si
trattasse di un libro riferito a quel luogo. Si sbagliava di grosso.
Era un libro che parlava di un antico rito iniziatico che si
svolgeva nell’antica Grecia, il cui rituale e i cui misteri erano
all’epoca avvolti dal più assoluto segreto tanto che non sono
giunti sino a noi. La coincidenza dei nomi della città greca con
il luogo dove si trovava ora non poteva essere casuale: sentiva
che vi era un legame tra quei due luoghi, ma quando aveva
posto la domanda a Rumi, ella aveva subito sviato il discorso e
si era allontanata con una scusa. Stessa cosa era successa con
un paio di studiosi nella biblioteca che i giorni precedenti si
erano invece dimostrati assai disponibili nel fornirle
informazioni. Tutto ciò aveva aumentato la sua curiosità e la
voglia di approfondire l’argomento; in effetti aveva
l’intenzione di chiedere spiegazioni anche al professore. Nel
libro venivano descritti i rituali iniziatici così come riportati
dalle poche fonti dell’epoca che ne hanno parlato. La cosa che
più l’aveva colpita era l’associazione che l’autore del libro
faceva di un cibo iniziatico chiamato kykeon con l’LSD, di cui
l’autore è lo scopritore, argomentando che l’esperienza mistica
e la rivelazione che gli iniziati vivevano era in tutto e per tutto
un viaggio psichedelico. Le era altrettanto chiaro che, almeno
secondo la nonna, i misteri avessero in qualche modo a che fare
con la natura del tempo e quindi con la ricerca che stava
compiendo.
Si scosse dai suoi pensieri: il professore non arrivava. Si alzò in
piedi e incominciò a camminare nervosamente. Finalmente,
dopo alcuni minuti Isobel vide arrivare, zoppicante e con
un’andatura lenta e strascicata, il professor Barbur; Isobel gli
corse quasi incontro per l’entusiasmo e, dopo averlo salutato,
gli offrì il suo braccio per appoggiarsi e condurlo alla panchina.
216
Si sedettero e, dopo un profondo sospiro, il professore ruppe il
silenzio:
“Dove eravamo rimasti? Eravamo rimasti al concetto di tempo
nella teoria della relatività. A proposito, ho visto che in
settimana si è data molto da fare: tutti i principali libri
sull’argomento erano spariti dalla biblioteca ed erano registrati
alla sua persona. Spero che abbia trovato spunti utili.”
“Utilissimi, anche se alcuni di essi li ho trovati troppo tecnici
per essere alla mia portata, pieni di formule, equazioni. A tal
proposito ho alcune domande da porle.” disse Isobel.
“Anche io e se mi scusa per la poca cavalleria vorrei che prima
lei rispondesse alle mie domande, poi sarò lieto di rispondere
alle sue…”
Isobel annuì.
“Perché è venuta qui Miss Morrison? E perché questo suo
interesse per il tempo?”
“Perché credo sia la chiave di tutto”
“Tutto cosa?” chiese il professore.
“La chiave per rispondere alla domanda chi siamo e cosa
facciamo qui. Capire se le nostre vite hanno un senso, se il
tempo ha un senso e se è a noi legato. Sono qui grazie a mia
nonna, seguendo i suoi libri, il suo percorso, forse cercando ciò
che lei cercava e che, forse, alla fine aveva trovato.”
“Ma lei Isobel, lei cosa cerca qui?”
“Delle risposte. Forse mia nonna aveva trovato ciò che aveva
cercato per anni, un libro, forse il Libro con la elle maiuscola,
anche se non so di cosa tratti: l’ho avuto tra le mani, era tra le
cose della nonna, ma mi è stato sottratto. Devo trovarlo! Devo
sapere perché la nonna ha dedicato una vita di studi alla sua
ricerca.”
“Forse quel libro era solo un mezzo non il fine. Isobel, d’ora in
poi ti darò del tu come la volta scorsa, forse quel libro è una
217
scorciatoia, una scorciatoia che può servire solo a chi ha già la
consapevolezza delle cose che poi leggerà.“
“Lei…. Lei conosce quel libro?” chiese Isobel stupita:
“Conoscerlo? Chi non lo conosce qui. Ma non ne posso parlare.
Solo il consiglio ora può. Ma una cosa la posso dire: il libro, di
qualunque cosa parli, può essere solo la conferma di un
percorso e di una strada, non la strada stessa.”
“Che intende dire?”
“….che occorre procedere per gradi. Ogni esperienza per non
essere traumatica ha bisogno di preparazione, di un
accompagnamento, di una ritualizzazione, come nei riti
sciamanici o nella meditazione. Lo stato di coscienza alterato si
raggiunge solo dopo lunghi ed estenuanti esercizi spirituali
preparatori, altrimenti la visione potrebbe essere fatale se la
persona non è preparata e l’ambiente non è conforme a ciò che
deve accadere. Ecco, occorre essere preparati per certi libri
altrimenti si rischia di non coglierne il reale valore; lo stesso
dicasi per le esperienze di stati alterati di coscienza.”
“Questo cosa c’entra?” chiese Isobel
“C’entra, c’entra eccome, ed è proprio da qui che vorrei partire
nella nostra discussione: dagli stati alterati di coscienza. Essi
possono comunicarci tante cose che normalmente rimangono
fuori dalla nostra capacità di percezione. Visioni, allucinazioni,
stati di profonda concentrazione e meditazione inducono la
nostra mente ad abbandonare la sua razionalità per interagire
con realtà che trascendono la nostra normale percezione del
mondo. Noi oramai non abbiamo più alcuna familiarità con
questi stati di coscienza che sono ben noti invece agli sciamani,
ai veggenti, ai monaci buddisti; questa nostra mancanza di
familiarità limita qualsiasi nostra possibile analisi o indagine;
in realtà si ha spesso la stupida sensazione di trovarci innanzi a
forme patologiche, a deliri o a ridicoli culti primitivi e questo ci
impedisce di entrare in contatto con chi tale esperienza la sta
218
vivendo. Un’ulteriore difficoltà sta nel poter descrivere a
parole sensazioni, stati d’animo che trascendono il comune
sentire e le parole stesse: le descrizioni non riescono a bucare il
velo che ci separa da questo vero e proprio universo parallelo
di cui ci sfuggirà sempre l’essenza.”
“Ma come distinguere una visione, un’esperienza mistica da un
delirio di un folle?”
“Qual’è la reale differenza Isobel? In realtà si potrebbe definire
la visione, l’illuminazione, la rivelazione come l’interruzione
del funzionamento che noi definiremmo normale del nostro
cervello. Tale corto circuito può essere indotto in vari modi:
con la meditazione, con alcune droghe e sostanze psicotrope;
attraverso queste vie si interrompe il “normale” flusso delle
informazioni per accedere a una realtà diversa in cui si ha una
diversa consapevolezza delle cose, degli stati, dell’essere. Se
confrontiamo le descrizioni delle esperienze di mistici e santi
cristiani, di maestri zen, di monaci buddisti, di sciamani, di
artisti, psicologi, filosofi e poeti che hanno sperimentato
sostanze psicotrope cone il peyote, LSD, la mescalina, e i deliri
dei folli possiamo riscontrare in diversi casi una stupefacente
univocità di descrizioni e di rappresentazioni della realtà che
hanno raggiunto, visto, sfiorato. Con linguaggi, modi,
rappresentazioni diverse tutti parlano di una sensazione di
unità, una sensazione di essere pervasi da ogni cosa in una
unione mistica, tutti parlano di assenza di tempo e di spazio, di
una nuova luce che illumina le cose, di un significato che tutto
comprende e tutto spiega. Ma si badi bene, sentire l’eternità,
sentire in se ogni istante passato e futuro, sentire che parte di
noi è in ogni cosa e che ogni cosa è parte di noi, non significa
per forza l’annullamento delle differenze ma la loro
valorizzazione. Sapere che qualcosa ci lega e ci accomuna a
livello profondo rende ancora più spiccate e desiderabili le
differenze perché non saranno più contrasti ma completamenti.
219
Sentirsi ogni nome nella storia, essere eterni, estendersi
all’infinito, vedere l’eternità in un granello di sabbia, vedere la
luce che irradia nel mondo un semplice mazzo di tulipani,
sentire il passato scorrere dentro di se, essere in contatto con
ogni cosa, sentire l’armonia e la gioia dell’essere. Queste sono
le caratteristiche che emergono come comuni in tutte le
esperienze di alterazione indotta o spontanea dello stato della
coscienza. Un velo si alza e il mondo ha colori, movimenti,
significati diversi. “
“Quindi quello che lei sostiene è che questa realtà “altra” è la
vera realtà e che il nostro cervello non è pronto in condizioni
normali ad accedervi?”
“E’ così…. La prigionia incomincia con l’infanzia. Nei
bambini non esiste il tempo, non esiste la mente confinata
dentro di loro e loro sono convinti di estendere il proprio essere
alle cose che li circondano: loro sono la mamma che li allatta,
loro sono il succhiotto che li coccola, loro sono l’acqua che li
lava. Non hanno consapevolezza dei limiti e dei confini del
proprio corpo e della propria coscienza, forse perché in realtà
essi non hanno realmente limiti: uno studio dello psicologo
infantile Piaget ha mostrato come i bambini pensano, fino ai
dieci undici anni che la loro mente pervada le cose e le persone
che li circondano e che i loro pensieri siano reali. La prigionia
della mente ha inizio con la nascita e l’educazione…”
“Ma gli schizofrenici hanno deliri che li allontanano dalla vita
quotidiana.”
“E’ la vita quotidiana che ci allontana dalla realtà ultima. E la
reazione di difesa di chi sente minacciate le proprie piccole e
misere certezze è quella di internare, emarginare, sorvegliare
queste anomalie che ci dovrebbero ricordare che la nostra
normalità è solo una pretesa di normalità e che la follia, la
visione, i pazzi di Dio sono sempre esistiti in ogni epoca e in
ogni cultura e sono stati odiati in pubblico e venerati in privato.
220
Il loro linguaggio, i loro simboli, la loro stessa fisicità è un
monito a non rendere assoluto ciò che assoluto non è, ad
affrontare il viaggio alla ricerca di se stessi. Ma pochi hanno
raccolto queste sfide e chi l’ha fatto è stato ammirato con la
stessa velocità con cui è stato dimenticato. Si esaltano le
persone una volta morte occultando dietro il loro culto il loro
dirompente messaggio: penso a Nietzsche e alla sua follia, a
Rimbuad e al suo ragionato sregolamento di tutti i sensi, a Jim
Morrison e i suoi tentativi di riportare le persone alle origini di
se stesse, a Jung e alla sua esplorazione degli archetipi e
dell’inconscio collettivo, a Van Gogh e agli istanti di tempo
che ha catturato nelle sue opere, a Artaud e alle sue glossolalie
e potrei continuare all’infinito o quasi. Una volta erano i santi a
ricordarci che questa realtà non era la sola, la definitiva, ora il
loro ruolo è stato preso dagli artisti, coloro che sono più a
contatto con il mondo delle intuizioni, coloro che vivono ai
limiti di se stessi. Nelle loro vite e nelle loro opere è possibile
cogliere intuizioni fulminanti che potrebbero aprire la strada a
una rivelazione, all’illuminazione della realtà che ci
pervade….”
“I nomi che lei ha fatto; sono tutti artisti di cui mia nonna
studiava le vite e le opere.”disse Isobel sempre più affascinata.
“ Posso chiederle cosa sono le glossolalie?”
“Sono parole senza parole, fonemi senza senso compiuto nel
nostro linguaggio ma che, per chi le pronuncia, sembrano
descrivere e associarsi perfettamente con quanto intendono
comunicare…”
“Ma come posso capire un pensiero che non può essere
verbale?” chiese Isobel frastornata.
“Con l’esperienza.” rispose il professore compiaciuto “Solo
l’esperienza può realmente cambiarci: le parole scorrono, le
sensazioni e le esperienze possono cambiarci nel profondo. Le
parole limitano i concetti, li rinchiudono dentro steccati da cui
221
ne escono deformati, scoloriti, ridotti. Vi sono cose che non
possono essere descritte, cose per cui non esistono parole, e
l’esperienza mistica è l’esperinza inenarrabile per definizione.
Siamo su basi e presupposti assolutamente inconciliabili per
comprendere tali esperienze: il nostro linguaggio non può
essere sufficiente perché la nostra realtà, la nostra concezione
del mondo lo condiziona; sarebbe come cercare di far
comprendere la bellezza della Pietà di Michelangelo
descrivendo a chi non l’ha mai vista la struttura molecolare che
ne compone il marmo. Solo chi è calato nell’esperienza la può
sentire, la descrizione è una fredda reinterpretazione di dati
senza la possibilità di rendere partecipi dell’esperienza stessa.
Noi ci fidiamo di ciò che vediamo più che delle nostre
sensazioni; ma, come dice il piccolo Principe nella famosa
favola, non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile
agli occhi. La nostra mente può trascendere quelli che noi
consideriamo suoi limiti invalicabili; la nostra mente può
instaurare con la realtà fisica circostante dei collegamenti e dei
canali di comunicazione di cui si ignora la natura ma dei quali
si può in qualche modo supporre e constatare l’esistenza.
Sull’influenza di quella che noi chiamiamo mente sulla realtà
fisica sono stati raccolti numerosi avvenimenti ed effettuati
diversi esperimenti….”
“Me ne potrebbe descrivere qualcuno?” chiese Isobel
incuriosita e sempre più stupita per la piega che stava
prendendo la conversazione.
“Gli esempi possono essere diversi: prendiamo i casi di quei
cani che vengono affidati per un breve periodo di tempo a
parenti distanti centinaia se non migliaia di chilometri dalla
casa dei padroni e che a un certo punto spariscono e dopo aver
percorso a ritroso quelle migliaia di chilometri ritrovano la loro
casa. Come è spiegabile questa cosa: certamente non solo con
uno spiccato senso dell’orientamento. O ancora, sempre per
222
analizzare il mondo animale, animali che hanno comportamenti
anomali e bizzarri subito prima di terremoti…”
“A questo proposito mia mamma mi racontava sempre che
quando era piccola e abitava in una casa in campagna avevano
in giardino due splendidi pavoni con i quali lei giocava spesso.
Un giorno mentre giocava con loro incominciarono a urlare e
volarono su di un albero, cosa che non avevano mai fatto
prima: pochi minuti dopo ci fu un violento terremoto.”
“Di questi racconti ne sono stati raccolti migliaia” riprese il
professore “ Cani e gatti che si mettono davanti alla porta dieci
minuti prima di un rientro imprevisto dei loro padroni,
pappagalli parlanti che rispondo a pensieri ancora inespressi
dei loro padroni. Ciò che traspare da queste casistiche è che gli
animali potrebbero in qualche modo captare segnali dei loro
padroni attraverso un collegamento di tipo telepatico. Su tali
reazioni animali sono stati anche effettuati alcuni esprimenti: in
uno di questi esperimenti, ad una cagna e a uno dei suoi
cuccioli fu insegnato ad accucciarsi ogni volta che veniva
alzato un giornale arrotolato. Poi i cani furono messi in una
stanza separata e il cucciolo fu ripetutamente minacciato e,
nello stesso momento in cui si acquattò, la madre faceva lo
stesso.
In un altro studio, una femmina di boxer fu collegata a un
elettrocardiogramma in una stanza insonorizzata, mentre la sua
padrona si trovava separata da lei in una stanza lontana e
anch’essa insonorizzata. Poi, all'improvviso, uno sconosciuto
irruppe nella stanza e si mise a inveire contro la donna
minacciandola con violenza. In quel momento l'apparecchio
registrò un fulmineo aumento delle pulsazioni cardiache della
cagna nella stanza anch'essa insonorizzata.
Queste e altre analisi sembrano suggerire che vi possano essere
dei collegamenti non locali tra le menti di animali e di persone,
ovvero che le comunicazioni intrapsichiche trascendono lo
223
spazio e il tempo come noi ce lo configuriamo. Ti è mai
capitato Isobel di pensare a una persona che non incontri da
tanto tempo e in quel medesimo istante squilla il telefono ed è
lei? Ti è mai capitato, allo stesso modo, di sognare una persona
e di incontrarla casualmente il giorno dopo? “
Isobel fece cenno di sì con la testa.
“Ebbene questi fenomeni, che potremmo definire di
sincronicità, sono stati alla base di alcuni studi di uno dei più
grandi, se non il più grande, psichiatra della storia: Carl Gustav
Jung. Ne ha mai sentito parlare?”
“Ho visto alcuni suoi libri tra quelli che la nonna mi ha
lasciato…”
“Jung è stato uno dei più grandi esploratori della psiche degli
esseri umani, un esploratore temerario e intrepido che non esitò
a calare tutto se stesso nelle sue ricerche. In un primo tempo
era stato collaboratore di Freud, ma ben presto si dissociò da
lui perché si convinse che le teorie freudiane non potevano
spiegare totalmente la mente umana: secondo Jung Freud
insisteva troppo e in maniera quasi esclusiva sulla repressione
degli istinti sessuali come spiegazione delle afflizioni della
psiche umana: un modello della malattia mentale che
enfatizzava rigide categorie di tempo, spazio e persona. Jung si
convinse che occorreva spingersi oltre, ed elaborò un modello
della psiche “non locale” in cui, quindi, i pensieri, gli istinti, le
ansie, le paure, le fobie non attingevano solo da un vissuto
reale e razionale, utilizzando le esperienze vissute del soggetto
nella vita reale e nel suo inconscio personale, ma affondavano
e portavano alla luce anche una dimensione transpersonale,
comune a tutti, che era rappresentata da archetipi presenti in
quello che Jung chiamò “Inconscio Collettivo”. Molte delle
radicali intuizioni di Jung derivavano da sue esperienze, in
particolare dai suoi sogni. «Giorno dopo giorno noi viviamo
lontano, oltre i limiti della nostra coscienza” concluse. «A
224
nostra insaputa, anche la vita dell'inconscio procede dentro di
noi... comunicandoci alcune cose... fenomeni di sincronia,
premonizioni e sogni». Elaborando per decenni la propria vita
psichica, nonché trattando migliaia di pazienti e analizzando i
loro sogni, Jung giunse alla certezza che l'umanità possiede una
precisa eredità psichica. Essa consiste di fenomeni
fondamentali per la vita che si esprimono a livello psichico,
cosi come altre caratteristiche ereditarie si manifestano a livello
fisico. Secondo Jung l'inconscio collettivo non potrebbe essere
definito nello spazio o nel tempo, e trascende l'individualità
singola per abbracciare tutte le menti. Come egli scrisse:
«L'inconscio... ha il suo 'tempo' poiché passato, presente e
futuro si fondono assieme in esso». Durante la sua vita Jung fu
spesso testimone di casi di sincronicità sorprendenti:
emblematico e famoso il caso da lui descritto di una paziente
che, nel suo studio, gli stava raccontando un sogno in cui le
veniva donato uno scarabeo: in quel medesimo istante Jung
sentì un rumore alle sue spalle, come se qualcosa urtasse contro
la finestra: era uno scarabeo che cercava di entrare nella stanza
buia. Tali eventi, che Jung chiamava sincronici, fecero
supporre la possibilità di trascendere i concetti di spazio, di
tempo e di causalità, tutti concetti che limitano e tendono a
imbrigliare le nostre capacità mentali. Jung ha descritto tre tipi
di sincronicità: nel primo vi è coincidenza tra contenuto
psichico ed un evento esterno; nel secondo vi è un sogno o una
visione che coincide con un evento distante nello spazio. Nel
terzo, una persona ha un sogno o una visione di qualcosa che
deve avvenire e che poi, di fatto, si verifica. Sulle sincronicità
famosa è la sua collaborazione con il fisico quantistico
Wolfgang Pauli che aveva rilevato casi simili in comportamenti
di particelle nella meccanica quantistica. Ma su questo
argomento torneremo più tardi.”
225
Isobel era come incantata. Lo sguardo del professore si era
fatto penetrante e guizzava vivace dai suoi occhi all’orizzonte.
Poteva leggereci la passione e la estrema concentrazione che
richiedeva lo spiegare quei concetti.
“Jung ebbe, durante la sua lunga vita, una serie di esperienze,
che chiameremmo in maniera semplicistica paranormali quali
visioni, premonizioni, esperienze di premorte tutte analizzate e
descritte nei suoi libri, che lo guidarono e lo spronarono nello
studiare la psicologia dell’inconscio e ad elaborare il concetto
di inconscio collettivo. Jung sosteneva che siccome tutte le
distinzioni svaniscono nella condizione inconscia era logico
che anche la distinzione fra menti separate dovesse scomparire.
Egli disse: «Dovunque c'è un abbassamento del livello conscio,
riscontriamo casi d'identità inconscia.» Jung si rendeva conto
che una delle manifestazioni comuni della mente inconscia era
il fondamentale senso mistico di unicità e di unione con tutto
quello che contiene. Nel suo libro “Ricordi, sogni, riflessioni”
scrisse: «Non avrei mai pensato che si potesse provare
un’esperienza del genere. Le mie visioni e le mie esperienze
erano effettivamente reali, nulla era soltanto sentito, soggettivo,
anzi possedevano tutti i caratteri dell’assoluta oggettività.
Rifuggiamo dalla parola eterno ma posso descrivere la mia
esperienza solo come la beatitudine di una condizione non
temporale nella quale presente, passato e futuro siano una cosa
sola. Tutto ciò che avviene nel tempo vi era compreso in un
tutto obiettivo, nulla era più distribuito nel tempo o poteva
essere misurato con concetti temporali. Tale esperienza
potrebbe semmai esser definita come una certa condizione del
sentimento, che non si può però immaginare. Come posso
immaginare di essere contemporaneamente così come ieri
l’altro oggi e dopodomani? Qualcosa non sarebbe ancora
cominciato, altro sarebbe chiarissimo presente e altro ancora
sarebbe già terminato: eppure tutto sarebbe una cosa sola! La
226
sola cosa che il sentimento potrebbe cogliere sarebbe una
somma, un tutto iridescente, contenente allo stesso tempo
l’attesa di un cominciamento, sorpresa per ciò che accade al
momento e soddisfazione o delusione per ciò che è accaduto.
Un tutto indescrivibile, una trama della quale si è parte: eppure
siamo in grado di percepire il tutto con assoluta obiettività. »
Questa esperienza, come lo stesso inconscio collettivo, era
universale. Jung la chiamò: «il farsi Uno trascendente»;
un'esperienza che metteva una persona in contatto con la Mente
Unica. Ma in definitiva questa Mente Universale e la mente
singola erano una sola e la medesima.
Ma anche se può sembrare blasfemo per l'occidentale
riconoscere una cosa del genere, sottolineò Jung, era
nondimeno un'«incontestabile esperienza mistica» presente in
tutte le tradizioni religiose, sia orientali sia occidentali.
Jung credeva fermamente nell'immortalità e questo si
armonizzava con la sua certezza che la Mente è al di là delle
limitazioni del tempo. Scrisse: « La nostra psiche si spinge
fino a una regione che non subisce le costrizioni del mutamento
nel tempo né delle limitazioni dello spazio. I due elementi del
tempo e dello spazio, indispensabili per il cambiamento, sono
relativamente privi d'importanza per la psiche... La psiche è
fino a un certo punto non soggetta alla corruttibilità».
Rivolgere l'attenzione alle manifestazioni della Mente
atemporale era per Jung il dovere catartico di ogni essere
umano e ad essa dedicò tutta la sua vita di studioso.
Questo compito è particolarmente arduo nella nostra epoca
perché abbiamo spostato tutto il nostro interesse sul «qui e
adesso»: sul fare, sul consumare, sull'aspetto pratico della vita,
sul «progresso» materiale. Ma la nostra mente non può essere
inscatolata nel «qui e adesso», perché è infinita ed eterna. E,
poiché la sua «qualità» di spazio e tempo è diversa da quella a
cui attribuiamo comunemente valore, ce ne troviamo esclusi. Il
227
risultato è patologico: noi siamo diventati vittime dei nostri
impulsi inconsci, il nostro mondo è stato reso un inferno. Al
contrario, il nostro compito nella vita, insegnò Jung, è
«esattamente l'opposto: diventare consci dei contenuti che
premono dall'inconscio». Dobbiamo «creare sempre più
coscienza». Solo in questo modo possiamo realizzare «l'unico
scopo dell'esistenza umana: accendere una luce nelle tenebre
della vera esistenza». “
“Quindi Jung sperimentò direttamente su di sé premonizioni,
sincronicità, visioni? Deve essere stato un uomo davvero
coraggioso.” disse Isobel ammirata ”Spingersi agli estremi di
se, lasciarsi avvolgere da esperienze che stravolgono i nostri
canoni mentali deve richiedere grande dedizione e grande
sforzo”
“Certo, ma solo così si può giungere alla consapevolezza, solo
così potè rispondere senza saccenza ma con estrema sincerità
alla domanda: Crede in Dio e nella vita dopo la morte? Non
credo né all'uno né all'altra. So che entrambi esistono. Grazie a
tali esperienze egli giunse a sentirsi non solo liberato da ogni
paura della morte, ma anche a vedere in sé rafforzata la
consapevolezza che questa vita é soltanto un frammento
dell’esistenza, che si svolge in un universo tridimensionale,
disposto a tale scopo. Avere la forza di affrontare il proprio
inconscio, di accettare se stessi senza riserve, di guardare con
occhio libero fenomeni che vanno oltre le nostre capacità
razionali di comprendere, affrontare certe situazioni può
spaventare, ma questo è dovuto soprattutto al fatto che ognuno
di questi avvenimenti, di queste sensazioni, di queste piccole
epifanie sconvolgono il modo in cui per secoli l’uomo ha
pensato a se stesso e alle cose che lo circondano: la limitazione
che l’uomo ha posto a se stesso a al proprio inconscio è la più
grande difficoltà che si incontra nell’aprirsi a queste esperienze
e a queste realtà perché mettono in crisi in un sol colpo secoli
228
di certezze, secoli di ragione e di lumi, secoli di fredda
razionalità aprendoci a un mondo diverso, nuovo, in cui i
concetti di tempo, di spazio e di causalità, ovvero i perni della
nostra comune percezione della realtà, vengono a mancare o
assumono significati profondamente diversi. Credo che la
stessa sensazione l’abbiano provata quei fisici che per la prima
volta si trovarono davanti i fondamenti della fisica quantistica:
un totale capovolgimento dei canoni normali di quella che
reputiamo essere la realtà in cui siamo calati. Da questo punto
di vista è quindi comprensibile l’unità di intenti e di studi che
condivisero Jung e il fisico quantistico Wolfgang Pauli.”
“La nonna aveva un libro di Pauli: mi sembrava si intitolasse,
non a caso, Psiche e Natura. Ma continui la prego, non volevo
interromperla….”
“Fino a poco tempo fa” disse il professore con aria grave
“sarebbe stata un'eresia scientifica sostenere che vi possono
essere influenze dirette tra soggetti, oggetti o particelle, non
contigue o fisicamente collegate.”
Vedendo lo smarrimento nel volto di Isobel si fermò un istante,
sorrise poi riprese.
“Cerco di spiegarmi meglio: nel nostro comune percepire la
realtà due corpi sono distinti se sono separarti nello spazio.
Inoltre affinché un corpo eserciti una qualche influenza su di
un altro occorre che in qualche modo superi lo spazio che li
separa. Io posso influenzare il comportamento di un oggetto o
di una persona solo se questa è fisicamente raggiungibile,
ovvero se io posso venire fisicamente a contatto con essa
(posso camminare fino a lei e la posso toccare) o se posso
vederla (la televisione che trasmette immagini di avvenimenti
fisicamente lontani in realtà è a me fisicamente collegata
tramite il mio televisore che recepisce le onde
elettromagnetiche partite dal luogo da dove provengono le
immagini che sto visualizzando) o mettermi in contatto audio
229
(posso dirti di fare una cosa). Insomma io posso influenzare un
comportamento solo ed esclusivamente se sono connesso
localmente (anche a grande distanza attraverso telefoni, radio,
televisori) all’oggetto o al soggetto che intendo influenzare.
Dal punto di vista della fisica classica questo si chiama
principio di località. Tale presupposto, insieme a molti altri,
sono stati completamente sconvolti dalla fisica quantistica.
La fisica quantistica ha sconvolto e rivoluzionato concetti che
l’uomo riteneva solidi e irrinunciabili. La più grande difficoltà
dei fisici che iniziarono l’esplorazione del mondo dei quanti fu
quella di credere a ciò che le loro analisi andavano mostrando,
ovvero una realtà in cui venivano a mancare una serie di
presupposti che noi consideriamo irrinunciabili nella vita di
tutti i giorni. Il messaggio che ne scaturì è che la nostra è una
interpretazione e una semplificazione della realtà e che la realtà
quantistica ha una serie di regole e di paradossi che non si
conciliano con la nostra percezione delle cose; ma, come per la
relatività di Einstein o, più semplicemente, per il sistema
eliocentrico di Copernico, occorre ribadire che è la nostra
percezione di certi eventi e di certe situazioni ad essere errata e
forviante.
Il principio di indeterminazione, l’entaglement di due
particelle, l’influenza dell’osservatore sull’osservato sono tutte
concettualizzazioni dirompenti per la nostra “normale”
percezione della realtà.
Ognuna di queste peculiarità meriterebbe fiumi di formule e di
analisi. Proverò a farti capire questi concetti in maniera
stringata ma il più possibile chiara.”
Isobel annuì. Era completamente ipnotizzata da quelle parole,
come se le fosse stato tolto un velo che le offuscava la vista da
tempi immemori. Sentì una specie di scossa, come quando un
brivido di freddo attraversa la spina dorsale congelando
quell’attimo nella mente. Aveva letto della teoria dei quanti in
230
quelle due settimane e le era parsa una teoria interessante ma
assolutamente ininfluente rispetto alla ricerca della nonna e alla
sua; ora invece iniziava a intravvedere il filo rosso che le univa.
“Il primo grande sconvolgimento portato dalla fisica dei
quanti” continuò il professore ”è che noi non potremo mai
conoscere con esattezza la posizione di una particella; il
massimo che potremo ottenere è una serie di probabilità che
essa si trovi in determinati punti dello spazio. Il secondo
grande sconvolgimento è la caduta del principio di località cui
ho accennato prima: qualunque sia la distanza tra due particelle
questa non garantisce che esse siano distinte; tale principio
sfida un dogma assoluto della fisica: la velocità della luce. Un
cambiamento effettuato su di una particella provoca un
istantaneo e identico cambiamento su di un’altra particella,
detta entagled, indipendentemente dalla distanza che separa le
due. Le connessioni tra due particelle sono infatti istantanee
anche a miliardi di anni luce e questo è in netta contraddizione
con la teoria della relatività ristretta che postula la velocità
della luce come velocità massima raggiungibile. Un'interazione
localizzata è, in breve, non mediata, intatta e immediata. Un
fisico irlandese, John Stewart Bell, ha dimostrato l'effettiva
esistenza di tali interazioni. In una prova matematica
confermata da numerosi esperimenti successivi, chiamata
Teorema di Bell, egli ha dimostrato che l'ipotesi secondo cui il
mondo è intrinsecamente localizzato è errata. E questo apre la
possibilità non più solo teorica della telepatia, di fenomeni
sincronici indotti dalla mente, di deja vù visti come esperienze
di un tempo che non scorre ma che è in qualche modo tutto
presente. Il terzo grande sconvolgimento riguarda il principio
di indeterminazione: esso sostiene che la nostra decisione di
misurare certe proprietà di una particella elimina la possibilità
di misurarne altre. Ad esempio maggiore è la precisione con
cui voglio determinare la posizione di una particella, minore è
231
la precisione che avrò nel determinarne la velocità. Questo
introduce un ruolo attivo del’osservatore sul fenomeno
osservato. Il quarto grande sconvolgimento è rappresentato dal
principio di complementarietà che introduce una sorta di
dualismo tra le particelle: esso afferma infatti che ogni
particella ha una natura ondulatoria e una corpuscolare; sarà
l’osservatore a fare emergere uno dei due aspetti all’apparenza
antitetici.
Un altro sconvolgimento è quello apportato dal cosiddetto
paradosso del gatto di Schrodinger: tale paradosso venne
enunciato dallo stesso Schrodinger più o meno così:
«Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in
una scatola d’acciaio insieme con la seguente macchina infernale (che occorre
proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un
contatore di Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva,
così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegra, ma
anche in modo parimente verisimile nessuno; se ciò succede, allora il contatore
lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del
cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si
direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si è
disintegrato. La prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La
funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il
gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso»
Questo significa in pratica che il gatto resta sia vivo che morto
fino al momento dell’osservazione. Sarà l’osservazione in
qualche modo a uccidere o far vivere il gatto. Questo paradosso
ha fatto nascere numerose teorie, la più interessante delle quali
è la cosiddetta teoria a molti mondi: essa, elaborata da Hugh
Everett III, sostiene che nelle situazioni descritte da
Schrodinger si vengono a generare due universi, uno nel quale
il gatto risulterà morto, un altro in cui il gatto risulterà vivo, e
questo per ogni evento possibile. Questo significa, in pratica
che la realtà è costituita da tutti gli eventi possibili; essi
avvengono tutti, ma ognuno in uno specifico universo che non
232
può comunicare con gli altri. Dal punto di vista filosofico
questo significa che a ogni bivio che ci presenta la vita, per
ogni scelta che coscientemente facciamo ve ne sono altre
diverse che avvengono in universi paralleli: in questo universo
tu mi stai ascoltando, in un altro mi hai appena salutato
infastidita e te ne stai andando, e così via per ogni possibile
scelta.”
A Isobel venne in mente il suo sogno con le tante se stessa che
avevano destini diversi a seconda della scelta che veniva fatta.
“C’è da aggiungere” proseguì il professore “che le recenti
scoperte in cosmologia provano l’esistenza di altri universi. Se
l’universo, come sembra, ha dimensioni infinite esistono
infiniti mondi abitati e infiniti tra essi ospitano persone che
hanno il nostro stesso aspetto, e tra essi infiniti che hanno i
nostri stessi nomi e ricordi ma che sperimentano ognuno le
infinite possibili vite che avremmo avuto prendendo decisioni o
scelte differenti in ogni istante della nostra vita. Sembra
assurdo ma la cosmologia ci racconta proprio questo allineando
il macrocosmo con la teoria a molti mondi dell’universo
quantistico.”
Isobel pensò che questo poteva essere il reale significato del
sogno: ogni Isobel rappresentava una lei come sarebbe stata se
avesse preso una decisione diversa, se non avesse guardato le
farfalle, se non si fosse fermata davanti al cedro. Trovava
quella teoria estremamente affascinante ma assai poco
credibile…
“E’ facile comprendere” stava proseguendo il professore “la
portata rivoluzionaria di questi concetti soprattutto a livello
filosofico e di interpretazione della realtà che ci circonda: si
postula l’influenza dell’uomo sulla materia (dell’osservatore
sull osservato). Prima dell’osservazione non siamo autorizzati a
parlare di un mondo reale di cose ed eventi, ma solo di
possibilità con il potenziale di essere realizzate.
233
Solo combinando fra loro in un'unità singola l'osservatore e
quanto viene osservato la visione del mondo può avere senso.
In tal modo viene a crollare il concetto di realtà unica, fissa e
immutabile. Si parla di connessioni (o di unità intrinseche) tra
oggetti che normalmente reputiamo distinti e si presuppone la
possibilità di influenzare oggetti a distanza. L'abbattimento del
tradizionale concetto secondo il quale alla causa deve sempre
seguire l'effetto. Tutti questi concetti hanno la possibilità di
ribaltare completamente il nostro concetto di realtà. Ma come è
sempre accaduto si sono prese per buone le tesi senza trarre le
doverose conseguenze. Si è recepita la rivoluzione
normalizzandola e ghettizzandola a una teoria fisica facendo
finta di non sapere che noi siamo immersi e costituiti di quelle
particelle dalle leggi e dai fondamenti così bizzarri….”
“Lei crede che tali principi siano applicabili e verificabili anche
nella nostra realtà?”
“E’ una delle ipotesi. C’è un detto che dice: come in piccolo
così in grande. L’aspetto della non località e delle particelle
entangled potrebbe ad esempio spiegare le sincronicità, le
premonizioni, le telepatie; potrebbe dare una risposta agli
interrogativi che sollevano i test di cui le ho parlato prima. Se
abbiamo verificato la possibilità di comunicazioni istantanee
non locali tra le particelle perché non ipotizzare che vi sia un
legame mentale (o un territorio comune quale ad esempio
l’inconscio collettivo di Jung) tramite il quale sia possibile
comunicare e influire sul comportamento altrui in maniera non
locale. E’ una frontiera inesplorata e affascinante ma ostacolata
da scetticismo e preconcetti: la scienza ha paura della
metafisica, ma la scienza e la metafisica poggiano sulle
medesime fondamenta: sono necessità dell’uomo. Occorre
riunificare la fisica con la metafisica, la filosofia con la natura.
Abbiamo passato secoli a dividere, analizzare, parcellizzare,
234
distinguere, è ora di ricomporre, riunire. Io vedo un solo limite
in tuttto ciò: lo spettro dell’incompletezza.”
“L’incompletezza?” chiese Isobel “Cosa intende per
incompletezza?”
“I due teoremi dell’incompletetzza furono formulati dall logico
austriaco Kurt Gödel, peraltro amico di Einstein, e sono, a mio
parere tra le più alte vette che il pensiero dell’uomo abbia mai
raggiunto. La loro formulazione tecnica è assai complessa.
Potrei dirle: “In ogni teoria matematica T sufficientemente
espressiva da contenere l'aritmetica, esiste una formula tale
che, se T è coerente, allora né né la sua negazione sono
dimostrabili in T” e ancora che “Sia T una teoria matematica
sufficientemente espressiva da contenere l'aritmetica: se T è
coerente, non è possibile provare la coerenza di T all'interno
di T “ ma credo che così formulati non le dicano granchè. In
maniera più semplice potremmo dire che un sistema
matematico consistente e sufficientemente ricco non puo
dimostrare la propria consistenza, e se esso è anche corretto
allora è incompleto. Semplificando ulteriormente e uscendo
dalla matematica (Kurt mi perdonerà) potremmo dire che la
mente non può dimostrare la propria esistenza, i sani di mente
non possono dimostrare di esserlo (così come i malati), nessuna
parola può descrivere se stessa e la cosa che vuole indicare, che
nessun uomo può descrivere se stesso, che l’uomo per spiegare
se stesso e la sua realtà dovrebbe essere altro da se stesso per
non cadere nell’autoreferenzialità: in pratica esistono verità che
non sono dimostrabili, predicati che non sono enunciabili.
Gödel ha posto un limite a tutti i sistemi creati dall’uomo: dai
computer, al linguaggio, dai sistemi giuridici alla filosofia. Non
tutto ciò che è vero è dimostrabile, i mezzi a nostra
disposizione sono incompleti... Cosa ci resta se le parole non
possono spingersi fino alla verità, se anche la matematica si
arrende, se la nostra logica è incompleta? L’esperienza. Il
235
contatto diretto con le cose, senza mediazioni fisiche e
intellettuali. Osservare, vedere, sentire, percepire il movimento,
l’energia, la luce, il movimento dei pianeti, lo stormire delle
foglie e il ritmo vitale che è sotteso a tutto ciò e che tutto
unisce.
Gli elettroni ruotano intorno al nucleo come i pianeti attorno al
sole; l’infinito si rispecchia negli occhi di un bambino così
come nella galassia più lontana. Ogni cosa torna a noi, ogni
cosa è già vista, come in piccolo così in grande, come in cielo
così in terra. Questa è la realtà i cui bagliori squarciano la
nostra quiete per comunicarci che tutto è anche uno e noi siamo
parte integrante e non interposta a questo tutto. Ma la scienza,
la psicologia e la filosofia, lo studio della natura sono solo una
parte dell’indagine, sono incomplete; possono solo portarci
sulla soglia di tale esperienza, non possono condurci dall’altra
parte. Leggere Jung e sapere delle sue visioni non ci comunica
le sensazioni da lui provate; l’esperienza diretta è l’unica via e
l’arte può essere una strada. L’artista è una specie di medium
che riesce in alcuni momenti di ispirazione a essere in contatto
con quella realtà che ai più è preclusa. Occorre cercare nelle
loro opere, scorgere i frammenti di consapevolezza che essi si
lasciano alle spalle, come una scia luminosa ma sfuggente di
una stella cadente in una notte di agosto. Questo è lo scopo di
questo posto: conservare memoria di questa arte, di questa
consapevolezza. Ma oggi anche l’arte è denaro. Il denaro ha
sporcato e svilito l’arte che da esperienza quasi religiosa è
divenuta una attività commerciale; da mezzo è diventato fine,
da comunicazione è diventata solipsismo, autoreferenzialità
estrema. Ma esistono ancora voci e musiche che incantano,
parole che evocano, libri che feriscono, quadri che folgorano,
esistono ed è per essi che questo posto ha un suo senso. E’ uno
scrigno in cui è riposto tutto il sapere e tutta la magia dell’arte
e del sapere che questo mondo ha prodotto; è aperto a tutti ma
236
segreto, perché non diventi un luogo di culto. E da qui forse un
giorno partirà la luce che illuminerà chi sarà pronto ad
accogliere la sua semplice verità. Questo posto è in tanti sensi
un ritorno alle origini.”
Il vecchio professore tacque come per prendere fiato e
recuperare il filo dei suoi pensieri. Il sole era già alto sopra il
profilo delle montagne e il bianco dei ghiacciai splendeva fino
a bruciare gli occhi. Lo scroscio della cascata si riverberarva
per la valle sottostante creando strane eco; Isobel si accostò al
muretto e fissò un punto indefinito all’orizzonte.
“Era di queste cose che parlava con mia nonna, vero?” disse
sempre con lo sguardo perso sull’orizzonte “Ed era di queste
cose che la nonna ricercava in quella montagna di libri, di
dischi, di quadri: quanto vorrei sentire la sua voce ora...” Si
sorprese della frase che aveva appena pronunciato. “Stava
scrivendo un libro, un libro sul tempo. Credo che sia nato dalle
conversazioni con lei. Ho trovato i suoi appunti….”
“Me ne aveva parlato, mi aveva chiesto se potevo leggerle le
bozze ma non ha avuto modo di darmele.”
“Ora non serve più” disse Isobel voltandosi e fissando il
professore.
“Professor Barbur, che cosa lega questo posto con i riti
iniziatici di Eleusi nella Grecia antica? Il nome non può essere
casuale.”
Il professore ebbe un impercettibile gesto di stupore subito
represso.
“Infatti non lo è” disse con un tono di voce flebile ma deciso
”ma non posso aggiungere altro. E’ giunto il momento che io
vada. Solo un’ultima cosa“ disse estraendo dalla tasca una
scatola argentata “questa è la scorciatoia per apprendere, usala
con buon senso e solo per te stessa. La consapevolezza non può
essere conquistata per altri..”
237
E così dicendo le porse la scatola argentata: era finemente
cesellata, con il simbolo del serpente e dell’aquila che già
aveva visto rappresentato in varie parti del monastero. Sotto i
due animali una scritta in inglese: “Eleusi’s Kykeon”
“Ma…..” balbettò Isobel interdetta.
“Leggi Isobel, fai tesoro di questa conversazione, studia,
ricorda, ma quando riterrai di avere compreso vuota la mente e
lasciati prendere dall’esperienza. Il vuoto è pieno e il pieno è
vuoto. Occorre riempirsi, per poi svuotarsi e riempirsi di
nuovo; ogni cultura, ogni nozione ha la sua nemesi, solo
l’esperienza diretta non mente perché non è mediata. Il Kykeon
è un mezzo e come tale deve essere usato, con cura e
parsimonia, ma può donare una fugace consapevolezza. E’ una
scelta, la tua ora, fanne buon uso. Che la pace sia la tua strada.
Addio.”
