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Samanta Schweblin, Distanza di sicurezza [traduzione di Roberta Bovaia], Milano, Rizzoli 2017,

pp. 143, euro 17

Mentre il successo delle scrittrici latinoamericane è acclarato in Spagna, forse in Italia non si è
avvertito con uguale intensità; di certo, però, anche il nostro panorama editoriale si è arricchito di un
buon numero di voci femminili provenienti un po' da tutta l'America Latina: Mariana Enríquez e
Samantha Schweblin dall'Argentina, Lina Meruane dal Cile, Valeria Luiselli e Laia Jufresa dal
Messico. Autrici cosmopolite, in transito, che spesso hanno scelto di vivere lontano dal paese d'origine
ed è da questa dislocazione che raccontano oggi il mondo globalizzato e le sue ossessioni, modificando
il quadro del continente latinoamericano, non più solo barocco, né tanto meraviglioso. Samantha
Schweblin, nata a Buenos Aires nel 1978, da qualche anno trapiantata a Berlino, è già un'autrice di
culto, apprezzata per le atmosfere allucinatorie dei suoi racconti fantastici, che tuttavia non
condividono certe speculazioni metafisiche, certe torsioni del linguaggio proprie del genere. Salvo una
certa aria di famiglia, infatti, poco di tutto questo si ritrova nel suo ultimo libro, Distanza di sicurezza
(Rizzoli, 2017, tr. di Roberta Bovaia, pp. 143, euro 17,00), dove l'immaginazione perturbante funziona
piuttosto da detonatore delle urgenze del reale, dipingendo un potente ritratto delle angosce
contemporanee.
La distanza di sicurezza del titolo è naturalmente una metafora: allude al filo invisibile che la
protagonista, Amanda, si premura di misurare tenendo sempre d'occhio i movimenti della figlia “perché
presto o tardi, qualcosa di terribile succede. Mia nonna l'ha ripetuto a mia madre per tutto il tempo (...),
mia madre l'ha ripetuto a me, e ora tocca a me prendermi cura di Nina”. La paura come un destino – e
di conseguenza, il controllo compulsivo di ogni dettaglio, a scongiurarne la fatalità – emerge in queste
pagine quale lato oscuro e dolente della maternità attraverso le vicende speculari di Carla e David e di
Amanda e Nina. Cosa succede, però, quando il pericolo è tutt'intorno, nella terra che calpestiamo,
nell'aria che respiriamo, nel cibo che mangiamo? Cosa succede quando non c'è distanza di sicurezza
che tenga?
Schweblin attinge al repertorio dell'irrazionale per trattare un tema già frequentato dalla letteratura
novecentesca – l’imminenza di un disastro ecologico – e lo trasforma, potenziandone la mostruosità, in
una minaccia dai risvolti orrorifici, situata al di fuori di ogni possibile controllo e comprensione: l'unico
scampo alla morte per intossicazione chimica narrata nel romanzo sarà allora un inverosimile rituale di
migrazione dell'anima, dagli esiti sconvolgenti. Su tutto, una fitta trama di dettagli inquietanti – cavalli
avvelenati, bambini con malformazioni genetiche, terre aride, pascoli senza bestiame... Il risultato è una
rappresentazione sinistra, e per questo inedita, della provincia argentina, in cui non resta più traccia
degli spazi incontaminati e selvaggi a lungo evocati nella tradizione letteraria. Alle distese aperte della
pampa si sostituiscono coltivazioni industriali di soia, recinzioni desolate, grigi segmenti di spazio
modificati in profondità dall'intervento umano ma, di fatto, quasi inabitabili. Schweblin immagina
dunque l'altro volto della domesticazione della natura, affiancando così all'apocalisse personale delle
sue protagoniste – la perdita di un figlio – una apocalisse collettiva e epocale che ci chiama tutti
drammaticamente in causa.

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