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LABORATORIO DI RICERCA SU
«Valutare la partecipazione nelle politiche per l’integrazione e la sicurezza
urbana:
il caso del V Municipio del Comune di Roma»
Materiali di documentazione n. 7
LA MEDIAZIONE SOCIALE A ROMA
Una risorsa per le politiche sulla sicurezza urbana partecipata
capitolo pubblicato nel libro
"La Mediazione come strumento di intervento sociale"
a cura di Lucio Luison, Franco Angeli, Milano, 2006
http://docs.google.com/View?docid=dgs24x6v_6dkb42mcx&hl=it
Premessa
Fin dalla sua ideazione, il progetto “Mediazione Sociale” a Roma si è caratterizzato come
esperienza sperimentale nella ricerca di nuovi approcci alle tematiche della sicurezza urbana:
il presente saggio offre inizialmente una riflessione sul rapporto tra senso di sicurezza dei
cittadini e prassi di mediazione sociale e si sofferma successivamente sull’esperienza romana
delineandone la storia il modello teorico di riferimento, la metodologia, gli strumenti, le
finalità, i risultati conseguiti. In tale ottica, coerentemente con il mandato progettuale,
l’esperienza romana non si è concretizzata esclusivamente in un’azione di mediazione a
livello interindividuale, ma ha svolto un ruolo di sensibilizzazione e diffusione di una cultura
della gestione creativa e non violenta dei conflitti, e di stimolo e potenziamento della
comunicazione e della cooperazione all’interno delle comunità territoriali nei quartieri di
competenza.
Le sei zone della periferia romana, dove il progetto è stato implementato sono caratterizzate
da molteplici forme di disagio e degrado sociale, ma al contempo sono ricche anche di
potenzialità e risorse; il problema abitativo ha costituito storicamente il principale fattore di
criticità degli attuali abitanti, provenienti prevalentemente dalle occupazioni di case e scuole,
o in assistenza alloggiativa prima di divenire assegnatari di case popolari. Tali dimensioni del
vissuto collettivo, accompagnate a conflitti esasperati e diffusi tra abitanti e con le istituzioni,
hanno confermato la necessità di applicare i principi della mediazione a prassi operative che
coinvolgessero non soltanto singoli individui, ma ampie parti delle comunità. Infatti, la
conflittualità, in tali contesti, pervade interamente ogni tipologia di relazione, anche a livello
transgenerazionale.
La gestione aggressiva e violenta delle controversie (anche se non sempre agita) è linguaggio
condiviso e spesso sintomo evidente di un malessere sociale, caratterizzato anche da
un’autopercezione di estraneità al proprio territorio, e da un senso di abbandono e isolamento
rispetto alle istituzioni. Tali quartieri sono inoltre per lo più caratterizzati da uno scarso livello
socio – culturale ed economico. In tali contesti, le attività del progetto sono state sin
dall’inizio prevalentemente di analisi e mappatura dei conflitti, nella ricerca delle cause e
delle motivazioni che li hanno generati, e soprattutto della storia e delle modalità adottate
dagli abitanti per gestirli. In questo modo le azioni di mediazione hanno favorito anche un
lavoro sulla memoria storica dei quartieri nel tentativo di ricercare e frequentare con i cittadini
le risorse e le potenzialità sia pregresse che attuali; si sono voluti mettere in evidenza gli
aspetti simbolici e rituali che concorrono a definire le identità, le strategie e le modalità di
rapporto con il territorio, nella ricerca di un comune e rinnovato senso di appartenenza.
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Caratteristica dell’esperienza romana di mediazione sociale è stata infatti, la definizione, a
partire da un modello comune (frutto di una riflessione costante), di percorsi specifici e
diversificati, contestuali alle esigenze dei singoli territori. Risorse locali (associazioni, scuole,
parrocchie, progetti sociali, enti e istituzioni, ecc.) hanno costituito interlocutori privilegiati
con i quali co–progettare iniziative integrate, superando i limiti evidenti di interventi separati
e autoreferenziali.
Diversamente da altre tipologie di intervento, tipiche anche del privato sociale, il progetto
“Mediazione Sociale” non si è proposto l’erogazione di un servizio: evitando di proposito
qualunque dinamica asimmetrica o delegante: ha promosso invece l’attivazione di processi,
nei quali la collettività stessa fosse co–protagonista, in risposta a bisogni ed esigenze spesso
conflittuali tra loro. Nei primi anni di attività le azioni progettuali si sono caratterizzate per la
loro propedeuticità alla diffusione di una cultura mediativa in un’ottica di sicurezza urbana;
sono state coinvolte con diverse modalità soprattutto le scuole, integrandone il rapporto con il
territorio, anche attraverso azioni simboliche di aggregazione. Attualmente le azioni
progettuali sono concordate insieme ad una pluralità eterogenea di attori territoriali, che
stanno sperimentando una partecipazione attiva, con una diversa consapevolezza e capacità di
lettura dei fenomeni sociali e culturali, in cui il conflitto diviene parte integrante
dell’esperienza umana, come una risorsa ed una occasione concreta di cambiamento.