E così dicendo rientrò nel monastero. Isobel rimase immobile,
fissando la scatola che stringeva tra le mani. La superficie
argentea brillò, colpita da un raggio di sole.
“Che persona incredibile” sussurrò riponendo la scatola in
tasca. E si avviò per il sentiero.
238
CAPITOLO XXXVI
239
armonia con l’Universo. Poteva essere passato un giorno come
un anno da quando sapeva di aver iniziato a cantare, nota dopo
nota, semicroma dopo semicroma, glissato dopo glissato… Le
sue dita si muovevano sulla chitarra tessendo segrete trame di
note, quasi indipendenti dalla sua volontà, dalla sua coscienza.
Sentiva la melodia e l’assecondava, la domava, la possedeva; la
sua voce vibrava dalla voglia di esplodere, ma non vi era
dolore in quella melodia, solo una placida rassegnazione.. La
trattenne e virò la tonalità su un flebile ma fiero sospiro: stava
giungendo la fine. Odiava la sensazione di distacco dalla
musica, il termine della vibrazione, il termine dell’estasi. Le
ultime frasi, le ultime note. Prese fiato,.era l’ultima parola, ma
non voleva pronunciarla, non voleva che finisse: trattenne
dentro di se tutta la rabbia, la frustrazione e la tramutò in un
flebile, infinito acuto che protrasse finchè sentì i suoi polmoni
urlare la mancanza di ossigeno. Una nota sospesa per un tempo
incredibile, inumano, eterno. Tutta la dolcezza, la rabbia, la
tensione, la gioia in quella nota infinita. Chiuse gli occhi, la
ballerina si era fermata estasiata da quel richiamo senza tempo;
ogni cosa intorno a lui sembrava ferma e allo stesso tempo
vibrare al suono di quella nota, in un compenetrarsi del mondo
in quel tremore eterno. La vibrazione cessò, tutto riprese il suo
corso. Jeff aprì gli occhi. Halleluja ripetè dentro di
se…Halleluja.
240
CAPITOLO XXXVII
241
Isobel prese il viso di Hani tra le sue mani e guardandolo
intensamente gli disse:
“Ti amo. Sei la cosa più bella che mi sia mai successa.” Gli
disse accarezzandolo dolcemente.
“Issi..” disse Hani “..credi che sia giusto?”
“Giusto cosa?” chiese Isobel.
“Che esistano posti del genere, sensazioni del genere che ti
riconciliano con il mondo, la natura, il creato, il tuo essere e
esattamente in questo istante in altri luoghi vi è fame,
sofferenza, morte? Credi che sia giusto tutto ciò?”
“Non so risponderti Hani…” disse Isobel.
“Che senso hanno tutte queste ricerche, la ricerca di
consapevolezza, la ricerca di uno scopo nella vita quando poi a
poca distanza da te la vita stessa vale meno di nulla, l’infanzia
dei bambini viene stuprata e calpestata, il diritto alla
sopravvivenza viene declinato come una concessione o un
colpo di fortuna? Che senso ha questo posto, che senso ha la
memoria del bello, del giusto, la conservazione dell’arte, della
letteratura, il progresso delle scienze, le speculazioni
filosofiche sul tempo se in ogni istante, che esista o meno,
persone muoino, soffrono, piangono?” Hani si era seduto e
gettava sassi nel lago sfogando la sua frustrazione.
Isobel si accoccolò alle sue spalle e lo abbracciò teneramente.
“Dove ci hanno portato le letture di Nietzsche, di Joyce, di
Kundera, di Borges, di Rimbaud, di Proust, di Gandhi, l’ascolto
di Coltrane, dei Doors, di Dylan, degli U2? Cosa hanno
cambiato in realtà? Da quanti anni è che la risposta chiesta da
Dylan vola nel vento? Da quanti anni è che ci sono bloody
sunday? Sono purtroppo molto disilluso a riguardo e questa
permanenza qui mi ha confermato questa mia convinzione.
Non serve a nulla e mai servirà: la cultura, l’arte, la religione
hanno senso solo se possono servire da monito e da esempio,
ma il mondo dimostra che non è così. Se uno leggesse o
242
ascoltasse realmente e capisse realmente di cosa si sta
scrivendo, parlando, cantando, filmando le cose non sarebbero
così: se Nietzsche fosse stato letto e capito, se Blowin’ in the
wind non fosse ridotta a una suoneria di un telefono cellulare,
se Bono non fosse stato fagocitato dal sistema contro cui urlava
all’inizio, se milioni di altri pensieri, sentimenti, scritti o
magari urlati nel sangue non fossero costantemente
marginalizzati e normalizzati, resi innoqui con etichette
(intrattenimento, lettura, musica, viaggi mentali per persone
con tempo da perdere) disinnescandone automaticamente il
loro potere rivoluzionario, anarchico ed eversivo allora
penserei che è un’immane delitto che persone siano private
della possibilità di giungere a questa conoscenza, di accedere a
questo posto, di fare la nostra esperienza. Ma la nostra civiltà è
la testimonianza vivente che tutto ciò non conta, che siamo
addormentati in un limbo di finto benessere e perbenismo, un
limbo in cui nulla che dista da noi più di un metro ci
preoccupa. Abbiamo tutto, l’accesso potenzialmente illimitato
alle informazioni, alla cultura, a una via per una maggiore
consapevolezza ma tutto ciò è ormai inerme, reso inoffensivo.
Non abbiamo più la forza di capire e di indignarci. Siamo colti
da una miopia senza limiti: quante parole, canzoni, opere
sprecate Issi, quanto sangue versato per un briciolo di
consapevolezza in piu’ lavato con noncuranza dallo scorrere
monotono dei giorni! Se si leggesse e si ascoltasse realmente
nulla sarebbe come oggi è: che cosa sono vissuti a fare Gandhi,
Martin Luter King, Jan Palack, John Lennon, Bob Dylan? Per
chi e’ stata scritta Master of War, perchè Dio e’ morto, chi ha
soffocato le emozioni della voce di Jeff Buckley, chi ha
disinnescato la rabbia di Kurt Cobain, chi ha fatto delle visioni
di Jim Morrison una parodia per adolescenti imbecilli e
sballati, chi ha sporcato la memoria del Che, chi ha svenduto il
suo volto sulle magliette, chi ha annegato l’incanto delle
243
Illuminazioni di Rimbaud? Che cosa ce ne siamo fatti di tutti
questi doni divini Issi?
Te lo dico io: niente, niente di niente e lo dico con quel poco di
rabbia che l’anestesia della vita quotidiana mi permette di
provare. E se noi, liberi e belli abbiamo annacquato ogni
pensiero sovversivo o semplicemente diverso dal perbenismo e
dal conformismo dominante, in nome di che cosa reclamiamo
la nostra superiorità? Noi che dovremmo sapere e non
sappiamo, noi che dovremmo capire e non capiamo? No Issi, a
questi patti la vita di un solo bambino vale piu’ di mille idee, se
le idee non sanno vivere dentro di noi! Stare qui non ha più
alcun senso per me. Mi fa male, tanto male….”
Hani tremava, dalla rabbia e dalla tristezza. Isobel lo stringeva
con tutte le sue forze mentre le lacrime le segnavano il volto.
“Non lo so Hani, non lo so… So solo che devo seguire la strada
indicatami dalla nonna ovunque essa porti. Tu hai ragione, hai
ragione da vendere, ma sento che non è così semplice..”
“E’ maledettamente complicato infatti!” disse il ragazzo
alzandosi di scatto e gettando un masso nel mezzo del lago.
“Poi c’è quella minaccia velata del consiglio, il fatto che devi
rimanere altrimenti morirai. Che ti importa Isobel di quel libro?
Vieni via con me, ora, andiamocene da questa falsa quiete,
rendiamoci utili a noi stessi e agli altri…”
“Non posso Hani, credimi, vorrei ma non posso. Mi sento
legata a quel libro e a quanto fatto da mia nonna.. Non posso
rinunciarvi ora che sono ad un passo dalla comprensione…
Domani mi aspetta il Consiglio dei Saggi. Non ho intenzione di
tirarmi indietro, succeda quello che succeda. Sento che è una
cosa troppo importante, almeno per me. La tua promessa alla
nonna è stata mantenuta: sei libero di andare, hai fatto anche
troppo per me Io ti amo ma non voglio che il mio amore si
trasformi in prigione.”
244
“Isobel” le disse il giovane abbracciandola teneramente “anche
io ti amo, ho solo bisogno di dare un senso a ciò che stiamo
facendo, a ciò che stiamo cercando Tu ci sei riuscita, ma per te
era facile, il rapporto che avevi con tua nonna è stato in questo
decisivo, ma io… io ho bisogno di sapere che sono utile a
qualcuno, che sto’ contribuendo ad alleviare le pene di
qualcuno, o almeno voglio averne l’illusione, ma una illusione
che non porti dubbi.”
“Basta con le illusioni Hani, basta! E’ ora di aprire gli occhi e
forse è proprio per questo che sento giusto rimanere qui, per
ora… per aprire gli occhi.. Solo con gli occhi aperti si può
andare per il mondo e cercare di migliorarlo…. Io credo sia
possibile…” e così dicendo si immerse nell’acqua
scomparendo in un tuffo.
“Resterò al tuo fianco amore mio” mormorò Hani “almeno fino
al tuo incontro con il Consiglio”.
E si tuffò anche lui.
245
246
CAPITOLO XXXVIII
Il tempo in oriente
247
Collegato al concetto di tempo e spazio è il concetto di Io. L’io è
considerato ciò che allontana l’uomo dalla verità, ciò che non gli
permette di penetrare la realtà ultima, di sentire il suo respiro
come respiro del creato. Ma l’Io vede se stesso solo nello spazio
e nel tempo. Il dissolvimento dell’Io dovrebbe quindi passare per
una dissimulazione delle realtà di spazio e di tempo. E’ questo lo
scopo della meditazione: inserire se stessi in una dimensione a-
temporale ove non sentirsi più individui ma sentirsi
compenetrare da ogni essere, da ogni forma, da ogni spazio, da
ogni tempo.
Ed è per questo che nello zen vengono studiati i koan: i koan zen
non sono altro che “scorciatoie mentali”, impervie e tortuose,
per astrarre la mente e il suo modo di ragionare dal se, dal
raziocinio, dal tempo e di creare i presupposti per l’ingresso nella
realtà ultima. Sono inneschi verso l’Illuminazione, sconcertanti e
assurdi per i più: eccone qui un esempio:
Oppure:
248
È come un bufalo d'acqua che passi attraverso una finestra. La sua testa, le
corna, le quattro zampe passano tutte. Perché non riesce a passare anche la
coda?
“Sia chiaro che lo spazio non è altro che un modo di particolarizzazione che
non ha esistenza reale di per se stesso. Lo spazio esiste solo in relazione alla
nostra coscienza che particolarizza…”
“In questo mondo spirituale non ci sono suddivisioni di tempo come passato,
presente e futuro; esse si sono contratte in un singolo istante del presente nel
quale la vita freme nel suo vero senso…. Il passato e il futuro sono entrambi
racchiusi in questo momento presente di illuminazione e questo momento
249
presente non è qualcosa che sta in quiete con tutto ciò che contiene ma si
muove incessantemente.”
D.T. Suzuki
“La maggior parte delle persone crede che il tempo trascorra; in realtà esso
sta sempre la dov’è. Questa idea del trascorrere può essere chiamata tempo
ma è un’idea inesatta; infatti, dato che lo si può vedere solo come un
trascorrere, non si può comprendere che esso sta proprio dov’è”
Dogen
“Il passato e il futuro velano Dio ai nostri occhi; bruciali ambedue col fuoco.
Per quanto tempo sarai diviso da questi segmenti come una canna? Finchè
250
una canna è sezionata non le si affidano segreti ne risuona in risposta al
labbro e al respiro.”
251
stabilità, ma anche l'innovazione. Per quanto riguarda il linguaggio verbale,
non ci sono dubbi, perché il linguaggio verbale è scansione di parole nel tempo
e quindi sia le parole delle lingue occidentali che di quelle orientali si
consumano. La questione si fa più interessante per quanto riguarda il
linguaggio scritto. Questo per vari motivi. Innanzi tutto, i caratteri cinesi,
come voi sapete, non sono dei segni in sequenza lineare. Sono dei segni, dei
disegni, che danno compattamente, simultaneamente, l'idea di una cosa.
Quindi il tempo, psicologico necessario per passare da una parola che deve
essere letta all'idea, al significato mentale, di questa parola, al contenuto di
questa parola, è completamente diverso dal tempo che si impiega nelle lingue
occidentali. Perché, ad esempio, nella parola "cane", nelle lingue orientali, è
necessario seguire la scansione delle lettere che compongono quella parola, poi
effettuare un riferimento acustico che poi diviene mentale. Nel cinese, come
nel giapponese, questa idea si disloca immediatamente nella mente, senza la
mediazione acustica. Molte volte è suggerita, addirittura, da alcuni segni di
questo carattere. Quindi, in queste lingue orientali, i tempi di lettura e quelli
percettivi sono completamente diversi rispetto ai nostri. Questo è il primo
fatto fondamentale. Poi, in particolare, nella lingua cinese, è prevalente il
riferimento all'agire, all'azione, all'attività. Come dicevo prima, qualsiasi
cosa che per noi è inerte, (si pensi al legno o al metallo, che sono solo alcuni
tra i cinque agenti) nell'ontologia orientale ha un'attività nei confronti di
qualcosa e una passività nei confronti di un altro elemento. Comunque non
c'è nulla al mondo che sia puramente statico. Né i cinque elementi, né tutti
quegli elementi che risultano composti di quelli basilari, perché tutto è
attività.
Tutti i mali, per così dire, o tutta la sofferenza degli uomini deriva dal fatto
che l'uomo si è sempre concentrato sul proprio io, fino a farne una specie di
centro, e questo io è diventato ipertrofico ed è cresciuto talmente, ed ha
assunto dimensioni narcisistiche tali, da sostituirsi al mondo stesso,
diventando il centro del mondo. Ora questa non è una cosa puramente
teorica. In particolare il buddhismo sostiene che tutte le sofferenze sono
fondate su questo accentramento all'io, su questo "ego-centrismo" per così
dire. Noi siamo letteralmente strappati via dalla vita con questa visione del
tempo che ci siamo imposti, e per vari motivi: storici, politici, economici, e
credo che in questo tipo di civiltà tradizionali si possa ritrovare un concetto
di tempo, in una parola, qualitativo, ritrovando l'intensità della qualità dei
momenti che si vivono.
252
In base a quello che noi leggiamo nei testi buddhisti il futuro non esiste, nel
senso che il futuro esiste solo nel presente come aspettativa. Il passato non
esiste perché è nel presente solo come ricordo. Se andate a leggere le
Confessioni di Sant'Agostino anche in quell'opera Agostino svolge un
ragionamento molto simile a questo. Neanche il presente esiste, perché nel
momento in cui tu lo vuoi afferrare scorre via, ci scivola dalle mani, passa.
Quindi in realtà il tempo non esiste. Non esiste anche per un fatto molto
semplice, che per il buddhismo e anche per il taoismo non c'è un inizio e una
fine. Mentre, di contro, noi siamo all'interno di una prospettiva lineare,
complicata quanto vogliamo, ma lineare. Qualcuno ha creato il mondo,
qualcuno lo distruggerà.
Allora ciascun momento diventa immenso, con un ragionamento, se vuoi,
molto semplice, dal punto di vista psicologico. Tu pensa che questo momento,
che stiamo vivendo ora, oppure qualsiasi momento della tua vita, sia
l'ultimo. Questo pensiero si intensifica enormemente, fino a diventare la
migliore possibilità immaginabile, e tu lo puoi vivere assolutamente,
pienamente, ovvero in maniera assolutamente piena, senza più confrontarlo
con quello che vivevi prima, per vedere se era più cattivo o più buono e senza
vederlo in rapporto ad un futuro.
Giangiorgio Pasqualotto
“Se l’uomo vuole essere libero dalla paura deve essere libero dal tempo. Se il
tempo non esistesse l’uomo non avrebbe paura.”
Jiddu Krishnamurti
“Il primo giorno in cui mi trovavo in questo stato e non ero più consapevole
di quanto mi stava intorno vissi la prima esperienza estremamente notevole.
C’era un uomo che aggiustava la strada e quest’uomo ero io, e anche l’albero
accanto all’uomo ero io. Potevo quasi sentire e pensare come lo stradino e
avvertivo il vento che scuoteva l’albero, e sentivo anche le piccole formiche sul
filo d’erba. Gli uccelli, la polvere e persino i rumori erano parte di me. Nello
stesso momento in lontananza passò un’automobile e io ero l’autista, il
motore e le ruote; mentre la macchina si allontanava da me anche io mi
253
allontanavo da me stesso.Io ero in ogni cosa o meglio ogni cosa era in me,
animata e inanimata, la montagna, il verme e ogni cosa che respirava.”
Jiddu Krishnamurti
254
CAPITOLO XLIX
255
C.G.J. NAHTRIHECCUNDE GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH ZUNNUS
A.E. E= mc2 T=∞ ? T=0 ?
K. G.
J.C. F G Ab Bb C
J.D.M The scream of the butterfly
G.G. Slowly fading in the north, the ice, the night. What a silence… What a
music…
T.M. Icci, segui chi mi ha preceduto
Per lei era ormai chiaro, e in quei giorni lo era divenuto sempre
di più, che quello era un elenco delle persone che erano entrate
in possesso, durante gli anni, di quel maledetto libro. Alcuni di
questi, grazie alle letture di quei giorni e ad alcuni appunti della
nonna, era riuscita ad identificarli o per lo meno ad attribuire
loro una identità plausibile.
J.D.M. ad esempio doveva essere Jim (James Douglas)
Morrison. L’urlo della farfalla faceva parte del testo di una sua
canzone.
K.G. era stata la sua ultima scoperta: dopo la discussione con
il professor Barbur aveva cercato informazioni riguardanti il
logico austriaco Gödel, quello del teorema dell’incompletezza,
e in un libro dalui scritto, sotto la dicitura “Prova ontologica
256
dell’esistenza di Dio” aveva trovato le medesime formule che
erano riportate su quel foglio.
Le era stato fin da subito chiaro che quella era una specie di
mappa, tracciata negli anni da chi era entrato in possesso del
libro, con indicazioni in qualche modo criptate ma non troppo.
Un’altra “firma” che era riuscita a identificare in quei giorni
era quella di C.G.J. Per Isobel si trattava quasi sicuramente di
Carl Gustav Jung. Aveva infatti trovato quella serie di lettere
incomprensibili al termine di uno scritto piuttosto astruso
intitolato Septem Sermones ad Mortuos in cui Jung trascrisse,
con quella che lui stesso definì “scrittura automatica”, una
visione che ebbe nel 1916. Tale scritto termina con la dicitura
Anagramma seguita da quelle lettere. In seguito aveva letto che
tale anagramma non era mai stato risolto e che Jung non volle
rivelarne a nessuno la chiave.
Quanto ad A.E. non poteva essere che Albert Einstein, la
formula riportata non poteva trarre in inganno, nonostante quel
T=∞ ? T=0 ?
Queste identificazioni però creavano più di un problema: che
cosa avevano in comune Jung con Einstein, con Gödel, con Jim
Morrison? Possibile che quel libro passasse così di mano in
mano attraversando la vita di alcuni tra gli intellettuali e
scienziati più famosi dell’ultimo secolo? Che cosa aveva di
così speciale quel libro se queste persone vi apponevano in
calce la loro firma, seppur criptata e vi lasciavano, come una
specie di dedica, brandelli delle loro opere più famose?
Era un rompicapo di cui Isobel non sapeva vedere la soluzione.
Si sporse per guardare fuori dalla feritoia. Il sole stava per
lambire la cima delle montagne a occidente: era ora. Ripose il
foglio in tasca e uscì. Nel corridoio antistante non c’era
nessuno. Ripercorse la grande loggia con la vetrata che aveva
ammirato il giorno del suo arrivo a Lendi Eleusi e si fermò
dinnanzi alla porta dorata. In quel momento le venne in mente
257
Hani: non lo aveva visto per tutta la giornata; si erano salutati
la sera precedente dandosi appuntamento per quella mattina …
Lei aveva trascorso tutta la mattina nella biblioteca a leggere
ma Hani non si era visto, poi la cosa le era passata di mente
man mano che l’emozione per l’incontro con il consiglio
cresceva. Chissà che fine aveva fatto? Dopo il discorso del
giorno precedente presso la cascata era un po’ preoccupata per
lui, ma ora non c’era tempo, ora aveva altro a cui pensare.
Impugnò il battente e percosse la porta. Un suono sordo si
propagò per la loggia. Dopo pochi attimi la porta, cigolando si
aprì, Isobel entrò nel salone e si ritrovò al cospetto del
Consiglio dei Saggi. La scena che ebbe innazi agli occhi era la
medesima della volta precedente: una serie di persone disposte
a semicerchio e in mezzo il seggio dal quale la fissava il Capo
del Consiglio; l’unico cambiamento percepibile era il fatto che
tutti i componenti del consiglio indossavano una specie di
tunica bianca. Mentre camminava per portasi di fronte al Capo
del Consiglio Isobel scorse tra i suoi membri numerose persone
che aveva incontrato per il monastero nei giorni precedenti;
riconobbe padre Jakob, un francescano della Bosnia
Erzegovina con il quale si era trattenuta giorni prima a parlare,
insieme ad Hani, della guerra che aveva insanguinato il suo
paese; vide anche il volto sereno e austero della professoressa
Johanna Pauli, una psicologa junghiana con cui, dopo la
discussione avuta con il professor Barbur, aveva approfondito
alcuni aspetti del pensiero del grande psichiatra. Isobel passò di
fianco alla Fonte della Purezza, bevve un sorso seguendo il
rituale della volta precedente e si pose innanzi al Capo del
Consiglio. Alla sua destra, in piedi e con un vestito dei colori
dell’arcobaleno c’era Rumi, nelle vesti solenni di Custode del
Silenzio.
“La pace sia con te, Isobel Morrison.”
Isobel chinò il capo.
258
“Il Consiglio è qui riunito per ascoltare la tua decisione: vuoi tu
porre nuovamente la tua domanda al Consiglio consapevole di
vincolare in tal modo la tua esistenza a questo luogo? Vuoi
conoscere e sopportare il peso di tale conoscenza in questo
luogo fino a quando le tue ali non si dispiegeranno per il loro
volo eterno?”
Isobel trasse un sospiro e rispose decisa:
“Sì, lo voglio!”
Il vecchio si alzò dal seggio.
“Voi tutti avete udito la risposta. Isobel vuole porre la domanda
al Consiglio e vincolarsi al Giuramento di Lendi Eleusi. Che il
rito del Vincolo si compia.”
Rumi si fece avanti con una corda tra le mani, si avvicinò a
Isobel e, prendendola per mano, la guidò innanzi alla fontana.
Qui le si pose di fronte e le legò la corda ai polsi. Poi, presa
una candela da un vicino candelabro, diede fuoco alla corda
dicendo:
“L’acqua e il fuoco suggellino il vincolo eterno: il silenzio e
l’oblio dei monti, la pace e il ritiro, la meditazione e la
purificazione. Questa è la tua dimora ora, la prima e l’ultima.
Non rito ma simbolo, non magia ma tradizione.”
E così dicendo immerse i polsi di Isobel nella fontana prima
che si bruciasse.
“Il vincolo è posto!”dichiarò solennemente. E così dicendo
ritornò alla destra del Capo del Consiglio.
Isobel si tolse le corde mezzo bruciacchiate dai polsi e ritornò
di fronte al vecchio.
“Ora sei vincolata a questo luogo e fai ufficialmente parte di
questa comunità. Il rito è finito, la forma e la tradizione cedono
il posto alla sostanza e alla volontà di conoscenza. Dunque
Isobel cosa vuoi sapere da noi?”
259
Isobel era stupita dal cambio di tono: la voce ieratica e il tono
stentoreo avevano lasciato il posto ad un tono conviviale, caldo
e accomodante: era diventata una di loro.
“Volevo avere informazioni sul libro “Il mistero delle Esuli”.”
“E’una domanda complessa Isobel” le rispose il vecchio, quasi
non attendesse altro “che riguarda questo luogo, la sua reale
origine, il suo reale scopo. Ma permettimi prima di tutto di farti
io una domanda: dove ne hai sentito parlare? Ti sarai resa
conto infatti che di tale libro non esistono tracce in nessuna
biblioteca, in nessuna bibliografia e, te lo può confermare
chiunque qui, non è citato in nessun libro, racconto o studio”
“Nessuno me ne ha parlato: l’ho visto, l’ho incominciato a
leggere ma mi è stato rubato..”
Un mormorio di stupore attraversò tutti gli astanti. Anche il
vecchio trasalì alle parole di Isobel.
“Il libro? Tu hai visto quel libro? Tu lo hai toccato, sfogliato,
letto?” disse al colmo dell’agitazione, perdendo quel contegno
e quel distacco che ne aveva sempre contraddistinto le parole e
i gesti.
“Sì” disse Isobel stupita per lo sconcerto e il fervore che la
circondava. “Era giunto a mia nonna per posta il giorno prima
che morisse; era sul suo petto quando morì e io lo presi con me
e lo incominciai a leggere, ma mi fu rubato dopo che ne avevo
letto poche righe.”
Il mormorio crebbe di intensità; persone che confabulavano
concitatamente, altre che si scambiavano sguardi increduli.
“Ma… che cosa sta succedendo??”chiese Isobel con voce
preoccupata.
“Calmiamoci!”disse il vecchio assumendo nuovamente il tono
severo di sempre ”Dobbiamo una spiegazione a Isobel, e per
più di un motivo.”
Il silenzio scese tra gli astanti.
260
“Dunque Isobel, come ti dicevo in precedenza il libro ha a che
fare con le origini e lo scopo di questo luogo. Il titolo completo
dovrebbe essere “Il Mistero delle Esuli” seguito da dei numeri:
14-18-15-17-16-19, è corretto?”
“Corretto” confermò Isobel.
“Se lei conta la posizione delle lettere che compongono il titolo
e le dispone nell’ordine descritto da questi numeri otterà la
parola Eleusi; è un giochetto affatto complicato ma tanto
innocuo da passare per lo più inosservato. Il libro parla di
Eleusi, ma l’Eleusi del titolo non è questo posto.” Si interruppe
creando un senso di aspettativa poi riprese “Immagino che
nelle tue ricerche su questo monastero tu abbia incontrato
diverse volte il tempio e i riti dei Eleusi, antico culto misterico
della Grecia.”
Isobel annuì.
“Quindi conosci la storia e la leggenda di Eleusi. Eleusi era un
tempio dedicato a Demetra, madre di Persefone, a sua volta
moglie di Ade e regina degli inferi. A lei venivano dedicati tutti
gli anni dei riti, in primavera e in autunno, nella città greca di
Eleusi. In tali riti, cui erano ammessi solo gli iniziati, venivano
rivelati, sotto forma di esperienza o di visione aiutata dalla
ritualità e da cibi e bevande psicotrope, i cosiddetti misteri. Il
fine ultimo del culto eleusino consisteva infatti nell'indurre nel
partecipante una visione mistica codificata secondo specifici
simbolismi e mitologie e indotta da sostanze psicotrope, in
particolare da quelle presenti nella bevanda sacramentale
eleusina per eccellenza, il kykeon o ciceone. Aristotele
sull’argomento riporta che "coloro che vengono iniziati non
devono apprendere qualche cosa ma provare delle emozioni,
evidentemente dopo essere divenuti atti a riceverle". Tali
misteri sono rimasti inviolati e sconosciuti sino ad oggi. Gli
iniziati erano infatti obbligati al vincolo del silenzio sulla
natura degli stessi. Fin qui quanto è possibile trovare nella
261
storiografia ufficiale. Esiste però un ulteriore livello di
informazioni che sono state tramandate e giunte fino a noi da
quel luogo e su quei riti.
Si dice infatti che all’interno del tempio fossero custoditi dei
libri nei quali gli iniziati dell’epoca trascrivevano o dettavano
agli amministratori del culto le loro esperienze, le loro visioni.
Narra la leggenda che tra questi libri ve ne fosse uno scritto dal
filosofo greco Parmenide e completato da alcuni scritti di
Platone, che erano stati entrambi segretamente iniziati ai
misteri e che avevano avuto accesso ad un livello superiore di
iniziazione accedendo ad alcuni misteri che rimanevano celati
ai semplici iniziati; tali misteri venivano tramandati solo
all’interno della casta sacerdotale del tempio. Attorno
all’esistenza di tale libro, della cui importanza credo tu ti possa
rendere perfettamente conto, circolano diverse leggende:
secondo alcuni andò distrutto nel 395 dopo Cristo, quando i
Visigoti distrussero il tempio di Demetra a Eleusi; secondo
altre leggende fu confiscato e fatto distruggere dall’Imperatore
Teodosio quando proclamò la chiusura del culto. Secondo altre
leggende però, un secolo prima della effettiva distruzione del
tempio, quando il culto e i riti avevano già imboccato la strada
del declino, un sacerdote riuscì a sottrare il libro e lo consegnò,
dopo diverse peripezie nientemeno che al filosofo Plotino. Ciò
avvenne, sempre secondo la leggenda, intorno al 230 dopo
Cristo. C’è chi ha voluto vedere nella profondità e nell’armonia
del pensiero filosofico di Plotino, un’eco dei misteri di Eleusi.
Ma su questo punto lascio a lei la possibilità di studiare e
approfondire il discorso. Tornando a noi, a questo punto,
sempre secondo la leggenda, del libro si perdono le tracce,
anche se si dice che Plotino abbia istruito diverse persone
intorno a lui affinché il libro potesse, anche se in segreto,
circolare. E la leggenda continua dicendo che in effetti tale
libro ha continuato a circolare nei secoli e che fu posseduto da
262
diversi artisti, intellettuali, studiosi. Fino alle tue parole di poco
fa quasi tutti noi pensavamo che il libro fosse andato perduto e
distrutto per sempre; solo tua nonna, il professor Barbur e
pochi altri speravano ormai nell’esistenza del Libro; le notizie
che ci hai portato ci hanno enormemente colpito, perché
qualcosa che credavamo perduto per sempre è stato ritrovato,
anche se solo per un attimo.”
“Ma in che modo questo luogo ha a che fare con i Misteri di
Eleusi?” chiese Isobel.
“Nel 390 dopo Cristo, poco prima che l’imperatore romano
Teodosio proclamasse la chiusura del tempio e la cessazione
della celebrazione dei misteri, alcuni iniziati lasciarono Eleusi
e la Grecia e, dopo molto girovagare, giunsero in Tibet. Narra
la leggenda che si unirono a una comunità buddista in un
tempio vicino a Lhasa. Dopo alcuni anni decisero però di
fondare un monastero in cui perpetuare la tradizione misterica
di Eleusi e, insieme a alcuni monaci che avevano iniziato ai
misteri, partirono per un viaggio lungo la catena dell’Himalaya
alla ricerca di un posto adatto alla fondazione di un monastero.
Dopo mesi di vano girovagare trovarono una valle nascosta e
rigogliosa, la risalirono fino a delle cascate e sopra di esse
eressero un monastero: il monastero di Lendi Eleusi, quello in
cui ti trovi ora Isobel.”
La ragazza non sembrò sorpresa: in qualche modo aveva già
intuito il legame tra quei due luoghi (il nome non poteva essere
casuale) e averne conferma non la turbò più di tanto.
“Il tempo trascorse e la comunità crebbe alimentando voci che
divennero leggenda: la leggenda del tempio delle cascate si
fuse con la leggenda di Shangri-La, il mitico paradiso senza
tempo della tradizione tibetana, stendendo un’aura di mito
intorno a questo luogo. Persone da diverse parti del Tibet si
mettevano in viaggio alla ricerca questo monastero dove, si
diceva, il tempo si era fermato e veniva insegnato un sapere
263
eterno. Purtroppo tale sapere era incompleto in quanto non vi
era alcun sacerdote che potesse perpetuare i misteri di cui solo
essi erano a conoscenza. La ritualità di un tempo pian piano
sbiadì fino a rimanere un eco e una parodia di ciò che avveniva
un tempo in Grecia e questo luogo, pur mantenendo il nome e
un legame storico con i riti misterici di Eleusi fu tramutato da
un mio grande predecessore Lendi Xiao Jang, in un luogo di
studi e di meditazione, segreto ma aperto a tutti, in cui si
cercava di accumulare tutte le conoscenze, i miti, le opere che
il mondo andava producendo: la segreta speranza era di rilevare
e ricostruire tramite esse il mistero celato nel leggendario libro.
La tradizione infatti parla di:”Un mistero insito in tutte le cose
e che da tutte le cose deriva, ma che solo l’arte e la poesia e la
profonda conoscenza di se possono disvelare” e di “Un mistero
che rivela l’inganno della natura e dell’intelletto umano
portandoci a una più elevata consapevolezza di ciò che
chiamiamo vita e di ciò che chiamiamo morte.”
“Alcune delle ritualità a cui tu hai partecipato derivano dalla
tradizione di Eleusi, compreso il rito del Vincolo, residuo del
vincolo che legava gli iniziati a mantenere il segreto sui misteri
a cui avevano avuto accesso, altre sono state create in seguito.
Per un millennio questo luogo è stato un segreto accumulatore
della sapienza del mondo, con lo scopo palese di studiare e
approfondire e quello nascosto ma non meno importante di
recuperare al mondo l’intera antica consapevolezza di Eleusi.
Ora puoi comprendere perché la notizia che ci hai comunicato,
che hai tenuto tra le mani il sacro libro, ci ha così
profondamente scosso. La tradizione, tra l’altro, aggiunge
questa profezia: “Quando il perduto libro sarà ritrovato da un
Mystes, il mondo si troverà sulla soglia di una catastrofe che
inciderà sulla sua storia per secoli a seguire.” Tua nonna era
una iniziata, una mystes, ha violato il vincolo e ha ritrovato il
libro: i tempi sono maturi….”
264
Isobel, per l’ennesima volta da quando la nonna era morta, si
trovò confusa, immersa in una realtà di cui non immaginava
minimamente l’esistenza.
“Ma se tutto questo è vero, chi e perché mi ha rubato il libro?”
chiese Isobel impaurita dalla sensazione di essere un
ingranaggio di un gioco che si stava svolgendo, attraverso i
secoli, da oltre un millennio.
“Speravo fosse stato un banale furto di appartamento, niente di
mirato.” disse il Capo del Consiglio titubante.
“Non è così: mi hanno sottratto solo il libro e, probabilmente,
su commissione.” rispose Isobel decisa.
“Questo è fatto davvero inquietante;” rispose il vecchio
pensieroso “è inquietante perché fa sorgere il sospetto che vi
siano altre persone a conoscenza del libro. L’esistenza di tale
libro può rappresentare una minaccia per alcuni aspetti della
civiltà occidentale: ho la sensazione che il Platone che
emergerebbe dalla lettura delle pagine del libro potrebbe
stendere una luce diversa sull’interpretazione della sua filosofia
che è alla base di quello che noi chiamiamo pensiero
occidentale. Se poi si dovesse scoprire l’influenza che tale libro
ha avuto su alcune delle menti più acute della storia, come è
presumibile che sia, ecco solo questo ti può far capire quanta
avidità possa generare la voglia di possedere tale libro.”
“Ma con i vostri studi, in questi secoli, cosa siete riusciti a
scoprire?” chiese Isobel.
“Abbiamo recuperato diversi indizi, ricostruito alcuni passaggi
di proprietà del libro ma ciò avveniva solo molti anni dopo,
quando il libro era già passato di mano. Siamo convinti che
esso sia dietro le opere di alcuni artisti, filosofi, poeti, pittori.
Ciò che non ci appare chiaro è come e in che modo questo libro
circoli e sia finito tra le mani di personaggi che hanno lasciato
il segno nella cultura e nell’arte. Sono dovute a sua nonna la
maggior parte di queste scoperte: sua nonna identificò, sulla
265
base di studi e ricerche approfondite quattro illustri possessori
del libro: Johan Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart,
Leonardo da Vinci, Immanuel Kant. Se consideriamo il fatto
che ai misteri originari nella città di Eleusi in Grecia erano stati
iniziati, anche se non lo troverà su nessun libro, il filosofo
Parmenide, Aristotele, Platone, Eschilo, Omero e Cicerone
possiamo tranquillamente affermare che buona parte delle
fondamenta della cultura e della filosofia occidentale sono state
gettate da uomini iniziati ai misteri di Eleusi. E questo, come
può capire, rende la ricerca e il recupero del libro una faccenda
culturalmente molto affascinante. Attenzione, con questo non
intendo dire che le opere e le scoperte di costoro sono il frutto
della lettura di tale libro o dell’iniziazione ai misteri, sarebbe
un insulto al genio e all’intelletto di questi geni, ma
sicuramente in essi, nelle loro opere, nel loro pensiero tali
misteri hanno un riflesso, magari anche puramente umano, di
conforto, di consapevolezza, di sprone…”
“A questo elenco potete aggiungere almeno Albert Einstein,
Kurt Gödel e Carl Gustav Jung” disse Isobel con tono deciso,
dopo una breve pausa.
Il vecchio parve stupito.
“E….. lei come fa a saperlo?” chiese confuso da quella
affermazione perentoria.
“Ho trovato questo tra gli appunti della nonna. E’ la
trascrizione fedele dell’ultima pagina del libro, dove con grafie
diverse erano riportate queste frasi. L’ultima riga era, l’ho
riconosciuta subito, la calligrafia di mia nonna. Le iniziali
davanti lo confermano, così come l’esortazione a me di seguire
chi la ha preceduta. Questo è…”
“L’elenco di tutte le persone che hanno avuto il libro!” disse il
vecchio quasi urlando, leggendo la pagina che Isobel le aveva
porto e generando un mormorio di incredulità tra i membri del
266
consiglio. “Se solo il professor Barbur fosse ancora con noi”
aggiunse con un gesto di malcelata stizza.
“Come?” trasalì Isobel colpita dalla notizia ”Dov’è il professor
Barbur? Se ne è andato?”
“Ha infranto il Sacro Vincolo.” disse Rumi accompagnando
quelle parole con uno sguardo carico di tristezza “Questa
mattina presto è stato visto partire insieme al suo amico Hani.”
Isobel trasalì. Hani se ne era andato? Ecco perché non si era
fatto vivo per tutta la giornata..
“Il professor Barbur era, insieme a sua nonna, il massimo
esperto del sacro libro. Aveva abbandonato gli studi in campo
fisico e aveva iniziato questa avventura, chiedendo di essere
ammesso al monastero e vincolato a noi dalla conoscenza
dell’esistenza del libro. Per oltre vent’anni ha pazientemente
raccolto una serie preziosissima di informazioni: è lui che è
arrivato, una decina di anni fa, sulla base di alcune analisi, a
sostenere che Aristotele, Platone, Eschilo e Omero erano stati
iniziati ai misteri: un documento ritrovato in Grecia alcuni anni
fa ha poi confermato la correttezza dell’analisi del professore.
Avrebbe dato la vita per avere questa pagina tra le mani e ora
che in maniera inattesa il destino gliel’ha portata, ha deciso di
andarsene. Se ce lo consenti vorremmo poterla studiare e
analizzare.”
“Naturalmente; anche se è solo una trascrizione fatta da mia
nonna, è una riproduzione fedele, fatte salve ovviamente le
grafie, della pagina conclusiva del libro” rispose Isobel, ma la
sua mente era altrove, stava pensando al fatto che Hani se ne
era andato, l’aveva lasciata sola. “Vi chiedo solamente di poter
essere informata delle eventuali scoperte.”
“Sarà fatto.”rispose il Sommo Anziano consegnando il foglio a
Rumi.
“Ma dei misteri contenuti nel libro non si sa davvero nulla?”
chiese Isobel.
267
“Oltre a ciò che già ti ho detto si tramanda, ma fino ad oggi è
considerata solo una leggenda, che il libro contenga alcuni
scritti di Parmenide e di Platone: vengono fatte anche alcune
ipotesi sui titoli: Il mistero del Fiume e Il mistero della Luce.
Quello che ti ho detto è tutto ciò che ci è stato tramandato
attraverso racconti, miti, leggende. Ma è difficile, a così tanti
anni di distanza, discernere tra fantasia, mito e informazioni
corrette. “
A questo punto nella sala calò il silenzio.
Isobel cercava di mettere ordine nella sua mente: il libro,
Eleusi, il vincolo, la fuga di Hani e del professor Barbur.
Hani… La notizia della sua partenza da Lendi Eleusi l’aveva
rattristata tantissimo; poteva dirmelo, pensò, almeno prima che
accettassi il Vincolo, poteva portami con lui, poteva…..
Con un moto di stizza scacciò quei pensieri dalla mente; se ne
sarebbe occupata più tardi; ora era davanti al Consiglio.
“Un’ultima domanda: è possibile che qualcuno sia
sopravvissuto alla violazione del vincolo?”
La domanda lasciò interdetti tutti gli astanti.
“No!” rispose il vecchio “Ogni violazione è stata punita, lo è
stato nel passato, lo sarà nel futuro fino quando questo posto
esisterà; non si tratta di una vendetta e, comunque, non è
perpetrata da uomini: questo vincolo opprime ognuno di noi,
ma nessuno volontariamente punirebbe tale violazione. Il
destino è già segnato, così è scritto, anche se questo sembra
trascendere ogni razionalità; il vincolo esiste, sua nonna e
alcuni altri casi stanno a dimostrare la sua terrificante
puntualità. E’ un pesante fardello da sopportare, ma la scelta
resta comunque individuale: nessuno fermerà chi intenda
trasgredire, la punizione che lo aspetta è più che sufficiente.”
“Ma se qualcuno fosse sopravvissuto nonostante il vincolo,
questi avrebbe potuto proseguire le proprie ricerche nel mondo
268
e, forse, essere colui che ora ha in mano il libro.” disse Isobel
con voce stizzita.
“Ti ripeto che nessuno sfugge alla Violazione del Vincolo.”
ripetè con un pizzico di irritazione il vecchio.
“E sia” si arrese Isobel “è possibile avere un elenco dei nomi di
chi ha violato il vincolo in tutti questi anni?” chiese con aria
annoiata.
“Certamente,” era Rumi ora che le stava rispondendo “ma è un
elenco molto breve; coloro che hanno rotto il vincolo si
contano sulle dita di una mano. Più tardi ti farò avere un elenco
con una piccola biografia delle persone che hanno violato il
vincolo di Eleusi.”
Isobel fece un profondo inchino e si accomiatò dal consiglio.
“Che la pace sia il tuo sentiero” disse il vecchio alzandosi
seguito da Rumi e da tutti gli altri membri del consiglio.
Una volta uscita dal salone del consiglio, invece di tornare
nella sua stanza, Isobel decise di uscire per osservare il
tramonto e per prendere un po’ d’aria. Giunse nel giardinetto
dove aveva avuto luogo il dialogo con il professor Barbur e si
avvicinò alla panchina, fissando l’orizzonte color vermiglio che
insanguinava le cime innevate circostanti. Giunta innanzi alla
panchina si accorse che su di essa, fermato da un sasso, come i
buddisti usano fare con le loro preghiere, vi era un foglietto.
D’istinto lo prese e lesse:
Cara Isobel,
ho deciso di partire. Il professor Barbur ha scoperto alcune cose
riguardo il libro e mi ha chiesto di accompagnarlo. La nostra
destinazione è New York, ma prima trascorreremo un periodo in
Afghanistan ad aiutare i profughi di quella guerra ormai infinita. Mi
spiace Isobel ma, come ti ho detto ieri, ho bisogno di sentirmi utile al
prossimo.
Ti Amo Tanto
269
Tuo
Hani
270
CAPITOLO XL
Il tempo in filosofia
271
la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli
volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere
e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua
vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così
pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo
e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e
tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra digrignando i
denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto
una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta:
"Tu sei un Dio e mai intesi cosa più divina"? Se quel pensiero ti prendesse
in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti
stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: "Vuoi tu questo ancora una
volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il peso più
grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare
più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?.
[......].
La visione e L’enigma
………………………….
« "Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte sono io: tu non
conosci il mio pensiero abissale! Questo tu non potresti sopportarlo!".
Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù
dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma,
proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia.
"Guarda questa porta carraia, Nano. Essa ha due volti. Due sentieri
convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella
lunga via fuori della porta e avanti è un'altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro
l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il
nome della porta: "attimo".
Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano:
credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?".
"Tutte le cose diritte mentono” borbottò sprezzante il nano.” Ogni verità è
ricurva, il tempo stesso è un circolo".
272
"Tu, spirito di gravità!” dissi io incollerito “non prendere la cosa troppo alla
leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato e sono io che ti ho
portato in alto!
Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama
attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è
un'eternità.
Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso
una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già
essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?
E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche
questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate
saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietiro di sé
tutte le cose a venire? Dunque anche se stesso?
Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via
al di fuori deve camminare ancora una volta!
E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo
chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti
non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? e ritornare a camminare in
quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via non
dobbiamo ritornare in eterno?".
Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e
dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare.
Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse
all'indietro. Sì! Quand'ero bambino, in infanzia remota: allora udii un cane
ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all'insù, tremebondo, nel
più fondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri:
tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte,
saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente,
tacita, sul tetto piatto, come su roba altrui: ciò aveva inorridito il cane:
perché i cani credono ai ladri e agli spettri. E ora, sentendo di nuovo ululare
a quel modo, fui ancora una volta preso da pietà.
Ma dov'era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare?
Stavo sognando? Mi ero svegliato? D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi
macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna.
Ma qui giaceva un uomo! E proprio qui! il cane, che saltava, col pelo irto,
guaiolante, adesso mi vide accorrere e allora ululò di nuovo, urlò: avevo mai
sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo?
273
E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore
rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero
penzolava dalla bocca.
Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto?
Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e lì si era
abbarbicato mordendo.
La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava invano! Non riusciva
a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca:
"Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il
mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me buono
o cattivo gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.
Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e
chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari
inesplorati! Voi che amate gli enigmi!
Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione
del più solitario tra gli uomini!
Giacché era una visione e una previsione: che cosa vidi allora per
similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il
pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le
più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci?
Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene!
Lontano da sé sputò la testa del serpente; e balzò in piedi.
Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che
rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, e ora mi consuma una sete,
un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi
consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora!»
F. W. Nietzsche (Così Parlò Zahratustra, 1885)
274
da enunciarne personalmente i suoi fondamenti lasciandone
intuire il significato attraverso “la visione e l’enigma”.
Sono stati scritti decine di libri tentando di interpretare questo
concetto, un concetto che Nietzsche non ha mai approfondito,
forse volutamente, nei suoi scritti, lasciandolo come sfondo, un
non detto che però è il filo rosso che lega ed è sotteso a tutte le
sue opere degli ultimi anni e che, forse, contiene i prodromi della
sua “follia”.
La teoria dell’Eterno Ritorno di Nietzsche presupponeva il
ripetersi eterno di ogni attimo, di ogni azione, di ogni
avvenimento e conteneva quindi, almeno in nuce, l’annullamento
e la confutazione del concetto di tempo così come noi lo
interpretiamo e lo sperimentiamo.
Proviamo ora a addentrarci brevemente in una interpretazione
della visione e dell’enigma.
Zahratustra giunge a una porta carraia che rappresenta l’attimo,
dietro e innanzi a se si perpetua tutta l’eternità; dalla porta carraia
partono due sentieri, che rappresentano la possibile scelta da
effettuare in quell’attimo. Ma, come dice Zahratustra, essi si
contraddicono, ovvero ad una prima analisi percorrerne uno
preclude la possibilità di percorrere l’altro. Ma qui il nano lo
interrompe sostenendo che ogni verità è curva e che il tempo è
un circolo. Dunque i due sentieri possiamo vederli come il
futuro. Ma se il sentiero è un cerchio, qualunque strada
percorrerà Zahratustra, qualunque scelta prenda in quell’attimo,
si ritroverà a ripassare, sulla via del futuro per quella porta carraia
e dunque a rivivere quell’attimo. Quindi quell’attimo accadrà di
nuovo sulla strada del futuro: ma se accadrà di nuovo
quell’attimo, accadranno di nuovo tutti gli attimi ad esso
successivi e antecedenti: ogni attimo quindi ritornerà.
A questo punto Zahratustra sperimentò un deja vù. Quell’ululato
del cane è sicuro di averlo già udito in passato e di avere già
vissuto quell’istante. Qui forse Nietzsche vuole suggerirci come i
deja vù siano una specie di prova dell’eterno ritorno. L’ululato
del cane poi si trasforma in un urlo, in una richiesta di aiuto.
Zahratustra accorre e vede un pastore rotolarsi con un serpente
nero che gli penzolava dalla bocca. Il serpente potrebbe essere
275
un’ulteriore rappresentazione del tempo, che striscia e scorre per
terra; il tempo che si insinua nell’uomo e lo soffoca. Il tempo
quindi viene qui rappresentato come un qualcosa che affligge
l’uomo, che ne distorce i lineamenti. Zahratustra prova a
strappare via il serpente, ma nessuno può vincere il tempo per un
altro. Ogni persona deve sconfiggere il tempo da sola,
mordendogli e staccandogli la testa, estirpando da se il pensiero,
il concetto stesso del tempo. A questo proposito è curioso notare
come i due animali che accompagnano Zahratustra nel suo errare
sono un’aquila e un serpente, o meglio un’aquila che vola
tenendo tra gli artigli un serpente. Ciò che striscia e ciò che vola
uniti; l’unione degli opposti, il ricongiungimento tra cielo e terra,
tra materia e spirito.
E il pastore, sconfitto il tempo staccandogli la testa con un
morso, appare trasfigurato, sorridente, luminoso: la morte del
tempo come scorrere immutabile ha reso l’uomo sorridente e
felice.
Pur tra metafore e simboli pare chiaro quindi poter intravvedere
in questo passo ciò che Nietzsche intende per tempo e per
Eterno Ritorno ma, soprattutto, l’effetto che la comprensione di
tale pensiero può avere sull’uomo: Nietzsche ritiene infatti
l’eterno ritorno un concetto “pedagogico” per l’avvento
dell’oltreuomo, ovvero colui che sa dire sì alla vita, in ogni sua
forma e necessità.
E’ indubbio infatti, al di la della sostenibilità o meno del
concetto di tempo ciclico, che se noi compissimo azioni
pensando al fatto che tali azioni si ripeteranno eternamente
probabilmente il nostro modo di agire, di pensare, di vivere
sarebbe diverso. E’ questa forse, in ultima analisi, la forza e la
rivoluzione portata dal pensiero dell’eterno ritorno: la
consapevolezza che ogni scelta può essere eterna, così come ogni
gioia, ogni dolore. Avere tale consapevolezza, giusta o sbagliata
che sia, porterebbe sicuramente a comportamenti e atteggiamenti
diversi nei confronti della vita stessa da parte di ognuno di noi.
Non quindi il cogliere l’attimo ma il vivere l’attimo come se fosse
eterno.
276
E forse nel silenzio, nella reticenza dietro cui Nietszche cela il
fondamento della sua teoria sta la consapevolezza del limite
dell’argomentare umano che nulla può dinnanzi all’esperienza
diretta, al vivere il pensiero dell’eterno ritorno, al sentire
nell’attimo l’eternità e a essere liberi dalle catene del tempo. Il
silenzio come spazio vuoto da riempire con il confronto di
ognuno con tale esperienza, senza guida, alibi, senza scuse. Una
sfida, raccolta da pochi, per un viaggio nell’eterno.
277
smesso di piangere: ma per quello che ho detto prima una cosa
che è non può diventare nulla (così come non può avvenire il
passaggio contrario); quindi ogni attimo che noi viviamo nella
sensazione del continuo divenire tra cambiamenti in realtà
dovrebbe essere tradotto in un continuo passaggio dall’essere al
nulla: questa, per Severino, è la follia del pensiero occidentale. Se
non è logico pensare che qualcosa diventi nulla allora ogni nostro
attimo è eterno e eternamente esiste. Quando il sole tramonta
per chi lo osserva il sole sparisce cioè diventa nulla. E’ solo
l’esperienza che ci dice che lo stesso sole sorgerà di nuovo, in
realtà in quel momento il sole non è nulla, non diventa nulla,
esce solo dalla nostra esperienza, dalla nostra percezione
cosciente. Per Severino lo stesso accade per ogni adesso che noi
viviamo…. E’ eterno…
278
tramonta ed esce dalla visibilità. La morte non è una obiezione contro
l’assunto dell’eternità dell’essere, quanto una sua interpretazione.
L’esperienza tace intorno alla sorte di ciò che esce da essa. Resta da vedere
che ne è di ciò che va nel niente. In proposito non è più l’esperienza a essere
chiamata in causa, in quanto l’esperienza tace.”
Emanuele Severino
“Dire che una cosa (un essere) nasce, significa che un ‘nulla’ diventa ‘essere’,
significa che un ‘non essere’ ad un certo punto è ‘essere’. Ma questo non è
impossibile? Come potrebbe il ‘non essere’ diventare ‘essere’? Come potrebbe
un ‘essere’ derivare dal ‘nulla’? Ora se è impossibile, vuol dire che le cose non
nascono, non ‘derivano’, ma sono eterne!”
Emanuele Severino
279
persuasione che l’annientamento appaia. Non si deve tralasciare l’apparire
delle cose.”
Emanuele Severino
280
nihilum cedit (cosí scrive Tommaso d’Aquino): se ne va nel niente.
Ma non siamo forse tutti convinti, anche senza fare appello alle varie forme
della cultura e basandoci semplicemente sulla nostra esperienza, che
l’annientarsi delle cose è quanto di piú visibile esiste tra i visibili? E che
l’angoscia e il dramma della vita hanno proprio qui la loro radice, nel
constatare ogni giorno e ogni momento che noi e tutto ciò che appartiene al
nostro mondo ce ne andiamo nel niente?
La legna sta bruciando. Dapprima se ne distinguono i contorni nella luce del
fuoco. Poi le forme scure del legno si fanno sempre piú incandescenti, la
fiamma si riduce e i tizzoni diventano braci. Queste, infine, impallidiscono e
diventano cenere.
L’incenerirsi di un corpo è la forma piú radicale di ciò che per i mortali è
l’annientamento della morte. Qui, in breve tempo e sotto lo sguardo di tutti,
il corpo che brucia perde ogni sua qualità. Di esso rimane soltanto la cenere;
tutto il resto è diventato niente.
La maggior esattezza con cui la scienza descrive il fenomeno della
combustione non muta la sostanza del discorso, perché se, per il primo
principio della termodinamica, con l’incenerirsi di un corpo e addirittura di
tutto il nostro pianeta, la quantità totale di energia dell’universo non varia,
tuttavia quel principio afferma semplicemente la conservazione dell’energia,
ma non delle forme in cui di volta in volta l’energia si realizza.
Le forme – figure, aspetti, volumi, suoni, colori e ogni altra qualità dei corpi
– tutto questo, anche per quel principio della fisica, non si conserva e diventa
niente quando un corpo viene bruciato. La cenere (col calore, il fumo) è
appunto la nuova forma in cui esiste l’energia contenuta nel corpo
inceneritosi; ma la forma che lo costituiva e per la quale esso era, ad esempio,
legna, e non un animale, questa forma, anche per la scienza, con l’incenerirsi
del corpo diventa niente.
Cosí, dunque, parlano i mortali, descrivendo il fenomeno della morte, quale
si presenta nell’incenerirsi di un corpo.
Ma – nonostante sembri quella del buon senso – è la voce della follia.
Quando si dice che qualcosa è divenuto niente, si intende forse affermare che
esso, pur essendo diventato niente, continui tuttavia ad apparire? Ad
esempio, che l’esser legna della legna trasformatasi in cenere sia diventato
niente e che esso continui ciò nonostante ad apparire (cioè ad essere visibile,
constatabile, cosí come lo era prima di diventar niente)?
Daccapo: forse che una cosa può diventar niente e tuttavia continuare a
281
manifestarsi nel suo essere quella cosa che essa era?
“No” risponderanno tutti: ciò che si annienta scompare nella misura in cui
si annienta. In questa misura, esso esce dal novero delle cose che appaiono.
(A mezza voce, alcuni riconosceranno anche questo: che nella memoria
rimane sí la traccia della legna – che in questo senso continua ad apparire
anche quando è diventata cenere –, ma questa traccia, proprio perché rimane,
non è la legna che è diventata un niente. La legna è morta, la sua traccia è
viva. Non ci può essere memoria dei morti, cioè degli annientati.) Ma se il
processo dell’annientarsi è inseparabilmente legato a quello dello scomparire
– se cioè una cosa, annientandosi, esce, insieme, dal cerchio dell’apparire
(ossia dal luogo luminoso in cui stanno tutte le cose che appaiono) – allora,
per sapere che sorte è toccata a ciò che è uscito da quel cerchio, potremo forse
rivolgerci alle cose che a tale cerchio appartengono? l’apparire di queste cose
potrà forse informarci di ciò che è accaduto a quelle altre che non stanno piú
in loro compagnia?
Una analogia ci consente di chiarire il senso di questa domanda.
Quando il sole tramonta, esce dalla volta del cielo e scompare allo sguardo.
Che ne è di esso? che sorte gli tocca quando, sprofondando nel mare o nella
terra o dietro i monti, non è piú visibile?
Queste domande ci lasciano oggi del tutto indifferenti, anche perché la teoria
copernicana assicura che il moto del sole è apparente e che quindi il sole
continua a esistere anche quando non è visibile.
Ma se volessimo rispondere a quella domanda unicamente sulla base di ciò
che appare nella volta del cielo quando essa è stata abbandonata dal sole, che
potremmo dire della sorte del sole resosi invisibile? Che potrebbe dirci, che
potrebbe attestare l’apparire della notte, della luna, delle stelle e dei loro
moti, intorno a ciò che è accaduto dell’astro che non abita piú con loro la
volta del cielo?
Nulla!
Abbandonata dal sole, la volta del cielo tace della sorte di esso, non attesta
alcunché intorno a esso.
In senso rigoroso e al di fuori di ogni metafora, le pallide luci del crepuscolo
sono la cenere del tramonto del sole.
Come il crepuscolo e gli astri notturni del cielo non mostrano quale sorte sia
toccata al sole che li ha abbandonati, cosí la cenere e tutto ciò che appartiene
al luogo in cui è avvenuto l’incenerirsi della legna tacciono e non attestano
alcunché intorno alla sorte della legna che, se si è annientata, è dovuta anche
282
scomparire, ha dovuto cioè abbandonare la volta dell’apparire abitata da
tutte le cose che appaiono.
E come per conoscere la sorte del sole dopo il tramonto occorrono delle teorie,
che interpretino ciò che appare e gli attribuiscano quindi proprietà che non
appaiono, cosí per conoscere la sorte della legna, che incenerendosi è uscita
dall’apparire, occorrono delle teorie, che interpretino il fenomeno
dell’incenerirsi e dello scomparire e lo inseriscano in categorie che aggiungono,
a ciò che appare, un senso che non è attinto da ciò che appare.
Di queste teorie è supremamente dominante, presso i mortali, quella che
afferma che, incenerendosi, la legna è diventata niente.
Si tratta di una teoria, e non della descrizione di un fenomeno, perché se la
legna, annientandosi, esce dall’apparire – se, diventata niente, essa non
appare nemmeno piú –, allora, che essa sia diventata niente non è qualcosa
che possa essere attestato dall’apparire da cui la legna, incenerendosi, è
uscita.
Non è il fenomeno dell’incenerirsi, non è l’apparire delle cose ad attestare che
cosa abbia avuto in sorte la legna scomparendo: è la teoria suprema dei
mortali che, interpretando l’incenerirsi della legna, afferma che essa è
diventata niente, le dà in sorte il niente.
È questa suprema teoria a intendere il fenomeno della morte come
annientamento. Ed è ancora essa a non riconoscersi come teoria e a
presentare il proprio contenuto come qualcosa che appare, cioè come
osservabile, constatabile, manifesto, cioè come fenomeno.
La legna sta bruciando. Dapprima appaiono i suoi contorni nella luce del
fuoco; poi essi scompaiono e appare l’incandescenza delle braci; a sua volta,
poi, questa incandescenza scompare e appare la cenere.
La legna spenta, la legna accesa, le braci, la cenere e il vento che la disperde
si sono avvicendati nel cerchio luminoso dell’apparire. Al subentrare di
ognuno di questi eventi, il precedente esce dall’apparire. Il cerchio
dell’apparire non attesta che la legna si trasforma in cenere: appunto perché
non attesta che la legna si annienta come legna. Per “trasformarsi”, o
“diventare” cenere è infatti necessario che la legna si annienti come legna. Ma
se l’annientamento della legna non appare, non può apparire nemmeno il suo
“diventare” cenere.
All’interno di quel cerchio, la cenere non è la sorte toccata alla legna; essa
non grida, ma tace la sorte della legna. In quel cerchio, la legna non diventa
cenere, cosí come gli uomini non diventano polvere: la cenere è il successore
283
della legna; la polvere dell’uomo. Ma l’annientamento di ciò che muore non
appare.
Alle teorie resta dunque affidato il compito di stabilire a quale sorte va
incontro ciò che esce dal cerchio delle cose che appaiono.
Questo risultato è decisivo.
Nei miei scritti si mostra – e ne hanno dato un cenno anche le pagine
precedenti – che la follia essenziale si esprime nella persuasione che le cose
escono e ritornano nel niente. Il mortale è appunto questa volontà che le cose
siano un oscillare tra l’essere e il niente.
Al di fuori della follia essenziale, di tutte le cose è necessario dire che è
impossibile che non siano, cioè è necessario affermare che tutte – dalle piú
umili e umbratili alle piú nobili e grandi – tutte sono eterne. Tutte, e non
solo un dio, privilegiato rispetto a esse.
Se questo discorso viene equivocato oltre un certo limite, si può allora pensare
che il vero folle è chi questo discorso propone, giacché esso sembra smentito nel
modo piú perentorio dal divenire del mondo.
Ebbene, proprio questo si è qui incominciato a chiarire: che se il divenire del
mondo è inteso come l’annientamento delle cose, allora il divenire non appare:
l’apparire del mondo (l’“esperienza”) non smentisce il discorso affermante
l’eternità del tutto; e dunque se in questa affermazione si volesse per forza
trovare la follia, essa andrebbe cercata altrove che nella presunta
contraddizione tra questa affermazione e ciò che resta attestato dall’apparire
del mondo.
Intanto, se il divenire non appare come annientamento, ma come l’entrare e
l’uscire delle cose dal cerchio dell’apparire, allora l’affermazione dell’eternità
del tutto stabilisce la sorte di ciò che scompare: esso continua a esistere,
eterno, come un sole dopo il tramonto.
Non solo la legna fiammeggiante, le braci, la cenere, il vento che la disperde
sono eterni astri dell’essere che si succedono nel cerchio dell’apparire, ma
anche tutte le fasi dell’albero che, “nella valle ove fresca era la fonte / ed il
giovane verde dei cespugli / giocava al fianco delle calme rocce / e l’etere tra i
rami traluceva / e quando intorno i fiori traboccavano” (Hölderlin), hanno
preceduto la legna tagliata per il fuoco.
Quando gli astri dell’essere escono dal cerchio dell’apparire, il destino della
verità li ha già raggiunti e impedisce loro di diventare niente.
Appunto per questo essi – tutti – possono ritornare.”
E. Severino, La strada
284
Noi siamo eterni????
La luce secondo Einstein e’ eterna…… Approfondire!!!!!
285
sono eterna. Rilesse nuovamente la frase di Severino citata
dalla nonna:
“Non esiste la cattiva interpretazione del tempo. Non esiste la
persuasione che il tempo sia annientamento. Se per tempo si
intende qualcosa di diverso dall’annientamento, se cioè il
tempo viene ad essere il progressivo comparire nell’esperienza
degli eterni, allora stiamo parlando del tempo, ma non nel
senso in cui esso è inteso dal pensiero occidentale. Io non
tralascio affatto l’esperienza. E’ proprio l’attenta lettura
dell’esperienza quella che consente di estromettere la
persuasione che l’annientamento appaia. Non si deve
tralasciare l’apparire delle cose.”
Ciò che è eterno quindi entra ed esce dalla nostra esperienza:
come un fiammifero che si spegne, un interruttore che si
preme, come il sole che tramonta e poi sorge così anche la
morte sarebbe solo l’uscire di chi non c’è più dalla nostra
percezione. Se noi siamo eterni la morte è solo un passaggio,
un uscire dall’esperienza… Ciò che è non può diventare nulla,
come dal nulla non può nascere qualcosa. Quindi io sono e
sono sempre stata. Ma dove va il fuoco quando soffio sul
fiammifero? La luce si propaga, ma se la luce è eterna essa ci
illuminerà per sempre... Chi illumina quella luce quando io la
spengo? La luce è eterna. Non si spegne l’eternità. La luce che
io vedo è stata già vista e si vedrà per sempre, e le immagini,
che sono riflessi di luce, sono anch’esse infinite e così le cose
di cui quelle immagini sono il riflesso. Ogni cosa è luce, ogni
cosa è eterna. Io sono ogni cosa; io sono eterna. Si ricordò delle
descrizioni che aveva letto riguardo la percezione degli oggetti
e delle persone da parte di chi aveva assunto sostanze
psichedeliche. Psichedelica: svelare la mente. Parlavano di una
luce speciale, di colori luminosi, di luce che circondava le
persone: si sedette alla scrivania e cercò quel libro: Le Porte
della Percezione di Aldous Huxley:
286
“Vidi un mazzo di fiori brillare di Luce Interiore e palpitare
sotto la pressione del significato di cui erano saturi. Continuai a
guardare i fiori e nella loro luce viva mi sembrò di scoprire
l’equivalente qualitativo del respiro”
La luce come respiro, la luce come vita. E’ la luce del sole che
ci da la vita, che nutre le piante e gli animali e se la luce è vita
e la luce è eterna, la vita è eterna!
Solo le ombre svanisco realmente quando la luce esce dalla
nostra esperienza.
E se davverò la nostra realtà fosse quella dipinta da Platone
nella famosa metafora della grotta? Se fossimo davvero
rinchiusi in una grotta, incatenati e costretti a vedere delle
ombre scambiate per realtà, e vedere le ombre svanire in quella
che noi chiamiamo morte?
Andò di corsa allo scaffale dei libri, cercò nervosamente finchè
non trovò La Repubblica di Platone, la sfogliò e, trovato il
passo che cercava, lesse:
“Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora
sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo
davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il
fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle
persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei
trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun
termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli
oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà; e che gli echi delle
voci dei trasportatori siano le voci delle ombre. Per un prigioniero, lo
scioglimento e la guarigione dai vincoli e dalla mancanza di discernimento
sarebbe una esperienza dolorosa e ottenebrante. Il suo sguardo, abituato alle
ombre, rimarrebbe abbagliato: se gli si chiedesse di dire che cosa sono gli
oggetti trasportati, non saprebbe rispondere, e continuerebbe a ritenere più
chiare e più vere le loro ombre proiettate sulla parete. Per lui sarebbe difficile
capire che sta guardando cose che godono di una realtà o verità maggiore
rispetto alle loro proiezioni. Il dolore aumenterebbe se fosse costretto a
guardare direttamente la luce del fuoco. E se fosse trascinato fuori dalla
grotta, per l'aspra e ripida salita, e dovesse affrontare la luce del sole, la sua
287
sofferenza e riluttanza si accrescerebbe ancora. Il suo processo di
acclimatazione al mondo esterno dovrebbe essere graduale: prima dovrebbe
imparare a discernere le ombre, le immagini delle cose riflesse nell'acqua, e
poi direttamente gli oggetti. Il cielo e i corpi celesti dovrebbe cominciare a
guardarli di notte, e solo in seguito anche di giorno. Una volta ambientatosi,
potrebbe cominciare a ragionare sul mondo esterno, sulla sua struttura, e
sul luogo che ha in esso il sole. Solo allora il prigioniero liberato,
ricordandosi dei suoi compagni di prigionia e della loro conoscenza,
potrebbe ritenersi felice per il cambiamento. Ma se ritornassero nella
caverna, i suoi occhi, abituati alla luce, sarebbero quasi ciechi. I compagni lo
deriderebbero, direbbero che si è rovinato la vista, e penserebbero che non
vale la pena di uscire dalla caverna. E se qualcuno cercasse di scioglierli e di
farli salire in superficie, arriverebbero ad ammazzarlo. Uccidere chi viene
dall'esterno è facile, perché, essendo quest'uomo abituato alla gran luce
dell'esterno, sarebbe costretto a contendere nei tribunali o altrove sulle
ombre del giusto, con persone che la dikaiosyne (la giustizia come virtù
personale) non l'hanno veduta mai.”
289
Quando mostrai di chiudere
Gli occhi apersi
………
L’eterno lume. La luce eterna. Nei secoli la luce era indicata
come simbolo di vita, di eternità, di divinità, di Dio.
Si ricordò di un foglio di appunti che aveva scovato tra i libri
della nonna, lo trovò e lo lesse lentamente. Erano annotazioni
riguardanti libri religiosi, una serie di citazioni sulla luce tratti
soprattutto dai vangeli:
Gesù disse, "Se vi diranno 'Da dove venite?' dite loro, 'Veniamo dalla luce, dal
luogo dove la luce è apparsa da sé, si è stabilita, ed è apparsa nella loro
immagine.'
Gesù disse, "Io sono la luce che è su tutte le cose. Io sono tutto: da me tutto
proviene, e in me tutto si compie.
Tagliate un ciocco di legno; io sono lì.
Sollevate la pietra, e mi troverete."
83. Gesù disse, "Le immagini sono visibili alla gente, ma la loro luce è nascosta
nell'immagine della luce del Padre. Lui si rivelerà, ma la sua immagine è
nascosta dalla sua luce."
290
VANGELO della VERITA’
Trasse questa pecora dal pozzo affinché i vostri cuori sappiano qual è il sabato
nel quale bisogna che la salvezza non resti inoperante; affinché voi parliate del
giorno che viene dall'alto ed è senza notte, e della luce che non tramonta,
perché è perfetta.
Dite, dunque, di cuore che questo giorno perfetto siete voi, che in voi abita la
luce inestinguibile. Parlate della verità con coloro che la cercano, della
conoscenza con coloro che - nel loro errore - hanno peccato. Voi siete i figli
della conoscenza e del cuore!
VANGELO di FILIPPO
I nomi dati alle cose terrestri racchiudono una grande illusione: infatti
distolgono il cuore da ciò che è consistente per volgerlo a ciò che non è
consistente. Così, chi ode "Dio" non afferra ciò che è consistente, ma afferra
ciò che non è consistente. Allo stesso modo è con "il Padre", "il Figlio", e "lo
Spirito Santo", con "la vita" e "la luce", e "la risurrezione", con "la Chiesa" e
con tutte le altre cose, non si afferra ciò che è consistente, ma ciò che non è
consistente, a meno che si sia arrivati a conoscere ciò che è consistente.
291
Se si trovano in mezzo alle tenebre un cieco e uno che vede, non si
distinguono l'uno dall'altro. Ma quando viene Ia luce, colui che vede vedrà la
luce, mentre colui che è cieco rimarrà nelle tenebre.
Coloro che si sono vestiti della luce perfetta non sono visti e, quindi, non
possono essere trattenuti dalle forze: ci si riveste di questa luce nel mistero,
nell'unione.
Se la donna non si fosse separata dall'uomo, non sarebbe morta con l'uomo:
all'origine della morte ci fu la sua separazione. Perciò il Cristo è venuto a porre
riparo alla separazione che ebbe inizio fin dal principio, e a unire nuovamente i
due, a vivificare coloro che erano morti a motivo della separazione.
Non soltanto non riusciranno ad afferrare l'uomo perfetto, ma non riusciranno
a vederlo, poiché se lo vedessero lo afferrerebbero. Nessuno riuscirà a ottenere
questa grazia in alcun altro modo, se non rivestendosi della luce perfetta e
divenendo egli stesso luce perfetta. Colui che si rivestirà di questa, entrerà nel
Regno. Questa è la luce perfetta, ed è necessario che - con ogni mezzo -
diventiamo uomini perfetti prima di uscire dal mondo.
VANGELO di GIOVANNI
292
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato,
perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è
questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre
alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia
la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi
opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono
state fatte in Dio.
Gesù allora disse loro: "Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate
mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle
tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare
figli della luce".
Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non
rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io
non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per
salvare il mondo. Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo
condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno.
Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi
ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. E io so che il suo comandamento
è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a
me".
293
Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo".
VANGELO di LUCA
Voi siete la luce del mondo. Nessuno accende una lucerna e la mette in luogo
nascosto o sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché quanti entrano
vedano la luce. La lucerna del tuo corpo è l'occhio. Se il tuo occhio è sano,
anche il tuo corpo è tutto nella luce; ma se è malato, anche il tuo corpo è nelle
tenebre. Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se il tuo corpo è
tutto luminoso senza avere alcuna parte nelle tenebre, tutto sarà luminoso,
come quando la lucerna ti illumina con il suo bagliore".
VANGELO di MATTEO
La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo
corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà
tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la
tenebra!
BHAGAVAD GITA
"O Figlio di Kunti, Io sono la fluidità nelle acque; sono la luce nel sole e nella
luna; sono l'Aum (pranava) nei Veda; il suono nell'etere e la virilità negli
uomini.
"Queste due vie per uscire dal mondo sono considerate eterne. La via della
luce porta alla liberazione, la via delle tenebre alla rinascita.
"Per pura compassione Io - il Divino che risiede nei cuori - accendo in loro la
luce radiosa della saggezza che bandisce l'oscurità nata dall'ignoranza".
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"Tu sei lo Spirito Supremo, la Dimora Suprema, la Purezza Suprema! Tutti i
grandi saggi, il divino veggente Narada, come pure Asita, Devala~ e Vyasa Ti
hanno descritto come l'Eterno Purusha che splende di luce propria, la Divinità
Originaria, Senza Nascita ed Onnipresente! Ed ora Tu Stesso me lo dici!
295
lei cercava la stella su cui erano andati la mamma e il papà. Si
ritrasse dalla finestra e prese a sfogliare un libro preso a caso.
Van Gogh; guardò un sole dipinto: un vortice di colori che
sembravano attirare a se ogni cosa intorno, deformandone i
contorni e tatuandone i colori Quel vortice di luce pareva
avvolgere tutto; continuò a sfogliare: ora era il viso austero e
serio di Van Gogh stesso ad avere quel vortice intorno a se, con
l’epicentro di tale fenomeno negli occhi ed esso pareva
deformare l’aria circostante, increspandone i contorni. Un altro
quadro, ancora stelle nel cielo, le forme delle cose dipinte si
modellano sulla loro luce; di lato una didascalia con una frase
di Van Gogh: “Io dipingo l’Infinito”.
La luce modella la nostra realtà, pensò. Noi siamo luce, luce e
ombra; la luce ci guida e ci protegge, ci da forma e sostanza.
La luce… La luce… Basta!
Basta parole, basta letture. Era ora di tuffarsi nell’esperienza, di
spiccare il volo, di lasciare il nido, di togliere il velo
definitivamente. Non aveva più nulla da perdere. Frugò sotto il
cuscino, estrasse la scatola di metallo che le aveva dato il
professor Barbur, la aprì. Conteneva quello che sembrava un
piccolo cactus, poco più grande di una moneta. Accanto un
piccolo foglietto arrotolato. Lo prese e lo lesse:
“Se le porte della percezione fossero purificate l’uomo vedrebbe le cose per
quello che realmente sono: infinite” William Blake.
296
CAPITOLO XLI
?????????
297
sentire ogni signola goccia solleticarle il palato, farla
rabbrividire dal freddo, scendere dentro di lei e placarle la sete:
il sollievo che provò fu infinito. Si rialzò: tutto intorno a lei era
immobile, come in un quadro, nessun rumore, nessun suono,
nessuna presenza. Costeggiò camminando il laghetto quando
ad un tratto le parve di scorgere un piccolo movimento
stagliarsi nella fissità di ciò che la circondava: si avvicinò
lentamente e scorse un piccolo scoiattolo intento a rosicchiare
una radice di un albero; Isobel si avvicinò con cautela,
osservando il piccolo animale: era splendido, il pelo fulvo, la
coda grossa ritta sulla schiena, le piccole orecchie appuntite
con due ciuffi bianchi in cima. E’ un piccolo miracolo, pensò e
allungò la mano per accarezzarlo. All’improvviso lo scoiattolo,
accortosi di Isobel, fece un balzo e corse lungo uno stretto
sentiero innanzi a se inoltrandosi nel bosco. Nel medesimo
istante ogni cosa riprese il suo corso: lo scroscio della cascata,
lo stormire degli alberi, il vagare perso delle nuvole in cielo.
L’incantesimo si sciolse. Isobel sobbalzò per la sorpresa,
abituata ormai a quel silenzio e a quella immobilità irreale.
Osservò il sentiero: lo scoiattolo si era fermato a una
cinquantina di metri da lei e la stava guardando. Si inoltrò per
il sentiero; lo scoiattolo fece un balzo in avanti poi si fermò e si
girò nuovamente verso di lei: sembrava la invitasse a seguirlo.
Proseguì per il sentiero per un tempo indefinito, lo scoiattolo
innanzi ad attenderla e a mostrarle la strada e lei dietro. Ad un
certo punto lo scoiattolo fece una rapida corsa in avanti, balzò
in un cespuglio e scomparve alla vista di Isobel; lei provò ad
alzare gli occhi verso il cielo ma la foresta era talmente fitta
che non vide altro che la volta oscura dei rami che parevano
coprirla e soffocarla: si sentì mancare il fiato. Si guardò intorno
ma dello scoiattolo nessuna traccia. Proseguì per il sentiero
mentre la sensazione di soffocamento si faceva sempre più
forte; il panico cominciò ad assalirla, prima facendola trasalire
298
ad ogni minimo rumore tra gli alberi circostanti, poi con una
crescente sensazione di essere osservata e seguita; quasi senza
accorgersene Isobel incominciò a correre lungo quell’incerto
sentiero. Sentiva i polmoni assetati d’aria, il cuore come un
tamburo impazzito, il sangue martellarle le tempie. Ad un
tratto, tra il suo ansimare parossistico le sembrò di udire
nuovamente quel richiamo, questa volta però le sembrò di
identificarne la provenienza: era innanzi a lei. Proseguì la sua
corsa e il richiamo da flebile divenne sempre più forte così
come sempre più acuta e opprimente era la sensazione di essere
inseguita. Isobel fece per voltarsi indietro ma inciampò in una
radice e cadde sull’erba soffice. Isobel riaprì gli occhi, ma la
luce intensa della luna glieli fece socchiudere. Si alzò di scatto
convinta che il suo inseguitore le fosse ormai addosso;
trascorsero alcuni secondi, ma non accadde nulla; ancora
ansimante Isobel si guardò intorno, gli occhi ormai abituati alla
nuova luce dopo il buio della foresta. Si trovava ora in un
ampio prato di forma ovale circondato dalla fitta foresta. La
luna campeggiava in mezzo al cielo decorata dal profilo dei
monti e da migliaia di puntini luminosi. Al centro della radura
vi era un albero immenso i cui rami ondeggiavano alla fresca
brezza notturna. Sotto l’albero Isobel scorse una persona che le
faceva cenno di avvicinarsi con ampi gesti delle braccia. Isobel
si incamminò e quando fu a una trentina di metri dall’albero
riconobbe il volto sereno e sorridente di Anrham.
“Guarda chi si rivede” disse “Cosa la porta in questi luoghi a
quest’ora della notte Miss Morrison?”
Isobel sorrise.
“Stavo facendo una passeggiata in riva al lago quando tutto si è
fermato innanzi a me. Mi sono impaurita, poi ho visto uno
scoiattolo e l’ho seguito nella foresta, mi sono persa e ho
iniziato a correre ma ho inciampato e mi sono ritrovata qui..”
299
“E’ pericoloso prendere il kykeon da sola” le disse guardandola
negli occhi.
Isobel rimase stupita. Come faceva a saperlo?
“Comunque ciò che è iniziato va terminato” disse con tono
solenne “non è saggio interrompere un viaggio, occorre
continuare, qualunque sia la sua meta “
Isobel si guardò intorno: la luna pareva illuminare come un
faro gigantesco quella radura donando riflessi incantati alle
foglie d’erba e alle ombre delle nubi che solcavano il cielo.
“Ho qui con me tre persone che sarebbero molto liete di fare la
sua conoscenza”.
Isobel si guardò intorno. Non c’era nessuno. Poi, d’un tratto,
dal limitare della foresta si staccò un‘ombra che iniziò a
camminare nella loro direzione: era un uomo dall’andatura
dinoccolata, la corporatura tozza. Mentre si avvicinava la luna
illuminò il suo viso: due enormi baffi incorniciavano un viso
paffuto mentre due sopraccilglia cespugliose contornavano gli
occhi miopi e profondi. Sembrava…. Non ne era sicura ma
dalle foto che aveva visto su dei libri le pareva di riconoscere
Nietzsche.
“Non è possibile” sussurrò a se stessa Isobel. Eppure la
somiglianza era incredibile. Quando fu vicino a lei e Anrham
l’uomo fece un profondo inchino, prese la mano di Isobel e con
modi affettati ma cortesi gliela baciò garbatamente.
“Il professor Friedrich Nietzsche è lieto di fare la sua
conoscenza, Miss Morrison”
Dunque non si era sbagliata. Isobel si sfregò gli occhi. Il
grande filosofo era innazi a lei.
Ad un tratto Nietzsche si girò alla sua destra e disse “Ecco che
arriva il professor Jung, in ritardo come al solito..”
Dal lato della radura dove Nietzsche aveva volto lo sguardo
avanzava una persona, i capelli bianchi, i baffi minuti e
ordinati. Arrivato sotto la folta chioma dell’albero fece un
300
cenno a Nietzsche e, stringendo la mano a Isobel, le disse
reclinando leggermente il capo “Lieto di fare la sua conoscenza
Miss Morrison. Mi chiamo Carl Gustav Jung” .
Isobel guardò Anrham stupefatta. Anrham le rispose con un
ampio e sereno sorriso.
“Ecco che sopraggiunge Albert” disse Jung “Anche oggi in
ritardo eh, come ieri sera del resto.”
“Nel mio sistema di riferimento il mio tempo è assolutamente
puntuale” disse l’uomo facendo seguire quella frase da una
allegra risata mentre giungeva sotto la chioma dell’albero.
Isobel riconobbe subito gli strambi capelli e lo sguardo acuto di
Albert Einstein. Si avvicinò a lei dopo aver salutato con una
pacca sulla spalla Jung e Nietzsche e le strinse vigorosamente
la mano.
“Lieto di conoscerla Miss Morrison. Noi tutti facciamo il tifo
per lei.”
Isobel era incredula: innanzi a lei stavano il più grande
scienziato del ventesimo secolo, il più grande psicologo e uno
dei massimi pensatori della storia.
“E’ impossibile” sussurrò appena.
“Impossibile?” disse Nietzsche che era il più prossimo a lei e
l’aveva udita “Sì, anch’io se fossi in lei penserei la medesima
cosa, e io in quanto lei ora la sto pensando, ma in quanto me
sono alquanto restio a definirmi impossibile.”
“Non incominciare Friedrich” lo interruppe Jung“ l’esperienza
che Miss Morrison sta vivendo va rispettata sia nei tempi che
nei modi di percezione. E’ già abbastanza confusa…” e con un
ampio sorriso le accarezzò il volto.
“Questo perché è ancora convinta di essere intrappolata nello
spazio tempo. Ma se la sua mente scioglierà i vincoli un sorriso
eterno le si stamperà sul viso.” puntualizzò Einstein.
“Non è facile” disse Nietzsche ”si rischia di finire per
abbracciare cavalli, non che sia una cosa detestabile in se anzi,
301
l’immedesimazione con il prossimo, con l’altro è quanto di più
divino possa sperimentare l’uomo, ma è pericoloso tentare da
soli, non con tutto il mondo che ti richiama all’ordine, al suo
ordine. Mi dia retta Miss Morrison ascolti chi ha vissuto sulla
sua pelle la lacerazione tra il sentirsi tutto e il vedersi singolo:
ascolti ciò che sentirà da questi tre buffoni come si ascolta una
canzone, memorizzando le note in modo che le risultino
famigliari ma senza aggiungere ad esse alcun pensiero o…
sprofonderebbe con esso. “
Jung guardò Nietzsche e fece un cenno di assenso con la testa.
“Dunque, dove eravamo rimasti?”chiese Einstein.
“Alla luce” disse Jung.
“Sì, giusto, tendo a dimenticarmene. Non fa piacere a nessuno
ricordare i propri errori”
“Non sono errori Albert” lo interruppe Jung ”sono
approssimazioni necessarie quando si prendono in
considerazione solo alcuni aspetti della realtà ma non la realtà
nella sua intera complessità.”
“Va bene, va bene” riprese Einstein ”Dunque stavamo parlando
dell’eternità della luce, della sua eternità rispetto a se stessa e
Friedrich aveva osservato che…”
“…avevo osservato che se la luce è eterna a se stessa ovvero
che per essere eterni con essa bisogna muoversi alla sua
velocità stiamo cadendo in un concetto autoreferenziale. La
luce è eterna alla velocità di se stessa è una affermazione
autoreferenziale, una tautologia perché si dimostra in se stessa:
è simile alla famosa storiella del barbiere: lei la conosce
signorina?”
Isobel fece cenno di no con la testa.
“E’ presto detta: un villaggio ha tra i suoi abitanti uno ed un
solo barbiere, uomo ben sbarbato. Sull'insegna del suo negozio
è scritto "il barbiere rade tutti - e unicamente - coloro che non
si radono da soli". La domanda a questo punto è: chi rade il
302
barbiere? La risposta che siamo portati naturalmente a dare è
"il barbiere si rade da solo". Ma in questo modo violiamo una
premessa: il barbiere rasandosi non raderebbe unicamente
coloro che non si radono da soli. Allora viene spontaneo il
pensare che il barbiere sarà raso da qualcun altro, ma ancora
una volta si viola una premessa: che il barbiere rade tutti coloro
che non si radono da soli (per dirla in altre parole, il barbiere se
si rade da solo non dovrebbe radersi, se non si rade da solo
dovrebbe radersi). Eppure il barbiere è ben sbarbato...”
Isobel guardò Nietzsche con aria interrogativa.
“Lo stesso si ha quando affermiamo che la luce è eterna in un
sistema di riferimento creato da se stessa. E’ eterno solo ciò
che viaggia alla velocità della luce. Ma per chi è eterno? Per
chi osserva e giudica da un sistema di riferimento esterno
rispetto a quello della luce. La luce non percepisce la sua
eternità. Chi è eterno non sa di esserlo e continua a percepire
un tempo proprio.. ”
“Forse stiamo osservando il problema dal punto di vista
sbagliato” disse Jung. “In fondo noi siamo fatti di luce, io vedo
lei Miss Morrison, e Albert me lo può confermare, in quanto la
mia retina interpreta i fasci di luce che provengono da lei e si
imprimono in essa. Quindi da un certo punto di vista noi siamo
luce.”
“…ma noi non viaggiamo alla velocità della luce. Quindi noi
non possiamo essere eterni, almeno dal punto di vista
puramente fisico.” disse Albert.
“E perché mai?” chiese Jung
“Perché ci è impossibile, almeno per ora, viaggiare a
trecentomila chilometri al secondo!” disse Einstein spazientito.
“Ma abbiamo appena detto che se anche fossimo eterni non ne
potremmo essere consapevoli perché continueremmo a
percepire uno scorrere del tempo anche se per un osservatore
esterno il nostro orologio risulterebbe fermo.” replicò Jung.