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Riferendosi alle strutture urbanistiche polinucleari dell’area Nord Est degli Stati Uniti,
Gottmann (1970) introdusse il concetto di “megalopoli”, delineando così una città che genera
e favorisce condizioni di paura e insicurezza. Ancora oggi è presente il “lato oscuro” della
modernità urbana (Giddens, 1994), foriero di ansia e paura nell’immaginario collettivo
dell’uomo metropolitano. Possiamo dire che attualmente non c’è nessuno che possa
dichiararsi estraneo o non coinvolto nei rischi connessi al vivere urbano. Spesso è inoltre
difficile prevedere e quantificare oggettivamente le ripercussioni e le possibili conseguenze, a
livello di impatto sociale, dei cambiamenti e dei molteplici rischi insiti a livello ambientale,
sociale, economico, o personale.
Sempre Landuzzi (1999) sottolinea come tali fattori di rischio acquistino un carattere di
diffusività e di pervasività nel tessuto sociale, tanto da farli percepire a volte come “irreali”, e
fungere da “anestetico” nei cittadini. La loro stessa natura di minaccia generalizzata
sembrerebbe comportare che se ne potrebbe avere una chiara percezione soltanto nel caso in
cui si verificassero. Fattori che generano ansia e insicurezza permangono quotidianamente
nella vita sociale urbana (si pensi ai problemi legati all’inquinamento, alla disoccupazione,
alla presenza di diverse forme di violenza e criminalità, alla percorribilità delle stesse strade
cittadine) e l’adattamento dei cittadini ad una convivenza forzata con essi genera una continua
richiesta di tutela e sicurezza da parte di una “city in stress” permanente (G. Martinotti, 1993).
Tale richiesta viene generalmente affrontata a seguito del verificarsi di eventi “critici o
destabilizzanti”, e questo approccio influisce e condiziona le abilità di negoziazione e di
gestione dei rischi e dei conflitti connessi al vivere sociale. Infatti solitamente la ricerca di
sicurezza secondo un “pensare per emergenze” risponde esclusivamente all’esigenza di
trovare risposte immediate a situazioni divenute socialmente insostenibili. Ciò consente di
arginare e contenere alcuni aspetti disfunzionali alla coesione e alla qualità della vita sociale,
ma non sempre permette la reale costruzione di un senso collettivo di sicurezza, tanto reale
quanto percepita. La nozione di sicurezza può essere, infatti, concepita e indagata sia
oggettivamente (nel senso di esame e valutazione di rischi di eventi quantificabili e
descrivibili), sia soggettivamente (attraverso la condivisione di una percezione sociale della
realtà, di cui la sussistenza di rischi oggettivi è soltanto una delle variabili implicate).
In tale contesto, Landuzzi (1999) sostiene che il variare della sensibilità sociale, la necessità
talvolta strumentale di consenso politico, i mutamenti degli orientamenti culturali nei
confronti della temibilità di alcuni fenomeni, costituiscono alcuni tra gli elementi che possono
contribuire a determinare la percezione dell’esposizione dei cittadini al pericolo. Inoltre le
caratteristiche stesse della globalizzazione favoriscono una percezione soggettiva talvolta
sovradimensionata rispetto alla effettiva entità del rischio. L’aumento della preoccupazione
per il diffondersi di situazioni potenzialmente pericolose pare infatti non sempre direttamente
correlato all’andamento crescente dei tassi di atti delittuosi o all’aumento della propensione
denunciataria dei cittadini; tuttavia aumenta la percezione dell’esposizione a possibili pericoli,
e si differenzia progressivamente dal timore di subire personalmente un reato.
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territorio urbano, sottolinea sempre Landuzzi (1999) diviene così risorsa su cui investire in
termini di identità locale, di consumi, di modelli di convivenza, e da tutelare da fattori esogeni
ritenuti cause di disagio, di insicurezza, di degrado. Di volta in volta, questi fattori si
materializzano e si identificano nei tossicodipendenti, nello “straniero”, negli zingari, nei
graffitari, ecc., le cui attività appaiono spesso facilmente identificabili e sanzionabili sul piano
della considerazione sociale. I gruppi sociali e le diverse “culture” succitati, se da un lato
rientrano nell’appeal della città, dall’altro costituiscono presenze inquietanti, che si
inseriscono in una realtà urbana dagli equilibri assai precari. Attualmente soprattutto il
fenomeno migratorio esplode con forza a livello di opinione pubblica e inquieta, poiché mette
in discussione un ordine urbano ed una percezione dello spazio preesistenti e condivisi, con
l’imposizione di simboli forti ed estranei. Infatti, per spaventare non è necessario che “l’altro”
faccia qualcosa: è sufficiente che sia visibile nella sua diversità.
Le dimensioni locali, secondo Landuzzi (1999) possono in questo modo divenire casse di
risonanza dell’allarme sociale e occasione di “acquisto di consenso politico”, diventando
luoghi di pressione a favore di risposte di natura prevalentemente repressiva. In alcuni
contesti urbani infatti la costruzione di un ordine sociale tutelante e rassicurante sembra
spesso fondarsi su parametri sempre più rigidi e criteri di inclusione o esclusione radicale, e di
legittimazione o meno ad abitare lo spazio urbano.
Viene così rivendicata l’esclusione di quelle categorie di soggetti ritenuti responsabili di “tutti
i mali” e quindi, percepiti come incompatibili con l’ordine sociale auspicato. A tale
orientamento si contrappongono in altri contesti ipotesi diverse di costruzione di convivenza
sociale, che operano per la trasformazione di comportamenti ritenuti devianti e disfunzionali,
orientandoli ad un recupero identitario di chi li agisce, in opposizione ad un’esclusione
indiscriminata. In alcuni contesti si riscontra l’esigenza di uscire dall’indistinto sociale
urbano, partendo dal proprio territorio e dalla capacità di designare “buone prassi” di socialità
urbana comune, in grado di generare sicurezza proprio perché partecipate e condivise.
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In uno spazio molto angusto tra il rimpianto di una sicurezza che non c’è più, una retorica
inconfutabile e le iniziative “fai da te”, la città oggi si gioca il suo futuro, la sua nuova
fisionomia; la sua strategia di riorganizzazione non può limitarsi a rispondere all’immediato
delle singole emergenze, ma deve misurarsi con una sfida progettuale di lungo periodo, che
investa pienamente anche la dimensione culturale, economica, produttiva e di mercato in cui
la vita sociale è pienamente inserita, anche a livello architettonico e urbanistico. Le attuali
percezioni di sicurezza/insicurezza attivano sistemi organizzativi sempre più orientati a
esigenze di interazioni rassicuranti sia sul piano oggettivo che simbolico Alle radici della
questione “sicurezza “ così come oggi si configura c’è un problema di capacità di ascolto e di
descrizione adeguata delle situazioni di conflitto.
Marinella Sclavi (2000) a tale proposito sostiene che per descrivere in modo adeguato le
situazioni in cui un conflitto si perpetua o subisce una escalation è indispensabile possedere
una competenza nelle dinamiche della comunicazione in sistemi complessi, cioè una
strumentazione teorica capace di discernere quali dinamiche conoscitive e dell’accoglienza
vengano messe in atto negli episodi che viceversa si risolvono in un “felice ascolto
reciproco”. Sempre l’autrice sostiene che la formazione di classi dirigenti capaci di ascoltare è
il primo punto all’ordine del giorno in una società complessa. Arte di ascoltare e gestione
creativa dei conflitti, capacità di analisi etnografica dettagliata dei processi e progetti sociali
in atto sono le nuove competenze sempre più necessarie per far fronte al diffuso e radicale
disagio urbano che sta alla base del senso di sicurezza o della sua assenza.
A tale proposito c’è da sottolineare inoltre che a livello istituzionale in alcuni comuni e
soprattutto in alcune province italiane, già a partire dagli anni ‘70, si istituirono Assessorati
alla Sicurezza, successivamente rimossi. Come sottolineano Milanesi e Naldi (2001) nelle
politiche di quegli anni c’era anche una parola, un aggettivo che si aggiungeva sempre alla
sicurezza: “sicurezza sociale”. Si guardava cioè alla sicurezza in termini collettivi. Gli
assessorati di recente istituzione (dagli anni ‘90) sono stati invece la risposta talvolta tardiva a
esigenze manifestate dalla popolazione. Fino agli anni ‘70, infatti, c’era una tradizione di
politica sociale che si è andata perdendo nel corso del tempo.
Attualmente si registra, per giunta una sorta di inquinamento di prospettiva politica; è come se
non si riuscisse più a ragionare in termini di sicurezza anche con gli strumenti, la mentalità, la
cultura delle politiche sociali (che così denuncerebbero tutti i loro limiti). Diventa necessario
allora far riferimento ad agenzie private che si occupino dei meccanismi della sicurezza,
intesa per esempio come congegni elettronici a difesa delle proprietà private. Questo significa
distorcere la spesa pubblica verso interessi privati: questo è l’elemento inquinante
dell’impostazione politica prevalente: l’imprenditorialità securitaria.
Nel corso degli anni ’90 il tema della sicurezza è andato assumendo un peso crescente
nell’agenda politica e governativa nazionale e locale. In quegli anni la questione sicurezza è
stata declinata insieme ad un ampio spettro di problematiche che vanno dalla microcriminalità
predatoria alle nuove forme di conflittualità giovanile, dall’inquietudine sociale legata alle
nuove povertà, dall’emarginazione ai problemi di integrazione degli immigrati, dalla
prostituzione allo spaccio di droga. Tutte queste tematiche in questi ultimi anni hanno
conquistato una inedita rilevanza, sia nella costruzione di concreti programmi d’azione da
parte dei governi locali, sia soprattutto nelle strategie di comunicazione e competizione
politica.