303
Einstein scrollò le spalle spazientito
“Ascoltami ancora un attimo” continuò Jung “prendiamo un
fotone, la particella elementare che costituisce la luce; il fotone,
essendo luce, viaggia per definizione alla “velocità della luce”.
Facciamo questo esperimento mentale: immaginiamo di poter
vedere un fotone e, con un grosso sforzo, di poter vedere anche
il suo orologio e quindi di poter registrare il suo tempo: se noi
riuscissimo a fare ciò, per tutto quanto ci siamo detti prima
dovremmo osservare le lancette del suo orologio ferme. Per noi
che lo osserviamo quel fotone ha tempo uguale a zero: per noi
il suo tempo non scorre, mentre se lui, il fotone, si guardasse
l’orologio vedrebbe le lancette muoversi normalmente: avrebbe
un suo tempo proprio. E’ corretto?” chiese Jung rivolgendosi a
Einstein.
“Corretto.” rispose il fisico.
“Bene. La domanda allora è questa: che fine fa il fotone se è
senza tempo e quindi eterno? Io dovrei vederlo per sempre,
giusto? Quindi se quel fotone è emesso dall’accensione di una
lampadina, dove finisce quando io la spengo? Quel fotone
dovrebbe rimanere in eterno…”
“No, prima o poi incontrerebbe qualcosa, un oggetto o altro,
dal quale può venire assorbito, riflesso, trasformato in calore..”
rispose Einstein.
“Un attimo: non può esistere un prima o poi se parliamo di un
fotone a tempo zero. Per lui il tempo non scorre e quindi non
può esistere passato ne futuro…” chiosò Jung.
“Ma da ciò a dire che noi siamo eterni ce ne passa!” disse
Einstein con una certa insofferenza.
“Ma perché vediamo lo spegnersi e l’accendersi della luce?
Quella luce dovrebbe essere eterna, ogni fotone emesso
dovrebbe esserlo. Eppure noi vediamo la luce accendersi e
spegnersi. Seguendo il ragionamento, l’unico modo che noi
abbiamo di percepire un tempo diverso da zero per il fotone
304
sarebbe quello di muoverci solidalmente con lui alla sua
velocità” riprese Jung.
“Carl ha ragione.” intervenne Nietzsche “Delle due l’una: o
qualcosa non funziona nella tua teoria o, per percepire lo
spegnimento della luce e quindi la sparizione di un fotone che
dovrebbe avere tempo uguale a zero noi dobbiamo essere ad
esso solidali e quindi muoverci alla sua velocità: solo in questo
modo vedremmo il suo tempo scorrere e potremmo percepire
eventi come lo spegnimento della luce o la sua interazione con
un altro oggetto. In altri termini dobbiamo essere eterni anche
noi!”
“Non diciamo eresie! Lo ripeto noi non viaggiamo alla velocità
della luce!” Einstein sembrava nervoso…
“Albert, che velocità ha un pensiero?”chiese Nietzsche.
“Non incominciare di nuovo con questa storia del pensiero. Il
pensiero non è un oggetto fisico, non posso dargli un luogo
nello spazio e un tempo nel tempo..”
“Però io dico: ora penso questo, e il mio pensiero porta a
un’azione che può portare a una modifica nel campo fisico”
continuò Nietzsche” e quindi il pensiero può essere fisicamente
rilevante, così come lo è l’osservatore sul fenomeno osservato”
“Non incominciare con la teoria dei quanti, lo sai che non mi
piace parlarne: anche se ora so che non è Dio a giocare a dadi
ma la nostra mente, il pensiero di aver passato gli ultimi anni
della vita a inseguire un’errore che non c’era per pura e dannata
cocciutaggine mi riempie di rabbia…”
“Non è il tempo dei rimpianti questo, a dire il vero non è il
tempo punto.” disse Jung sorridendo. “Ma proseguendo il
ragionamento di Friedrich e ampliandolo, tu sai che il pensiero
è costituito da impulsi elettrici tra neuroni. Ma elettricità =
luce. Quindi non commetteremmo alcun errore logico dicendo
che i pensieri possono viaggiare alla velocità della luce.”
“Direi di no” disse Einstein pensieroso
305
“Quindi i pensieri sono eterni!” proruppe Isobel concentrata su
dove andava a parare il discorso.
“Questa è una deduzione corretta Miss Isobel” disse Nietzsche
sorridendo. Leggendo i suoi libri Isobel non aveva mai
immaginato che un uomo simile potesse sorridere. “Ma se i
pensieri sono eterni e non esiste pensiero senza pensatore se ne
deve dedurre che anche il pensatore sia eterno…”
“….A meno che…. “ interruppe Jung “….non si immagini che
esista un luogo dove risiedono pensieri, sensazioni comuni a
tutti gli esseri pensanti e che da essi noi si attinga per elaborare
un pensiero che in realtà già è nel nostro inconscio collettivo.”
“Aspettate un attimo, non correte troppo” lo interruppe
Einstein ”La luce è eterna nel vuoto, perché solo in esso non
subisce fenomeni di rifrazione che ne rallentano la velocità. E
faccio fatica pensare a un cervello vuoto pensante…”
“Forse è per questo che i grandi mistici parlano di fare il vuoto
nella mente, di svuotare i pensieri, per avere l’illuminazione,
per accedere all’eterno, affinché l’attimo di luce interiore renda
eterno quel pensiero e quell’attimo.” chiosò Nietzsche con aria
soddisfatta.
“Ma non puoi svuotare la mente dai neuroni”continuò Einstein
un po’ indispettito.
“No.” intervenne Jung ”Ma così come nello spazio vuoto la
luce è eterna, così nel vuoto della mente l’Illuminazione ci
conduce all’Infinito. Svuotarsi per fare spazio all’Eterno,
all’Infinito, per attendere quel lampo di luce che ci comunichi
la nostra pienezza, la nostra comunione con l’Eterno. Come in
cielo così in terra, come fuori così è dentro, come nel piccolo
così nel grande. Questa è la saggezza, la tradizione di millenni
che si conforma alla scienza del presente.”
“Un attimo” interruppe Einstein “Trovo alcune contraddizioni.
Non si può appellarsi alla teoria della relatività per reclamare
l’eternità e l’inesistenza del tempo. Non lo si può fare perchè
306
essa prevede che lo spazio-tempo sia una dimensione unica e se
il tempo rallenta fino a fermarsi lo spazio deve tendere a zero
fino a diventare inesistente, ossia neanche lo spazio deve
esistere così come noi lo concepiamo”
“Trovo assolutamente corretto ciò che dici” disse Nietzsche ”Si
parla di tempo ma non si considera mai il suo fratello gemello,
la sua ombra, il suo inseparabile compagno: lo spazio. Io non
sono in grado di confutare lo spazio, sono un filosofo pazzo del
1800, abbraccio cavalli, non sono in grado di elevarmi alla
scienza del ventesimo secolo però… però vi è una cosa che mi
ossessiona fin da piccolo.”
“E cioè?” chiese Einstein incuriosito.
“Mi ossessiona questa idea: pensa all’uomo più veloce del
mondo: supponiamo che egli corra i 100 metri in 9 secondi e
800 millesimi di secondo. Si può presumere che tra mesi, anni,
decenni egli stesso o un altro al suo posto possa correre la
stessa distanza in 9 secondi e 799 millesimi…”
“Lo reputo possibile” ammise Einstein.
“E un giorno arriverà chi correrà in 9 secondi e 798 millesimi”
continuò Nietzsche.
“Possibile…” Einstein ebbe sentore di dove andava a parare il
ragionamento di Friedrich.
“Immagina questa progressione negli anni, nei decenni, nei
secoli: reputi strano che un uomo possa migliorare di un
millesimo di secondo chi lo ha preceduto?”
“No, ma deve esistere un limite altrimenti...” affermò Einstein
perentorio.
“Altrimenti dovresti giungere all’assurdo che vi sarà un uomo
che correrà i 100 metri in 0 secondi” chiosò Nietzsche “Ma
qual è questo limite? Esiste davvero? Se fosse 9 secondi e 800
millesimi, reputi del tutto improbabile che un uomo nel futuro
non trovi in se quella scintilla, quel refolo di vento, quella stilla
di energia per affrontare quella distanza guadagnando un
307
millesimo di secondo? E se è così non può essere così un
numero infinito di volte, ogni volta superando di un’iniezia il
limite fisico e temporale precedentemente costituito?”
“Non è possibile, vi deve essere un limite fisico.” obiettò
Einstein.
“Questo perché si presuppone che lo spazio esista e con esso il
tempo: ma questo ragionamento (e mi devi dimostrare dove
esso è debole) consente sempre la possibilità e la probabilità
(anzi direi la certezza) che ogni limite in realtà sia fatto per
essere superato, che esista sempre e per sempre quel refolo di
vento, quella scintilla di energia che faccia guadagnare quel
millesimo di secondo sul precedente tempo. Che cos’è in realtà
un millesimo di secondo? Neanche un battito di ciglia. Le
distanze e lo spazio sono fatte per essere colmate, per essere
superate.”
“Ma vi deve essere un limite fisico! Le mie gambe devono
avere un limite oltre il quale è impossibile che abbiano forza
sufficiente. E’ fuori di ogni logica pensare che io possa
percorre 100 metri in zero secondi” Einstein era spazientito.
“…..forse appunto perché quei 100 metri in realtà non
esistono.“ si intromise Jung.
“Non diciamo sciocchezze per cortesia!” Einstein era nervoso.
“Calma Albert.” disse Jung ”Stiamo continuando una
discussione senza considerare un dato fondamentale: il ruolo
che nelle nostre percezioni dello spazio e del tempo ha la
nostra mente. Credo che non si possa sottovalutare questo
aspetto: è la nostra mente che ci comunica il passaggio del
tempo, che ci mostra le distanze, che ci parla di spazio e di
tempo; ma la nostra mente codifica, interpreta e deduce. E se le
nostre deduzioni e interpretazioni fossero errate e fuorvianti
come la visione del sole che tramonta quando in realtà
sappiamo che siamo noi che tramontiamo ad esso?”
308
Improvvisamente un fulmine attraversò il cielo seguito da un
rombo che sembrò fare tremare i rami dell’albero. Quasi
simultaneamente una pioggia fittissima si abbattè sulla radura.
“Ora dobbiamo andare” dissero all’unisono i tre uomini. Poi,
parlottando tra loro si diedero appuntamento alla sera
successiva e, con un rapido baciamano ad Isobel si diressero
ognuno dalla parte da cui era venuto poco prima e scomparvero
tra gli alberi.
Isobel, ancora frastornata, si fece vicina al tronco dell’albero
per ripararsi dalla pioggia. Cercò Anrham quando la sua
attenzione fu attratta da una melodia cha pareva provenire dai
rami dell’albero. Alzò lo sguardo e vide Anrham che, in piedi
su di un ramo, stava porgendo delle noci ad uno scoiattolo che
assomigliava in tutto e per tutto a quello che l’aveva guidata
fino a quel luogo e, mentre si sporgeva dal ramo, cantava una
lenta melodia:
310
CAPITOLO XLII
La prima cosa che Isobel vide quando aprì gli occhi fu il viso
sorridente di Rumi.
“Dove sono?” chiese subito.
“Sei nella tua stanza, a Lendi Eleusi. Dove dovresti essere?”
rispose Rumi sempre con il suo splendido sorriso dipinto sul
volto.
“Non lo so, sono così confusa. Che cosa mi è successo?”
“Credo tu abbia deciso di fare una passeggiata notturna. Ti
hanno trovato stamane in riva al lago addormentata.”
“Dunque era tutto un sogno.” mormorò Isobel.
“Un sogno o un’allucinazione” disse Rumi con lo sguardo
severo tenendo in mano e mostrandole la scatola del kykeon.
“Non sono cose da farsi così alla leggera e da soli: possono
essere esperienze molto pericolose se affrontate con leggerezza
e senza la necessaria preparazione.”
Isobel annuì abbassando lo sguardo. Il ricordo di quanto era
successo, almeno nella sua mente, le era scolpito dinnanzi e le
incuteva curiosità e paura al tempo stesso.
“Vuoi raccontarmi cosa ricordi?” chiese Rumi sedendosi sul
bordo del letto.
“Non saprei… Non saprei dirti se ho vissuto realmente ciò che
ricordo o se è stato solo un sogno o un’allucinazione.”
“Forse io posso aiutarti a capire. Lo sai che mi occupo dello
studio dei sogni. Dunque raccontami cosa ti è successo.”
Isobel raccontò a Rumi ogni cosa, sforzandosi di non omettere
alcun particolare. Si rese conto che mentre parlava ulteriori
particolari affioravano alla sua mente rendendo il suo racconto
311
molto vivido e verosimile. Un particolare sgomento le dava il
ricordo di quel rumore e di quella cosa (aereo?) che incombeva
su di lei.
Rumi la ascoltò in silenzio; i suoi due occhi scuri, sereni e
penetranti, sembravano scrutarla nel profondo. Quando ebbe
terminato il racconto Rumi si alzò in piedi e si portò vicino alla
finestra.
“Cosa ne pensi?” chiese Isobel impaziente.
“Niente farfalle questa volta?” chiese a sua volta Rumi.
“No, niente farfalle, o almeno non che io mi ricordi..”
“Però c’era uno scoiattolo. E questo scoiattolo stava
rosicchiando una radice. Che sia sogno o allucinazione lo
scoiattolo che rosicchia la radice simboleggia il tentativo di
staccarti dalla vecchia vita o dalle tue vecchie convinzioni,
ancorate alla tua mente come le radici alla terra. Tutto il resto
era fermo, senza tempo. Poi tu hai inseguito lo scoiattolo nella
foresta. La paura e l’angoscia che hai sentito sono quelle di chi
viene sradicato dalle sue convinzioni, dalle sue origini, dalle
sue certezze e viene precipitato in un territorio ostile in cui non
sa come orientarsi, in cui si sente osservato, braccato perché i
vecchi pensieri e la vecchia vita non mollano così facilmente la
presa.”
Isobel ascoltava Rumi affascinata, facendo di tanto in tanto sì
con la testa.
“Ma alla fine, più per caso che per tua decisione, inciampando
involontariamente, ti sei ritrovata in un posto splendido,
l’oscurità e la paura alle spalle, una radura illuminata e
attraversata da una fresca brezza. E nel mezzo un’albero
enorme, con radici che saranno state altrettanto enormi e
profonde, che può rappresentare la tua nuova condizione, la tua
nuova vita, le tue nuove convinzioni. E qui, sotto la chioma di
quest’albero, immenso ma accogliente, ti hanno fatto visita tre
grandi del passato che scherzavano e si complimentavano con
312
te intavolando poi una complessa discussione sulla luce. E,
mentre discutevano di luce, un bagliore li ha interrotti e fatti
scappare e tu ti sei protetta avvicinandoti ancora al tronco.
Questa per me è la parte più oscura: parlano della luce e un
lampo li fa tacere e scappare? Forse perché di certi concetti è
difficile parlare o non è opportuno farlo, perchè si esplicano da
se e ci fulminano in un istante di consapevolezza. Poi, mentre ti
ripari sotto l’albero vedi Anrham che, canticchiando una
canzoncina, sta dando da mangiare allo scoiattolo che ti ha
guidato fino a quel posto: questo sembra indicare che Anrham
sia stato o sarà importante per il cambiamento che stai vivendo
anche se il finale rende il suo ruolo parecchio inquietante. Io so
per certo che Anrham non può essere tuo nonno, anche se Tina
Morrison non ha mai parlato di suo marito con noi. Poi quella
presenza incombente su di te, sembra quasi un presagio, una
premonizione… Questo spiegherebbe il terrore con cui ne
raccontavi le sensazioni. Ma torniamo a Anrham: la sua
affermazione di essere tuo nonno è particolarmente strana, a
meno che… La canzoncina! Ti ricordi le parole della
canzone?”
Isobel ebbe un sussulto. In realtà, si rese conto, stava
canticchiando quella melodia dal momento in cui aveva ripreso
conoscenza. Era una specie di sottofondo cantilenante che
rimbombava in qualche recesso della sua mente. Poi
all’improvviso ricordò:
“Ecco dove l’avevo sentita!” disse e si alzò di scatto. Corse alla
borsa dei libri che aveva portato dall’Europa, frugò
insistentemente poi estrasse il libro dei testi di Jim Morrison, lo
sfogliò con impazienza e si arrestò su di una pagina: La
celebrazione della lucertola.
“Eccola qui” disse trionfante “lo sapevo di averla già sentita.”
Si sedette sul letto e lesse ad alta voce il passo che aveva udito
cantilenare da Anrham.
313
Una volta feci un piccolo gioco
Provai a strisciare all’indietro nel mio cervello
Penso che tu conosca il gioco che intendo
Intendo il gioco chiamato impazzire
314
una bestia rinchiusa nel cuore della città
Il corpo di sua madre
Marcisce nella terra estiva
Lui scappa dalla città
C’é qualcuno?
la cerimonia sta per iniziare
Svegliati!
non riesci a ricordare dov’era
Il sogno era finito?
315
Avevamo paura di toccarlo
Le lenzuola erano calde morte prigioni
316
Perdi il controllo, stiamo irrompendo dall’altra parte
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e figlie soddisfatte
con occhi di sperma nei capezzoli
Aspetta
C’è stato un massacro qui
(non smettere di parlare o di guardare in giro
I tuoi guanti & i fan sono a terra
Stiamo scappando dalla città
Stiamo scappando di corsa
E tu sei quello che voglio che venga)
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corriamo
corri con me
corri con me
corri con me
corriamo
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la luna: solo i pazzi vogliono la luna, i pazzi e i bambini pensò.
Ma loro avevano fatto il giochino chiamato impazzire, erano
pronti. Sveglia, siamo quasi arrivati; sentiva l’affanno della
corsa e di quelle parole accelerate, incalzanti e quella musica
martellante fino al parossismo…
Sono il re lucertola
posso fare tutto cio che voglio
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Posso fermare la terra nel suo cammino
Ho fatto in modo che le macchine blu se ne andassero
Poter fare tutto, poter fare la cosa più grande, fermare la terra,
come quella più stupida, cacciare le auto blu. Essere i padroni
della propria realtà, conquistare il proprio inconscio e
diventarne re. La sfida di Jung e di tanti altri nei secoli, il
ritorno alla nostra città natale, quella che dalla nascita ci viene
sottratta con l’istruzione, il condizionamento, il tempo, il ritmo
sempre uguale delle nostre giornate.
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di iniziazione e forse in un certo senso lo è. Parla al lato
dimenticato della nostra psiche, quello inconscio, emarginato,
ferito ma che si rivela, inaspettato, nei momenti più strani.”
Isobel annuì. La sensazione del viaggio era netta anche nella
sua mente.
“Ritornando al sogno credo che l’idea di impazzire è l’idea di
stravolgere i canoni del pensiero chiamato normale, quello per
cui la realtà è una, il tempo scorre, la vita finisce. Impazzire
vuol dire anche non dare tutto ciò per certo, non credere nelle
distinzioni imposte ma toccarle con mano, prendere la luna o
almeno provarci…“
“E’ strano” disse Isobel “E’ la seconda volta in poco tempo che
faccio un sogno legato in qualche modo alla mia famiglia e a
me stessa in cui al risveglio mi ritrovo in testa una melodia e
delle parole che poi scopro essere di Jim Morrison.”
Rumi la guardò con aria stupita….
“Vuoi dire che non è la prima volta che ti capita una cosa del
genere?” chiese incuriosita.
“No” rispose Isobel e le raccontò per sommi capi il sogno in
cui aveva sentito la melodia di The End.
“Questo complica maledettamente le cose” disse Rumi
pensierosa” a meno che…A meno che Jim Morrison non sia in
qualche modo legato a te, che non sia veramente lui tuo
nonno…” disse con noncuranza.
“Mio nonno?” rispose Isobel un po’ seccata “vorrai scherzare.
Non è possibile! “
Poi si mise a riflettere. Effettivamente non aveva mai
conosciuto suo nonno. Suo padre le aveva detto che il marito di
sua nonna era un ammiraglio morto durante una esercitazione
nel 1971 e che la nonna, nonostante la sua giovane età, non si
era più risposata. Pensò al cognome: Morrison… No, non era
possibile! Provò a cancellare quei pensieri dalla mente. Rumi
vide la sua preoccupazione e si limitò a dire.
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“Non è importante questo ora; sono solo mie elucubrazioni
senza senso. L’importante è che tu ora ti riposi e che ti rimetti
in forze al più presto. Tutto il resto viene dopo. Ma mi
raccomando, non prendere più nulla. Può essere molto
pericoloso.”
Rumi abbracciò Isobel con forza, poi fece per uscire dalla
stanza ma, mentre stava chiudendo la porta si fermò.
“Quasi dimenticavo” disse portandosi la mano alla fronte “ Ti
ho portato la lista delle persone che hanno violato il Sacro
Vincolo e questi due scritti di Plotino e di Parmenide. Ma ora
riposati, mi raccomando, devi prima rimetterti in forze; certe
esperienze richiedono tante energie e forse tu ne hai spese più
di quanto potevi permetterti.” E così dicendo le porse una busta
sigillata dalla ceralacca e due libri. Poi con un cenno di saluto
uscì dalla stanza.
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CAPITOLO XLIII
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ciò che non è.
……………………………..
Tutte le cose sono piene di segni, ed è un uomo saggio chi riesce ad imparare una cosa
da un'altra.
Un principio deve rendere l'universo una singola complessa creatura vivente, uno tra
tutti.
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Che vede dunque questa vita interiore? Appena risvegliata essa non può veder bene
gli oggetti risplendenti.
Spesso, destandomi a me stesso dal mio sogno corporeo e diventato estraneo a ogni
altra cosa, io contemplo nel mio intimo una bellezza meravigliosa e credo, soprattutto
allora, di appartenere a un più alto destino; realizzando una vita migliore, unificato
col divino e fondato su di esso, io arrivo ad esercitare un’attività che mi pone al di
sopra di ogni altro essere spirituale
Egli abbraccia in se stesso tutte le cose immortali, ogni spirito, ogni dio, l’anima
intera, ferma, per l’eternità. A che poi dovrebbe cercar di cambiare, se Egli è beato?
Dove mai si sognerebbe di trapassare, se ha tutto in sé? Intanto, Egli non cerca
neppure di aumentare, essendo già perfettissimo. Perciò ancora, tutto ch’è in Lui è
perfetto, a che Egli sia per ogni verso perfetto e non rechi in sé nulla che non sia tale;
poiché non ha nulla, in se stesso, che non pensi: egli pensa, beninteso, non già come
uno che cerchi, ma come uno che possegga. Così, la beatitudine non gli viene d’accatto
perché Egli è già tutto, nell’eternità, è, intendo, la verace Eternità, della quale il
tempo che scorre sull’Anima e la cinge è semplicemente una immagine, quel tempo
che lascia cadere alcune cose per andare incontro a certe altre ! Poiché cose
perennemente nuove vorticano sull’Anima: una volta Socrate, un’altra volta un
cavallo, uno qualunque degli esseri, insomma, senza interruzione. Lo Spirito, invece,
è tutto; Egli serra in sé la universalità delle cose, immobilmente, allo stesso posto; ed
Egli ‘è’, unicamente; e questo ‘è’ è sempre; il ‘sarà’ non ci sarà mai; ed anche
nell’‘allora’ Egli ‘è’, poiché non v’è neppure il ‘passato’: non vi è certo lì una qualche
cosa che sia trascorsa, ma tutto vi persiste immobile, perpetuamente, poiché è identico
ed ama, per così dire, che il suo essere duri in quello stesso stato. Ma ogni singolo suo
essere è Spirito, è Ente e il loro complesso è ‘onnispirito’ ed ‘onniessere’, mentre lo
Spirito rende esistente l’Essere nel pensiero, l’Essere, da parte sua, per il fatto stesso
ch’è pensato, dà allo Spirito il pensare e l’esistere. Pure, condizionamento del
pensiero è qualcosa di diverso che è a un tempo condizionamento per l’essere. Così,
per entrambi a un tempo v’è, quale condizionamento, qualcosa che è diverso dal
pensiero e dall’essere. Certo è che essi coesistono insieme e non si lasciano l’un l’altro:
ma questo uno che è a un tempo Spirito ed Essere e Pensante e Pensato risulta da
una dualità: è Spirito in quanto pensa, è Essere in quanto è pensato. Non potrebbe
infatti aver luogo il pensare se non ci fossero alterità ed identità. (Enneade 5)
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La ricerca dell’unità delle cose e dell’eternità; ogni cosa
puntava incontrovertibilmente in quella direzione: gli scritti
della nonna, i libri che le aveva lasciato, gli appunti e ora, a
quanto pareva, anche nelle opere di chi era stato iniziato ai
misteri di Eleusi vi era questo continuo richiamo all’eternità
dell’essere, alla unità di tutte le cose, alla ricerca della
Illuminazione, dell’estasi mistica. Ripensò alla canzone di Jim.
Impazzire, dimenticare il proprio nome, il proprio io, la propria
identità. Annientare il proprio ego e fondersi fino a confondersi
con la corrente eterna dell’essere. In fondo, pensò, la parola
stessa identità ha due facce: da un lato indica una peculiarità, la
mia identità diversa da quella di chiunque altro, il mio io, il
mio sè, la mia mente, il mio modo di essere, di pensare,
dall’altro identità significa anche uguaglianza, essere uguali,
simmetrici, confondersi con l’altro. Che confusione pensò.
Eccolo il giochino chiamato impazzire: devo smettere,
interrompere per un po’ altrimenti la mia mente fonde, si disse
appoggiando il pesante libro sul comodino. La busta che le
aveva portato Rumi cadde per terra. Isobel si chinò e la
raccolse; se ne era completamente dimenticata. Aprì il sigillo di
ceralacca, estrasse i fogli in essa contenuti e lesse.
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Tina Morrison (2000): Morta a Londra per arresto cardio
circolatorio 10 giorni dopo la rottura del vincolo
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“Sulla carta sì, ma in realtà lo ritengo assai improbabile. Non
aveva contatti con il mondo da oltre un anno, dubito che abbia
potuto informare chicchessia”
“Mi piacerebbe sapere che tipo era”
“Cortese, taciturno, una grande cultura. Ma faresti meglio a
chiedere a Anrham.”
“Ok, lo farò, grazie Rumi.”
“A proposito” la fermò la Custode ”stavo venendo a dirti che
tra due giorni mi recherò, come tutti gli anni, al monastero di
Pemakochung. E’ un pellegrinaggio rituale di una giornata e
volevo chiederti se ti andava di accompagnarmi.”
“Certamente” disse Isobel con entusiasmo.
”Perfetto”rispose Rumi “Tieniti pronta per giovedì mattina
allora. Si parte all’alba. Riposati in questi giorni..”
“Non mancherò” disse Isobel avviandosi verso l’uscita.
L’idea della gita le piaceva; la avrebbe aiutata a staccare la
mente da quelle letture parossistiche e poi, pensava, avrebbe
passato volentieri una giornata intera con Rumi. Al suo ritorno
avrebbe pensato a come rintracciare Anrham.
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CAPITOLO XLIV
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nulla velato e quindi di una purezza che incantava lo sguardo.
Le cime dei monti, arrossate dai raggi dell’aurora, stavano
assumendo i riflessi di ghiaccio che le erano propri. Isobel
spinse lo sguardo alla vallata sottostante: gli alberi di color
smeraldo decoravano le pendici dei monti circostanti mentre il
torrente, di cui si udiva il lontano rimbombo, era una ferita
azzurra che lacerava quella coperta verde. Spinse lo sguardo
più lontano e intravide, sul pendio della montagna ad oriente,
una piccola nube di vapore, che celava il segreto delle cascate
di Lendi Eleusi. Il panorama era mozzafiato. La mano di Rumi
appoggiata sulla spalla la richiamò alla realtà.
“Dobbiamo andare o faremo tardi” disse Rumi con il suo solito
sorriso ”anche se so di distoglierti da uno spettacolo irripetibile
spero che mi perdonerai; siamo attesi.”
“Siamo attesi?” disse Isobel scuotendosi dal suo stato di
torpore provocato dalla magia del panorama ”Io pensavo fosse
una visita di piacere.”
“Lo è, in un certo senso. Ti ricordi quando ti è stata descritta la
fondazione di Lendi Eleusi? Il capo del consiglio ti ha parlato
di un monastero buddista che accolse i fuggitivi dalla Grecia e
li ospitò per anni. Ebbene quel monastero era ed è
Pemakochung ed è tradizione che ogni anno un esponente di
Lendi Eleusi faccia a ritroso il viaggio che fecero i nostri
fondatori per rendere omaggio ai successori di chi permise la
nascita e il prosperare della nostra casa: quest’anno la scelta è
caduta sulla mia persona.”
“Quindi è una specie di pellegrinaggio di ringraziamento?”
“Sì, ed è anche un’occasione per apprendere gli ultimi eventi
del mondo e dei paesi che ci circondano.”
Isobel annuì; avrebbe voluto aggiungere qualcosa ma il
sentiero si era fatto molto ripido e l’affanno le rendeva
difficoltoso il respiro.
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“Non ti preoccupare, è l’altezza; qui saremo a circa 6.000 metri
di quota, l’ossigeno incomincia a scarseggiare. Tieni.” disse
Rumi porgendole una bottiglietta di vetro opaco “Bevi un sorso
di questo e mantieni una andatura lenta ma regolare”
Isobel prese la bottiglia e ne bevve un sorso: era un liquido
denso, dal vago sapore dolciastro.
“Che cos’è? “ chiese Isobel.
“E’ mate, la bevanda che usano le popolazioni delle Ande per
combattere il mal di montagna; tempo addietro uno studioso di
botanica che rimase da noi diverso tempo, ci fornì dei semi di
mate: li abbiamo piantati e abbiamo distillato questa bevanda,
preziosissima per chi affronta le alte quote. Un pezzo di Ande
sul tetto del Mondo.”
In effetti a Isobel parve di sentirsi immediatamente meglio.
6.000 metri… Le venne in mente una frase di Nietzsche che
aveva letto pochi giorni prima negli appunti della nonna
sull’eterno ritorno: un pensiero sgorgato “6000 piedi al di là
dell'uomo e del tempo” secondo Nietzsche stesso.
Smise di pensare a Nietzsche e all’eterno ritorno. Questa è una
vacanza, una vacanza da te stessa, si disse, e rivolse il suo
pensiero al sentiero che stavano percorrendo. Dopo almeno
un’ora di cammino giunsero sul crinale che divideva la vallata
che avevano percorso da quella in cui era il monastero di
Pemakochung. Un vento impetuoso le accolse mentre dall’alto
una coppia di aquile ricamavano il cielo con ampi cerchi. Rumi
scrutò prima l’orizzonte poi la vallata sottostante.
“Siamo quasi arrivati, mezz’ora di cammino in discesa e
saremo a Pemakochung.”
La discesa fu rapida, nonostante due brevi soste per evitare
complicazioni dovute a escursioni di altitudine e di pressione
troppo forti. Giunsero in breve innanzi a un costone di roccia
sulla cima del quale si ergeva il monastero.
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La costruzione era molto diversa da quella di Lendi Eleusi,
richiamandosi quasi esclusivamente ai canoni architettonici
orientali. Ampie mura proteggevano l’edificio principale e le
case degli abitanti del monastero.
Quando giunsero alle mura trovarono il grande cancello aperto
e un monaco, con la classica tunica vermiglia e gialla e il
cranio calvo, che le attendeva. Dopo i saluti di rito il monaco,
che disse di chiamarsi Dijao Peng, li invitò a seguirlo.
Attraversarono alcune strette viuzze e si ritrovarono innanzi
all’ingresso del tempio. Entrarono, passarono alcuni saloni
incrociando e salutando diversi monaci che si stavano recando
alle loro mansioni quotidiane, aggirarono un piccolo chiostro
circolare contornato dalle celle dei monaci, salirono una rampa
di scale e si trovarono innanzi a una porta d’oro del tutto simile
alla porta della Sala del Consiglio di Lendi Eleusi, eccezion
fatta per gli enormi battenti che non raffiguravano un serpente
ma una ghirlanda di fiori intrecciata. Il monaco battè con forza
e attese un cenno dall’interno della sala, poi la porta lentamente
si aprì e Dijao Peng fece cenno a Rumi e Isobel di entrare.
Si ritrovarono in un grande salone, ai lati del quale erano una
serie di monaci di tutte le età, bambini e anziani. Al loro
ingresso intonarono una nenia cantilenante, accompagnando il
suono con lenti e armoniosi movimenti del capo; Isobel ebbe
l’impressione di un’onda umana che si stagliava intorno a lei.
La nenia andò via via spegnendosi mentre Rumi, con Isobel
alle spalle, avanzava tra le due ali di monaci. Il pavimento era
coperto da petali di rosa; Rumi si arrestò davanti a un piccolo
scranno sul quale stava seduto un vecchio monaco che si alzò e
fece loro un profondo inchino. Poi, schiarendosi la voce, disse:
“Benvenuti ai Signori di Eleusi. Sia lode al loro nome e alla
loro saggezza. Che la festa della natura che risorge sia il
simbolo della vostra unione con la divina Persefone, che da e
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toglie la vita. Che Maya scompaia presto dai vostri occhi e che
la custode del Silenzio sia la custode della saggezza.”
Rumi fece un inchino in segno di ringraziamento.
“ … e benvenuta” proseguì il Lama ”alla nipote di Dharma
Mapang, miss Isobel Morrison. Possa il nome che porta esserle
sollievo e non fardello.” Isobel fece anch’ella un inchino,
stupita che quell’uomo conoscesse il suo nome.
“Gliel’hai detto tu?” chiese con un sussurro a Rumi.
Rumi, senza scomporsi, fece cenno di no…
“Che la cerimonia abbia inizio!” concluse il Lama
enfaticamente.
Le due ore successive furono una successione di preghiere, di
visite guidate al tempio, di processioni sacre a cui sembrava
partecipare la maggior parte degli abitanti del monastero. Dopo
una visita a un tempietto che sostenevano fosse stato costruito
dal maestro buddista BodhiDharma e a lui in qualche modo
dedicato, furono condotte nuovamente dal Lama per il pranzo.
Egli le accolse calorosamente e senza la solennità profusa al
loro arrivo, mettendo subito a suo agio Isobel che, un po’ per la
difficoltà a comprendere le parole pronunciate in tibetano, un
po’ pensierosa per il fatto che il Lama conoscesse il suo nome,
si era sempre mantenuta in silenzio e in disparte durante tutte le
ore trascorse nel monastero. Appena ne ebbe l’occasione Isobel
chiese al monaco:
“Immagino che Dharma Mapang sia mia nonna, Tina
Morrison. La conoscevate? E come fate a conoscere il mio
nome?”
Rumi guardò Isobel con aria divertita.
“Tutti qui conoscono Dharma Mapang e tutti ne rimpiangono
la dipartita. Negli ultimi cinque anni è venuta sempre lei come
rappresentante di Lendi Eleusi alla festa della Natura e in più di
un’occasione ci ha parlato di lei e del fatto che era sicura prima
o poi la avremmo conosciuta. Devo dire, come le capitava
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spesso, non ha sbagliato la previsione.” disse inchinandosi in
segno di deferenza al nome della nonna.
“Quali notizie sono giunte dalle Terre Basse?” chiese Rumi
cambiando discorso.
“Segnali di confusione, di agitazione. Sta per avvenire qualcosa
di importante e terribile insieme. Il Pakistan e l’Afghanistan
sono in fermento. Le montagne sono inquiete. Avverrà lontano
ma l’ombra giungerà sino a noi”
L’Afghanistan. Ma era dove si era diretto Hani, pensò Isobel.
“Il libro perduto è stato ritrovato. Dharma Mapang ha rotto il
vincolo per ritrovarlo, ma esso è stato rubato a sua nipote“
disse Rumi solennemente.
“Il libro perduto?!?”sussultò il Lama “Dunque ci siamo…”
Guardò Isobel con uno sguardo misto di tenerezza e
compassione
“La leggenda sta prendendo corso…”
Rumi scosse la testa in segno di conferma.
“Che tutto ciò sia per il meglio: sui terreni più impervi
sbocciano i fiori più belli, dalle alluvioni risorge imperterrita la
foresta, dal fuoco la vita si ridesta. Ogni male ha in sè il seme
del bene. Non ci resta che attendere…” e alzandosi si recò
presso un piccolo baule finemente intarsiato dal quale estrasse
un astuccio di ebano.
“Questo è per lei Miss Morrison” disse consegnando l’astuccio
a Isobel “Contiene alcuni brani del Lankavatara Sutra, il sutra
che copre tutti gli insegnamenti del buddismo Mahayana. Era il
sutra preferito da Dharma Mapang dopo il sutra del Loto. Lo
porti con se e che la sua lettura possa essere luce nei momenti
di oscurità.”
Isobel ringraziò il Lama con un profondo inchino.
“Ora dobbiamo andare se vogliamo essere a Lendi Eleusi
prima che il sole tramonti.” disse Rumi alzandosi.
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“Che la pace sia il vostro sentiero” le congedò il Lama con un
profondo inchino.
Le due ragazze furono scortate da due monaci fino al cancello
del monastero; da qui percorsero a ritroso il sentiero che
portava al crinale, ridiscesero fino alla valle del fiume Po
TsangPo e ripercorsero il sentiero che doveva condurle al lago
e alla cascata. Per tutto il cammino Rumi e Isobel rimasero in
silenzio, ognuna sprofondata nei propri pensieri. Quando
furono in prossimità del lago, annunciato dal rumore delle
cascate, Rumi fece cenno a Isobel di seguirla e, abbandonato il
sentiero, si inoltrò nella foresta. Isobel la seguì, incerta sul
motivo di quella deviazione inaspettata. Dopo alcuni minuti
passati camminando nel fitto della foresta sbucarono in un
ampio prato; ripresasi dal bagliore della luce dopo l’oscurità
del bosco Isobel trasalì: la radura ovale del sogno, con il
gigantesco albero nel mezzo era innazi a lei. Guardò Rumi con
aria stupefatta.
“Questo è il luogo della tua visione. Non non so se fu un sogno
o una allucinazione, ma forse qualcuno che nel sogno era
presente potrà chiarirti alcune cose. Anrham trascorre i suoi
giorni sotto quell’albero.: vai e interrogalo, forse potrà aiutarti
a capire..” e così dicendo si voltò e fece per reinoltrarsi nel
bosco. Isobel la trattenne afferandola per una spalla.
“Grazie Rumi” le disse Isobel ”ci vediamo al monastero.”
“Addio” le rispose Rumi con una punta di tristezza e si inoltrò
decisa tra gli alberi.
Isobel si guardò intorno; tutto era come nella visione. Stupita e
un po’ inquieta si avviò verso l’albero.
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CAPITOLO XLV
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gli raccontò gli avvenimenti che si erano succeduti da quando
era giunta a Lendi Eleusi.
“E così hai posto una domanda al consiglio” disse Anrham
alzando per la prima volta gli occhi dal pezzo di legno che
stava intagliando ”E’ un grande onore e un grande onere. Il
Vincolo, si dice, non perdona.”
“Anrham” lo interruppe Isobel ”tu conosci un certo John Doe
Junior?”
Anrham fissò lo sguardo su Isobel, come se cercasse di carpirle
il significato di quella domanda, poi riprese la lenta opera di
intaglio.
“Sì, lo conoscevo. Era con me qui a Lendi Eleusi….. Era nella
stanza vicino alla mia. Diventammo amici poi, nonostante io
abbia cercato di dissuaderlo in ogni modo, volle udienza dal
consiglio e la sera stessa ruppe il Vincolo appena contratto e
scappò da Lendi Eleusi. Mi hanno detto che è morto in un
incidente aereo pochi giorni dopo.”
“Che tipo era?” insistette Isobel.
“Parecchio taciturno, un solitario, intelligente ma troppo
razionale. Non capisco come abbia potuto rivolgere una
domanda al Consiglio. Mi pare… mi pare che fosse
ossessionato da un libro, ma forse non ricordo molto bene…”
poi, alzandosi lentamente si diresse verso il tronco dell’albero
dicendo:
“Dovrei avere una sua foto qui”
Infilò una mano in una delle numerose cavità di quel tronco
che pareva millenario e ne estrasse una fotografia ingiallita.
“Me la diede il giorno in cui fuggì” disse porgendola a Isobel
“Siamo io e lui intenti a discutere nel giardino sopra la cascata.
Questa istantanea ce la scattò tua nonna Tina. Diceva sempre
che le nostre discussioni erano come lo ying e lo yang… A dire
il vero non ho mai capito cosa intendesse.”
340
Isobel guardò la fotografia. Era una di quelle istantanee a
sviluppo automatico che tanto piacevano alla nonna. Fissano
gli istanti all’istante le diceva spesso mentre bruciava rullini su
rullini fotografandola in continuazione. Osservò il volto dei
due uomini: Anrham era pressocchè identico se non fosse stato
per i capelli che erano ora parecchio più lunghi; quanto a John
Doe sembrava basso, carnagione olivastra, baffi neri curati e…
Il dottor Suzuki? Con uno scatto fu in piedi cercando di
sfuggire all’ombra della chioma dell’albero che la sovrastava
per poter osservare meglio: togliendo i baffi e un po’ di capelli
la somiglianza era inquietante.
“Lo conosce forse?” le chiese Anrham guardandola sorpreso
”Ma no, non è possibile, è morto…”
“Eppure” disse Isobel “eppure la somiglianza è incredibile.
Assomiglia in maniera impressionante al medico dell’Hotel di
Londra dove alloggiava la nonna. Aveva visitato la nonna
diverse volte per la sua angina; è stato lui a redigere il referto
di morte.”
“Come hai detto che si chiama?” chiese Anrham alzandosi con
velocità inaspettata e accostandosi a Isobel.
“Dottor Jiro Suzuki” rispose Isobel.
Anrham le prese la foto, la girò sul dorso e le indicò con il dito
alcune frasi ormai sbiadite..
“Abbi cura di te Anrham. Forse ci rivedremo. J.S.” lesse ad alta
voce Anrham.
“Non avevo mai capito cosa rappresentassero quelle iniziali:
pensavo a un qualche riferimento oscuro o a un nomignolo e
invece…”
“... si è semplicemente sbagliato e dalla fretta ha usato le sue
iniziali reali.” chiosò Isobel.
“Quindi…” stava dicendo Anrham.
“Quindi non è morto in quell’incidente aereo. Presumibilmente
ha perso l’aereo per qualche fortunato contrattempo.”
341
Questo spiegherebbe tante cose, pensò Isobel: la sua
confidenza con la nonna, le loro eterne conversazioni londinesi,
il furto del libro.
“Quindi è lui che ha preso il libro, non può essere altrimenti.”si
lasciò sfuggire Isobel.
“Libro? Quale libro?” chiese Anrham incuriosito.
“Il libro perduto di Eleusi. Non posso dirti altro, solo che il
Vincolo dipende dal libro.”
Anrham sbuffò riprendendo ad intagliare il legno con fare
pensieroso.
“Un libro? Vale la pena rovinarsi la vita per un libro?”
mormorò tra se e se; poi ad alta voce aggiunse:
“Quando le parole diventano più importanti delle persone è ora
di divenire muti e sordi. La tua vita e la tua libertà per un libro?
Che senso può mai avere tutto ciò? Riflettici Isobel.”
“La nonna ha dedicato tutta la sua vita alle parole, allo studio,
alla ricerca e proprio la nonna mi ha spinto fino qui, mi ha
raccomandato di seguire chi la ha preceduta. “
“… e ora? Ora che sai? Ora che forse hai capito? Che te ne fai
della tua sapienza, della tua consapevolezza, della tua cultura?
Io non so che senso abbia il Vincolo, ma trovo assurdo che una
ragazza così giovane si sia legata per sempre a questo posto.
Dov’è il ragazzo che era con te?”