Si è assistito e tutt’ora si assiste così ad una gestione centrale e locale, tanto di emergenze
connesse alla criminalità, quanto di problematiche di competenza delle politiche sociali,
secondo la medesima prospettiva, tendente solitamente alla repressione degli atti di volta in
volta ritenuti devianti e all’emarginazione dei soggetti coinvolti. La comunicazione delle
prassi attuate si basa su una unica concezione di sicurezza, che fa coincidere il benessere dei
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cittadini esclusivamente con l’identificazione di un capro espiatorio, di un nemico da
combattere, di un conflitto da “controllare” ed eventualmente da allontanare. L’esclusione e la
separazione da specifici soggetti e specifiche zone della città divengono poi modalità
attraverso cui creare sistemi (spesso mediatici) rassicuranti, in grado di generare fiducia tra i
cittadini.
Accade così che sovente alcuni dei soggetti destinatari di politiche sociali vengano additati in
primo luogo come unici responsabili dell’insicurezza dei cittadini, e come tali divengano
soggetti su cui indirizzare prima le ansie e le preoccupazioni degli abitanti e quindi gli
interventi di ordine pubblico. E’ forte il ritardo da parte degli Enti Locali, (che non
dovrebbero confondere questi ambiti a livello istituzionale e progettuale), in merito ad una
corretta concettualizzazione della sicurezza che distingua la dimensione di ordine pubblico da
quella della “sicurezza urbana”, intesa come promozione dell’abitabilità delle città e della
cura di tutti gli aspetti ad essa correlati (ambiente, urbanistica, trasporti, recupero e
riqualificazione aree verdi, coinvolgimento e co-protagonismo di tutte le fasce della
popolazione ecc.).
Per affrontare con serietà il tema della sicurezza urbana appare quindi, fondamentale
sciogliere il nodo confusivo che accomuna tali tematiche a livello teorico, politico, sociale, sia
in ambito nazionale che locale. Se infatti l’attualità del tema non ha certo bisogno di essere
ulteriormente illustrata, sembra invece necessario aprire una riflessione critica sulle modalità
di costruzione e definizione dell’ “emergenza sicurezza” e sul suo impatto sulle politiche
pubbliche urbane.
Infatti, ancora non si sono sviluppate a sufficienza una riflessione e una cultura mediativa in
grado di conoscere e comprendere i fenomeni, ascoltare (attivamente) le persone coinvolte e
delineare, anche quando si profili una dimensione di ordine pubblico, ambiti di intervento
integrati. L’attuazione esclusiva di dispositivi di repressione e deterrenza può infatti estendere
l’area della popolazione “rassicurata”, ma si rischia tuttavia che permangano comunque sub
aree in cui si addensino altri fattori di insicurezza (in modo particolare dal centro alla
periferia).
Una nuova concezione di “sicurezza” può inserirsi nelle politiche di gestione della città, come
principio organizzatore nelle varie fasi della programmazione, in ciascuna delle quali dovrà
essere verificato l’impatto sociale sui fattori di sicurezza/insicurezza dei cittadini. Da una
concezione di sicurezza intesa e declinata esclusivamente come ordine pubblico, si
giungerebbe così alla concettualizzazione su esposta di “sicurezza urbana” e alla sua
applicazione attraverso azioni politico amministrative trasversali e integrate.
Da tali considerazioni e analisi negli ultimi anni stanno comunque sorgendo stagioni di
sperimentalismo che vedono soprattutto gli Enti Locali investiti di nuove responsabilità nella
produzione del “bene pubblico – sicurezza”, attraverso l’elaborazione di politiche che,
superando, almeno in parte il punto di vista tradizionale, alludono ad un paradigma
alternativo, ispirato ai principi dell’inclusione, del rafforzamento dei legami sociali sul
territorio, dell’allargamento dei diritti di cittadinanza, del trattamento integrato delle cause di
insicurezza.
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anche l’illuminazione di una strada, la raccolta dei rifiuti, l’accessibilità e la praticabilità di un
giardino o un parco giochi, il trasporto urbano, ecc. così come e soprattutto la comunicazione
(e l’“ascolto attivo”) di esigenze quotidiane che i cittadini esprimono in vario modo, sono
altrettante dimensioni che entrano nel gioco della complessa articolazione di cui si compone il
concetto sicurezza.
Una città può essere in grado di restituire ai propri abitanti una nuova percezione di sicurezza,
quando, oltre ad una integrazione con la sicurezza di ordine pubblico, è in grado di
promuovere tra gli stessi abitanti processi comunicativi bidirezionali e conseguenti pratiche
quotidiane in cui una gestione “creativa” dei conflitti tragga un valore aggiunto dalla
partecipazione dei cittadini, e non costituisca un problema tra i tanti da affrontare o al peggio
da negare e/o reprimere. Le soluzioni proposte in questi ultimi anni, come per esempio il
tentativo di restituire sicurezza ai cittadini attraverso la costituzione della polizia di
prossimità, potrebbero non rivelarsi del tutto adeguate, se in un quartiere non si instaurano, tra
le parti in conflitto un dialogo e un’assunzione di responsabilità collettiva rispetto ad un
bisogno condiviso: senza che si “attraversi “ insieme la domanda di come sia possibile che
una divergenza di vedute o di interessi degeneri in litigi, conflitti, scontri o peggio ancora in
violenza.