Il tono di Anrham era perentorio e gli occhi gli brillavano di
rabbia.
“Quando il rito prevarica la persona, quando la tradizione viene
prima della vita, quando le norme piegano la vita e non si
piegano ad essa siamo in presenza di un qualcosa di
profondamente sbagliato ed è giusto ribellarsi a ciò.
Isobel, un libro non è la tua vita, sono solo una serie di parole
in fila le une alle altre, possono essere belle, importanti, anche
decisive ma non possono restare sulla carta, quelle parole
devono essere vita, devono prendere vita, devono essere vissute
342
altrimenti sono solo carta da macero. Vedi Isobel io sapevo
dell’esistenza del libro pur non avendo avuto accesso ai segreti
del consiglio, sapevo perché leggendo e vivendo certe cose si
sanno a prescindere o si imparano. Potrei anche azzardare e
dirti cosa c’è scritto in esso, ma che senso avrebbe? Che senso
avrebbe leggere di libertà da dentro una prigione? Che senso
avrebbe essere eterni e avere la giornata scandita dal tempo?
Ogni verità è circolare perchè torna a se stessa e non risponde
che a se. Ogni persona deve sporcarsi le mani, deve vivere ciò
che reputa giusto e respingere ciò che trova sbagliato; deve
vedere con i propri occhi, udire con le proprie orecchie perché
non esiste fede senza esperienza, illuminazione senza luce,
arrivo senza partenza. E quanto a tua nonna…” fece una breve
pausa come se stesse cercando le parole “… ciò che la ha
realmente spinta su questa strada è stato l’amore. Non solo la
curiosità, la voglia di capire ma l’amore e sono convinto che
prima del suo ultimo viaggio se ne sia ricordata...”
Anrham guardò verso il cielo, come per cercare le parole o
qualche conforto poi, guardandola negli occhi le chiese:
“Isobel, sei pronta ad ascoltare una lunga storia?”
Isobel fece cenno di sì con la testa. Forse finalmente capirò, si
disse.
Si sedette di fronte a Anrham. Lui prese una pipa dal tronco
dell’albero, la svuotò della cenere battendola sul palmo della
mano, poi prese un sacchetto di iuta, ne estrasse del tabacco
profumatissimo e iniziò a caricarla con movimenti lenti e
meticolosi. Poi, estratto un fiammifero, accese il tabacco e
inspirò profondamente.
“Dunque Isobel, io non so esattamente che cosa tu sappia della
vita di tua nonna, per cui proverò a fartene un breve racconto.
Alcune cose ti saranno già note, altre ti sorprenderanno. Ti
chiedo un’unica cosa: cerca di non dare giudizi affrettati e
sommari su quello che sentirai.”
343
“Ci proverò” rispose Isobel un po’ perplessa dalla premessa.
“Dopo la morte del padre, tua nonna visse gli anni della sua
infanzia e della sua adolescenza in un paesino nella campagna
francese a una quarantina di chilometri da Parigi cresciuta dalla
mamma e dai nonni materni. Lì trascorse una infanzia felice,
immersa nella natura e tra gli animali della fattoria, a stento
consapevole della guerra che stava in quel periodo
insanguinando l’Europa.
Quando fu maggiorenne si trasferì a Parigi dove frequentò la
Sorbona, laureandosi in Filosofia. In quel periodo rimase
incinta di un suo compagno di studi con cui aveva avuto una
breve storia d’amore. Il ragazzo però morì pochi giorni dopo,
stroncato da un’aneurisma mentre dormiva, senza sapere di
aspettare un figlio da tua nonna; quel ragazzo si chiamava Jean
Messenay. Tua nonna, pur distrutta dal dolore, riuscì a portare
a termine la gravidanza: e così nacque tuo padre. Tina passò un
periodo molto brutto in cui si adattò a fare i lavori più umili per
poter mantenere un alloggio per sè e per tuo padre. Intorno al
1970 prese servizio come donna delle pulizie in una casa in
Rue de Breiteuille e fece amicizia con una coppia di giovani
ospiti americani; in particolare ebbe occasione di parlare spesso
con il ragazzo il quale aveva scoperto ed era rimasto
affascinato dalla cultura di tua nonna. Anche tuo padre, allora
aveva 13 anni, si legò in pochi giorni a quel ragazzo taciturno e
umbratile ma spesso curioso e divertente. Fu in quell’occasione
che venne a conoscenza del libro. Quel ragazzo, cui non
mancava la cultura, le raccontò che ne era entrato in possesso
un anno prima ma che, prima di partire da Los Angeles per
Parigi, se ne era liberato spedendolo ad un indirizzo che gli era
stato comunicato da un personaggio imprecisato, a Toronto.
Tua nonna fu molto incuriosita dalla cosa anche se il ragazzo
non fu prodigo di particolari. Parlarono molto spesso,
generando, tra l’altro, la gelosia, del tutto immotivata
344
nonostante il fascino indubbio del ragazzo, della sua fidanzata
che giunse a fare rimuovere tua nonna dall’incarico di donna
delle pulizie di quell’appartamento. Due giorni dopo quel
ragazzo morì: il suo nome era James Douglas Morrison…”
“Jim Morrison?? La nonna ha conosciuto Jim Morrison??”
“Sì, e ne è rimasta stregata. Fu presente alla sepoltura del
cantante, insieme a tuo padre; si tennero in disparte ma
nell’occasione tua nonna giurò di trovare quel libro a tutti i
costi. Jim le aveva detto, non so quanto seriamente, che
conteneva il segreto dell’immortalità. Troppi morti avevano
attraversato la vita di Tina. Riprese gli studi, si applicò giorno e
notte finchè non ottenne un dottorato di ricerca alla Sorbona in
filosofia Orientale; scrisse alcuni libri che ebbero grande
successo e le garantirono fama e un’improvvisa ricchezza. Fu
in quel periodo che la conobbi: ci innamorammo e decidemmo
di trascorrere la nostra vita insieme.”
Isobel era stupita. Anrham era stato l’uomo di sua nonna?
Osservò il vecchio: mentre parlava di sua nonna gli occhi gli si
illuminavano e una strana espressione gli corrucciava il viso.
“Prendemmo un piccolo appartamento a Montmartre” continuò
Anrham ”vicino a Place du Tertre dove io, Tina e tuo padre
trascorremmo anni splendidi. Poi il demone prese nuovamente
Tina: ebbe non so in che modo notizie di Lendi Eleusi e
convinse me a seguirla: tuo padre, che all’epoca aveva 18 anni
restò a Parigi a studiare. Il nostro arrivo a Lendi Eleusi è una
delle cose più belle che mi sia mai capitata in vita mia:
trascorremmo una settimana in questa radura. Sì, proprio qui, ai
piedi di questo albero, parlando, mangiando quello che
trovavamo, nuotando nudi nel lago, facendo l’amore. Ci
sentivamo Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden. Eravamo
arrivati sino a qui, non sapevamo dove fosse il luogo che
stavamo cercando ma non ci importava più nulla in fondo.
345
Tutto ciò che desideravamo era la presenza e la vicinanza l’uno
dell’altra.
Fu John Doe Junior, o forse dovrei dire il dottor Suzuki a
rompere l’idillio. Ci trovò un giorno, per caso disse lui; ci
spiegò la strada e ci condusse a Lendi Eleusi. Il luogo ci
affascinò subito e ci immergemmo entrambi nelle letture e
nella ricerca. Poi, pian piano, lei si allontanò. Quel maledetto
libro ebbe il sopravvento; cominciò ad esserne ossessionata.
Imparò della possibilità di fare domande al Consiglio e del
vincolo che ne sarebbe conseguito. Io ero fermamente
contrario. La notizia del matrimonio imminente di tuo padre
con tua madre ci riunì e ci ricondusse a Parigi; nascesti tu.
L’idillio riprese, ma con una specie di ombra alle spalle. Poi,
dopo anni di gioia e di quiete, la morte dei tuoi genitori.
Ci allontanammo definitivamente. Tua nonna impazzì dal
dolore: solo tu le hai dato la forza di resistere. Mi cacciò e da
quel giorno sono tornato qui e qui sono rimasto, nel nostro
paradiso perduto, ad attenderla: non è mai più tornata, o quasi.
So che diverse volte era venuta a Lendi Eleusi per studiare e
documentarsi, poi, pochi mesi fa, il nostro ultimo incontro; era
notte, io mi ero appisolato sotto l’albero come tutte le sere. Mi
destai di soprassalto e lei era lì, davanti a me, invecchiata ma ai
miei occhi bellissima. Aveva lo sguardo triste, gli occhi pieni
di lacrime; mi disse che aveva rotto il vincolo, che aveva paura
e che avrebbe voluto che io mi occupassi di te alla sua morte.
Ci abbracciammo per la prima volta dopo 20 anni: sapevo che
non l’avrei più rivista. Quel libro mi ha dato e mi ha tolto i più
bei giorni della mia vita. Ora tu sei qui… Quella volta al lago
non ti avevo riconosciuto anche se qualcosa mi diceva che eri
tu.Non voglio che la tua vita venga distrutta da uno stupido
libro. Non voglio ma ormai è troppo tardi , tu sei vincolata a
questo luogo e questo luogo lo è a te. Se te ne andrai forse
346
morirai, se rimarrai sicuramente vivrai una vita dimezzata: ho
fallito di nuovo…”
Una lacrima scese dagli occhi di Anrham. Isobel lo guardò:
guardò quel vecchio stanco ma dal volto luminoso e lo
abbracciò. Furono minuti interminabili in cui entrambi piansero
e si dissero cose che nemmeno i loro cuori supponevano;
“N..nonno….Posso chiamarti nonno?” disse Isolbel tra le
lacrime.
“Sì Issi, sì! E perdonami se puoi.” disse Anrham
accarezzandole i capelli.
“Cosa devo fare?” chiese Isobel asciugandosi le lacrime.
“Tu cosa senti che sia giusto?” le rispose Anrham.
“Hani… mi manca tanto! Fin’ora non ho mai pensato che non
avrei potuto più rivederlo ma ora, dopo questo tuo racconto...
Ma per vederlo devo andarmene e se me ne vado rompo il
vincolo…”
“Ma Suzuki è sopravvissuto quindi con lui il vincolo non ha
funzionato. La scelta è tua Isobel: o quest’eremo di pace, di
solitudine e di contemplazione o la vita lontano da qui, con chi
ami, seguendo il tuo cuore. Paura contro desiderio: il destino di
ogni uomo, il dramma di ogni scelta. Sta a te ora; io sono
arrivato troppo tardi.”
“Ma Hani… Non saprei dove trovarlo; so solo che è andato in
Afghanistan” disse Isobel.
“Io sì: se è con il professor Barbur saranno sicuramente nei
dintorni di Bamiyan; incontrai il professore alcuni giorni fa in
riva al lago e mi parlò ripetutamente di un monastero sufi
vicino a Bamiyan, il monastero di Khvajeh Baha od-Din dove
desiderava ritornare. Se deciderai di andartene io verrò con te:
l’ho promesso a Tina.”
Isobel guardò Anrham: lo sguardo del vecchio era fiero e
risoluto: la tristezza e la malinconia di poco prima erano state
347
spazzate via e ora nei suoi occhi non vi erano più lacrime ma
fermezza e determinazione.
“Devo riflettere…” disse Isobel abbassandolo sguardo.
“Sai dove trovarmi.” disse Anrham riprendendo ad intagliare il
legno “Ma se vuoi raggiungerli occorre che tu prenda una
decisione in fretta!”
“Lo farò! Ora devo andare. Mi farò viva al più presto” e così
dicendo si alzò e si incamminò verso la foresta. Il sole stava
tramontando dietro le cime dei monti incendiando il cielo.
Isobel ammirò quel paesaggio. La mia vita è altrove, mormorò,
e si diresse verso il lago guidata dallo scroscio sempre più forte
della cascata.
348
CAPITOLO XLVI
349
non tanto capirli ma crederli, dargli una possibilità, prenderli
sul serio. Tutto ci parla della realtà di ciò che vediamo, di ciò
che tocchiamo eppure… eppure tradizioni millenarie ci
invitano a sollevare il velo, a smentire la nostra mente, a
rompere i sigilli che la mente pone alla percezione della realtà
ultima. Droghe, meditazione, irrompere dall’altra parte. Era
affascinata da tutto ciò, da queste strane connessioni tra
esperienze diverse ma che sembravano contenere un messaggio
di fondo univoco. Continuò a leggere:
È come un uomo che in sonno sogna di una contrada che sembra essere piena di vari
uomini, donne, elefanti, cavalli, macchine, pedoni, villaggi, città, case, palazzi,
vacche, bufali, boschi, montagne, fiumi e laghi, e che si muove in quella contrada, fin
a ché si sveglia. Finchè giace mezzo addormentato, egli ricorda la città dei suoi sogni
e rivive le sue esperienze là; cosa pensi, Mahamati, questo sognatore che sta lasciando
che la sua mente pensi alle varie irrealtà che ha visto nel suo sogno, - deve essere
considerato saggio o sciocco? Allo stesso modo, l'ignorante e l’ingenuo che sono
piacevolmente influenzati dalle visioni erronee dei filosofi, non riconoscono che le
visioni che li influenzano sono solamente idee come-sogni che hanno origine nella
mente stessa, e di conseguenza essi si fissano sulle loro nozioni di uno e molti, di
essere e non-essere. È come la tela di un pittore sulla quale gli ignoranti immaginano
di vedere le elevazioni delle montagne e le depressioni delle valli.
350
deve continuare a sognare, per non piombare a terra. Che cos’è ora, per me,
“apparenza”! In verità, non l’opposto di una qualche sostanza: che cos’altro posso
asserire di una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua
apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una
X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive,
che va tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è
apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente più; che tra tutti questi sognatori
anch’io, l’“uomo della conoscenza”, danzo la mia danza; che l’uomo della
conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa
parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e
concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere
l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di
questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.
351
Ecco di nuovo apparire l’eternità dell’essere, ecco Parmenide.
Parmenide in Tibet? L’impossibilità dell’essere di derivare dal
nulla. L’aveva letto pochi giorni prima in quel libro che le
aveva portato Rumi. Era sempre più sconcertata: troppe
coincidenze, troppi legami improbabili eppure evidenti:
La discriminazione-parola viene dalla coordinazione di cervello, torace, naso, gola,
palato, labbra, lingua e denti. Le parole non sono differenti, né non-differenti, dalla
discriminazione. Le parole sorgono dalla discriminazione come la loro causa; se le
parole fossero differenti dalla discriminazione esse non potrebbero avere la
discriminazione come loro causa; e ancora, se le parole non fossero differenti, esse non
potrebbero portare ad esprimere un significato. Quindi, le parole sono prodotte dalla
causalità, cambiano e si condizionano reciprocamente e, proprio come cose, sono
soggette a nascita e distruzione.
Parole e frasi sono prodotte dalla legge della causalità e si trovano in un reci-proco
condizionamento - esse non possono mai esprimere la Realtà Suprema. Inoltre, nella
Suprema Realtà non c’è nessuna differenziazione da discriminare e non c'è niente
che si possa affermare riguardo ad essa. La Realtà Suprema è un’elevato stato di
beatitudine, e non uno stato di discriminazione mondana, e perciò non può essere
confinata in mere asserzioni che la riguardano.
352
forse, come aveva detto Anrham, sarebbe giunta a
comprendera e conoscerla lo stesso. Si alzò dal letto e
incominciò a riempire lo zaino delle sue cose. La mattina
seguente sarebbe partita all’alba: ormai aveva deciso. Nulla di
ciò che poteva apprendere in quel luogo valeva la sua libertà, il
suo amore per Hani; fosse anche durata un solo giorno in più la
sua vita sarebbe stata piena. Finì di riempire lo zaino dei libri
della nonna e di quelli che le erano stati dati da Rumi, poi
decise di fare due passi. Uscì e si recò al giardino sopra la
cascata per riempirsi ancora una volta gli occhi di quel cielo
stellato senza limiti, di quelle bianche montagne all’orizzonte,
di quelle nuvole candide che incorniciavano la luna piena, di
quel lento scrosciare dell’acqua che le infondeva pace e
serenità. Si impresse nella memoria quella sensazione
ripromettendosi di non dimenticarsene mai. Si sedette sulla
panchina di pietra dove aveva incontrato il professor Barbur,
estrasse un taccuino dalla tasca e scrisse quasi di getto:
353
Il male non ha passato, il bene non ha futuro;
amo l’anarchia del tramonto e dell’alba,
dove la notte non è giorno e il giorno non è notte,
dove puoi essere tutto ciò che vuoi
perché l’unico giudice è il tuo sentire
e non proverai lacerazione a sentirti tenebre quando è luce
e astro quando tutto è cenere,
perché non vi è ragione o torto, buono o cattivo;
nulla è immutabile, nessuno è predestinato
neanche il giorno alla notte,
il fiume al mare,
il ricordo all’uomo,
il pianto alla donna.
Essere senza tempo né gregge, senza tetto né legge,
senza motivi né scuse;
portare le proprie pene non con dolore ma orgoglio
e schiacciare l’invidia sotto il macigno della speranza
e ergerla a bandiera per gli scontri futuri tra ciò che vuole morire
e ciò che si aggrappa alla vita come se fosse la sua ultima sicurezza.
Mi sento morta.
Sto vivendo!
355
“Vieni con me Rumi. Lasciati alle spalle ciò che non è più
gioia ma peso. Torna alla vita, essendo ricca di questi anni di
studio ma povera di esperienza. Metti in pratica ciò che hai
imparato! Riempirsi e mai traboccare è un lento suicidio.
Bisogna discendere a valle, l’aria dei monti da alla testa! C’è
chi può aver bisogno di noi. Tu hai sicuramente bisogno di
altri. La solitudine e l’isolamento non sono la soluzione..”
In quel momento si ricordò le parole di Hani e le ripetè per
Rumi:
“Che senso hanno i libri e il sapere se vi è sofferenza, se
bambini muoiono, se la vita vale meno di nulla? Quale
consapevolezza può guarire la ferita che provoca lo sguardo
immenso di un bambino che muore per le ingiustizie, la fame,
la crudeltà del mondo? Andiamo Rumi, sporchiamoci le mani,
tocchiamo con mano la vita e strappiamole con le unghie il
velo di Maya. Tutto parte dalla nostra mente e tutto a lei ritorna
ma questo corpo, per quanto sia illusione, brama, soffre, trema
e ci sono innocenti da lenire, da curare , da salvare. Hani è
andato via per questo, io lo so e ora ho intenzione di
raggiungerlo. Non ho dimenticato il libro e se vivrò abbastanza
continuerò la sua ricerca, ma non mi sento vincolata ad esso. Io
sono la mia strada!”
Isobel guardava Rumi dritta negli occhi. La ragazza aveva
smesso di piangere e la fissava stupita. La abbracciò, ma quasi
subito si scostò da lei:
“Non posso! Troppo dipende da me” disse indietreggiando ”Il
mio compito qui non mi consente ripensamenti…”
Poi dopo aver recuperato il contegno del ruolo che ricopriva in
quel luogo le disse:
“Ero venuta a cercarti per dirti questo: ho riflettuto a lungo sul
sogno che mi hai raccontato, soprattutto sulla parte che
riguardava quell’oggetto che ti sorvolava: è sicuramente un
monito, non so se di qualcosa che avverrà o che potrebbe
356
avvenire. Se te ne andrai dovrai prestare molta attenzione a ciò
che vola, molta attenzione.”
“Aerei? Come il dottor Suzuki? Il vincolo non ha molta
fantasia” disse ironica Isobel” Spero solo che vada a me come
è andata a lui…”
“Il dottor Suzuki? E chi è il dottor Suzuki?” chiese Rumi.
Isobel raccontò brevemente quanto aveva scoperto grazie ad
Anrham riguardo John Doe Junior. Rumi ascoltò attentamente
e quando Isobel ebbe terminato il racconto disse:
“Il vincolo ha fallito? Ne sei certa?”
“Assolutamente” disse Isobel.
“I segni parlano chiaro: il libro Perduto, la rottura del vincolo,
la sopravvivenza alla rottura del vincolo. Il Grande Momento è
vicino.” Rumi alzò gli occhi alla luna che le rischiarò il viso.
“Anch’io che sono Custode del Silenzio, colei che celebra il
rito del Vincolo non ho nessuna idea di come esso funzioni,
come esso agisca; so solo che la tradizione e la mia esperienza
seppur breve mi dice che esso ha sempre funzionato: possiamo
chiamarlo caso, coincidenza, strana sincronicità ma il risultano
non cambia: chiunque abbia in passato violato il vincolo è di lì
a poco morto. La sopravvivenza del dottor Suzuki è un segno
che non può e non deve essere sottovalutato. La Custode del
Silenzio deve capire, deve saper interpretare e leggere i
segni…” poi guardando Isobel dritto negli occhi disse:
“Verrò con te Isobel se è tua intenzione continuare la ricerca
del libro.”
Isobel annuì mentre un ampio sorriso le si dipingeva sul volto.
“Domattina prima che sorga il sole ci vedremo nella radura di
Anrham. Anche lui verrà con noi” disse abbracciando Rumi.
“Sono così contenta” aggiunse.
“Goditi questo momento Isobel” disse Rumi con uno sguardo
penetrante e austero “ci aspettano momenti difficili”.
357
Le due ragazze si salutarono e si rinnovarono l’appuntamento
per la mattina seguente.
Isobel trasse un profondo respiro: la presenza di Rumi e di
Anrham le avevano infuso coraggio. Era pronta ad affrontare il
viaggio, la ricerca e qualunque sorpresa il futuro le avesse
riservato. Con tale convinzione tornò nella sua stanza e si
addormentò placidamente.
358
CAPITOLO XLVII
I Deja vù
“Sono già stato qui.! Credo che chiunque, almeno una volta nella
vita, abbia provato questa sensazione, al contempo straniante ed
esaltante. In un istante sembra fare irruzione nel nostro tempo
un tempo altro, diverso che sembra comunicarci di luoghi e
tempi diversi, già vissuti, di un passato che ritorna; è come se un
granello di sabbia inceppasse per un attimo il meccanismo del
divenire del tempo e lasciasse penetrare una diversa
consapevolezza del tempo, di noi, della realtà.
La sensazione di deja vù può riguardare luoghi, persone,
situazioni, musiche, odori, sapori; è come se il nostro io si
estendesse al di là di quello che noi percepiamo come suo limite
(il nostro corpo, la nostra mente) ed abbracciasse per un attimo
un‘altro tempo e tutti i tempi insieme, un altro luogo e tutti i
luoghi insieme. Ma in fondo, se ben ci pensiamo, possiamo dire
di aver dimenticato una cosa solo se in qualche modo la
ricordiamo e per ricordarla dobbiamo averla già vissuta. La
mente ci fa degli strani scherzi.
In fondo il riconoscersi non significa conoscere se stessi negli
altri, nella situazione, nel luogo? E questo non può significare
che noi siamo quel tempo, quel luogo, quella persona? Ecco di
nuovo ripresentarsi quella sensazione di unità, quell’afflato
universale che tanti poeti e mistici hanno descritto.
Esistono numerose ipotesi sull’origine dei Deja Vù: da quelle
neurologiche (ritardo nella trasmissione degli impulsi neurali tra i
359
due emisferi che fa si che il secondo riconosca come già visto ciò
che manda il primo), una piccola sindrome epilettica, un ricordo
di un sogno.
Come dobbiamo interpretare i dejavù? Sono davvero il frutto del
nostro inconscio o non sono forse essi il breve apparire di un
tempo diverso e altro rispetto a quello in cui noi sentiamo di
essere immersi in cui il presente e il futuro hanno un carattere di
già visto? Come se il tempo fosse tutto presente e ogni istante
accessibile quand’anche dislocato in quello che noi chiamiamo
futuro?
Sincronicità
“La sincronicità non è più enigmatica o misteriosa delle discontinuità nella
fisica. E’ solo l’inveterata convinzione dell’onnipotenza della causalità a
creare difficoltà all’intelletto e a fare apparire inconcepibile che possano
manifestarsi o esistere degli avvenimenti privi di causa. Coincidenze di
significato possono anche immaginarsi come meri fenomeni causali. Ma
quanto più esse si moltiplicano e quanto più grande ed esatta è la loro
corrispondenza, tanto più diminuisce la loro probabilità e aumenta
l’impossibilità di immaginarle, non possono cioè essere più considerate come
espressione di un ordine preformato.. La loro “inesplicabilità” non è dovuta
al fatto che la causa ne sia sconosciuta, ma che una causa del genere non è
pensabile con i nostri mezzi razionali.”
Carl Gustav Jung
360
una persona non può essere visto come la causa del mio incontro
con essa…) con la sua teoria dell’esistenza di un inconscio
collettivo dal quale tutti noi attingeremmo informazioni
(soprattutto, per chi è meno consapevole durante la fase di
sogno in cui la barriera razionale dell’IO si attenua…).
Nello studio di questi fenomeni egli fu accompagnato dal fisico
quantistico Wolfgang Pauli che aveva verificato alcuni
collegamenti non locali nelle sua analisi delle particelle sub
atomiche nonché sperimentato nella vita di tutti i giorni
numerosi eventi sincronici.
In realtà il collegamento non locale tra particelle (per non località
si intendono particelle che non sono collegate tra loro né in
maniera diretta (non si trovano a contatto) ne in maniera
indiretta (non può esistere una qualche forza/energia che le
metta in comunicazione istantaneamente)) esiste ed è stato
dimostrato sperimentalmente dal fisico francese Alain Aspect nel
1982. Dal punto di vista fisico il problema stava in questi termini:
nel 1935 Einstein con altri due fisici (Rosen e Podolsky)
enunciarono quello che venne da allora chiamato il paradosso
EPR, dalle iniziali dei tre. Tale paradosso era volto a dimostrare
l’incompletezza della teoria quantistica così come elaborata dalla
interpretazione di Copenhagen (chiamata così perché elaborata
dai fisici Niels Bohr e Werner Heisenberg mentre collaboravano
tra loro a Copenhagen). Secondo tale paradosso in base alla
teoria quantistica era possibile che una misura effettuata su una
particella influenzasse istantaneamente la misura effettuata su di
un'altra particella localizzata altrove (indipendentemente dalla
distanza che le separi) e questo era in contraddizione con la
teoria della relatività ristretta che considera la velocità della luce
come la massima raggiungibile. Ora è chiaro che se l’influenza è
istantanea e indipendente dalla distanza che esiste tra le particelle
che si misurano o si suppongono collegamenti non locali tra le
particelle o si suppone che vi siano informazioni che viaggiano a
una velocità superiore a quella della luce e questo, per la relatività
ristretta, non è possibile.
Questo paradosso restò tale fino a quando il fisico irlandese John
Bell e, sperimentalmente, Alain Aspect, dimostrarono che due
361
particelle possono essere separate da una immensa quantità di
spazio e ciò nonostante avere tra di loro una correlazione,
ovvero che la misurazione dello spin (più o meno la rotazione
della particella) effettuata su di una particella “costringe” una
particella detta entagled separata spazialmente dalla prima ad
assumere lo stesso tipo di spin.
Quindi il paradosso EPR fu verificato sperimentalmente come
un non paradosso e sono quindi state provate delle influenze
non locali tra particelle.
Da tali conclusioni possono derivare una serie di ripercussioni di
carattere filosofico e psicologico…
Ciò che rende affine tale scoperta della fisica agli studi di Jung è
“semplicemente” il verificarsi di eventi sincronici che non hanno
alcun nesso causale evidente tra di loro (sia quelli sperimentati da
noi umani sia quelli verificati nell’ambito quantistico). Ma se io
posso influenzare o percepire il comportamento di un'altra
persona da me separata spazialmente o anche, più
semplicemente, se io posso in qualche modo percepire un'altra
persona o un evento non localmente allora anche il concetto di
tempo come uno scorrere dal passato al futuro a in cui gli eventi
futuri sono incerti e non verificabili deve in qualche modo essere
modificato.
Per dirla con Jung:
E ancora:
362
“..soltanto la radicata convinzione dell’onnipotenza della causalità crea
difficoltà alla comprensione e fa apparire impensabile che possano verificarsi
o esistere eventi privi di causa.... Gli eventi sincronici sono eventi in cui
spazio, tempo e causalità sono aboliti.”
363
364
CAPITOLO XLVIII
366
le condizioni di vita della popolazione sembravano ricalcare
una grande miseria. Isobel fu colpita dagli sguardi fieri e
orgogliosi delle persone che incrociava. A causa del burka
poteva osservare attentamente le persone che incrociava, senza
timore e imbarazzi (lo trovò l’unico vantaggio di quel vestito
insopportabile soprattutto perché imposto), ed ebbe subito
chiaro come in quel popolo, che pareva versare in condizioni
economiche e di vita sull’orlo della miseria, ardeva una fiamma
di orgoglio e fierezza indomita: anche nei bambini,
numerosissimi, impolverati e vestiti spesso di stracci notò la
stessa fierezza, la stessa alterigia, lo stesso portamento
orgoglioso e virile che vedeva negli uomini che incrociava: una
fierezza che esulava dalle condizioni contingenti e che pareva
in qualche modo innata.
Una volta attraversato il confine si diressero verso la capitale
Kabul che raggiunsero dopo 4 giorni di viaggio. Da lì, dopo
una sosta di un giorno per un guasto alla jeep prontamente
riparato da un meccanico di biciclette, ripartirono alla volta di
Bamiyan.
Durante il breve soggiorno nella capitale afgana ebbero modo
di rendersi conto di persona della brutalità e della severità del
regime talebano: su di un viale cittadino erano stati impiccati ai
lampioni alcuni guerriglieri dell’Alleanza del Nord, i loro corpi
lasciati a marcire al sole come monito e spauracchio.
Assistettero anche, loro malgrado, alla lapidazione in mezzo
alla strada di una donna presunta adultera e furono più volte
invitati con modi bruschi a raccogliere pietre da terra e a
partecipare attivamente all’esecuzione; Anrham riuscì a
defilarsi e a sottrarre a quel barbaro invito le due ragazze.
Isobel osservò con raccapriccio lo sguardo supplicante di
quella donna che, terrorizzata, la guardava disperata urlando la
sua richiesta di aiuto in una lingua per lei incomprensibile.
Isobel sognò quello sguardo e quel grido per diverse notti. La
367
loro uscita da Kabul fu accolta da tutti e tre con un sospiro di
sollievo, tanto che Anrham disse alle ragazze che potevano
togliersi il burka, cosa che fecero con particolare sollievo ma,
man mano che si avvicinavano al fronte dei combattimenti e
quindi alla loro meta, scene di distruzione, morte, dolore
incominciarono a costellare il loro percorso.
In un bazar di un paesino lungo la strada una donna descrisse
loro le torture che le erano state inflitte da alcuni guerriglieri
dell’Alleanza del Nord durante un’interrogatorio e di come due
dei suoi tre figli non fossero più tornati a casa dopo essere stati
fatti prigionieri; ella descrisse anche alcune cose a proposito di
bambini ma Anrham si rifiutò di tradurre quella parte di
conversazione. Giunsero infine a Bamiyan, in quel momento
sotto il dominio talebano. Rumi aveva parlato di quel luogo per
tutto il viaggio descrivendo loro le meraviglie di Bamiyan, i
monasteri buddisti scavati nella roccia e, soprattutto, i due
Buddha giganti, famosi in tutto il mondo, anch’essi scavati
nella roccia secoli prima. Nonostante gli echi della guerra era
emozionatissima all’idea di ammirare quelle leggendarie
sculture ma, una volta arrivati sul luogo appresero, con stupore
e raccapriccio, che i Buddha erano stati demoliti in quanto idoli
contrari alla fede mussulmana. L’abbattimento era avvenuto
pochi giorni prima. Rumi rimase sconvolta.
“Quando si distruggono i simboli,” disse sconsolata ”quando la
violenza colpisce anche un simbolo di pace come il Buddha,
come Gandhi, come il sacro suolo del Tibet qualcosa di
profondamente sbagliato, ingiusto e crudele sta attraversando il
mondo.”
Anrham chiese del monastero di Khvajeh Baha od-Din e, non
appena avute le necessarie informazioni, vi si diresse a gran
velocità. Chi gli aveva dato l’informazione gli aveva infatti
detto che giorni prima vi era stata una feroce battaglia proprio
368
nei pressi del monastero e che in essa alcune persone erano
morte e una decina erano state ferite.
Arrivarono innanzi al monastero, del quale si vedeva solo
l’apertura di entrata in una parete di basalto alta non più di sette
metri.
Scesero dalla Jeep e si diressero verso l’ingresso: una lenta
nenia proveniva dall’interno. Anrham durante il viaggio aveva
spiegato loro come il monastero di Khvajeh Baha od-Din era
stato in passato un monastero buddista ma che, intorno al 1200
era stato confiscato alla confraternita buddista e consegnato
alla setta islamica esoterica dei sufi. Isobel aveva letto qualcosa
riguardo i sufi nei libri della nonna ma non conosceva quasi
nulla del loro culto, della loro tradizione e della dottrina che
veniva professata da questi mistici mussulmani.
Quando arrivarono nei pressi dell’entrata incrociarono un
uomo e una donna che, in lacrime, uscivano reggendosi l’uno
con l’altro dal monastero. Anrham chiese loro cosa fosse
successo e la donna rispose, tra le lacrime e i singhiozzi, che
stavano celebrando il rito funebre di tre bambini del luogo, uno
dei quali era loro figlio, che erano stati uccisi dallo scoppio di
una granata durante la battaglia del giorno prima.
Anrham, Rumi e Isobel, sebbene riluttanti, entrarono.
Si ritrovarono in una grande navata, suddivisa da tre colonnati;
su di una specie di rialzo un uomo anziano vestito di una tunica
verde stava parlando a un gruppetto di persone dinnanzi a tre
lenzuoli bianchi che avvolgevano i corpi dei bambini. Si
avvicinarono con discrezione e Anrham iniziò a tradurre
quanto l’anziano vestito di verde stava dicendo.
“… Perché si vuole sempre misurare tutto? Perché la vita la si
misura in anni e non in felicità? Perché il tempo deve essere
l’unico giudice della vita? Chi ci da il diritto di sapere cosa è
presto e cosa è tardi? Ogni vita è unica proprio perché non è
incasellabile e non è nel tempo. Il tempo uccide perché crea
369
termini di paragone che in realtà non esistono. Undici anni di
vita sono tanti o pochi? Di solito si pensa che siano pochi..
Rispetto a cosa? A cento anni? Ma vissuti come? Tutti a
misurare il quanto e nessuno a misurare il come. Le vite non
vissute delle persone morte presto ci sembrano piene di
possibilità non colte, di gioie non vissute ma non possiamo
saperlo: magari da quel momento sarebbero state un continuo
dolore. Tutto ciò che abbiamo è adesso, la gioia di adesso, il
dolore di adesso; il tempo non guarisce mai perché è il tempo
la malattia. Pensiamo ai sorrisi ricevuti non a quelli spenti,
pensiamo a occhi sorridenti non a occhi velati dall’oblio della
morte, pensiamo a corse spensierate nei campi e non alla fissità
di un corpo inerte. Tutta la gioia, le pene e il dolore di questo
momento è ciò che realmente è ed esiste e per cui vale la pena
esserci: ieri non c’è, domani neppure. Un anno o dieci o cento
saranno in questo modo uguali perché l’intensità dei sentimenti
non ha tempo!
Ci fa male l’assenza? Sì, per noi la morte è assenza, è
l’Assenza con la A maiuscola. Ma quante assenze, quante
piccole morti in una giornata sola. Quante volte nostro figlio
muore, quando usciamo per andare al lavoro nei campi fino al
nostro rientro in casa.. E’ la certezza della presenza ciò che ci
consola? La certezza di ritrovarlo, di rivederlo al nostro rientro
dal lavoro che ci rende possibile uscire di casa? E chi ci
assicura che quando torneremo ci sarà? Che non sarà venuto il
suo momento? Quanti “se avessi saputo”, “se avessi
pensato…” abbiamo sentito dire? Tanti, troppi e purtroppo, un
giorno, lo diremo anche noi. Ma noi sappiamo: sappiamo ma
non vogliamo sapere. Facciamo finta di nulla fino a che non
siamo sfiorati da ciò che fino a un attimo prima ci siamo
rifiutati di prendere in considerazione: viviamo una vita
assurda che non potrà portare altro che rimpianti.
370
Per chi si piange quando una persona muore? Per noi e solo per
noi, perché riconduciamo tutto a noi. Noi crediamo di piangere
per il dolore altrui ma è una ipocrisia. Noi piangiamo per
immedesimazione, noi piangiamo sempre e solo per noi, perché
quel bimbo poteva essere mio figlio, perché io potrei essere suo
padre: trasferiamo le nostre relazioni e le nostre emozioni ma il
nostro pianto è la paura e la sensazione di poter essere “nei loro
panni”. Ma forse e dico forse se fossimo nei panni di chi non
c’è più rideremmo di tutto questo dolore perché forse le sue
unità di misura (del dolore, del tempo, dell’amore, dei
sentimenti) sono finalmente morte e egli è, senza tempo e
senza legame alcuno….”
Isobel fu sorpresa dalla mancanza di rifermenti religiosi e
coranici in questa commemorazione funebre ma soprattutto per
la durezza di quelle parole che non potevano certo suonare
consolatorie. L’anziano, finito di parlare, abbracciò le persone
che piangevano innazi ai tre lenzuoli immacolati. Poi,
lentamente, si diresse verso il fondo della navata. Il piccolo
gruppetto che si era radunato iniziò a uscire, seguendo i corpi
dei bambini portati a spalla da quattro uomini. Isobel, Rumi e
Anrham assistettero a quella straziante processione con il cuore
gonfio di commozione. Ad un certo punto a Isobel parve di
scorgere, tra le persone che seguivano i tre bambini nel loro
ultimo viaggio, un volto conosciuto. Uno degli uomini che
stava trasportando un bambino sembrava… Sì era Hani! Si era
fatto crescere la barba e aveva in testa un turbante nero ma era
lui. Lo osservò emozionata: aveva gli occhi pieni di lacrime.
Isobel indicò il ragazzo a Rumi e ad Anrham e iniziarono a
seguire la processione tenendosi comunque in disparte.
Il corteo uscì dal monastero e si diresse verso una collinetta
sabbiosa. Lì calarono i tre piccoli corpi in tre profonde fosse e,
tra le grida di dolore delle madri straziate, le ricoprirono di
terra.
371
Poi il gruppo di persone si disperse e ognuno si avviò a
riprendere la vita di tutti i giorni. Isobel, che non aveva perso
per un momento Hani di vista, gli si fece vicino e lo strattonò
per la pesante tunica grigia che aveva indosso. Hani si girò e,
non appena riconobbe Isobel le si gettò al collo abbracciandola
e baciandola.
“Issi! Tu qui? Come sono felice..” disse stringendola a se con
quanta forza aveva.
Isobel lo baciò appassionatamente e in quel bacio sentì
confermarsi ogni ragione che l’aveva spinta a quel viaggio, alla
rottura del vincolo. Una sensazione di euforia, di serenità e di
pace le colmò il cuore. Dopo lunghissimi minuti si staccò da lui
e gli mostrò i suoi due compagni di viaggio..
“Anche voi qui?“ disse Hani stupefatto “Anrham e ….. Rumi?!
Cosa fa qui la Custode del Silenzio? Anche tu hai rotto il
vincolo?” disse mentre una nube passava sulla sua fronte
ricordandosi per la prima volta che la presenza di Isobel
significava che anche lei aveva rotto il vincolo ed era quindi in
pericolo.
Rumi non rispose, limitandosi a un sorriso di circostanza e a un
cenno di saluto.
“Venite con me: al professor Barbur farà piacere rivedervi.
Deve essere nello scrittorium come al solito” e abbracciando
Isobel li condusse all’interno del monastero.
372
CAPITOLO XLIX
373
“Vieni con me ho una cosa da mostrarti…”.
“Isobel è molto stanca” la trattenne Anrham mostrando una
certa irritazione ”il viaggio è stato lungo e faticoso. E
comunque credo che Isobel abbia bisogno di parlare prima con
Hani, poi con chiunque altro” disse sottolinenando la parola
chiunque.
“Anrham ha ragione.” aggiunse Rumi.
“Sì, ha ragione” sentenziò Hani “Era tanto l’entusiasmo del
vostro arrivo che volevo condividerlo con il professore,
dimenticando che voi avete migliaia di chilometri sulle spalle e
sarete molto stanchi. Venite cone me, al villaggio vi sono
diverse capanne vuote, abbandonate da quando il fronte si è
avvicinato a meno di dieci chilometri da qui; conosco i
proprietari, potete alloggiarvi fino al loro ritorno.”
“Hanno ragione Isobel.” ammise il professore. “Domattina
avremo modo di parlare a mente più fresca. Buon riposo.” E
con un cenno di saluto si inoltrò nuovamente tra gli scaffali.
Il piccolo gruppettò uscì dal monastero per la medesima strada
di prima e, dopo una decina di minuti di strada con la jeep,
arrivarono al villaggio. Qui Hani mostrò a Anrham e Rumi due
capanne in erba e fango, con un tetto di frasche e legno dove
avrebbero potuto risiedere sino al ritorno dei proprietari.
Ignorando lo sguardo interrogativo e perplesso di Rumi si
congedò da loro e, con Isobel per mano, la condusse alla
capanna che gli aveva fatto da casa fin dal suo arrivo in quel
luogo.
Finalmente soli i due ragazzi si abbracciarono e si baciarono
per uccidere definitivamente la lontananza che quel distacco
aveva posto tra loro. Ritrovata la confidenza nei reciproci
sguardi, labbra, mani, visi, corpi si stesero sul letto e si
raccontarono gli avvenimenti occorsi dopo la loro separazione.
Hani raccontò a Isobel le ragioni di quella partenza improvvisa:
disse che non era sua intenzione partire senza salutarla ma che
374
era stato il professor Barbur a insistere sulla necessità di una
partenza immediata: si era ricordato una cosa importantissima
che doveva verificare di persona e doveva recarsi il più in fretta
possibile in quel monastero. Il professore in quell’occasione gli
era sembrato spaventato e eccitato allo stesso tempo. Hani
aveva deciso di accompagnarlo perché, essendo quel monastero
sul fronte della guerra civile afgana, gli avrebbe consentito di
provare a mettere in pratica nella maniera più vera e difficile il
suo desiderio di aiutare bambini e civili vittime di quella lunga
ed estenuante guerra.
“Tu non hai idea di cosa hanno visto i miei occhi in questi
pochi giorni” le disse con uno sguardo pieno di rabbia “Questo
è il terzo funerale di bambini a cui assisto da quando sono qui,
ovvero venticinque giorni… Ieri a quest’ora stavo giocando a
nascondino con due di loro…”
Hani strinse i pugni per la rabbia. Isobel gli prese le mani:
tremavano.
Le raccontò che aveva incominciato a lavorare come aiuto
infermiere in un ospedale da campo di un’organizzazione
umanitaria in un paese a pochi chilometri da Bamiyan e che
non aveva parole per descrivere l’orrore a cui assisteva
quotidianamente.
“Ciò che mi da la forza di continuare” disse “sono i loro occhi.
Quegli sguardi in cui, dietro all’incredulità e al terrore vi è,
inspiegabilmente, lo spazio per lampi di gratitudine e di
ringraziamento; mentre le carni martoriate gridano la loro sete
di vendetta queste persone, soprattutto i bambini, con i loro
occhi, i loro sguardi smarriti in cerca dei tuoi, in cerca di una
mano, di un sorriso, di un conforto ti danno la forza, sì sono
loro che incredibilmente la danno a te, di esserci, per loro, per
essere forse l’ultimo viso che vedranno in questo mondo ma
per far sì che esso non sia un viso carico di odio, che non siano
occhi ciechi al dolore e alla sofferenza quelli che verseranno
375
lacrime per loro e che serberanno come reliquia il ricordo del
loro ultimo respiro. Credimi, uno solo dei loro sguardi vale
mille libri di poesie e mille teorie filosofiche: i loro sguardi
immensi riempiono il mondo del suo significato e della sua
assurdità: i bambini non possono morire così!”
Isobel guardò il viso di Hani rigato dalle lacrime e non potè
fare a meno di pensare a quanto lo amava.
“E del professor Barbur che mi dici?” chiese Isobel cercando di
allontanare il pensiero di Hani dal dolore che gli attraversava il
cuore.
“Cosa vuoi che ti dica: se ne sta rinchiuso tutto il giorno in quel
monastero, nella biblioteca o nel chiostro, a leggere e a cercare;
non fa altro. Da quando se ne è andato da Lendi Eleusi mi è
sembrato strano, agitato, inquieto…”
“Forse ha scoperto qualcosa sul libro.” rispose Isobel.
“Domani glielo chiederai di persona.. Ora basta libri,
professori, orrori. Ora siamo tu ed io, finalmente!” disse Hani
abbracciandola e rotolandosi con lei sul letto.
Tutto il resto non ebbe più bisogno di parole...
376
CAPITOLO L
377
immediatamente partiti. E, devo dire, questa mia decisione non
è stata vana.”
“In che senso?” chiese Isobel.
“Nel senso che ho avuto modo di avvicinarmi alla ritualità e
alla filosofia sufi, che prima non conoscevo, e scoprire anche in
essa sorprendenti collegamenti e analogie con esperienze fatte
in altri ambiti e altre religioni.
Il sufismo costituisce la parte mistica ed esoterica dell’Islam.
I suoi insegnamenti sono simili a quelli del Tao e di altre
discipline orientali: l’adepto percorre un sentiero iniziatico
(tariqah) che, attraverso l’estinzione dell’io (el-fana), ricerca la
identificazione con l’Uno (Allah) e la perdita di ogni
molteplicità. Una metafora che viene spesso usata nel sufismo
è quella della scorza e del nocciolo. La scorza è la legge
esteriore (shariah) quella che a tutti si rivolge e che di tutti
chiede l’obbedienza, il nocciolo è invece la verità essenziale
(haquiqah) alla quale si giunge solo attraverso il sentiero stretto
(la tariqah appunto) che porta dalla scorza al nocciolo, sentiero
che solo l’iniziato può trovare e seguire. Ogni uomo si trova
nel molteplice e da lì deve partire aggirando gli ostacoli che lo
trattengono dal percorrere il sentiero; come la buccia impedisce
di vedere la vera e gustosa sostanza del frutto così le apparenze
molteplici impediscono di scorgere la realtà ultima; occorre
penetrare la scorza, vedere oltre le apparenze, scorgere la realtà
ultima nelle manifestazioni effimere, scoprire l’Uno nel molto
fino a giungere, alla fine del sentiero, alla stazione divina (el-
maqam el ilahi) dove ogni punto di vista è unificato, dove gli
opposti si compenetrano, ove tutto si risolve nell’equilibrio
perfetto dell’unità. Egli diventa l’uomo universale (el-Insan el-
Kamil). Non trovi Isobel assonanze con concetti buddisti e
indù, oltre che una certa somiglianza con certe esperienze
descritte da mistici cristiani e pervenute sino a noi? Cosa fa
nascere in posti lontani, in culture spesso antitetiche o
378
comunque differenti una identica visione della realtà, un
identico modo di penetrarla e smascherarla, una simile ricerca
dell’unione mistica di ogni uomo? Sono interrogativi
importanti che seguitano a crescere nella loro importanza man
mano che guerre e odio si diffondono sul pianeta. Qualcosa
unisce realtà diverse, un filo è sotteso a ogni esperienza che
cerchi di trascendere la ordinaria interpretazione della realtà,
sia che si tratti di un’esperienza psichedelica, un percorso
iniziatico, lo sprofondare nella follia, il candore dell’infanzia,
la semplicità e l’ascetismo religioso. Tutte queste esperienze
finiscono in un territorio comune ove lo spazio e il tempo
perdono il loro significato ordinario, ove le leggi fisiche si
compenetrano, ove ogni dualismo e distinzione viene meno,
ove ogni io cede il posto alla comunione mistica con l’eterno:
Eleusi, Tibet, Sufismo, Sciamanesimo sudamericano,
Induismo, mistica cristiana; tutte queste tradizioni ci
comunicano una realtà diversa da quella che noi percepiamo.
Anche l’Islam, all’apparenza così dogmatico, ha in se il
sentiero che conduce all’esperienza mistica individuale. Questi
aspetti dell’Islam mi erano totalmente sconosciuti e sono stati
per me una grande sorpresa…”
“La nonna mi ha lasciato alcui libri che parlano del sufismo…”
disse Isobel.
“Tua nonna sapeva più di quanto non facesse trapelare…”
disse il professor Barbur sorridendo “Ma il sufismo non è
l’unico motivo per cui era per me importante lasciare Lendi
Eleusi.” E così dicendo porse a Isobel un libro che teneva nella
tasca posteriore dei pantaloni.
“Questo è un libro di David Bohm, un fisico, mio collega a
Princeton. E’ un libro che offre una lettura inedita e
rivoluzionaria alle ultime scoperte della fisica, una lettura che
va nella stessa direzione che riti, religioni, esperienze ci
indicano da millenni. All’epoca in cui eravamo colleghi mi
379
diede in anteprima questo suo libro che io lessi a Princeton;
rigettai immediantamente le sue teorie come fumisterie eretiche
e misticheggianti, preso com’ero dalla solidità e dalla
ortodossia della Fisica. Anni dopo, quando decisi di portare un
definitivo cambiamento alla mia vita e partii alla volta
dell’India, non so per quale motivo mi portai dietro questo
libro che poi lasciai nella biblioteca di questo monastero. I
discorsi che io e te abbiamo fatto a Lendi Eleusi mi hanno
riportato alla mente questa teoria di David e ho pensato che
fosse giunto il momento di rileggerlo con occhi e mente
diversa. Ho avuto ragione ora almeno quanto ebbi torto allora:
come ho potuto all’epoca non accorgermi di quanta ragione
potesse avere David e con quanta supponenza lo stavo allora
giudicando. Se potessi tornare indietro…”
“Ma qual è la teoria di Bohm?” chiese Isobel impaziente.
“Per fartela breve secondo David esiste nell'universo un ordine
implicito che non vediamo e uno esplicito che è ciò che
realmente vediamo e percepiamo; quest'ultimo è il risultato
dell'interpretazione che il nostro cervello ci offre delle onde di
interferenza che compongono l'universo. Dopo l'esperimento di
Aspect e colleghi degli anni '80, quello di cui ti avevo parlato e
che rivelò una comunicazione istantanea fra fotoni a distanze
infinitamente grandi, Bohm ipotizzò che non vi fosse alcuna
propagazione di segnale a velocità superiori a quelle della luce.
Il legame tra fotoni nati da una stessa particella è dovuto
all'esistenza di un pre-spazio, una matrice aldilà dello spazio-
tempo, priva di distanze ed energia, nella quale ogni cosa
(particella) è tutte le altre e non esiste tra loro alcuna
differenza. Bohm disse che in quella dimensione "Tutto è
Uno". Un legame di causa-effetto che si manifesta nelle quattro
dimensioni dello spazio-tempo fra il fotone A e il fotone B
quando sono vicini, creerebbe un legame (permanente perché
non vi è tempo) fra le stesse particelle nella dimensione del
380
pre-spazio, che è la premessa di altre variazioni di proprietà dei
fotoni quando questi vengono a trovarsi a distanze
infinitamente grandi di spazio e di tempo. Questo vuol dire che
così come un ologramma è il risultato di onde di interferenza
che il nostro cervello interpreta come immagine
tridimensionale, l'universo non sarebbe altro che
l'interpretazione che il nostro cervello ci comunica delle onde
luminose. L'immagine dell'universo è quello di un universo
pieno di luce, nel quale il pieno prevale sul vuoto, e la luce è
più del buio, e lo spazio vuoto è una quantità minima che
definisce la tridimensionalità e la distanza degli oggetti. Si
tratta di un universo pieno di luce, senza massa e quindi di luce
intesa secondo la teoria ondulatoria, e non corpuscolare: un
universo pieno di fasci di onde luminose che viaggiano in linea
retta all'infinito. Fuori di noi non esisterebbero persone e cose
come le sentiamo, vediamo, tocchiamo, ma un insieme di onde.
Nei cinque sensi del corpo umano entrerebbero fasci di onde
che, rielaborate dal cervello, ci appaiono come il mondo
sensibile. Anche il corpo umano sarebbe una rielaborazione
nostra come le altre percezioni sensibili. In questo insieme di
onde, la coscienza riesce a discriminare ciò che è dentro e fuori
di noi, a distinguere un corpo che è parte di lei da un mondo
sensibile esterno. La coscienza è un onda che vibra ad una
propria frequenza caratteristica, mentre la massa non esiste e
sarebbe solo il fenomeno di una serie di onde reinterpretate
dalla coscienza. In sostanza la realtà, secondo Bohm, non
sarebbe altro che l'ologramma di "oggetti" concreti posti in altri
luoghi e tempi. Capisci perché all’epoca rigettai questa teoria
come eretica? Andava contro ogni esperienza e ogni percezione
dell’esistenza… “
“Quindi ancora una volta la luce è la chiave di tutto” interruppe
Isobel “La luce, che per la relatività è eterna, per Bohm è colei
che disegna la realtà che percepiamo..”
381
“Secondo Bohm è così, per quanto sia arduo da credere; sul
concetto di ologrammaticità della realtà vi è anche una
indagine del neurofisiologo Karl Pribram che, cercando di
scoprire la localizzazione dei ricordi nel nostro cervello arrivò
a dedurre che essi non fossero localizzati in una parte specifica
ma distribuiti in modo che ogni neurone abbia in potenza la
capacità di attingere alla totalità dei ricordi; come in un
ologramma in cui ogni parte contiene le informazioni del tutto,
così il nostro cervello conserva i ricordi non nei neuroni ma
attraverso uno schema di impulsi nervosi che prescindono da
una localizzazione precisa delle informazioni: questo
spiegerebbe anche come il nostro cervello sia in grado di
conservare una così grande quantità di informazioni (si parla di
circa dieci miliardi di informazioni durante una vita media) in
uno spazio così limitato. Ma mentre la teoria di Pribram ha
avuto un qualche ritorno in ambito scientifico, la teoria di
Bohm è stata subito rigettata, come stupidamente e
grossolanamente feci io all’epoca…”
“Eppure..” disse timidamente Isobel ”… eppure ancora una
volta questa teoria si sposa perfettamente con la tradizione e gli
insegnamenti del buddismo, del sufismo. Tutto è Maya,
illusione. L’ordine esplicito sarebbe illusione e interpretazione
della nostra mente. Capisco perché non ha voluto ascoltare
allora: pensare che lei non è reale ma è solo una interpretazione
della mia mente è assai disturbante…”
“Eppure è ciò che tradizioni millenarie ci ripetono nei secoli,
incessantemente.” disse il professore ”Non può essere una
coincidenza, non possono essere similitudini astratte. Se solo
avessi più tempo, se solo non fossi stato così ottuso e meschino
quando David mi mostrò questo suo lavoro forse insieme
saremmo potuti pervenire ad una formulazione matematica del
pre spazio, ma ora… E’ troppo tardi e probabilmente il vincolo
reclamerà il suo tributo…”
382
Un’ombra scura attraversò la mente di Isobel. Da un po’ di
giorni non pensva più al Vincolo e quell’accenno le provocò un
brivido nella schiena.
“Siamo tutti appesi a un filo, vincolo o non vincolo.” disse
Isobel. “Posso tenere questo libro? Vorrei leggerlo se è
possibile.”
“Certamente.” rispose il professore. “Ora si è fatto tardi e ho
bisogno di parlare con il maestro.”
“Parla del vecchio che ho visto alla cerimonia funebre?”
“Sì, è il maestro di queso monastero. Una persona saggia. E’ un
piacere conversare con lui.”
“Posso unirmi alla conversazione?” chiese Isobel con fare
impertinente.
“Non credo vi siano problemi. Seguimi, mi sta aspettando nella
sua stanza.” E così dicendo si avviò verso il colonnato.
“Un attimo.” disse Isobel riflettendo ”Ma in che lingua si
esprime il maestro?” chiese preoccupata.
“Conosce perfettamente la nostra lingua.” rispose il professore
da sotto il portico. Lo percorsero entrambi fino a una porticina
di legno scavata nella roccia dove il professore si arrestò.
Senza che lui avesse bussato la porta si aprì e comparvero il
sorriso e la barba del vecchio maestro.
383
384
CAPITOLO LI
386
il tuo giuramento cento volte, vieni lo stesso. La nostra non è la
porta della disperazione e del tormento, vieni!“
Qui tutti sono i benvenuti perché qui è nessun luogo: qui è
ovunque e ovunque l’uomo che cerca è il benvenuto, purchè la
sua ricerca prescinda da se stesso e da ciò che intende
cercare…“
“Le sue sono parole di amore e tolleranza” interruppe Isobel
”amore e tolleranza che mal si sposano con ciò che accade qua
fuori: spari, guerriglia, uccisioni, violenza, morte! “
“Chi si spoglia di se non avrà alcun motivo per uccidere,
odiare, ferire. La via è stretta e impervia ma in essa non vi è
dolore. La via è l’Uno e chi è Uno non uccide perché uccide se
stesso; il mondo ci volge le spalle ma il mondo andrà a breve
incontro a un baratro: una grossa nube si schianterà sulle
sicurezze di chi ignora le sofferenze e questa ombra e il terrore
che porterà con essa coprirà tutta la terra, seminando morte e
sangue. Ma, come in ogni semina, da essa nasceranno erbacce
e frutti dolci e da tali frutti il sapore del divino colerà in bocche
assetate.”
Il viso di Omar ben Sheik era come rapito, lo sguardo fisso in
alto, la testa ciondolante da una parte all’altra, come se stesse
recitando un testo imparato a memoria o letto sui muri di pietra
che lo circondavano.
“Ma i talebani sembrano privilegiare l’obbedienza all’amore, la
regola alla libertà. Eppure adorate lo stesso Dio e lo stesso
profeta.” disse il professore.
“Questo è vero ma la legge dei talebani è solo la scorza, la
grezza superficie; da essa parte la strada che giunge al
nocciolo, all’essenza. La scorza protegge il nocciolo ma ne
nasconde la vista; la scorza marcisce per dare nutrimento al
nocciolo che sarà pianta, e presto questa marcirà. La scorza è
strumento del nocciolo. Il nocciolo è la vita, il nocciolo è il
contatto con l’Uno.”
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“Ma che cosa intende per Uno?” chiese Isobel.
“L’Uno è Allah, il principio e il fine di tutte le cose; egli è
l’Uno perché in lui tute le cose perdono la loro distinzione e
ritornano alla loro natura originale e divina. Ogni essere
vivente, oggetto, pietra è un’unica cosa, ha in se l’impronta di
Allah, è unito a lui per nascita e per fine. E’ questa la chiave di
tutto: l’impronta divina.”
E così dicendo si alzò e andò verso un vecchio baule di legno,
lo aprì, vi rovistò all’interno poi lo richiuse e ritornò presso di
loro.
“Questo” disse Omar mostrando una grossa conchiglia a spirale
“è un Nautilus, una conchiglia a spirale. E’ una conchiglia
particolare, che la tradizione indù vuole avesse in mano Shiva
durante la sua danza con la quale creò il mondo. Che cosa ha in
comune questa conchiglia con un girasole, con un ramo di
tiglio, con il Parthenone ad Atene, con un violino Stradivari,
con un pianoforte, con le composizioni di Mozart, Bach,
Beethoven, con gli indici di borsa di Wall Street?”
Isobel lo guardò come si guarda un pazzo. Il professor Barbur
sorrise.
“Non ne ho idea.” disse Isobel rassegnata.
“Tutti contengono in loro un’impronta divina, un’indizio della
comune origine e della comune unione nel divino; il cosiddetto
rapporto aureo o divina proporzione..”
“Rapporto aureo? Di cosa si tratta?” chiese Isobel incuriosita.
“In realtà nè più nè meno che di un numero” interruppe il
professor Barbur ”ma un numero speciale: si dice che doni
armonia e bellezza a ciò che è conforme al suo rapporto.
Questo numero, 1,6180339887….., è un numero irrazionale
(ovvero un numero né intero nè definibile come rapporto tra
altri due numeri) ed ha infinite cifre decimali senza sequenze
ripetitive. Viene indicato convenzionalmente con la lettera Ф
ed è ottenibile come soluzione dell’equazione √5-1 /2. E’
388
l’unico numero esistente, l’unico, ad avere il quadrato uguale a
se stesso +1. A questo rapporto è spesso associata la cosiddetta
sequenza di Fibonacci, una successione di numeri in cui ogni
termine, a parte i primi due, è la somma dei due che lo
precedono; tale sequenza è 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, ....
ed ha questa caratteristica: il rapporto tra un termine e il suo
precedente oscilla ora in eccesso, ora in difetto,
approssimandosi man mano al rapporto aureo. Ma finiamola
qui con le proprietà matematiche di tale rapporto e vediamo ciò
che Omar stava cercando di dirti.”
Isobel annuì, già disorientata da quella sequenza di numeri e
definizioni.
“In tutte le cose che ti ha elencato Omar, ma anche in molte
altre, appare o la sezione aurea o la sequenza di Fibonacci:
ecco perché viene chiamata divina proporzione, perché sembra
attraversare e unire molte cose in natura, come una silenziosa
firma del creatore dell’universo. Vediamo alcuni esempi: la
spirale della conchiglia che ti sta mostrando è configurata
secondo la sequenza di Fibonacci. Allo stesso modo la
sequenza di Fibonacci appare nell’albero genealogico e nella
sequenza riproduttiva dei fuchi, i maschi delle api: infatti in un
alveare le femmine sono tutte generate dall’unione dell’ape
regina con un fuco e si dividono in operaie e regine.
Le api regine sono api operaie nutrite con pappa reale ma,
diversamente dalle operaie, sono in grado di produrre uova.
I maschi nascono dalle uova dell’ape regina.
Quindi possiamo dire che le femmine hanno 2 genitori: l’ape
regina e un fuco, mentre i fuchi hanno un solo genitore: l’ape
regina.
Prendiamo in esame l’albero genealogico di un fuco. Il fuco ha
1 genitore che ha sua volta ha 2 genitori che a loro volta hanno
3 genitori che a loro volta hanno 5 genitori e così via seguendo
la serie di Fibonacci.
389
Anche in botanica registriamo spesso la seqenza di Fibonacci:
nella crescita dei rami di alcune piante: ad esempio nella
Achillea Ptarmica ogni ramo impiega un mese prima di potersi
biforcare. Al primo mese quindi abbiamo 1 ramo, al secondo
ne abbiamo 2, al terzo 3, al quarto 5 e così via.
Le pigne e i girasoli presentano nella loro conformazione
spirali che seguono nella loro evoluzione la sequenza di
Fibonacci.
L’orientamento delle foglie sui rami degli alberi, disposto in
modo che ogni foglia non copra le altre e riceva la luce del
sole, avviene in quasi tutti gli alberi secondo la sequenza di
FIbonacci; se prendiamo come punto di partenza la prima
foglia di un ramo e passiamo di foglia in foglia in senso orario
o antiorario, il numero di giri che compiremo intorno al ramo
prima di trovare una foglia sopra quella di partenza corrisponde
sempre ad un numero di Fibonacci.
Le corolle e i pistilli dei fiori sono spesso organizzati in spirali
i cui numeri seguono la sequenza di Fibonacci…
Potrei continuare a lungo: anche nel corpo umano la coclea,
osso dell’apparato uditivo, è una spirale disegnata in base al
rapporto aureo.
Dalla struttura a doppia elica del DNA, fino alla conformazione
delle galassie a spirali (la Via Lattea, la nostra galassia è una di
queste) molte cose in natura sembrano parlarci attraverso
questo misterioso numero.
E così nei millenni l’uomo ha cercato di introdurre questo
rapporto nelle sue opere, ritenendolo un numero sacro e divino.
Così esso attraversa trasversalmente la storia e le opere più
famose e belle che l’ingegno umano abbia prodotto, lo
troviamo negli oggetti più ricercati come in quelli più banali,
nella costante e vana ricerca dell’uomo di raggiungere la
perfezione divina.
390
La proporzione aurea fu molto utilizzata dagli antichi Greci
come rapporto armonico nelle costruzioni architettoniche: la
ritroviamo nelle piramide egizie e nel Partenone nell'Acropoli
Ateniese, e nelle rappresentazioni scultoree, per esempio nelle
proporzioni delle Cariatidi che reggono l'Eretteo. Il rapporto
aureo fu largamente ripreso anche nel Rinascimento: le
dimensioni della Monnalisa, di Leonardo da Vinci, sono in
rapporto aureo. E ancora fino ai giorni nostri, nell'architettura
moderna: il Palazzo di Vetro delle Nazione Unite ha
proporzioni auree. La sequenza di Fibonacci è
abbondantemente rappresentata anche in musica, ad esempio
nelle “fughe” di Johann Sebastian Bach, nelle sonate di
Mozart, nella Quinta Sinfonia di Beethoven, nella Sonata in la
D 959 di Schubert; l’esempio più elevato di applicazione su
vasta scala degli stilemi improntati alla proporzione aurea è
dato dalla Sagra della Primavera di Strawinski. Si dice che
anche il grande jazzista John Coltrane, appassionato di numeri
e del loro significato escatologico, abbia composto la sua opera
più famosa, il disco A love Supreme, basandosi sulla sequenza
di Fibonacci.”
Il professore tacque e guardò in volto Isobel; una strana
espressione mista a stupore e incredulità era dipinta sul suo
viso.
“E’ difficile non rimanere stupefatti, non è vero?” ruppe il
silenzio Omar “E’difficile non pensare che tutto abbia un
senso, che tutto, anche alla luce di queste cose, abbia un’unica
origine e forse un unico stato fondamentale. Ogni cosa, se
ascoltata con attenzione, ci parla di questo: di una melodia che
unisce in armonia ogni essere, ogni oggetto che pare distinto, di
una nota sottesa a ogni individualità, una specie di melodia
perenne, un sottofondo che ci parla delle nostre origini,
struggente, malinconico. E’ per questo che noi dervisci, in base
agli insegnamenti del nostro Sommo Maestro, preghiamo
391
danzando: per unire la nostra anima e il nostro corpo alla
melodia del creato, alla grande musica delle origini. Ogni
nostra giornata è dedicata a questo.”
“Come si svolge la vostra giornata?” chiese Isobel come
ridestatasi da una specie di trance.
“Tra preghiere, danze, musiche, silenzio, meditazione, letture.
Ognuna di queste cose ha come fine il raggiungimento
dell’Uno. La musica: la musica è il linguaggio dell’anima, la
parola dell’Uno che ogni orecchio può udire e interpretare
aldilà delle distinzioni di lingua, razza, pensiero. La musica è
l’armonia e l’unione dell’Uno, è il richiamo che ci spinge oltre
la nostra realtà e con essa la danza, la libertà del corpo. Il
sommo poeta diceva: Dio ha fatto in modo che l'illusione
sembri reale e il reale un'illusione. Ha nascosto il mare ed ha
reso visibile la schiuma; ha nascosto il vento e manifesta la
polvere. Tu vedi la polvere turbinare, ma come potrebbe
sollevarsi da sola? Tu vedi la schiuma, ma non l'oceano.
Perciò invocalo con le azioni, non con le parole, perché le
azioni sono reali e ti daranno la salvezza nella vita a venire.”
“E’ possibile assistere alla vostra preghiera danzante?” chiese
Isobel.
“Siamo qui per questo” la interruppe il professore.
“Sì, è l’ora della sema, la preghiera danzata, che
quotidianamente viene celebrata da me e dagli altri
appartenenti a questa piccola comunità. Miss Isobel, vuole
onorarci della sua presenza e della sua preghiera durante il
rito?”
Isobel annuì. Il vecchio si alzò e aprì la porta; poi, uscito sul
chiostro, lo attraversò trasversalmente per rientrare nella porta
che dava alla sala dove si era svolto il rito funebre. Il professor
Barbur e Isobel lo seguirono.
Nella sala erano già presenti diverse persone, vestite di lunghi e
ampi mantelli neri e con sul capo uno strano cappello
392
cilindrico. Omar ben Sheik si sedette su di una sedia e fece
cenno a Isobel e Barbur di sedersi al suo fianco; poi, con un
battito di mani diede inizio alla cerimonia.
La preghiera coranica iniziò, dolce e cantilenante. Poi cedette il
passo al suono malinconico di un flauto di canna. Gli uomini
dagli strani cappelli presero posto al centro della sala circolare.
Erano raccolti, concentrati come si conviene agli officianti di
una sacra liturgia.
Il viaggio spirituale verso Dio ebbe inizio. La musica divenne
corale. Si moltiplicarono i flauti, si aggiunsero i tamburi e una
viola fece da contrappunto alle voci. Isobel si ritrovò coinvolta
in un clima di raccoglimento e di profonda preghiera.
Pregavano anche alcuni spettatori, che Isobel notò sul lato
opposto della sala con una mano sul cuore. Pregavano i
dervisci.
“Ogni loro gesto, così come l’abito che li ricopre, ha un
significato religioso.” disse il vecchio a bassa voce
interrompendo il suo raccoglimento per spiegare il rito. “Le
mani, prima di tutto: inizialmente incrociate sulle spalle, a
richiamare l’Elif, la lettera iniziale di Allah in caratteri arabi, si
distendono quando i dervisci iniziano a danzare, con la mano
destra che si gira verso il cielo, per ricevere da Dio, e quella
sinistra che guarda la terra, per comunicare agli altri il dono del
contatto con l’Altissimo.”
Isobel annuì. Come satelliti intorno al sole, i dervisci ruotavano
intorno a sé stessi in un processo di contemplazione sempre più
profonda.
“Nel primo giro si immergono nell’universo, quindi
nell’unicità di Dio, per purificarsi da dubbi e affanni” continuò
il vecchio ”L’unione mistica viene rappresentata dalla caduta
del lungo mantello nero che li ricopre come fa la scorza con il
nocciolo.”
393
In un crescendo di canti suoni e danze l’intensità del rito
crebbe e Isobel si trovò il cuore palpitante seguendo il
vorticoso pregare dei danzatori. Poi all’improvviso il silenzio.
Il vecchio si alzò lentamente dalla sedia e, raggiunto il centro
della sala recitò solennemente una sura del Corano. Poi, con un
battito di mani, diede fine alla preghiera. La sala si svuotò
repentinamente e Isobel e il professore rimasero soli insieme a
Omar ben Sheik. Uno strano silenzio, quello che poteva essere
definito un religioso silenzio, era calato nel salone. Anche
Isobel si sentì come rinfrancata e purificata da quelle voci, da
quella musica minimale ma intensa, da quei movimenti
armonici e rapidi a un tempo.
“Ora vi devo lasciare” disse il vecchio rompendo in qualche
modo l’incantesimo ”Questo è un libro di poesie del grande
maestro Rumi” disse porgendo a Isobel un libretto con la
copertina dorata “Che possa infondervi gioia e serenità e
guidarvi lungo il sentiero. Che la pace divina sia il vostro
cammino.”
Isobel e il professore si inchinarono con devozione.
Isobel uscì dalla sala e rimase accecata dal sole. Sorridendo si
avviò verso la sua capanna.
394
CAPITOLO LII
Il tempo e l’arte
395
vista il tempo diventa un parametro per giudicare lo status di
arte.
Esistono poi opere d’arte non solo nel tempo ma sul tempo.
Innanzitutto i poeti: in molti di essi appare il concetto di
eternità, di assenza di tempo, di unità di tutte le cose. È solo una
licenza poetica, un espediente letterario oppure la sensibilità del
loro animo li ha portati a andare oltre il velo della comune realtà
e percepire uno stato immanente, imperituro, immortale delle
cose, dell’essere, dell’universo?
Questa domanda non ha una risposta semplice, anche se il
ruolo del poeta è quello di guida nei recessi più reconditi del
nostro animo e della nostra realtà. Pensiamo a Rimbaud e alla
sua famosa “Lettera del Veggente” in cui egli reclama al poeta il
ruolo di colui che interpreta appunto la realtà, attraverso la sua
arte e la sua sensibilità, per trasmetterla agli altri. Riportando le
sue parole:
“Il primo studio dell'uomo che voglia essere poeta è la sua propria
conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l'indaga, la tenta, l'impara.
Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si
compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono
molti altri che si attribuiscono il proprio progresso intellettuale! - Ma si
tratta di fare l'anima mostruosa: come i comprabambini, insomma!
Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente
mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le
forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé
tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella
quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale
diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, - e il
sommo Sapiente! - Egli giunge infatti all'ignoto! Poiché ha coltivato la sua
anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all'ignoto, e
quand'anche, smarrito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni,
le avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e
innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti
sui quali l'altro si è abbattuto! Dunque il poeta è veramente un ladro di
fuoco.
396
Ha l'incarico dell'umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire,
palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli
dà forma; se è informe, egli dà l'informe, Trovare una lingua; - Del resto,
dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale!”
397
*************
“L'unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi
paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi.”
- Marcel Proust
“Un uomo che dorme tiene intorno a sé, in cerchio, il filo delle ore, gli ordini
degli anni e dei mondi.”
- Marcel Proust
*************
*************
So che in me non c’è morte. Non c’è dubbio che sono già morto diecimila
volte. Rido di ciò che chiami consumazione e conosco la vastità del tempo.
-Walt Whitman
*************
Sono certo di essere già stato qui, ora come mille altre volte prima d’ora e
spero di ritornarvi altre mille.
-Goethe
Con l’anima dell’uomo succede come con l’acqua: viene dal cielo e al cielo
risale per tornare alla terra in eterna alternanza.
- Goethe
398
*************
E’ passato tanto tempo! Eppure io sono ancora la stessa Margaret. Solo le
nostre vite invecchiano. Noi siamo la dove i secoli contano solo come secondi,
e dopo un migliaio di vite cominciamo ad aprire gli occhi.
- Eugene O’Neil
*************
La verità segreta del mondo è che tutte le cose sussistano per sempre e non
muoiano, ma si sottraggano un po’ alla vista e in seguito facciano ritorno.
Niente muore.
- Ralph Waldo Emerson
*************
Fin dove riesco ad andare indietro con la mia memoria mi rendo conto di
aver fatto istintivamente riferimento a una precedente condizione
d’esistenza…Sono vissuto in Giudea 1800 anni fa ma non sapevo che tra i
miei contemporanei c’era uno che era Cristo. Così come allora le stelle mi
guardavano mentre facevo il pastore in Assiria, ora mi guardano nel New
England
- Henry David Thoreau
*************
Vive e muore mille volte l’uomo,
Fra le sue due eternità,
della stirpe l’una, dell’anima l’altra,
ben lo sapeva l’antica Irlanda.
Sia che nel suo letto muoia,
O che l’atterri un colpo di fucile,
il peggio che deve temere
à una breve dipartita da quiei cari.
Benché la fatica dei becchini
sia lunga affilati sono i loro badili
forti i loro muscoli nell’opera.
Non fanno che ricacciare i loro morti
Nella mente umana ancora.
- W.B.Yeats
399
*************
*************
Consideriamo divine bibbie e religioni, e io non dico che non siano divine, io
dico che sono venute fuori da te e che ancora possono venirne fuori, non sono
esse a dare la vita, sei tu che dai la vita, non si staccano foglie dagli alberi ne
alberi dalla terra più che non si stacchino da te.
- Walt Whitman
*************
RISVEGLI
400
Sono lontano colla mia memoria
dietro a quelle vite perse
Mi desto in un bagno
di care cose consuete
sorpreso
e raddolcito
Rincorro le nuvole
che si sciolgono dolcemente
cogli occhi attenti
e mi rammento
di qualche amico
morto
Ma Dio cos'è?
E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta
E si sente
riavere
- Giuseppe Ungaretti
*************
401
D’averlo incontrato tempo fa
M’è tornato in mente, questo è tutto
Ed ora è sparito per sempre.
- Emily Dickinson (Life)
*************
"La verità è che moriamo ogni giorno e che nasciamo ogni giorno. Stiamo
morendo e nascendo di continuo. Per questo il problema del tempo ci tocca
più degli altri problemi metafisici. Perché gli altri sono astratti. Quello del
tempo è il nostro problema. Chi sono io? Chi è ognuno di noi? Chi siamo?
Forse un giorno lo sapremo. Forse no. Ma nel frattempo, come disse
Sant'Agostino, la mia anima arde perché desidera saperlo".
- Jorge Louis Borges
*************
Che? l’eternità.
È il mare mischiato
Al sole.
La mia anima eterna,
Osserva il tuo voto
Malgrado la notte sola
E il giorno in fuoco.
Dunque tu ti sgombri
Degli umani suffragi,
Dei comuni slanci!
402
Tu voli secondo...
- Giammai la speranza.
Niente oriente.
Scienza e pazienza,
Il supplizio è sicuro.
Niente più domani,
Braci di raso,
Vostro ardore
È il dovere.
Lei è ritrovata!
- Che? - L’Eternità.
È il mare mischiato
Al sole.
- Arthur Rimbaud
*************
*************
403
………..
Dov'è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?
Dov'è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?
- T.S.Eliot (The Rock)
*************
*************
*************
Mezzanotte
Per tutti i rettilinei delle strade
serrati in una sintesi lunare,
incanti lunari che bisbigliano
dissolvono i piani della memoria
e tutte le sue chiare relazioni
le sue divisioni e precisioni,
ogni lampione che oltrepasso
batte come un tamburo fatale,
404
e attraverso gli spazi del buio
la mezzanotte scuote la memoria come
un pazzo scuote un geranio appassito
…………………………………..
- T.S. Eliot (Rapsodia di una notte di vento)
*************
Noi moriamo con quelli che muoiono:
ecco, essi partono e noi andiamo con loro.
Noi nasciamo con i morti:
ecco, essi tornano e ci portano con loro.
- T.S. Eliot
*************
Un Mendicante - il Qui e il Là -
È capace di discernere
Oltre l'intuito del Sensale -
All'uno - i Soldi - all'Altro - la Miniera -
- Emily Dickinson
*************
405
Le Eclissi sono - previste -
E la Scienza è a loro sottomessa -
Ma fa che una si affacci all'improvviso -
L'Orologio di Geova - è guasto.
- Emily Dickinson
*************
*************
Questo fu un Poeta -
È colui Che
Distilla un senso sorprendente
Da Significati Ordinari -
Ed Essenza così immensa
Da avvenimenti familiari
Che periscono oltre la Porta -
Ci meravigliamo di non esser stati Noi
Ad arrestarli - prima -
Di Visioni, Rivelatore -
Il Poeta - è Colui
Che Ci destina - per Contrasto -
Ad una incessante Povertà -
406
*************
*************
407
*************
Le onde rimano
Con il sospiro
E la stella
Con il grillo
Ma chi accorda
Onde e sospiri,
stelle
e grilli?
*************
Il tempo lavora come l’acido
Occhi macchiati
Vedi il tempo volare
408
*************
*************
*************
Se solo
potessi sentire
Il canto
dei passeri
e sentire l'infanzia
trascinarmi indietro
di nuovo
409
- James Douglas Morrison
*************
*************
*************
*************
410
I Signori ci placano con immagini. Ci regalano libri, concerti, mostre,
spettacoli, cinema. Attraverso l’arte essi ci confondono e ci accecano nel nostro
asservimento. L’arte adorna le pareti della nostra prigione, ci rende quieti,
silenziosi, mansueti, divertiti e indifferenti.
- James Douglas Morrison
411
memoria volontaria, la memoria dell'intelligenza, e poiché le notizie che essa
dà sul passato non mi serbano nulla, non avrei mai avuto voglia di pensare
a quel resto di Combray. Tutto questo, in verità, era morto per me. Morto
per sempre? Forse.
Il caso ha una grande parte in tutte queste cose, e un secondo caso, quello
della nostra morte, spesso non ci permette d'attendere a lungo i favori del
primo. Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le
anime di quelli che abbiamo perduto sono prigioniere entro qualche essere
inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per
noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare
accanto all'albero, che veniamo in possesso dell'oggetto che le tiene
prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo
riconosciute, l'incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e
ritornano a vivere con noi.
Così è per il passato nostro. E' inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi
della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde all'infuori del suo
campo e del suo raggio di azione in qualche oggetto materiale (nella
sensazione che ci verrebbe data da quest'oggetto materiale) che noi non
supponiamo. Quest'oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire,
o che non lo incontriamo.
Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma
del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d'inverno,
rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di
prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po' di tè. Rifiutai
dapprima, e poi, non so perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una
di quelle focacce pienotte e corte chiamate « maddalenine», che paiono aver
avuto come stampo la valva scanalata d'una conchiglia.
Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione
d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo
inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel
sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a
quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva
invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le
vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo
stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio
quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi
mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia
412
violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la
sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura.
Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?
Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo
dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della
bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa,
ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere
indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io
sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e
ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per.una spiegazione decisiva.
Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità.
Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente
sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche
il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà
a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che
ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.
E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto,
che non portava con sé alcuna prova logica, ma l'evidenza della sua felicità,
della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a
farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il
primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al
mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la
sensazione che fugge. E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà di
riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l'udito
e l'attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma, sentendo come l'animo
mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che
gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo
supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli
metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me
trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse
come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio
adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate.
Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev'essere l'immagine, il ricordo
visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in
modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde
l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né
chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del
413
suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di
rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si
tratti.
Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo
antico che l'attrazione d'un attimo identico è venuta così di lontano a
richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non
so. Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è ridisceso forse; chi sa se
risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci
volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni
impresa importante, m'ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè
pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani,
che si possono ripercorrere senza fatica.
E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto
di «maddalena» che la domenica mattina a Combray ( giacché quel giorno
non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua
camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di
tiglio.
La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente;
forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri,
la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri
giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori
della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - anche
quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale sotto la sua
veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano
perduto la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la
coscienza. Ma, quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte
degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più
immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo
ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la
rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza
vacillare, l'immenso edificio del ricordo.
E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di " maddalena "
inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo
rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo
mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale
era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione
sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo
414
avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi
mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla
mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo
era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere
in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora
indistinti,, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si
colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e
riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di
Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro
casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien
prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di
tè…”
415
E anche nell’ultimo libro de “Alla ricerca del tempo perduto”
Proust parla degli attimi in cui ritorna alla sua infanzia rievocati
dal suono di un campanellino. Quel suono accompagnava i passi
dei genitori ma, come dice lui stesso, in quegli attimi “io li udivo
ancora, li udivo, proprio loro, pur situati lontano nell passato
[…] Era proprio quel campanello a risuonare ancora in me,
senza che io nulla potessi mutare nelle strida del suo
sonaglio[…]. Dunque quel campanellino vi era sempre, e con lui,
fra esso e l’attimo presente, tutto quel passato definitivamente
trascorso che ignoravo portare in me”. Questi però, in un attimo
di somma lucidità o somma follia vengono definiti dall’autore
non come “resurrezioni del passato”, ma “resurrezioni totali del
passato” in cui non vi era solamente “un’eco, un duplicato della
sensazione passata”, “ma proprio quella sensazione stessa”
Egli dunque non rivive quella sensazione, egli è quella
sensazione, egli ha innanzi a se la stessa sensazione già vissuta, ha
innanzi a se il suo passato e lo rivive ora per allora sentendo i
passi dei genitori, ascoltando il tintinnare del campanello…
Quelle sensazioni sono lì innanzi a lui, evocate in un attimo e
disponibili alla vita, alla sensazione, al rimpianto, alla muta
consapevolezza che mai furono o saranno perdute.
Ma dopo il lampo di follia Proust rientra nel consentito, nel reale,
nell’ordinario sostenendo ciò che per un attimo aveva negato:
che il tempo distruggerà quel tempo distruggendo colui che lo
evoca. Ma il fulmine di follia o di somma consapevolezza resta
intatto e illuminante come la paura di pensarlo fino in fondo.
PITTURA
Per quanto riguarda la pittura essa è in se legata al tempo; essa è
la rappresentazione di un frammento di realtà (interpretata,
distorta, rielaborata anche fino alle estreme conseguenze) ma il
gesto pittorico simboleggia proprio questo: fissare un istante e
renderlo eterno.
Esistono anche quadri sul tempo: l’esempio classico sono gli
“orologi molli” di Salvator Dalì. Lo scioglierisi degli orologi, lo
sciogliersi del tempo e dal tempo, il suo divenire liquido,
416
plasmabile, duttile, relativo…. E’ una interpretazione del tempo
che si lega indissolubilmente con la teoria della relatività. Orologi
che si sciolgono in una terra arida e deserta, liquefatti dal sole,
dall’eterno…. E’ la rappresentazione del tempo psichico e
relativo, del tempo che si modifica e si addatta al soggetto, che si
prostra davanti alla luce dell’eterno. Spiegare meglio!!!!
Capitoli da sviluppare:
Tempo e Eternita’‡
Il tempo e la mente
Il tempo e l’Illuminazione
Il tempo in occidente
419
mucchio di pietre che una volta costituivano il muro di una
capanna.
Isobel corse da Rumi, che era caduta e l’aiutò ad alzarsi
scuotendole la polvere dai vestiti.
“Cosa diavolo ti è saltato in mente?”
“Ma è un bambino Isobel… Un bambino non può combattere,
non può partecipare alla guerra. Lo sai cosa mi ha detto? Mi ha
detto: I ribelli hanno ucciso i miei amici, io ucciderò loro! Un
bambino?! Un bambino Isobel, ti rendi conto?”
Isobel guardò la custode negli occhi; la fierezza del suo
sguardo era velata da calde lacrime.
“E’ l’orrore della guerra Rumi; un orrore vecchio quanto
l’uomo, che non guarda in faccia a nessuno e ti precipita in una
spirale di morte, odio, vendetta, che amplifica le differenze, che
scava fossati tra le persone a suon di morte e dolore. Andiamo
via Rumi, è pericoloso restare qui!”
Mentre pronunciava quelle parole un colpo di mortaio cadde a
una ventina di metri da loro, distruggendo un ovile. Pietrificate
dal terrore si buttarono a terra e lì sarebbero rimaste se due
mani non le avessero costrette a rialzarsi: era Anrham che disse
loro: “Presto seguitemi, non è prudente stare qui ora!”
E così dicendo le prese per mano e le fece rientrare nel
monastero; Anrham sperava che quel luogo sacro fosse
immune dagli attacchi e dalle pallottole. Si rifugiarono nella
biblioteca e attesero.
Per oltre due ore fu l’inferno: spari, esplosioni, grida, si
susseguivano a ritmo vertiginoso
Poi un silenzio irreale scese in ogni dove; Anrham fece cenno
alle due ragazze di aspettarlo mentre andava a controllare
all’esterno. Dopo alcuni minuti fece ritorno facendo cenno di
seguirlo.
Appena uscite dal monastero videro ovunque i resti della
battaglia: buche scavate da colpi di mortaio, case distrutte,
420
corpi senza vita distesi per terra tra la polvere. Rumi cercò
istintivamente il bambino ma il suo sguardo cadde su di un
gruppo di persone in piedi davanti ad una jeep, mitra spianato,
mimetiche e lunghe barbe nere. Non parevano talebani. Forse
erano…
“Guerriglieri dell’Alleanza del Nord” finì i suoi pensieri
Anrham “… i talebani hanno perso la battaglia e con essa il
villaggio e hanno arretrato le loro posizioni di qualche
chilometro.”