Interventi di ordine pubblico, infatti, senza una reale integrazione di azioni di carattere
sociale, possono non essere in grado di rispondere ad una percezione soggettiva di insicurezza
che coinvolge sempre più i cittadini. L’opinione pubblica, peraltro, è bombardata
quotidianamente da segnali di pericolo (guerre, terrorismo, criminalità ecc.3), di fronte ai quali
sono spesso inefficaci modalità difensive e di protezione analoghe a quelle sperimentate nel
passato. A tal proposito malgrado comportamenti selettivi e filtri psicologici, sottolinea
Landuzzi (1999), la esposizione ai rischi non è percepita in diminuzione e neppure
l’indifferenza psicologica o la superficialità riescono a garantire sicurezza, ma al contrario
contribuiscono a generare passività, rassegnazione, solitudine e assenza partecipazione
sociale.
La fiducia tra i cittadini, e di questi nei confronti delle istituzioni, si basa invece sulla
comunicazione, nella possibilità di ognuno di generare processi di legalità condivisi, nella
ritrovata e rinnovata partecipazione al bene pubblico della democrazia. Il presupposto di
fondo è che i conflitti degenerano e diventano distruttivi anche a causa di chiusure
comunicative e di difficoltà nelle relazioni, e pertanto, aumentando le occasioni di
comunicazione e migliorandone la qualità, si può contribuire a gestirli in modo non
distruttivo.
Anche curando i “luoghi feriti” o del degrado di un quartiere, fa notare Forni (2002), possono
modificarsi i rapporti tra le persone. Tali iniziative, peraltro, contengono anche un forte
carattere simbolico poiché aspirano e chiedono un rinnovamento della vita pubblica e della
comunità basato sul benessere sociale oltre che sulla protezione, su un ambiente strutturato in
modo da facilitare l’interazione, anziché sul principio del divieto di contatto tra le persone.
Non va dimenticato inoltre che il controllo sociale informale è stato sempre parte integrante
del senso di appartenenza alla comunità. Attualmente, a differenza di quanto un giudizio
comune ritiene, come sostiene Matilde Callari Galli (1996) non ci sarebbe più violenza nella
società contemporanea, ma più reattività e rifiuto della violenza, e dunque la si noterebbe di
più che nel passato. Forse questo è il dato saliente che andrebbe maggiormente valorizzato:il
bisogno di fiducia e coesione sociale. Ciò restituirebbe dignità e valore alla parola cittadino, al
vivere comune nelle metropoli, come nelle piccole città di provincia.
In tale prospettiva la gestione della sicurezza urbana di una città non può essere demandata ad
un solo soggetto istituzionale, ma richiede la strutturazione di percorsi integrati e partecipati
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che valorizzino le funzioni mediative e i contributi di ciascun attore sociale e politico. Così
come la conflittualità e il disagio sociale, le ragioni oggettive e soggettive della percezione del
rischio non possono essere ricondotte a schemi interpretativi univoci, e richiedono modalità di
intervento, apparati e strumentazioni diverse da quelle tradizionalmente concepite e
istituzionalizzate a livello di Stato centrale. In tal senso, si può modificare utilmente la stessa
concezione di welfare, per cui il concetto di “bene-essere” si amplia e include anche le
risposte al bisogno di sicurezza urbana, non solo come protezione da fatti criminosi, ma come
attenzione preventiva e riequilibratrice di un sempre più diffuso disagio sociale.
Ciò consentirebbe di lavorare contemporaneamente sia sulle cause (o per meglio dire sulla
storia dei conflitti) che sui segnali premonitori, evitando interventi emergenziali, separati e di
conseguenza parziali ed inefficaci a cogliere l’ampiezza delle problematiche legate alla
multidimensionalità e multifattorialità dei processi inerenti alla percezione di insicurezza dei
cittadini. Attualmente si assiste, purtroppo, ad un spostamento semantico della stessa parola
“sicurezza”, che anche nell’accezione “urbana” e “urbana partecipata” sembra da più parti
voler inglobare e concentrarsi, oltre che sulla criminalità, prevalentemente sugli aspetti più
problematici legati alla emarginazione sociale, agli atteggiamenti antisociali e alla devianza
giovanile (nomadi, barboni, bande giovanili ecc.).
Tali fenomeni, come accadeva già nel passato, vengono analizzati e trattati attraverso
interventi che non considerano ed evidenziano il rapporto e la relazione biunivoca tra questi e
i contesti territoriali di appartenenza: vengono considerati come un “corpo malato ed
estraneo” alle comunità e come tali sono da “estirpare” dalla società stessa. Quanta violenza
(culturale, psicologica, fisica o strutturale) abbia generato tali “mali” e quanta passività si
nasconda e permanga nella paura dei cittadini, non appartiene alle analisi e alle strategie di
tali interventi spesso sanzionatori e repressivi.
A tal proposito la Forni (2002) sottolinea che “ad essere colpiti sono innanzitutto coloro i
quali è stata negata la condizione stessa di bambini, perché per essere bambini bisogna da un
lato non avere visto troppa disuguaglianza, ingiustizia e violenza, ma dall’altro occorre essere
nella condizione di ricevere molti stimoli positivi dall’ambiente fisico e sociale esterno.