Due guerriglieri notarono Isobel e Rumi e, staccandosi dal
gruppo, si fecero loro incontro, i mitra ben in vista pronti a
sparare. Anrham gli andò incontro a mani alzate e disse loro
alcune parole in una lingua che Isobel non comprese; questi,
dopo aver perquisito Anrham ritornarono sui loro passi. Ad un
tratto Rumi lanciò un grido e si precipitò innanzi a se; poco
distante, su di un ammasso di pietre spuntava il corpo esanime
del bambino che poco prima aveva cercato di disarmare; Isobel
corse dietro a Rumi e si accostò chinandosi al bambino.
Respirava ancora anche se aveva l’addome e un braccio
ricoperti di sangue. Rumi sollevò delicatamente il capo del
bambino e, tra le lacrime, sussurrò alcune parole. Il bambino
socchiuse gli occhi.
“E’ vivo!” gridò Rumi “E’ vivo! Dobbiamo aiutarlo! Isobel,
vai a chiamare Hani, digli che c’è un bambino ferito che deve
essere portato immediatamente in ospedale…”
“I prigionieri di guerra sono sotto la nostra tutela” disse uno dei
guerriglieri che era sopraggiunto attirato dalle grida di Rumi
“Questo piccolo bastardo ha ucciso tre dei miei migliori
uomini… Avrà la fine che si merita!” disse in un inglese
zoppicante ma comprensibile.
“Ma è solo un bambino” supplicò Rumi mentre l’uomo la
prendeva per un braccio e la trascinava via dal bimbo. Isobel
421
osservò la scena e in un secondo reagì; raccolse un fucile che
giaceva di fianco al bambino e lo puntò contro l’uomo dicendo:
“Ora mi ascolti bene: lasci stare la mia amica e ci lasci
trasportare il bambino all’ospedale!”gridò scandendo bene le
parole per essere immediatamente compresa.
L’uomo sulle prime sembrò sorpreso dalla reazione: si fermò
un attimo poi, con un sorriso sarcastico e sprezzante sulle
labbra gettò a terra Rumi e, estratto un coltello, si abbassò sul
corpo del bambino...
La mente di Isobel cessò di funzionare: alzò il fucile e prese la
mira, le mani che le tremavano; come da un territorio lontano
sentì la voce di Anrham che le gridava di non farlo. Il coltello
dell’uomo scintillò, il dito sul grilleto tremò un istante.
Un rombo di motore e un grido congelarono la scena per una
frazione di secondo: sia Isobel che l’uomo si girarono e videro
una jeep sulla quale, accanto a tre guerriglieri, si ergeva un
uomo, mitra a tracolla, tuta mimetica. Con un balzo scese dalla
jeep e urlò nuovamente in direzione dell’uomo e di Isobel.
L’uomo si irrigidì e si alzò in piedi come se qualcuno avesse
azionato una molla, un riflesso involontario. Lo stesso fecero i
guerriglieri che avevano visto appena uscite dal monastero.
L’uomo sceso dalla jeep si diresse a grandi passi verso Isobel,
si piantò innazi all’uomo senza rivolgere uno sguardo alla
ragazza e al fucile che ancora impugnava e disse alcune parole
incomprensibili, con tono fermo e deciso. L’uomo abbassò il
capo in segno di sottomissione, rimise il coltello nel fodero e si
diresse verso il gruppo di suoi commilitoni.
Nel frattempo era sopraggiunto Anrham che afferrò il fucile di
Isobel e lo gettò per terra. Isobel si voltò come riavendosi da
uno stato di trance e chiese a Anrham:
“Chi è quest’uomo? Cosa gli ha detto?”
Anrham fece per risponderle quando l’uomo si girò verso di
loro e disse in un inglese quasi perfetto:
422
“Il mio nome è Ahmed Sha Massud, sono il comandante delle
forze armate dell’Alleanza del Nord.”
Isobel fissò quell’uomo: viso allungato, sguardo mite ma fiero,
alto, elegante nel portamento, una barba curata a incorniciargli
il viso.
“Portate quel bambino all’ospedale, ha bisogno di cure urgenti:
potete prendere la mia jeep. ”
Rumi, che nel frattempo era sopraggiunta, sollevò il bambino
delicatamente, aiutata da Anrham, e lo trasportò fino alla jeep.
Massud impartì alcuni ordini ai guerriglieri che erano giunti
con lui e questi aiutarono Rumi ad adagiare il bambino nella
vettura.
“Nessuna vendetta; non finchè sarò io il comandante” disse
guardando Isobel negli occhi; poi, voltandole le spalle si
diresse verso i suoi uomini. Isobel raggiunse Anrham e Rumi,
salì sulla jeep e partirono alla volta dell’ospedale dove prestava
servizio Hani. Quando vi giunsero si trovarono innazi
all’inferno; l’ospedale era all’interno di un vecchio fortino,
residuato della dominazione inglese: all’ingresso una fila di
feriti sanguinanti, urlanti, scene di dolore e strazio infiniti
accolsero Isobel e gli altri che, tenendo in braccio il bambino,
si fecero largo tra quella moltitudine urlante, agonizzante e
ferita. Appena entrati Anrham cercò di attirare l’attenzione di
un qualche medico, ma tutti quelli che lui poteva identificare
come tali per via del camice bianco erano impegnati nelle cure
di qualche ferito. In quel momento Isobel scorse Hani in fondo
ad un corridoio, gli corse incontro chiamando il suo nome. Il
viso del ragazzo era pallido, i guanti di lattice che portava
sporchi di sangue, lo sguardo assente. Appena vide Isobel le
corse incontro e, dopo essersi accertato che stesse bene, si fece
condurre dal bambino.
“Karim!” Hani chiamò il ragazzo; nessuna reazione. Il respiro
era debole: Hani aprì i vestiti e controllò le ferite, poi corse in
423
una stanza attigua e ritornò con un medico; insieme lo
sollevarono e lo trasportarono verso una sala attigua. Mentre
portavano via il bambino Hani guardò Isobel e le disse:
“Lo operiamo d’urgenza; forse siamo ancora in tempo” e sparì
dietro un tendone verde.
Isobel sentì le sue gambe cederle ma fu sorretta dalle forti
braccia di Anrham. Guardò Rumi, gli occhi lucidi a cercare di
scrutare movimenti dietro il tendone. La abbracciò, si sedettero
in un angolo e attesero.
424
CAPITOLO LIV
425
con Rumi. Era un orfano, padre e madre uccisi quando i
talebani avevano preso il potere sette anni prima; aveva vissuto
presso la famiglia di uno dei ragazzi che erano morti il giorno
in cui Rumi e Isobel erano arrivati al villaggio e ora che anche
il padre di quest’ultimo, l’uomo che Isobel aveva riconosciuto
il giorno della battaglia, era morto egli, rimasto solo, si legò a
quella ragazza dagli occhi profondi e dal sorriso sincero che
aveva cercato di disarmarlo quel giorno e che gli era stata
vicino durante tutta la convalescenza. Quando fu dimesso
Karim, solitamente cupo e riservato, chiese a Rumi se si poteva
trasferire nella sua capanna e Rumi, sorpresa dalla richiesta,
accettò con gioia. Da quel momento divennero inseparabili;
dove era lui era anche lei e viceversa. Ridevano, scherzavano,
giocavano… Sembravano mamma e figlio e la cosa riempiva di
gioia entrambi e la popolazione locale che vedeva Karim felice
come mai lo era stato dalla morte dei suoi genitori. Quanto ad
Anrham, sembrava il più irrequieto del gruppo. Ogni tanto
spariva con la jeep per giorni interi lasciando detto che doveva
recarsi a Kandahar per delle commissioni. Passava giornate
intere a parlare con il professor Barbur e con Omar ben Sheik, i
volti scuri, gli sguardi torvi. Con Isobel e gli altri era sempre
prodigo di consigli e li aiutava spesso all’ospedale.
Quel giorno Isobel si svegliò all’alba e, come le capitava
spesso negli ultimi tempi, sorrise scoprendosi abbracciata ad
Hani; da quando si erano riuniti, nonostante la situazione non
facile ed emotivamente impegnativa che affrontavano
giornalmente, si era resa conto di quanto fosse innamorata di
quel ragazzo e di come la sua sola presenza le infondesse gioia
e serenità. Si alzò dal letto e aprì la porta della capanna
rabbrividendo all’aria frizzante del mattino; il sole stava
sorgendo all’orizzonte, su quella tavola rasa e arida che era
l’altopiano su cui era costruito il villaggio; i colori dell’alba
infiammavano le rocce circostanti insanguinando il panorama.
426
Isobel, per la prima volta da molto tempo, fu colta da cupi
pensieri; si guardò intorno: tutto era immobile; le capanne
circostanti erano immerse nel silenzio; Rumi stava sicuramente
dormendo accovacciata con Karim tra le braccia mentre la
capanna di Anrham era vuota da diversi giorni. Il vecchio era
partito ormai da una settimana per non meglio precisate
commissioni da effettuare a Kabul. Era in pensiero per lui
perchè quel viaggio significava dover attraversare per due volte
la linea del fronte. Isobel scrollò le spalle come a cacciare i
cattivi pensieri e rientrò nella capanna; riattizzò le ceneri e vi
mise sopra la caffettiera. Mentre attendeva il caffè lo sguardo
di Isobel cadde sulla valigia della nonna, ricolma di libri,
appoggiata in un angolo e ormai piena di polvere; da quando
era in quel luogo non aveva più preso in mano un libro, nè
aveva letto nulla del libro che le aveva consegnato il professor
Barbur. Era come se quel luogo, quella situazione avesse
cancellato ogni sua curiosità, ogni sua domanda sorta in quel di
Lendi Eleusi. Anche i Misteri delle Esuli, il libro che fino a
pochi mesi prima sembrava essere il centro della sua vita e lo
sprone per la sua ricerca era divenuta una presenza impolverata
in un angolo della sua memoria. Mentre sorseggiava il caffè
guardando dalla finestra l’orizzonte riprendere i normali colori
del giorno, vide un uomo correre all’impazzata verso la sua
capanna: era uno dei dervisci del monastero, un ragazzo alto e
magro di nome Alì. Isobel aprì la porta e il giovane, ansimante
e sudato, entrò e, senza attendere di riprendere fiato, le disse in
un inglese strascicato:
“Miss Isobel… Il professore… Venga subito…”
Isobel trasalì:
“E’ successo qualcosa al professore?” chiese afferrando il
giovane per un braccio.
Il ragazzo fece segno di sì con la testa poi aggiunse “ Morto..”.
427
Isobel si sentì per un attimo mancare; si precipitò da Hani, lo
svegliò e insieme corsero al monastero seguiti a distanza dal
ragazzo, troppo stanco per tenere il loro passo.
Giunsero in breve all’ingresso del monastero dove ad attenderli
c’era il vecchio Omar che, con un triste sorriso dipinto sul
volto, fece loro segno di seguirlo. Il vecchio li condusse al
chiostro e si fermò dinnazi a una porta davanti alla quale si
affolavano alcuni dervisci. Hani e Isobel si fecero largo ed
entrarono. Il corpo del professore era a letto, il volto sereno, un
mezzo sorriso a illuminagli il viso. A Isobel venne
immediatamente in mente la scena che aveva vissuto mesi
prima quando aveva visto la nonna morta sul letto dell’albergo.
“Ci stavamo recando ai riti del mattino” ruppe il silenzio Omar
”quando, passando davanti alla stanza, mi sono stupito di
trovare la porta ancora chiusa; di solito il professore si
svegliava molto presto e ogni mattina lo vedevo presso la
fontana del chiostro a fare yoga; così mi sono insospettito e ho
provato a bussare. Non ottennedo risposta ho aperto la porta.
Pensavo dormisse… Mi sono avvicinato e mi sono accorto che
non respirava.”
Isobel si avvicinò al letto e baciò il volto sereno del professore
mentre le lacrime le rigavano il volto. Con la mente corse
all’ultima volta che lo aveva visto: il giorno prima lo aveva
incrociato per caso mentre rientrava alla capanna sfinita dopo
una giornata passata all’ospedale; si erano salutati, il professore
le aveva chiesto se aveva avuto modo di leggere il libro che le
aveva dato; lei aveva cambiato discorso imbarazzata e si era
allontanata con una scusa. Se solo avesse saputo… Le
tornarono in mente le parole che aveva udito mesi prima al
funerale dei tre bambini, sempre lì in quel luogo, pronunciate
da Omar: perché dare per scontato che arrivi il giorno
successivo, perché immergersi poi nei rimpianti? Con un gesto
istintivo fece per sistemare le coperte del letto quando si
428
accorse che il professore stringeva in una mano, quella
nascosta sotto le lenzuola, un foglio. Gli aprì delicatamente la
mano; era ancora calda… Prese il foglio e lo guardò: era il
disegno di una farfalla. Ciò che il bruco chiama fine del mondo
il resto del mondo chiama farfalla, sussurrò. Dunque il
professore sapeva di stare per morire: il disegno della farfalla
non poteva essere una coincidenza, era una specie di
messaggio, un messaggio per lei.
Il Vincolo… Isobel trasalì. Il Vincolo aveva colpito ancora si
disse. Guardò Hani che comprese immediatamente quali
pensieri avesse Isobel. La strinse a se. Piansero insieme e
mentre la stringeva a se Hani le disse:
“Ricordatene sempre. Quello che il bruco chiama fine del
mondo il resto del mondo chiama farfalla! Me lo hai insegnato
tu….”
Isobel annuì. Proprio in quel momento entrò nella stanza Rumi,
con Karim in braccio; si accostò al letto e mise una mano sulla
fronte del professore mormorando una incomprensibile
preghiera, poi uscì dalla stanza per farvi ritorno pochi minuti
dopo con una farfalla tra le mani che liberò mormorando :
“Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo
chiama farfalla. Vola libera e che la tua forma sia splendida
come le ali che ti sostengono. Che la pace sia il tuo sentiero!”
Poi si accostò a Isobel e la abbracciò piangendo.
“Il vincolo” le sussurrò.
“Sì, il vincolo…” disse Isobel “Ma non posso stare qui ad
attenderlo! Il professore avrebbe voluto che continuassi le sue
ricerche…”
In un istante nella sua mente fu chiara la decisione:
“Devo continuare ciò che la nonna e il professore hanno
iniziato. Ho perso abbastanza tempo. Se solo sapessi dove
trovare quel maledetto libro…”
429
Rumi la guardò stupita: gli occhi di Isobel, ancora bagnati dalle
lacrime, sembravano fiammeggiare di una rabbia e di una
convinzione che nessuno aveva mai visto in lei.
“Forse ho qualcosa che potrebbe aiutarti, se questo è il tuo
intento.” disse Rumi guardandola negli occhi.
“Lo è!” rispose Isobel decisa.
“Allora seguimi” disse Isbel uscendo dalla stanza non dopo
aver ripreso in braccio il piccolo Karim.
Isobel accarezzò il volto del professore per l’ultima volta poi,
accompagnata da Hani, seguì Rumi e Karim fino alla loro
capanna. Una volta entrati Rumi prese il pesante zaino con cui
aveva affrontato il viaggio da Lendi Eleusi fino a lì, estrasse
alcuni fogli e li porse a Isobel. Lei la guardò con aria
interrogativa.
“Ricordi quando parlasti davanti al consiglio e ci mostrasti
quegli appunti di tua nonna sul libro?”
Isobel fece cenno di sì.
“Bene. In quell’occasione tu ci consegnasti gli appunti affinché
noi potessimo cercare di capire chi poteva celarsi dietro gli
acronimi e le scritte incomprensibili riportate. Questi sono i
risultati di quelle ricerche. Ovviamente l’analisi non è completa
ma credo che ti possa comunque essere utile. Avevo intenzione
di darteli subito, ma mi sono resa conto che la tua mente e i
tuoi desideri erano altrove. Le tenni per me; sapevo che
sarebbe giunto questo momento prima o poi”
Isobel prese i fogli e incominciò a leggerli. Di fianco alle
iniziali e alle scritte vi erano, annotati in corsivo, le traduzioni
delle citazioni e il nome del presunto autore delle sigle e della
citazione.
430
P. E. είµαστε αιώνιοι και αιώνια είµαστε Siamo eternamente e
eternamente siamo Parmenide di Elea
Z. E. enthousia Essere invasi dal divino ??????
M.T.C. Alterius non sit qui suus esse potest. Non appartenga a un altro chi
puo’Ú appartenere a se stesso Marco Tullio Cicerone
P. ένας L’Uno Plotino
icniV ad L. Leonardo da Vinci
M.E. !!! ??????
J.S.B. Et Lucem Etiam Ubi Sempiternam Ioventute Sia luce sulla gioventu’˘
eterna (le iniziali formano Eleusi) Johan Sebastian Bach
J.H. The bottom of a damaged bucket Il fondo di un secchio sfondato?????
I.K. La realtà in se ??????
V.V.G. om eindeloze te schilderen Dipingere l’infinito Vincent Van Gogh
A.R. Elle est retrouvèe. Quoi? L’Eternitè Ella Ëe’ stata ritrovata. Chi?
L’eternita’ Arthur Rimbaud
F.W.N. Astu Friedrich Wilhem Nietzsche
C.G.J. NAHTRIHECCUNDE GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH ZUNNUS
A.E. E= mc2 T=∞ ? T=0 ? Albert Einstein
K. G.
Kurt
Godel
431
J.C. F G Ab Bb C ???????????
J.D.M The scream of the butterfly L’urlo della farfalla Jim Morrison
G.G. Slowly fading in the north, the ice, the night. What a silence… What a
music… Dissolvendosi lentamente verso nord….il ghiaccio, la notte. Che
silenzio………..Che musica….. ??????
T.M. Icci, segui chi mi ha preceduto! Tina Morrison
433
“In Irlanda. Ho ancora degli amici nelle redazioni dei giornali
di mezza Europa e se chiedo un favore tendenzialmente me lo
fanno… “ disse Anrham con noncuranza.
“In Irlanda?” disse Hani.
“Sì, in Irlanda. Effettivamente dalla morte di Tina non ha più
rimesso piede nella sua casa di Londra, che ha affittato a una
coppia di Liverpool. Per un po’ si sono perse le sue tracce ma
ieri il corrispondente di Der Spiegel a Dublino mi ha contattato
per comunicarmi che il dottor Suzuki era nella sua casa vicino
a Killerny. Pare sia stato operato e ora sta trascorrendo la
convalescenza nella sua casa delle vacanze. Ho il suo indirizzo
esatto.”
“Anrham, ma io pensavo tu fossi contrario a che io proseguissi
la ricerca del libro...” disse Isobel sempre più confusa.
“E’ vero, lo ero; ma parlando con il professore mi sono reso
conto della passione che lo animava, passione che trascendeva
la paura, la vecchiaia, la stanchezza, la voglia di lasciarsi
scorrere addosso le cose del mondo e ho capito che, come
l’assistere i feriti è un modo per dire no a come vanno le cose,
altrettanto lo è cercare di avanzare la conoscenza dell’uomo per
farlo irrompere in territori dove la conoscenza non è più fine a
se stessa ma connaturata all’uomo e alla sua piena
consapevolezza: e un uomo consapevole è un uomo salvo,
consapevole e insieme distante dalle brutture del mondo e tale
distanza, che io reputavo fuga, può essere ciò che salva la
nostra reale umanità: il compenetrarci l’uno nell’altro. E ho
finalmente capito che la ricerca di Tina non era meno preziosa
di una mano calata sugli occhi di un moribondo, perché il loro
fine era il medesimo: alleviare le sofferenze dell’uomo e
accompagnarlo nel suo percorso, qualunque fosse il
traguardo…”
Isobel gli sorrise.
434
“…per cui se hai deciso di andare fino in fondo nella ricerca
del libro sappi che avrai la mia approvazione e tutto il mio
aiuto.”
Isobel lo abbracciò e disse:
“Sì, ho deciso: andrò in Irlanda per incontrare il dottor Suzuki e
sapere dove si trova il libro”.
“Anch’io verrò con te Isobel” le disse Hani.
Rumi sorrise guardando i tre, poi il suo sguardo si abbassò sul
piccolo Karim che era seduto in un angolo e giocherellava con
dei sassi.
Non sarebbe partita.
435
436
CAPITOLO LV
Nella sala da pranzo del bed and breakfast una radio lontana
diffondeva One, la canzone degli U2. Isobel si infilò lo zaino,
aiutata da Hani, e uscì dalla porta dopo aver salutato la padrona
di casa che ricambiò cordialmente. All’esterno li attendeva
Anrham con tre biciclette appoggiate al bianco muro della
casa; la giornata era limpida e tersa, una rarità in Irlanda dove
le nuvole e la pioggia erano molto frequenti. Isobel si guardò
intorno: la campagna irlandese riluceva davanti a lei, con i prati
verde smeraldo a fondersi con il limpido azzurro del cielo. Fin
da quando erano arrivati in Irlanda Isobel si era resa conto di
quanto le mancasse il verde: i mesi trascorsi nella polvere
dell’altopiano afgano le avevano fatto dimenticare la bellezza e
la pacifica serenità che le donava osservare un prato verde o i
verdi rami di un albero scossi dal vento. Si trovavano a una
decina di chilometri dal centro abitato di Killerny, una piccola
cittadina nel cuore della regione del Ring of Kerry. Avevano
scelto quel bed and breakfast isolato e in aperta campagna
perché si erano resi conto, fin dal momento in cui erano
sbarcati all’aereoporto di Dublino dal volo diretto da Kabul,
che il traffico, le automobili, il vociare delle persone per strada
erano a loro insopportabili: i mesi tracorsi nella quiete e nel
silenzio di Lendi Eleusi prima e nell’arido altipiano di
Bamiyan poi li avevano abituati a ritmi e suoni che rendevano
il traffico e il caos in cui era immersa Dublino infernale. Chi
soffriva maggiormente di questa situazione era sicuramente
Anrham: per sua ammissione infatti erano almeno quindici anni
che mancava dall’Europa e almeno dieci che non si spostava da
Lendi Eleusi.
437
Isobel controllò il fogliettino di carta che la padrona del bed
and breakfast le aveva consegnato con le indicazioni per
raggiungere la strada dove si trovava la casa del dottor Suzuki.
“Andiamo” disse dopo aver inforcato una bicicletta ”secondo la
signora O’Riordan la casa del dottor Suzuki dista non più di
quindici minuti in bicicletta; seguitemi.”
E così dicendo montò in sella e diede un paio di vigorose
pedalate. Anrham e Hani la seguirono prontamente.
La piccola strada sterrata che stavano percorrendo fendeva
zigzagando la collinetta su cui era situato il bed and breakfast.
Sul lato sinistro un boschetto di querce nascondeva il sole
ancora basso sull’orizzonte, mentre sul lato destro pascolavano
placide una decina di mucche, all’interno di una serie di
muriccioli di pietra che delimitavano gli spazi loro consentiti.
La discesa li condusse fino a un incrocio con un'altra strada
sterrata seguendo la quale, secondo le indicazioni della signora,
sarebbero giunti al lago di Killerny. Isobel ammirava il
paesaggio mentre la fresca aria del mattino le accarezzava il
viso: il verde era da sempre il suo colore preferito e quelle
immense distese di smeraldo la mettevano di buon umore e le
infondevano un senso di pace e tranquillità. Giunsero in breve
al lago; Isobel accostò di lato fermandosi per osservarlo e per
controllare il percorso.
Era piuttosto grande, soprattutto se rapportato al laghetto della
cascata di Lendi Eleusi, pensò Isobel. Alla sua sinistra un
rudere di un antico castello medievale si tuffava direttamente
nelle acque del lago, anch’esse di un verde intenso, mentre
sugli altri lati lo specchio d’acqua era circondato da un fitto
bosco di querce: due cigni bianchi solcavano placidamente le
sue acque. Sullo sfondo il profilo dei monti si stagliava placido
nell’azzurro cielo.
Isobel si accertò che Anrham e Hani l’avessero raggiunta, poi
riprese la marcia. Costeggiarono per alcuni minuti il lago poi,
438
attraversato un piccolo paese, si inoltrarono per una strada
sterrata che saliva su di una collinetta in cima alla quale,
circondata da alberi, stava una casetta. Isobel accostò
ansimando e, indicando la casetta disse:
“Deve essere quella, anche la via corrisponde”.
Anrham e Hani annuirono.
Giunsero innazi alla casa, appoggiarono le biciclette ad un
muricciolo di pietre e si guardarono intorno: le acque del lago
brillavano da basso mentre i verdi prati circostanti, accarezzati
dal vento, sembravano formare onde che si infrangevano le une
sulle altre in un perpetuo rincorrersi.
Isobel si distolse dall’ammirare il panorama e si accostò alla
casa: nessun rumore, nessun segno di vita. Bussò alla porta e
tese l’orecchio per ascoltare eventuali rumori dall’interno. Una
voce lontana rispose:
“Venite avanti! E’ aperto”.
Isobel spinse la pesante porta di legno verniciata di rosso che si
aprì cigolando ed entrò, seguita da Anrham e Hani.
439
440
CAPITOLO LVI
442
durante i riti iniziatici di Eleusi. Essi sono il punto cruciale di
tutto… Molti studiosi di Eleusi e della Grecia antica sono
incuriositi dal mito di Eleusi, ma pochi si sono avventurati in
uno studio serio sulle sue simbologie e sull’importanza che tali
segreti possono aver avuto in quel passato, figuriamoci se
possono avere l’ardire di pensare che abbiano una seppur
minima importanza oggi. Eppure oggi più che mai tali segreti
possono dirimere la storia del mondo, anche se poche orecchie
sarebbero disposte ad ascoltarli. “
“Non le sembra di esagerare?” chiese Isobel ”In fondo è solo
un libro e, purtroppo o per fortuna, nessun libro ha mai
cambiato il mondo.”
“Ne è davvero convinta?” chiese il dottor Suzuki ”Prendiamo
la Bibbia, o il Corano o, anche se l’accostamento può
sembrare blasfemo, il Mein Kampf di Hitler o il Capitale di
Marx. Questi libri hanno cambiato il corso della storia, questi
libri hanno guidato guerre, rivoluzioni, genocidi, conversioni,
crociate, guerre sante, stermini. Questi libri e le idee che
veicolano sono stati protagonisti della storia come noi la
conosciamo e ne hanno condizionato pesantemente il corso.
Senza questi libri il mondo non sarebbe come noi lo
conosciamo e forse io e lei non esisteremmo. Quindi bisogna
essere più cauti quando si dice che i libri sono innocui: forse
essi lo sono ma le idee che veicolano possono essere più
esplosive e dirompenti di una bomba nucleare. Sì, credo che
nessuno storico potrebbe smentire che ne ha uccisi più il Mein
Kampf che l’orrendo bombardamento atomico americano su
Hiroshima e Nagasaki. Le azioni dell’uomo sono spesso
crudeli, soprattutto quando a guidarle sono una fede o
un’ideologia, un qualcosa che lo trascenda e che renda
qualsiasi mezzo subordinato al fine. Quando il fine è diverso
dall’uomo il problema è lungi dall’essere superato….”
443
“Ciò che lei dice risponde al vero” disse Isobel ”Ma quale
messaggio può avere, come lei ha detto, un’importanza
decisiva per l’umanità? Perché, aldilà della valutazione
soggettiva del messaggio, esso deve essere anche diffuso,
compreso e accettato, e questi sono processi lunghi che non
possono essere eterodiretti.”
“Su questo può aver ragione Miss Isobel. Ma lei non si rende
conto della importanza e della decisività del messaggio
contenuto nel libro; e quale messaggio è più dirompente e
pericoloso di quello che dice, anzi che prova, che il tempo non
esiste, che il nostro io non esiste, che la realtà che
sperimentiamo ogni giorno è illusione e che noi siamo,
fondamentalmente, una cosa sola con il nostro prossimo? Lo
so, tutto ciò ha un suono vagamente hippy, vagamente new
age, ma questo messaggio travalica le sterili definizioni e
attraversa il tempo, lo spazio e le culture che il nostro pianeta
ha ospitato durante i millenni… Questi concetti, presenti in
oriente nel Buddismo, nell’Induismo e nel Sufismo, non hanno
mai avuto, almeno palesemente, alcun corrispettivo nella
cultura occidentale. La vostra cultura, che vuole caparbiamente
diventare la cultura egemone in tutto il mondo e vuole imporsi
ad esso attraverso il Dio-libero mercato, fin dall’epoca dei
greci sembra aver impostato tutto sulla ragione, sulla
razionalità, sull’efficienza, sull’efficacia. Il culto della ragione,
che ha avuto il suo culmine nell’Illuminismo, è iniziato in
Grecia con Socrate, con Platone e la loro filosofia, la loro
logica, la loro dialettica... “ il dottor Suzuki parlava come a una
platea, lo sguardo ispirato, la gestualità teatrale.
“Ed è questa l’importanza e la pericolosità di individui come
Zenone, come Parmenide: essi tentavano di dimostrare con la
ragione che la ragione può avere, e in alcuni casi ha, torto.
Zenone e Parmenide combattevano la logica occidentale con le
sue stesse armi, con la logica, con il dialogo e la dialettica. Essi
444
hanno testimoniato, con i pochi frammenti delle loro opere
giunti sino a noi, che se la logica è contro ciò che
sperimentiamo è possibile che sia ciò che sperimentiamo
errato, se la logica è applicata con coerenza e imparzialità. Di
Parmenide e Zenone di Elea ci sono giunti pochi scritti, per lo
più riportati da altri filosofi, ad esempio Platone e Aristotele. Il
loro messaggio originale è perduto eppure, pensando a Zenone,
i suoi tre paradossi sul moto e lo spazio hanno attraversato i
secoli senza che nessuno abbia potuto in qualche modo
confutarne la portata: si sono semplicemente ignorati, messi da
parte e i pochi che si sono cimentati nel tentativo di trovare il
loro punto debole, la contraddizione che disinnescasse la loro
azione demolitrice della realtà per come noi la conosciamo, ne
sono usciti con le ossa rotte; persino Aristotele da molti
giudicato il più grande logico che sia vissuto… I paradossi di
Zenone sono là, granitici, inespugnabili, moniti inascoltati
dell’irrealtà delle nostre percezioni quotidiane.”
“Ma sono, appunto, paradossi” lo interruppe Isobel.
“Sì, lo sono. Ma normalmente dove nascono paradossi è perché
la teoria che si sta applicando non è coerente e non è completa.
I paradossi segnalano i punti deboli di ogni teoria. E ai
paradossi di Zenone se ne stanno sommando altri. Il progresso
del pensiero e della scienza, soprattutto in questo ultimo
secolo, ci ha portato a risultati che in qualche modo si
avvicinano a quei concetti di irrealtà del tempo, di fallacia delle
nostre percezioni della realtà, di comunicazione non locale e di
unione tra persone. La scienza è divisa in migliaia di branche,
la fisica, la biologia, la medicina, la psichiatria, la matematica,
e in tutte queste discipline vi sono state scoperte che hanno
avvicinato il nostro grado di conoscenza a quei concetti di unità
di cui parlavo prima: il problema è che tale parcellizzazione fa
sì che si perda la visione d’insieme delle cose, si osserva la
parte e si dimentica il tutto.
445
Ma questi concetti, a ben guardarci, erano già presenti sin
dall’epoca dei greci: la caverna di Platone come metafora del
fatto che la realtà che percepiamo è solo un’ombra della realtà
vera; l’uno di Plotino come origine indistinta di ogni
particolarità e luogo in cui ogni individuo si compenetra con
ogni altro; Parmenide e l’eternità dell’essere; Zenone e
l’irrealtà dello spazio e della molteplicità per come noi li
percepiamo. Tutti questi concetti erano presenti, ma sono stati
sfumati, anestetizzati, resi innocui. Si dice che siamo la civiltà
della ragione: in realtà, ad analizzare le cose, sarebbe più giusto
dire che siamo la civiltà della rimozione, che ha abbandonato la
ragione per la realtà percepita. Ma i nostri sensi possono
apprezzare solo una briciola della realtà. La ragione era più
vicina alla realtà di quanto non lo sia la nostra percezione di
essa: i paradossi di Zenone sono qui a dimostrarcelo, come lo
sono la teoria dei quanti, la relatività e il paradosso EPR in
fisica, gli archetipi, l’inconscio collettivo, i deja vù, le
regressioni ipnotiche e gli studi sulla schizofrenia in psicologia,
le esperienze psichedeliche e mistiche nelle religioni arcaiche e
moderne, il concetto di infinito e il teorema dell’incompletezza
in matematica. Il problema è che ognuna di queste discipline
ragiona come se esistesse solo lei, non vi è nessuno che
raccolga i dati e guardi il quadro d’insieme che emerge. Questo
una volta era il compito della filosofia: dare un substrato
concettuale ai risultati delle varie scienze e, in qualche caso
anticiparne i risultati stessi; ma oggi la filosofia è schiava della
scienza e della tecnica, ne subisce il fascino, non ha un suo
essere autonomo ed è stata relegata, da disciplina fondante di
ogni sapere e predittiva delle sorti e della direzione presa dal
mondo quale era un tempo, ad un ruolo subordinato, a
speculazione fine a se stessa e slegata da ogni realtà, quando
non a studio facoltativo per persone con neuroni da far girare a
vuoto. Solo le grandi religioni monoteiste sono rimaste come
446
baluardi al dilagare della tecnica e della scienza. Libri contro
altri libri, concetti che si contrappongono. Sei ancora convinta
che i libri non abbiano importanza? Tre libri sono alla testa
delle grandi religioni monoteiste, e questi tre libri guidano le
sorti di miliardi di persone: le loro interpretazioni, giuste o
sbagliate che siano, hanno spesso voluto dire la vita o la morte
di persone, di popoli, di civiltà. “
Isobel ascoltava interdetta: il dottor Suzuki era ormai un fiume
in piena.
“….Ma anche queste religioni hanno in se frammenti di tali
verità; anche il messaggio cristiano, prima che fosse riveduto e
corretto da mille concili e da mani preoccupate più del potere
che della conservazione del messaggio originale di Gesù, aveva
fondamentalmente un messaggio simile. I passaggi dei vangeli
sulla povertà, sulla purezza di cuore, sull’innocenza dei
bambini sono stati interpretati in maniera letterale, quando essi
tendono a definire quello stato d’animo in cui è possibile,
distanti da ciò che ci lega al qui e ora, alla materia, alla terra,
accedere a una coscienza diversa delle cose e del mondo;
basterebbe leggere le vite e le opere dei grandi mistici cristiani
per capire come le loro esperienze mistiche li abbiano portati
verso stati di realtà in cui i concetti stessi di realtà, spazio,
tempo venivano meno, vinti e assorbiti dall’unione del tutto
nell’Uno….
Per quanto riguarda l’Islam vi è il sufismo: in esso ritroviamo i
medesimi concetti: la fondamentale indistinzione di ogni
essere, l’annullamento di ogni desiderio e pensiero per
giungere al nocciolo della realtà, all’unione mistica con Allah.
La via del sufi, pur con molti distinguo, approda allo stesso
luogo in cui conducono la via del Tao, l’ascesi mistica
cristiana, la meditazione buddista.
Un poeta sufi, Mahmud Shabestari vissuto nel 1200 scrisse,
cito a memoria:
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Sappi che il mondo intero è uno specchio
e in ogni atomo si trovano cento soli fiammeggianti.
Se tu fendi il cuore di una sola goccia d'acqua,
ne scaturiscono cento puri oceani.
Se tu esamini ciascun grano di polvere,
Mille Adamo possono essere scoperti...
In un seme di miglio è nascosto un universo
tutto e raccolto nel punto presente...
Da ogni punto di tale cerchio
sono tratte forme a migliaia.
E ciascun punto, nel suo ruotare in cerchio
è ora un cerchio, ora una circonferenza che gira.
Ora io vorrei che lei paragonasse questi versi con quelli famosi
vergatida William Blake, mistico cattolico londinese, nato in
una famiglia borghese nel 1750. Egli scrisse:
448
“E’ triste scoprire come certi concetti siano vecchi quanto il
mondo” continuò il dottor Suzuki” Ad esempio un’attenta
analisi della mitologia greca e di altre mitologie dovrebbe far
cogliere come certe culture fossero giunte a una comprensione
delle cose pressoché identica: prendiamo ad esempio il
concetto di creazione e del tempo e la rappresentazione che ne
dà la mitologia greca. La storia è la seguente: Crono figlio di
Urano e Gea, rispettivamente il cielo stellato e la terra, era
l'ultimo dei Titani, il più giovane della serie di figli generati da
queste due divinità primordiali in perenne simbiosi e
accoppiamento, e dal padre nascosti nelle profondità della terra
stessa. Questo enigmatico, e tuttavia simbolico, odio del padre
per i figli si riproduce nella vicenda di Crono: sottratto dalla
madre al destino degli altri fratelli Titani, Crono non solo li
libera dalla loro prigionia, ma compie sul padre una
emblematica vendetta evirandolo. Divenuto re dell'universo,
sposa la sorella Rea, e avvertito da una profezia che uno dei
suoi figli lo avrebbe detronizzato, a mano a mano che essi
nascevano li inghiottiva.
Oscuri sono i significati del ripetersi di questo annullamento
dei figli: certamente vi si può leggere un tentativo di arrestare
l'evolversi delle vicende terrestri che tendono fatalmente ad
instaurare il regno degli uomini distruggendo il regno degli dei.
E in questo è implicita anche la volontà di impedire il flusso
del tempo bloccandolo in una fase che precede l'inizio della
storia.
Il regno di Crono è infatti la mitica età dell'oro che precede
ogni esperienza umana, l'età primigenia di una felice e intatta
infanzia del mondo.
Ma anche per Crono viene la rivolta e la vendetta dell'ultimo
figlio, Zeus, sottratto dalla madre alle fauci paterne, allevato
nell'isola di Creta dalla capra Amaltea, protetto dai guerrieri
Cureti che coprirono i vagiti del neonato con il rumore delle
449
armi cozzanti. Zeus detronizzerà ed esilierà Crono, sposerà la
sorella Era, e porrà fine all'età dell'oro. I1 tempo comincia a
scorrere secondo il ritmo degli uomini, scandito da guerre,
fatica, nascita e morte.
L’interpretazione che può essere data a questo mito è la
seguente: il cielo e la terra, il divino e l’umano (Urano e Gea)
erano uniti un tempo (e il sommo simbolo dell’unione tra uomo
e divino è l’atto sessuale, atto in cui si perpetua il miracolo
della vita). Il concetto di tempo (Crono) ha separato
violentemente l’uomo da Dio (il mondo spirituale da quello
materiale, il cielo dalla terra) e con questo atto egli è diventato
il re del mondo. Divorando i suoi figli poi dimostra come egli
(il concetto di tempo) impedisca una qualsiasi evoluzione delle
umane vicende in senso spirituale. Solo una lotta epocale
(quella di Zeus, un Dio) può mettere in catene il tempo, ma
neanche Zeus può ucciderlo ed egli continuerà a scandire le
vicende umane. La scissione tra umano e divino operata dal
tempo sembra irreversibile. Di più, dal membro di Urano
tagliato da Crono usciranno alcune gocce di sangue che
genereranno le Erinni, le dee della vendetta (il concetto di
vendetta ha effettivamente senso solo nel tempo) e con esse il
sentimento di rivalsa e di sopraffazione.
E’ interessante a questo punto notare come nel Corano si dica:
“I miscredenti non sanno che i cieli e la terra formavano una
massa compatta e unica. Poi noi l’abbiamo separata e tratto
dall’acqua ogni forma vivente…” Il medesimo, concetto:
l’unione fra cielo e terra, tra Dio e l’uomo. Anche la Genesi,
con il racconto del Paradiso terrestre ci parla di un mondo in
cui l’uomo era a diretto contatto con Dio e che fu da esso
diviso dalla sua volontà di mangiare il frutto dell’albero della
conoscenza del bene e del male: ovvero l’uomo fu diviso da
Dio nel momento in cui iniziò a distinguere il bene dal male,
non comprendendo che sono l’uno complementare all’altro,
450
uno indissolubilmente legato all’altro. Non esiste il bene
assoluto e non esiste il male assoluto. Le distinzioni sono
creazioni della nostra mente; come diceva Plotino: “Non puoi
vedere il sole se non diventi prima Sole”. Le distinzioni sono
semplificazioni. Come sosteneva Gandhi:
“Tu e io non siamo che una cosa sola. Non posso farti del male
senza ferirmi.”
Pensa alla portata rivoluzionaria di un concetto del genere;
pensalo applicato nella pratica; non fare agli altri quello che
non vuoi fosse fatto a te perché tu sei gli altri!”
Il viso del dottore era sereno, le parole fluivano in un continuo,
Isobel era ormai presa nel vortice.
“Ma ora basta con le fumisterie metafisiche, ho divagato
troppo… Che cosa è quel libro? E’la testimonianza che i riti
fondanti e i misteri di Eleusi derivano dagli insegnamenti di
Parmenide e di Zenone ed in esso sono contenuti una serie di
loro scritti che si ritenevano perduti per sempre. Questo è un
ritrovamento di capitale importanza perché le pagine di Zenone
e Parmenide, con una chiarezza disarmante, pongono problemi
sulla realtà che noi tutti conosciamo che non sono facilmente
eludibili: e i nostri concetti di realtà, di molteplicità, di spazio e
di tempo passati al vaglio di queste due menti immense
vengono destrutturati e confutati fino a renderne evidente
l’illusorietà delle premesse. E’ una lettura inebriante e
spiazzante al tempo stesso, una vera iniziazione.”
Isobel sgranò gli occhi mentre la sua curiosità aumentava di
parola in parola.
“Immagino che ti starai chiedendo perché ti ho sottratto il libro,
vero? L’ho fatto per prima cosa perché volevo assolutamente
leggerlo, poi perché penso sia giunto il momento che il mondo
sappia, è giunto il momento che la vera storia di Eleusi e dei
suoi misteri venga rivelata. Ho discusso anni con tua nonna
Isobel, su cosa avremmo fatto se un giorno avessimo ritrovato
451
il libro, e su questo non ci trovammo mai d’accordo; io volevo
che fosse reso pubblico, che fosse reso noto il suo contenuto,
qualunque esso fosse stato. Avrei voluto diffondere e
pubblicare il libro, renderlo noto a quante più persone possibili
in modo da far comprendere, ne ero sicuro, in quale vicolo
cieco si sia gettata la cultura occidentale. Tua nonna invece
sosteneva che avremmo creato un nuovo libro sacro, una nuova
religione e avremmo ripercorso gli errori che altre culture e
altri libri hanno fatto percorrere all’umanità; lei sosteneva che
la battaglia per una nuova consapevolezza dovesse essere
individuale, un percorso personale e unico ogni volta. Io le
ribadivo l’importanza e la grandezza che avrebbe avuto il
messaggio, lei mi ribadiva che ogni messaggio, anche il più
puro può essere male interpretato e utilizzato per fini che se ne
discostano radicalmente. Tina sosteneva che ogni cosa indotta
dall’esterno è limitata perché non proviene dall’esperienza
diretta. Fu in quel periodo che venni contattato da un uomo, mi
disse di essere un miliardario, che mi comunicò di avere notizie
del libro e mi promise che, se lo avessimo trovato, lo avrebbe
pubblicato a sue spese e lo avrebbe diffuso in tutto il mondo. E
ora che l’ho letto a maggior ragione credo di essere nel
giusto…”
“Chi è quell’uomo?”chiese Isobel.
“Non l’ho mai visto: ci siamo sentiti diverse volte
telefonicamente e, quando andai a Lendi Eleusi, via lettera. Mi
disse di accedere a quante più notizie potevo sul libro e, una
volta avute, di andarmene da Lendi Eleusi. Mi disse anche che
il Vincolo, di cui non so come ma era a conoscenza, non
avrebbe ostacolato chi voleva diffondere il messaggio di verità
di Eleusi. Scappai da Lendi Eleusi pieno di timori e di paure,
convinto che presto avrei trovato la morte, ma quando appresi
che l’aereo dove dovevo salire e che persi per un banale ritardo
era caduto e che dei passeggeri non era rimasto nessun
452
superstite, capii che quell’uomo aveva ragione. Quella
coincidenza aveva un messaggio da comunicarmi, e il
messaggio era che la mia strada era quella giusta!