Quando si diventa precocemente adulti si sa troppo poco ma anche troppo, e si è costretti a
vivere in un ambiente urbano nel quale il “capitale sociale” (Cfr.Coleman, 1990; Putnam
20004) è particolarmente scarso, perché aver visto troppo o troppo poco genera diffidenza,
sfiducia, paura dell’altro, deficit relazionali, comunicativi e di capacità sociali. Il processo di
criminalizzazione della povertà e dell’emarginazione non può che produrre un numero sempre
crescente di devianti”.
In tale contesto e all’interno di nuova stagione di politiche sulla sicurezza, di cui rappresenta
una delle prime esperienze che il Comune di Roma ha avviato nel 1999, il progetto
“Mediazione Sociale” ha tra l’altro affrontato sin dall’inizio con tutti i suoi interlocutori una
riflessione, sovente problematica e controversa, proprio sul carattere eterogeneo e
multidimensionale degli aspetti legati alla definizione concettuale di “sicurezza urbana”.
Abbiamo già accennato come la costruzione di quest’ultima coinvolga tutta la complessità
dell’abitare lo spazio urbano: entrano dunque a buon diritto nella sfera della tutela e della
promozione del benessere dei cittadini anche la difesa e la cura dell’ambiente; il
miglioramento dei servizi e (perché no?) la sicurezza sulle strade, laddove troppo spesso, per
esempio, si tende ad attribuire alla casualità, quando non anche alla fatalità, il verificarsi di
incidenti, purtroppo quantitativamente considerevoli e rilevanti (per non parlare delle
omissioni di soccorso).
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quando si parla di violazione dei beni collettivi, della criminalità economica, o delle
aggressioni all’ambiente. In tutti questi casi forse manca la percezione di un “bene collettivo”
che deve essere fatto oggetto di tutela e forse manca anche una “vittima” specifica e ben
definita in cui la cosiddetta “opinione pubblica” si possa identificare, percependo così l’atto
delittuoso come una violazione dell’altrui e anche della propria sicurezza.
E’ necessaria una forte azione culturale per colmare il “vuoto” di questo rapporto tra
vantaggio individuale e identificazione del bene pubblico. In questa ottica la promozione della
sicurezza urbana, può divenire un compito prioritario delle amministrazioni locali, ma anche
delle associazioni, dei servizi, dei comitati di cittadini, con la consapevolezza che ogni azione
di governo si traduce in un effetto di ecologia sociale, in una ricaduta nella realizzazione di
condizioni oggettive di vivibilità e nelle rappresentazioni collettive di sicurezza. (Comitato
scientifico di “Città Sicure”, 1995).
Nell’accezione di sicurezza urbana si inserisce d’altra parte anche l’aspetto relativo ai diritti
di cittadinanza e della tutela delle categorie sociali più vulnerabili. E’ necessario che tra i
principi che guideranno le nuove strategie di sicurezza urbana trovino luogo anche una seria
considerazione per le paure della gente, l’attenzione alle categorie più esposte al rischio della
criminalizzazione e della vittimizzazione, l’importanza della dimensione locale e la
convinzione che anche le comunità possano trovare al proprio interno le risposte ai conflitti,
alle violenze e al disordine sociale.
Sia le concrete pratiche dei soggetti a vario titolo impegnati sul territorio (assistenti sociali,
vigili urbani, urbanisti, ecc.) sia le fasi di progettazione delle politiche degli Enti Locali
necessitano, come sottolineano Milanesi e Naldi (2001), di metodologie e saperi di tipo
“context – sensitive”, che permettano un trattamento dei fenomeni di insicurezza rispettoso
delle specificità (dei problemi, ma anche e soprattutto delle risorse relazionali e culturali)
delle singole realtà locali. Non si tratta, infatti, semplicemente di implementare diversificate
azioni di sicurezza urbana, ma di comprendere e valutare gli effetti che queste determinano e
soprattutto se esse sono in grado di aprire un dialogo sul ruolo dell’”ascolto attivo” e della
“gestione creativa dei conflitti”.
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interventi a tutti i livelli: sociale, culturale, istituzionale, educativo, scolastico. Secondo tale
prospettiva, che sottolinea e valorizza la complessità del tema, la gestione della sicurezza
urbana diviene parte di un più generale processo di riqualificazione della città e paradigma
della convivenza civile, soprattutto attraverso l’apporto della partecipazione diretta dei
cittadini. Il co – protagonismo degli abitanti di un territorio, a cui si riconoscono competenze
legate alla quotidianità di vita nei quartieri, quando non anche tecniche, è considerato
fondamentale: ristrutturazioni di edifici, interventi su spazi comuni, su piazze, parchi, e
strade, costruzione di aree attrezzate, di centri sportivi o parchi gioco, coinvolgono gli abitanti
in prima persona ed acquistano valore reale se sono progettati e realizzati “con” loro e non
soltanto “per” loro.
La mediazione sociale fornisce infatti un contesto sicuro e protetto, in cui poter apprendere a
gestire il conflitto come risorsa efficace e funzionale di cambiamento per tutte le parti
coinvolte. Tale funzione della mediazione sociale è ben riconosciuta nelle Raccomandazioni
degli esperti europei in materia, in cui si afferma che “l’ambiente urbano, quale luogo di
naturale coabitazione delle diversità, è uno dei crocevia privilegiati della mediazione
sociale”, e che, tra gli obiettivi principali della mediazione sociale si annovera “il contribuire
alla prevenzione della violenza”5.