Ripresi la mia professione di medico a Londra ma dedicavo
ogni momento libero alla ricerca di indizi e del luogo dove
poteva essere custodito il libro. Brancolavo nel buio quando un
giorno, si potrebbe dire per caso ma certe sincronicità hanno un
senso superiore a quello che noi possiamo afferrare, mentre
passeggiavo per Londra, incontrai tua nonna. Fu molto sorpresa
di vedermi perché, come tutti gli ospiti di Lendi Eleusi, mi
riteneva morto nell’incidente aereo. Le chiesi di mantenere il
silenzio sulla mia sorte, se mai fosse tornata a Lendi Eleusi, e
in cambio io le rivelai parte di quello che conoscevo del libro.
Tua nonna mi diede molte informazioni preziose che mi fecero
fare grandi passi avanti nella mia ricerca; ogni volta che tua
nonna veniva a Londra a farti visita ci si ritrovava o in albergo
o, se il tempo lo permetteva, a Regents Park, per aggiornarci
reciprocamente sulle nostre ricerche. Dopo anni eravamo a
buon punto: avevamo ricostruito quello che, ragionevolmente,
poteva essere il contenuto dei misteri professati a Eleusi;
sapevamo, grazie a Tina, che uno degli ultimi passaggi del
libro era stato dalle mani di Jim Morrison a Los Angeles e che
era stato da lui spedito a Toronto.”
Il dottore si interruppe, allungò una mano sul comodino, prese
un bicchiere colmo d’acqua, ne bevve un sorso, poi riprese:
“Non avevamo ancora compreso i meccanismi che regolavano
il passaggio del libro: partimmo per Toronto ma era come
cercare un ago in un pagliaio. Tornammo a Londra sconsolati e
avviliti per il buco nell’acqua: arrivati in albergo Tina trovò ad
attenderla una lettera che la invitava a recarsi al più presto a
Lendi Eleusi; tua nonna rimase laggiù per parecchi anni,
venendo informata dal consiglio e ricevendo il Vincolo. Poi,
per qualche ragione, decise di andarsene da Lendi Eleusi e
453
tornò a Londra: il resto lo conosci. La sera in cui morì mi aveva
telefonato in preda a una grande agitazione, dicendomi che
aveva ricevuto un pacco da Toronto… Io avevo un impegno
quella sera e le dissi che avrei fatto un salto da lei la mattina
seguente. Il resto lo sai: quando ho visto che prendevi il libro,
ho pensato che quella sarebbe stata l’unica occasione per
entrarne in possesso: tua nonna era morta, la rottura del
Vincolo non l’aveva perdonata… Io ero vivo nonostante la
rottura del vincolo: avevo una missione da compiere e dovevo
portarla a termine. Non pensai nemmeno di chiedertelo: troppe
spiegazioni, troppe domande e il miliardario aveva fretta: la
sera stessa infatti mi aveva chiamato per avere notizie sulla
ricerca e, una volta appreso la novità mi fece pressioni perché
recuperassi il libro immediatamente, ad ogni costo. Assoldai
tramite il direttore dell’hotel il fattorino che ebbe gioco facile
nel sottrarti il libro. Non pensavo avresti insistito nella sua
ricerca, ma evidentemente tua nonna era riuscita in qualche
modo a farti capire l’importanza di quel libro… E aveva
ragione! Quando lo lessi rimasi incantato e impressionato dalla
potenza e dalla chiarezza del messaggio. Avevo ragione: quel
libro avrebbe cambiato il mondo. Quando poi lessi le ultime
pagine e compresi chi erano stati alcuni dei possessori del libro
mi resi conto della portata di quella scoperta: alcune delle più
grandi menti dell’Occidente erano entrate in possesso di quel
libro e i suoi echi inascoltati erano udibili nelle loro opere.
Quando quell’uomo mi contattò nuovamente mi disse di
recarmi il prima possibile a Washington e di prelevare una
busta con le istruzioni da seguire per la consegna in una
cassetta di sicurezza della filiale della Abbey National Bank di
cui mi avrebbe mandato la chiave. Ma come vedi le mie
condizioni sono drammaticamente peggiorate. Il tumore che mi
era stato diagnosticato due anni fa negli ultimi mesi ha avuto
454
una evoluzione repentina e del tutto inaspettata. Il mio compito
qui sta per terminare…”
“Quindi il libro è qui?” chiese Isobel…
“Sì, è qui.” e allungando la mano indicò il cassetto del
comodino di fianco a lui.
Isobel fece per alzarsi ma il dottor Suzuki la fermò dicendo:
“Aspetta ancora un momento; c’è un ultima cosa che debbo
dirti prima che tu prenda quel libro: è una cosa che mi disse tua
nonna e che mi ossessiona da tempo: un giorno, mentre
stavamo discutendo come nostro solito di cosa ne avremmo
fatto del libro lei mi disse:
“Lo sai che esistono profezie legate al ritrovamento del libro da
parte di un iniziato? Lo sai che tutte parlano di grandi sventure
e di un epoca di grandi sconvolgimenti? Queste cose mi
inquietano, ma ciò che più mi inquieta è quello che ho appreso
poco tempo fa dal Capo del Consiglio di Eleusi: esisterebbe un
gruppo che, di generazione in generazione, si tramanda lo
scopo di distruggere il mito di Eleusi e di recuperare e
distruggere il libro. Il motivo? L’opposto di quello per cui tu
reputi decisivo che il mondo venga a conoscenza della sua
esistenza: proteggere e perpetuare le fondamenta della civiltà
occidentale, i suoi valori, la sua realtà. Essi vedono il libro
come un pericolo mortale, da neutralizzare a tutti i costi. E se il
libro è giunto sino ai nostri giorni è già di per sé un miracolo.
Queste forze sono in atto da millenni e l’obiettivo del gruppo si
è tramandato di generazione in generazione: si fanno chiamare
i Custodi del Tempo… Non ti fidare di nessuno” concluse
“solo di te stesso….”
Ora queste parole riecheggiano nella mia mente. So’ di potermi
fidare di te Isobel, ma tu ti puoi fidare delle persone che ti
circondano? E chi è quest’uomo sbucato dal nulla che dice di
essere miliardario, che sembra sapere molte cose sul libro e che
desidera pubblicarlo? Sono tutte domande che affollano la mia
455
mente e che non hanno risposta. Sono inquieto e ho la strana
sensazione che cedendoti quel libro ti cederei una specie di
maledizione.”
“Anche a me non piace la figura di quest’uomo venuto dal
nulla, senza volto ma puntuale nei suoi interventi e
manifestazioni” disse Isobel ”ma forse è giunto il momento di
guardare in faccia il nemico. Un nemico che opera nell’ombra è
sempre più pericoloso, affrontarlo in campo aperto può avere
degli svantaggi ma ha sicuramente dei vantaggi. Anch’io sono
inquietata da questa figura che mi hai descritto e lo sono ancor
di più sull’opportunità di pubblicare un libro del genere, ma
forse è giunto il momento, dopo millenni, di affrontare il
nemico, se esiste.”
“Cosa avresti intenzione di fare?” chiese il dottore.
“Prendere i libro e andare a Washington, seguire le istruzioni e
incontrare questa persona! “
“Ma…”
“Può essere pericoloso, lo so, ma non ho intenzione di passare
la vita a guardarmi le spalle. Affronterò la cosa alla luce del
sole e se mi sarò sbagliata e costui è solo un milionario
eccentrico e ben informato tanto meglio…” disse risoluta
Isobel “Del resto, dopo la rottura del vincolo, non ho nulla da
perdere.”
“Quindi io potrei essere stato uno strumento inconsapevole tra
le loro mani.” disse Suzuki sconsolato.
“Oppure lo sono io ora” aggiunse Isobel “… Ma a questo punto
che importa… Bisogna andare fino in fondo!”
Il dottor Suzuki fece cenno di sì con la testa e guardò il
comodino.
Isobel si alzò e con una certa emozione aprì il cassetto e
estrasse il libro: era di nuovo tra le sue mani. Riconobbe la
copertina in pelle consunta e logora, le pagine bordate di
filigrana dorata. Lo aprì e lesse il titolo: Il mistero delle esuli e
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più in basso, vergata con un inchiostro ormai sbiadito dal
tempo la frase in latino: Et Lucem Etiam Ubi Sempiternam
Ioventute a formare con le iniziali la scritta ELEUSI. Era
proprio lui, il libro che abbracciava la nonna quando è morta,
quello che aveva incominciato a leggere nella sua stanza a
Londra: era nuovamente tra le sue mani.Era emozionata…
“Allora sei decisa Isobel?” chiese il dottor Suzuki guardandola
in volto e sorridendo.
“Sì! Andrò a Washington, aprirò quella cassetta e vedrò il da
farsi” disse con convinzione.
“Allora ti servirà questa” disse Suzuki togliendo da una tasca
del pigiama una chiave legata ad uno spago. “Questo è
l’indirizzo” le disse allungandole la chiavetta e un foglietto di
carta a quadretti ripiegato.
Isobel prese la chiavetta e il foglietto e li mise in tasca; poi
guardò il dottor Suzuki e disse:
“Non avrei mai pensato di farlo ma sento di doverla
ringraziare” e gli strinse la mano.
“Sono io che ti ringrazio: senza di te Isobel avrei fallito il
compito che mi ero dato. Senza di te, senza la tua voglia di
sapere e di capire questo libro sarebbe entrato per sempre
nell’oblio… Io presto morirò, ma che la mia storia ti sia da
monito: il Vincolo non è ineluttabile. Qualunque fosse il mio
destino il Vincolo mi ha risparmiato almeno per un po’… Forse
perché non esiste, forse perché è una stupida superstizione,
forse perché ero destinato ad altro. Spero che lo stesso sia per
te.”
“Anch’io lo spero… Addio!! E che la pace sia il tuo sentiero.”
disse Isobel avviandosi verso la porta.
“Un’ultima cosa Isobel.” la fermò il dottore ”Non fidarti di
nessuno se non di te stessa… I custodi del Tempo mi staranno
cercando e forse saranno già sulle tue tracce.”
457
“Lo farò” disse Isobel con uno sguardo cupo. E così dicendo
uscì dalla porta e discese le scale meditando sul da farsi.
Appena fu al piano di sotto Anrham e Hani le si fecero incontro
con sguardi di attesa.
“Allora?” chiese Hani impaziente.
“Eccolo qui” disse Isobel alzando il libro al cielo. Hani la
abbracciò e Anrham le diede un buffetto sul capo.
Uscirono e si fermarono sulla soglia ammirando il panorama.
“E ora?” chiese Anrham.
“E ora si va a Washington”disse Isobel con noncuranza.
“Washington?” replicò Hani disorientato.
“Sì Washington.” disse Isobel “Ho alcune faccende da sbrigare
laggiù. Ma andrò da sola...”
“Io vengo con te “ ribadì Hani con fermezza.
“Non ti libererai così facilmente di me” disse Anrham.
”Verremo con te a Washington.”
“Va bene” disse Isobel in qualche modo rincuorata dalla loro
presenza ”Partiamo tra tre giorni.”
E inforcata la bicicletta si avviò pedalando per la stradina.
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CAPITOLO LVII
459
“Aspettatemi al Bed and Breakfast, ho bisogno di stare sola e
di riflettere!!”
Anrham e Hani proseguirono sulla strada del ritorno; Isobel
discese la stradina e, una volta in prossimità del lago, fermò la
bicicletta presso un abete, prese il libro, si sedette con la
schiena contro il tronco, e lo aprì: come ricordava dalla volta in
cui aveva incominciato a leggerlo prima che gli fosse rubato, il
libro era scritto in greco e, nel retro pagina, vi era la traduzione
in inglese, scritta in corsivo con una calligrafia chiara e
armoniosa. Trasse un sospiro, diede uno sguardo alle calme
acque del lago innazi a lei e incominciò a leggere…
“Fermati lettore, e prona il capo dinnanzi alla grandezza e alla
sapienza di colei che risorge dagli inferi e dona a noi le gioie
delle stagioni, della rinascita, della vera vita. Loda colei che
toglie il velo dai tuoi occhi bagnandoli di lacrime di
riconoscenza, colei che disvela il cerchio della vita e della morte,
colei che, sposa suprema e suprema regina, offre la più grande
consolazione, la consapevolezza dell’eternità. Sia lode ai
Misteri! Felice chi fra gli uomini che vivono sulla Terra li ha
contemplati! Chi non è stato perfezionato nei sacri Misteri, chi
non vi ha preso parte, mai avrà, dopo morto, un destino simile
al primo, oltre l’orizzonte oscuro. La mano trema, il pensiero
tace di fronte al silenzio e al bagliore di tale realtà. La vita si
volge e si prostra dinnanzi ai misteri di Persefone, regina della
vita e della morte e di Demetra, madre coraggiosa e spirito
indomito. Udite le loro parole e tremate e gioite, come cuore
umano possa e voglia:
Cronos è un impostore, il suo potere sull’universo è corrotto.
Egli divorò i suoi figli perché non poteva divorare se stesso.
460
Egli regge le sorti umane ma il suo moto è pura finzione. Egli è
padre di Ade, ma il signore degli Inferi nulla può se non sotto il
potere di Cronos. Senza Cronos non esiste Ade. Cronos è il
nulla. Le catene di Zeus imprigionano il nulla e nulla può
sulle umane sorti questo vecchio mentitore. Illusione e malia è
la sua ombra sui mortali, che nessun mortale schiavo di ombre
potrà mai sorgere agli Eterni. Eterno è l’istante, eterno
l’Essere. Entra in questo mistero, sciogli le catene di Cronos e
liberati dalla sua schiavitù. L’eternità dimora in te e la somma
signora che tutto ottenebra sia per te un istante nell’eternità.
Nulla e tutto. Il tuo essere sia tutto. Specchio e immagine tu sei
di ogni cosa e in ogni dove e in ogni tempo. Malia e magia
convivono in te, ogni tempo, moto, spazio, essere, potere sono
attorno a te incorniciati. Scegli la via ma molte vie si
dischiudono nel mentre. Essere molti è il nostro reale. Essere
tutti è il nostro potere. Tu sei specchio e rifletti ogni direzione
dell’Universo, e l’Universo riflette te. Come in cielo così in
terra. Come nel grande così nel piccolo. Sia la tua vita la Vita.
Sia il tuo tempo Eterno. Sia il tuo essere Uno. Che tu sia lo
Specchio di Narciso se Narciso è il mondo. Le Eumenidi si
ritireranno piangendo al cospetto della tela eterna del tuo
essere. Siamo istanti di Tempo corrotti dalla mente. Nulla
muore nell’eternità. I mondi e il futuro sono dietro di te se tali
misteri avranno posto nel tuo cuore. Ricerca l’eternità
nell’attimo e risorgi dall’Ade del tempo come la sua regina ogni
primavera. Che la tua primavera sia eterna, che il tuo essere sia
primavera, senza tempo, senza leggi. Quale responsabilità
uomo se ogni tuo gesto è Eterno! Quale potere Cronos ti ha
461
sottratto. Ma ciò che Cronos sottrae, Demetra disvela, con
coraggio e convinzione. Ogni verità è circolare. Ogni cerchio è
perfetto. L’eterno è una sfera senza tempo ai limiti del nostro
sentire. Uccidi Cronos, e uccidi Zeus che vessa i suoi figli con
l’ombra del padre. Gli Dei esistono solo fuori dal tempo e per
raggiungerli anche tu, piccolo uomo, te ne devi liberare. Non
c’è tempo e spazio che possano contenerti, Tu sei in ogni essere.
Sii degno di tale sapere. Che la pace sia il tuo sentiero.”
Contro la molteplicità dell’essere
di Zenone di Elea
Un chicco di grano, cadendo, non produce alcun rumore. Un
sacco di grano invece si. Come può una somma di silenzi dare
origine a un rumore?
Se le cose sono molteplici (ovvero divise e distinte le une dalle
altre) devono per forza essere separate da altre cose intermedie,
ma che cosa stabilisce il numero di questi intermedi, essendo il
molteplice, per sua stessa natura, indefinito?
Se gli enti sono molti è necessario che siano tanti quanti sono e
non di piú né di meno. Ma se sono tanti quanti sono saranno
limitati. Se gli enti sono molti sono infiniti: sempre infatti in
mezzo agli enti ve ne sono altri in mezzo a questi di nuovo
degli altri. E in tal modo gli enti sono infiniti.
462
Contro Il Tempo e lo Spazio
di Zenone di Elea
Non si può arrivare all’estremità di uno stadio, giacché
bisognerebbe arrivare prima alla metà di esso e prima ancora
alla metà di questa metà e così via all’infinito. Ma non è
possibile percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio.
La freccia scoccata che appare in movimento è in realtà
immobile: difatti essa occuperà ad ogni istante soltanto uno
spazio determinato, pari alla sua lunghezza; poiché il tempo in
cui si muove è fatto di infiniti istanti, per ognuno di questi
istanti, e per tutti, la freccia sarà immobile.
Quindi il moto risulta impossibile, in quanto da una somma di
immobilità e di istanti fermi in se stessi non può risultare
qualcosa di diverso (il movimento).
Un punto mobile va ad una certa velocità e simultaneamente al
doppio di essa, a seconda che sia rapportato ad un punto
immobile oppure ad un punto che si muove alla stessa velocità
ma di verso contrario.
Quindi si genera l’assurdo logico che “la metà del tempo è
uguale al doppio”.
463
Achille piè veloce è sfidato nella corsa da una lenta tartaruga,
alla quale egli concede un vantaggio iniziale. Supponiamo che
la velocità di Achille sia di 10 m/s e quella della tartaruga sia di
1 m/s. Dato che un segmento di retta, secondo l’insegnamento
dei Pitagorici, è formato da infinite porzioni di infinitesima
grandezza, anche una pista da corsa deve rispondere agli stessi
requisiti.
Consideriamo sempre Achille piè veloce: egli, l’uomo più veloce
della terra percorre la lunghezze di uno stadio in un
determinato tempo che definiamo X.
E’ plausibile che con allenamento egli possa migliorare il suo
tempo di percorrenza di uno stadio ad un valore di X‐1/10.
E’ altrettanto plausibile che in un tempo successivo lui o
qualcuno per lui trovi quella stilla di energia, quel refolo di
464
vento che faccia sì che si percorra uno stadio in un tempo X –
1/9;
Questo ragionamento può essere ripetuto un numero infinito di
volte presupponendo che il tempo impiegato possa essere
migliorato di un infinitesimo rispetto al tempo precedente.
Reiterando il ragionamento all’infinito si giunge alla
conclusione che un giorno un uomo percorra la distanza di
uno stadio in un tempo X = 0
Isobel sollevò la testa dal libro: le pagine scritte in greco
continuavano, ma la traduzione terminava lì e lei il greco non
lo conosceva. Si mise a riflettere su quanto aveva letto: mentre
cercava di ragionare sui paradossi che Zenone aveva elencato
aveva avuto come la sensazione che il suo cervello girasse a
vuoto, come se mancassero al suo ragionamento appigli,
strutture fondamentali a cui ancorare i concetti e farli
proseguire. Era una sensazione strana, una specie di vertigine;
aveva provato una cosa del genere cercando di ragionare su
alcuni koan zen. Si ricordò quanto aveva letto sul libro della
nonna a proposito dei koan: ovvero che erano predisposti per
scardinare i concetti o meglio i preconcetti della mente e
condurre all’Illuminazione; ricordava anche come fosse sottile
la linea che separava la schizofrenia dalla Illuminazione, come
certi messaggi di maestri zen potessero forzare situazioni fino
al limite della pazzia. Lo stesso effetto, la stessa sensazione le
davano i paradossi di Zenone; sentiva la mente incepparsi,
scivolare e continuare a farlo senza muoversi di un millimetro.
In quel momento le vennero in mente le parole del dottor
Suzuki sul fatto che nel libro erano presenti nuove
argomentazioni di Zenone: in realtà tutti quei paradossi le
erano in qualche modo già noti, le sembrava di conoscerli. Poi
le tornò in mente la visione che aveva avuto a Lendi Eleusi e
465
come nel dialogo fra Einstein, Nietzsche e Jung fosse stato
enunciato il paradosso del record del mondo che effettivamente
non ricordava di aver mai sentito altrove: era molto
probabilmente uno dei nuovi paradossi ritrovati e custoditi nel
libro, mentre gli altri erano lì, scritti in greco, in attesa di una
traduzione per rivelare la loro efficacia e potenza
destabilizzante per la nostra realtà percepita.
Provò a immaginare gli individui che erano stati possessori del
libro: il pensiero che stava leggendo un libro che era stato nelle
mani di Nietzsche, di Einstein, di Van Gogh le dava una certa
emozione…
Si mise a riflettere sul da farsi: era giusto, moralmente giusto,
tenere per se quel libro, la sua storia, il suo messaggio? Era
giusto che il mondo fosse privato di un pezzo così importante
di se, di una parte che parlava al cuore della cultura occidentale
e ne minava le fondamenta creando contemporaneamente un
legame strettissimo con altre culture, quelle orientali in primis,
ma anche quelle sciamaniche che noi chiamiamo
dispregiativamente primitive? Più ci pensava più riteneva utile
e opportuno tentare di dare notorietà al libro, anche se
riconosceva il rischio di sovrastimare le potenzialità
rivoluzionarie dei concetti in esso espressi o di creare una
specie di nuovo culto, di cui a stento riusciva a individuare i
rischi e i pericoli. Poi il suo pensiero andò a questi fantomatici
Custodi del Tempo. Capiva il significato del loro nome:
custodire il tempo significava infatti proteggere la realtà così
come era, salvandola dalla sua destrutturazione che sarebbe
stata inevitabile una volta scardinato il concetto di tempo
normalmente percepito; ma quanta gente sarebbe stata disposta,
sulla unica base di speculazioni logiche ad abbandonare la sua
millenaria percezione del tempo e del divenire delle cose?
Come far concepire al mondo l’intrinseca unità di tutte le cose
e di ogni uomo quando nella vita di ogni giorno si crede di
466
sperimentare divisioni, singolarità, unicità, tempo? E’
un’impresa disperata, pensò, eppure sentiva che doveva
tentare… Le vennero in mente gli sguardi dei bambini feriti
che aveva curati in Afghanistan e sentiva, in modo assurdo e
irrazionale, che era giusto tentare, per loro, anche se ci fosse
stata una possibilità su un miliardo che la diffusione del
messaggio di Eleusi potesse cambiare e migliorare la loro
situazione… Capiva che se esso fosse stato capito e recepito
fino in fondo, se la frase di Gandhi che le aveva detto il dottor
Suzuki, non posso ferirti senza ferire me stesso, fosse stata
interpretata in senso letterale e non come una metafora, se il
messaggio avesse fatto breccia nei cuori di qualcuno allora
forse le cose sarebbero andate meglio. Si sentiva una illusa, una
illusa utopista ma non riusciva a seppellire quella
consapevolezza sotto il cinismo di chi pensa di conoscere già le
reazioni altrui: doveva tentare. Non aveva nulla da perdere che
non rischiasse già di perdere. Si alzò e fissò l’orizzonte: il
verde smeraldo dei prati le infondeva una serenità infinita che
scacciò ogni residuo dubbio. Sarebbe andata a Washington e lì
avrebbe cercato di raggiungere quell’uomo che aveva proposto
al dottor Suzuki la pubblicazione del libro: in fondo al suo
cuore era certa che anche la nonna e il professor Barbur
sarebbero stati d’accordo con lei. Prese un sasso dal terreno e
lo gettò nelle acque del lago. Poi, salita sulla bicilcletta, riprese
la strada per il Bed and Breakfast.
467
468
CAPITOLO LVIII
470
Isobel, senza proferire parola gli si avvicinò e gli mostrò il
giornale; Anrham sbiancò in volto e, con una smorfia,
accartocciò il giornale e lo gettò via.
“Bastardi!!” disse mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime
“Bastardi vigliacchi!” E così dicendo abbracciò Isobel con
tenerezza.
L’altoparlante dell’aereoporto chiamò all’imbarco i passeggeri
del volo 77 dell’American Airlines.
“Bisogna che vi avviate al gate d’imbarco” disse Anrham
sciogliendo l’abbraccio di Isobel “Ci vediamo all’aereoporto di
Los Angeles”.
Isobel si asciugo gli occhi, prese per mano Hani e si diresse
verso il Gate. Quando passò vicino al giornale si chinò, lo
raccolse e lo affidò a Hani come lettura durante il viaggio.
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472
CAPITOLO LIX
474
CAPITOLO LX
475
fatto a Lendi Eleusi su quell’ombra che sorvolava con un
rumore assordante il bosco vicino al lago e del monito di Rumi
a non prendere aerei… I viaggi dall’Afghanistan all’Irlanda e
dall’Irlanda agli Stati Uniti si erano svolti serenamente, senza
alcun intoppo e questo le aveva fatto dimenticare la
raccomandazione di Rumi. Fece per slacciarsi la cintura ma,
guardando fuori dal finestrino si rese conto che erano già
decollati. Si voltò verso Hani, bianco in volto. Tentò di
abbozzare un sorriso a cui il ragazzo si sforzò di replicare ma
senza grande successo. Attesero che l’aereo raggiungesse la
quota di navigazione e quando venne dato il via libera dalle
hostess, i due ragazzi si vennero incontro.
“Cosa sta succedendo?” chiese Isobel con lo sguardo smarrito..
“Non lo so Issi, non lo so ma non mi piace affatto. Ora però
non possiamo più tornare indietro. Restiamo ai nostri posti e
quando saremo a Los Angeles vedremo il da farsi….”
Si abbracciarono, un lungo, tenero abbraccio mozzafiato.
Isobel si mise al suo posto, prese in mano il libro, lo aprì e
incominciò a leggere.
Il cielo limpido e terso faceva sembrare l’aereo immobile...
Isobel alzò gli occhi dal libro. Un’urlo alle sue spalle… Si girò
di scatto. Il libro le cadde dalle ginocchia e si richiuse… per
sempre.
476
CAPITOLO LXI
477
genesi del pensiero occidentale. Una nuova era stava nascendo,
l’alba di una nuova epoca e quello era il giorno decisivo: il
sapere di Eleusi sarebbe stato annientato per sempre,
l’Occidente non avrebbe mai avuto consapevolezza della sua
follia; ogni ipotesi di unità e di fratellanza tra diverse culture e
diverse civiltà stava per essere recisa nella maniera più radicale
e decisiva e, nell’abbagliante e terrificante luce di un’evento di
portata storica, ve ne sarebbe stato uno assolutamente
incompreso, taciuto, che nessuno mai menzionerà ma che
simbolicamente si sarebbe unito al roboante scoppio per
decretare l’inizio di un conflitto che avrebbe portato una
divisione netta e definitiva tra l’Occidente e il resto del mondo.
Il libro sarebbe scomparso e con lui Lendi Eleusi e le sue
ricerche…
Anrham uscì dall’aereoporto, chiamò un taxi e si fece condurre
vicino al Campidoglio. Scese e si infilò in una roadhouse dove
ordinò una birra. La televisone accesa mostrava le immagini
del World Trade Center in fiamme. Era solo l’inizio.
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CAPITOLO LXII
479
Il vecchio chinò il capo in segno di ringraziamento, prese la
lettera, la aprì e incominciò a leggere.
480
Mi sento precipitata in una specie di spy-story di quart’ordine:
se non fosse che certi lutti li ho vissuti sulla mia pelle ci
sarebbe quasi da sorridere.
Rumi è morta.
Il professor Barbur è morto; è morto senza avere la possibilità
di vedere il libro alla cui ricerca e al cui studio ha dedicato
buona parte della sua vita. E’ morto, forse, per una stupida e
insensata tradizione e forse anch’io morirò per lo stesso
motivo… E’ così assurdo….
Leggete il libro voi che conoscete il greco classico, leggetelo e
traducetelo: io ho potuto leggerne solo una minima parte
perché non conosco il greco, ma le argomentazioni che ho
trovato tradotte mi sono parse di per sé decisive: leggete quale
messaggio porta e capirete quanto assurdo sia conoscere e non
far conoscere, capire e non far capire; occorre scendere dai
monti e tornare dove la vita scorre pienamente e
insensatamente; occorre svuotarsi dopo essersi riempiti,
occorre donare dopo aver ricevuto.
E questo soprattutto quando il messaggio parte da tante
direzioni e converge indiscutibilmente nello stesso punto,
soprattutto quando questo messaggio potrebbe essere
importante nel riconsiderare alcuni modelli di vita e alcune
percezioni errate della realtà.
William Blake scrisse: Se le porte della percezione fossero
purificate l’uomo vedrebbe le cose come realmente sono:
infinite.
Il concetto di infinito e di eterno è un qualcosa con cui l’uomo
si è confrontato dalla notte dei tempi: è la caratteristica propria
del divino, di qualcosa che trascende l’uomo eppure gli è
intimamente legato. Ogni Dio o divinità viene definito eterno;
l’eterno è il segno distintivo del divino. Essere senza tempo e
senza dimensione, compenetrare tutte le cose e da esse essere
compenetrato: questo è Dio, il divino, ovunque e in ogni luogo,
481
ora e per sempre, che tutto vede, che tutto compenetra, che
tutto giudica. L’eterno travalica lo spazio e il tempo.
E se il tempo non esistesse? Se fosse il tempo quel velo posto
sulle nostre percezioni, come diceva Blake e come sostengono
molte religioni orientali, per far sì che noi non vediamo le cose
come realmente sono? Se l’inganno del tempo mascherasse
l’eterno esistere di ogni momento, di ogni tempo, di ogni cosa?
Se la realtà fosse velata ai nostri occhi dall’illusione dello
scorrere del tempo? Tanti indizi si possono trovare a proposito
dell’inesistenza del tempo nelle più svariate discipline. E il
messaggio di Eleusi è in questo senso convergente: Crono è
un’impostore! Ora: noi conosciamo e ammettiamo un’unica
cosa eterna: la luce. Einstein ci dice che la luce che noi
osserviamo è eterna. La luce è ciò che ci consente di vivere, ciò
che permette la fotosintesi nelle piante che è il processo alla
base del ciclo della vita. La luce è vita. La luce è eterna. La
conseguenza logica è che la vita è eterna! E i nostri pensieri?
Non sono forse impulsi elettrici? E se così è anch’essi possono
essere considerati luce? Sono quindi eterni?
Il buddismo cerca l’illuminazione. Non è forse questo un modo
per dire che cerca la sua origine, la sua luce interiore, il suo
essere eterno?
L’uomo cerca da sempre l’eterno, ma se si guardasse allo
specchio con occhi puri non dovrebbe vedere altro che se
stesso all’infinito, come specchio posto davanti ad altro
specchio. Quanto è difficile anche solo trovare le parole per
descriversi e sentirsi eterni: quante risate causerebbero in molti
uomini questi discorsi. Eppure le moderne discipline e le
antiche religioni convergono in maniera sorprendente su questi
punti…
L’uomo però si considera finito, finito e unico. La sua pretesa
unicità alimenta la sua arroganza e il suo credersi al di sopra di
ciò che lo circonda; sentirsi diverso e separato lo autorizza a
482
volere, a dominare, ad usare ciò che lo circonda. Il tradimento
dell’essere ha moltiplicato la necessità e la voglia di avere. E
avendo perduto la propria intrinseca eternità ha delegato questa
a Dio, agli Dei, in modo da allontanarne da se il peso e la
responsabilità: ma con esse ha allontanato anche la gioia
dell’eternità. La pretesa unicità dell’uomo rende ogni cosa, in
quanto a lui esterna, usabile e sfruttabile, senza tenere
minimamente conto delle conseguenze di tale uso, avendo
perso il legame originale che lega il molteplice nell’unità
dell’Essere. Le guerre, il dolore, gli sfruttamenti, la schiavitù, il
dolore che ci circonda sono figli di questo fraintendimento. Il
pensiero di Parmenide e Zenone è stato ucciso, l’Occidente ha
scelto l’Avere all’Essere, ha scelto la potenza e la tecnica al
posto dell’eternità e della gioia che essa dona qui e ora e questa
scelta è stata tanto precoce quanto consapevole e determinata.
Forse è in questo senso che va letto l’aforisma di Nietzsche:
483
Goethe ha detto: “Tra tutti i popoli nessuno ha sognato meglio
dei greci il sogno dell’esistenza”. Forse è opportuno modificare
tale frase in questo modo: “Tra tutti i popoli nessuno ha
sognato meglio dei greci il sogno dell’esistenza trasformando
subito tale sogno in incubo”.
Questa è l’origine misconosciuta dell’uomo: l’uomo è uno
nella diversità ed ha tutto in se: ogni tempo, ogni luogo, ogni
essere.
Questo è l’altro messaggio di Eleusi: essere parte di ogni cosa e
di ogni essere, avere un luogo comune dove esperienze, vite,
ricordi, tempi si unificano e rimangono sospesi, in bilico tra un
sogno e un barlume di realtà. L’origine comune, l’unione
mistica dei molti nell’Uno; anche questi concetti travalicano il
tempo e le culture e un tempo non erano estranei all’Occidente:
Plotino, i mistici cristiani avevano fatto risuonare parole simili.
Il secolo della ragione aveva zittito ogni misticismo, ogni
tentativo trascendente, ma con lo sviluppo delle scienze,
ovvero con la ragione applicata alla tecnica, si è giunti
nuovamente lì dove si era partiti. Vi sono evidenze che ci
parlano dell’io come di una sovrastruttura fittizia, che nulla in
realtà ci separa da ogni altro oggetto o essere, fino ad arrivare
all’ipotesi dell’ologrammaticità della nostra realtà. La scienza
si è riunificata alla tradizione mistica e filosofica; la mitologia
e le tradizioni riprendono concetti che la scienza oggi pare
avvicinare per la prima volta. Occorre trovare una sintesi di
tutto ciò, scendere dai monti e camminare tra gli uomini. Non
come nuovi portatori di verità, nuovi santoni e predicatori di
libri divini, ma come uomini che hanno una storia da
raccontare, che hanno una nuova visione da condividere, che
hanno una assurda speranza: rendere questo mondo, e quindi
ogni singolo individuo, consapevole, non migliore o peggiore
ma semplicemente consapevole delle sue azioni…
484
Ed è proprio per la vostra consapevolezza e saggezza che vi
chiedo di abbandonare il vostro isolamento, soprattutto se si
dovessero avverare le nefaste profezie che circondano il
recupero del libro. Da parte mia ho adempiuto al mio compito,
a quello che la nonna mi aveva chiesto in una lettera scritta
forse nelle medesime condizioni in cui io sto scrivendo questa:
ho seguito la mia strada, ho conosciuto persone straordinarie,
ho scoperto e capito cose di cui semplicemente ignoravo
l’esistenza. Avere questo libro tra le mani è stringere l’eternità
in un’ora, è avere il sudore di Nietzsche sui polpastrelli che
sfogliano le carte, è annusare l’odore dell’inchiostro che Gödel
usò per vergare la sua laica preghiera a Dio… Mi sento parte di
tutto ciò… I mie pensieri, la mia luce sono vostri, ora e in
eterno…
Che la luce illumini la vostra via.
Isobel Morrison
485
Alpang rimase scioccato. Il vecchio uscì dalla stanza facendo
segno ad Alpang di attenderlo. Dopo alcuni minuti rientrò, le
mani giunte innanzi a sé. Chiese ad Alpang di aprire la finestra
e affacciatosi aprì le mani facendo volare una splendida farfalla
azzurra dicendo:
“Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo
chiama farfalla. Vola libera e che la tua forma sia splendida
come le ali che ti sostengono. Che la pace sia il tuo sentiero!”
Poi chinò il capo. Alpang fece altrettanto. Una leggera brezza
entrò nella stanza portando con sé il rumore della cascata. La
farfalla si posò un attimo sul davanzale, poi allargando le ali
volò verso il sole. La luce abbagliò i loro occhi e la farfalla
scomparve alla loro vista: l’eternità e l’effimero si fusero nei
loro occhi, tatuandoli per sempre.
486
487
488
BIBLIOGRAFIA
FISICA E SCIENZE:
Titolo: La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura
Autore: Barbour Julian
Anno: 2005
Editore: Einaudi
489
Titolo: Gödel, Escher, Bach. Un'eterna ghirlanda brillante.
Una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll
Autore: Hofstadter Douglas R.
Anno: 1990
Editore: Adelphi
490
Titolo: I conigli di Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli
Autore: Bruce Colin
Anno: 2006
Editore: Cortina Raffaello
491
Titolo: Il velo di Einstein. Il nuovo mondo della fisica quantistica
Autore: Zeilinger Anton
Anno: 2006
Editore: Einaudi
Titolo: La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni
Autore: Livio Mario
Anno: 2003
Editore: Rizzoli (collana Saggi stranieri)
492
Titolo: La strada che porta alla realtà
Autore: Roger Penrose
Anno: 2006
Editore: BUR
Titolo: Guida alla teoria della relatività. Dalle previsioni di Einstein alle conferme sperimentali
Autore: Silvestrini Vittorio
Anno: 2007
Editore: Editori Riuniti
Titolo: La luce. Natura, teoria, storia, colore, ombra, metafisica, scienza, poesia, mistero
Autore: Mariani Guglielmo
Anno: 2005
Editore: Gangemi
493
FILOSOFIA:
Titolo: L' enigma della serpe secondo Nietzsche. Guida ai simboli dello Zarathustra
Autore: Biondi Graziano
Anno: 2001
Editore: Manifestolibri
494
Titolo: La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire
Autore: Severino Emanuele
Anno: 2006
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Titolo: La Repubblica
Autore: Platone
Anno: 2006
Editore: Laterza
495
Titolo: La sfida di Parmenide. Verso la rinascenza
Autore: Sangiacomo Andrea
Anno: 2007
Editore: Il Prato (collana I cento talleri)
PSICOLOGIA:
496
Titolo: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione
Autore: Foucault Michel
Anno: 2005
Editore: Einaudi
Titolo: La mente olotropica. Le esperienze che conducono ai livelli più profondi della psiche
Autore: Grof Stanislav
Anno: 2007
Editore: Red Edizioni
497
Titolo: Ricordi, sogni, riflessioni
Autore: Jung C. Gustav
Anno 1998
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Titolo: La sincronicità
Autore: Jung C. Gustav
Anno: 1980
Editore: Bollati Boringhieri
Titolo: La schizofrenia
Autore: Jung C. Gustav
Anno: 1980
Editore: Bollati Boringhieri
LETTERATURA:
498
Titolo: Ulisse
Autore: Joyce James
Anno: 2000
Editore: Mondadori
Titolo: Finzioni
Autore: Borges Jorge L.
Anno: 2005
Editore: Einaudi
499
POESIA:
Titolo: Poesie
Autore: Eliot Thomas S.
Anno: 2000
Editore: Bompiani
Titolo: Canti
Autore: Leopardi Giacomo
Anno: 2006
Editore: Feltrinelli
500
PITTURA:
MUSICA:
501
Titolo: Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane
Autore: Giacopini Vittorio
Anno: 2005
Editore: E/O
Titolo: Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo
Autore: Santillana Giorgio de; Dechend Hertha von
Anno: 2003
Editore: Adelphi
502
Titolo: L' universo, gli dèi, gli uomini
Autore: Vernant Jean-Pierre
Anno: 2005
Editore: Einaudi
503
Titolo: L' uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
Autore: Guénon René
Anno: 1992, 172 p.
Editore: Adelphi (collana Collezione Il ramo d'oro)
DISCOGRAFIA
Titolo: Grace
Autore: Jeff Buckley
Anno: 1994
Casa Discografica: Columbia
504
Titolo: The 1955 Goldberg Variation
Autore: Johann Sebastian Bach
Interprete: Glenn Gould
Anno: 1955
Casa Discografica: Sony
505
QUADRI
Titolo: Autoritratto
Autore: Vincent Van Gogh
Anno: 1889 settembre
Museo: Musée d’Orsay Parigi
506
WEB
http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale
http://www.filosofico.net/
http://www.fisicamente.net
http://www.riflessioni.it/
http://ulisse.sissa.it/
http://www.vialattea.net/
507
508
INDICE:
CAPITOLO I..................................................................................................................................5
CAPITOLO II ................................................................................................................................7
CAPITOLO III............................................................................................................................ 11
CAPITOLO IV............................................................................................................................ 15
CAPITOLO V ............................................................................................................................. 17
CAPITOLO VI............................................................................................................................ 21
CAPITOLO VII .......................................................................................................................... 25
CAPITOLO VIII ......................................................................................................................... 31
CAPITOLO IX............................................................................................................................ 35
CAPITOLO X ............................................................................................................................. 39
CAPITOLO XI............................................................................................................................ 43
CAPITOLO XII .......................................................................................................................... 47
CAPITOLO XIII ......................................................................................................................... 53
CAPITOLO XIV......................................................................................................................... 55
CAPITOLO XV .......................................................................................................................... 57
CAPITOLO XVI......................................................................................................................... 61
CAPITOLO XVII ....................................................................................................................... 63
CAPITOLO XVIII ...................................................................................................................... 73
CAPITOLO XIX......................................................................................................................... 77
CAPITOLO XX .......................................................................................................................... 87
CAPITOLO XXI....................................................................................................................... 101
CAPITOLO XXII ..................................................................................................................... 109
CAPITOLO XXIII .................................................................................................................... 115
CAPITOLO XXIV.................................................................................................................... 121
CAPITOLO XXV ..................................................................................................................... 125
CAPITOLO XXVI.................................................................................................................... 127
CAPITOLO XXVII .................................................................................................................. 135
CAPITOLO XXVIII ................................................................................................................. 145
CAPITOLO XXIX.................................................................................................................... 153
CAPITOLO XXX ..................................................................................................................... 157
CAPITOLO XXXI.................................................................................................................... 161
CAPITOLO XXXII .................................................................................................................. 173
CAPITOLO XXXIII ................................................................................................................. 181
CAPITOLO XXXIV................................................................................................................. 191
CAPITOLO XXXV .................................................................................................................. 215
CAPITOLO XXXVI................................................................................................................. 239
CAPITOLO XXXVII................................................................................................................ 241
CAPITOLO XXXVIII .............................................................................................................. 247
CAPITOLO XLIX .................................................................................................................... 255
CAPITOLO XL......................................................................................................................... 271
CAPITOLO XLI ....................................................................................................................... 297
CAPITOLO XLII...................................................................................................................... 311
CAPITOLO XLIII .................................................................................................................... 325
CAPITOLO XLIV .................................................................................................................... 331
CAPITOLO XLV...................................................................................................................... 339
CAPITOLO XLVI .................................................................................................................... 349
CAPITOLO XLVII................................................................................................................... 359
CAPITOLO XLVIII.................................................................................................................. 365
509
CAPITOLO XLIX .................................................................................................................... 373
CAPITOLO L ........................................................................................................................... 377
CAPITOLO LI .......................................................................................................................... 385
CAPITOLO LII......................................................................................................................... 395
CAPITOLO LIII ....................................................................................................................... 419
CAPITOLO LIV ....................................................................................................................... 425
CAPITOLO LV......................................................................................................................... 437
CAPITOLO LVI ....................................................................................................................... 441
CAPITOLO LVII...................................................................................................................... 459
CAPITOLO LVIII .................................................................................................................... 469
CAPITOLO LIX ....................................................................................................................... 473
CAPITOLO LX......................................................................................................................... 475
CAPITOLO LXI ....................................................................................................................... 477
CAPITOLO LXII...................................................................................................................... 479
BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................... 489
DISCOGRAFIA........................................................................................................................ 504
QUADRI ................................................................................................................................... 506
WEB .......................................................................................................................................... 507
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RINGRAZIAMENTI
A Lara per il tuo amore e la tua pazienza. Se questo libro esiste lo devo soltanto a te.
A Federico e Sara per aver subito le mie assenze. Vedrò di rimediare.
Questo libro è, tra le altre cose,un tentativo di rispondere,a questo verso di poesia:
511
512
xyz
513