L’esperienza romana di Mediazione Sociale è nata nel luglio del 1999, promossa dall’Ufficio
Roma Sicura del Comune di Roma. L’attuazione del progetto fu affidata ad un’Associazione
Temporanea di Impresa composta da tre Cooperative Sociali Parsec, Magliana ’80, Eureka 1°.
Il progetto fu inizialmente finanziato dall’Assessorato alle Politiche Sociali, ed i territori in
cui venne dapprima implementato furono Largo Sperlonga (XX Municipio), Ponte di Nona
(VIII), Quartaccio (XIX). Circa un anno più tardi, nel marzo del 2001, fu promosso un
secondo progetto di Mediazione Sociale, nei territori di Pietralata (V), Bastogi (XVIII) e Tor
Fiscale (IX), gestito dalle medesime strutture con capofila Eureka I. Nel maggio del 2001, il
progetto passò sotto il nuovo Assessorato alla Sicurezza, sotto la direzione del Dipartimento
XVIII – Sicurezza, ed ebbe come interlocutore anche l’allora nascente Commissione
Consiliare sulla Sicurezza.
Pur nel rispetto della storia individuale di ciascun quartiere, i mediatori hanno riscontrato in
essi alcuni elementi comuni, tra cui la presenza di conflitti legati all’assegnazione o
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all’occupazione delle abitazioni, al difficile rapporto tra cittadini appartenenti a diverse
culture, al degrado di spazi comuni quali piazze e giardini pubblici, a episodi di
prevaricazione e bullismo nelle scuole e nelle altre agenzie educative, allo spaccio e al
consumo di sostanze stupefacenti, a forme diffuse di illegalità. In questi quartieri è stata
generalmente riscontrata una scarsa coesione sociale, e una comunicazione spesso assente tra
gli attori sociali e istituzionali presenti sul territorio. Gli abitanti appartengono per lo più a ceti
medio bassi e spesso disagiati, la cui condizione è spesso aggravata dal problema della
disoccupazione.
Le istituzioni sono generalmente percepite come assenti, e come soggetti di cui diffidare.
D’altra parte le stesse istituzioni presentano a volte anche delle lacune di conoscenza
approfondita dei dati socio anagrafici e delle informazioni relative ai problemi e ai bisogni
degli abitanti delle zone di competenza del progetto. Sono quartieri che hanno un proprio
linguaggio, una propria storia (a volte relativamente recente), consolidata, radicata e
trasmessa nel vissuto degli abitanti, e modalità proprie di risoluzione dei conflitti, spesso
latenti e non immediatamente percepibili. Sono territori che si autopercepiscono e sono
fortemente connotati dallo stereotipo del degrado e del disagio sociale; spazi temuti, evitati,
percepiti dalle popolazioni limitrofe, ma in alcuni casi anche nell’immaginario collettivo
romano, come pericolosi, non – sicuri, ricettacoli e focolai esclusivamente di devianza,
criminalità, degrado e marginalità sociale.
Secondo questa ottica gli operatori del progetto hanno iniziato a lavorare in questi quartieri
ponendosi alcuni obiettivi: innanzitutto conoscere i territori e le comunità che li abitano,
quindi la storia, anche dei conflitti e delle risorse presenti; la sensibilizzazione della
popolazione alla mediazione nella gestione dei conflitti; la rimessa in comunicazione dei
cittadini, delle associazioni, delle parrocchie, delle scuole, e delle istituzioni presenti sono
stati obiettivi perseguibili solo dopo la prima fase preliminare conoscitiva e in realtà effettuata
costantemente durante tutte le fasi progettuali. Internamente al progetto si è discusso a lungo
sulla metodologia più idonea per realizzare tali obiettivi, e certamente la particolare natura
sociale dei territori ha condizionato le scelte operative.
Il maggior risultato conseguito nei primi due anni di lavoro è stata la legittimazione da parte
della popolazione della presenza degli operatori nel territorio. Ci si è accorti della possibilità
di cominciare a lavorare veramente sui conflitti con il quartiere, quando si è raggiunta non
tanto la condizione di “neutralità”, quanto di “internità imparziale” allo stesso e alle sue
dinamiche; una condizione in cui l’operatore della mediazione era connotato dall’aver
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raggiunto lo status di “meticcio”, una persona divenuta parte della comunità pur essendone in
parte estranea; una persona con una sua storia particolare, i suoi obiettivi e le sue finalità,
riconosciuta dalla comunità nel suo ruolo di mediatore inviato comunque da una istituzione.
L’apertura dello spazio di mediazione, meglio delineata nel paragrafo dedicato agli “Sportelli
Arcobaleno” integrati con la comunità e spesso aperti in collaborazione con le associazioni
del quartiere è scaturita sia da questo processo di accreditamento e di fiducia reciproca, sia
dalla lettura complessiva della storia e delle dinamiche sociali tipiche di ciascun quartiere. Da
tali premesse è scaturita la prassi operativa sperimentata durante i quattro anni dell’esperienza
romana, e costantemente rivista alla luce del mutare delle condizioni dei quartieri e del ruolo
dei mediatori del progetto al loro interno.
Tutte le attività del progetto hanno privilegiato lo studio e l’analisi della dimensione dei
conflitti. Essi sono stati percepiti come eventi sociali, generati da una pluralità di concause, di
seguito classificate secondo le categorie della sfera del conflitto individuate da Christopher
Moore (1986)6
• Conflitti relazionali:
o Emozioni intense delle parti coinvolte
o Percezioni diffuse e condivise e stereotipi
o Bassi livelli di comunicazione o errori nella comunicazione
o Comportamenti negativi ripetitivi
• Conflitti di interessi:
o Una competizione percepita o reale
o Differenti interessi sostantivi
o Differenti interessi di procedura
o Differenti interessi psicologici
• Conflitti strutturali:
o Modelli di comportamento o di interazione di tipo distruttivo
o Disuguaglianze nel controllo, nella proprietà o nella distribuzione delle
risorse
o Disuguaglianza di potere o autorità
o Fattori geografici, fisici o ambientali che impediscono la cooperazione
o Limiti di tempo
Nei territori coinvolti dal progetto, i mediatori hanno rilevato conflitti o situazioni conflittuali
o di disagio tutte riconducibili a tali categorie: per quanto riguarda la convivenza tra comunità
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multiculturali, e tra differenti generazioni, i conflitti sono generalmente relazionali, valoriali e
d interessi; i conflitti presenti nelle agenzie scolastiche e educative sono per lo più relazionali,
ma anche di dati, informazioni ed ancora di interessi. Il conflitto è stato interpretato nella
prassi operativa come elemento sociale, la cui esistenza è strutturale all’agire umano, la cui
permanenza non è desiderabile, il cui ristagno ed involuzione sono controproducenti; altresì il
suo sviluppo e la sua evoluzione possono favorire cambiamenti significativi e funzionali
rispetto alle relazioni e alle dinamiche interpersonali e comunitarie.
North Whitehead7 aveva già sottolineato come lo scontro di idee non sia necessariamente
distruttivo, ma un’occasione di sviluppi positivi. D’accordo con quanto affermato anche da
Weber, l’approccio teorico e metodologico promosso dalle équipe di Mediazione Sociale
percepisce il conflitto come una forma insita nelle relazione sociale: “la pace non è
nient’altro che un mutamento del tipo di conflitto quanto agli antagonisti o quanto agli
oggetti, o quanto ai metodi di soluzione” (1958).
Nel 1976 G. Simmel scriveva che “il conflitto è una forma di socializzazione. I fattori
negativi, come quelli positivi, contribuiscono a strutturare le relazioni di gruppo, ed il
conflitto adempie a funzioni sociali come la cooperazione. Lungi dall’essere antifunzionale,
un certo grado di conflitto è un elemento essenziale nella formazione del gruppo e nella
persistenza della vita del gruppo. I gruppi hanno bisogno di armonia come di disarmonia, di
dissociazione come di associazione e i conflitti nel loro ambito non sono fonti di
disgregazione”8.
Generalmente l’idea di conflitto evoca invece violenza, vincitori, vinti, danni inflitti e sofferti,
e vittime: tuttavia la violenza è soltanto uno dei possibili modi in cui è possibile gestire una
disputa. Ciò che noi indichiamo comunemente come conflitto è quindi in realtà il litigio, lo
scontro, cioè una delle modalità possibili di agirlo. Il conflitto è solitamente indice che lo
status quo finora accettato è divenuto insoddisfacente per almeno una delle parti coinvolte: è
dunque la modalità scelta per gestire tale insorgenza che determina la positività o meno degli
sviluppi. Le équipe dei mediatori sociali hanno promosso nelle comunità, all’interno delle
relazioni delle reti formali e informali, una modalità collaborativa, partecipativa ed
esperienziale nella gestione delle controversie, che stimolasse le parti coinvolte a individuare
soluzioni innovative e soddisfacenti per tutti, e promuovesse evoluzioni funzionali nella storia
sociale della comunità.
Nel 1971 Ralph Dahrendorf scriveva: “Non esiteremmo a esprimere una forte preferenza per
una concezione della società che riconosce che il conflitto è una caratteristica essenziale
della struttura e dei processi della società. Il conflitto presenta due facce, e cioè quella di
contribuire all’integrazione dei sistemi sociali e quella di provocare dei mutamenti. Il
conflitto può considerarsi al pari dell’attribuzione dei ruoli, della socializzazione e della
mobilità, come uno dei processi “tollerabili” che rafforzano la stabilità dei sistemi sociali
anziché metterla in pericolo. Le società sono essenzialmente delle creazioni storiche e
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proprio in quanto tali esse necessitano della forza propulsiva del conflitto, o viceversa
proprio perché vi è conflitto vi è anche mutamento ed evoluzione storica”9 .
Lo sforzo degli operatori non è stato quello di promuovere interventi “risolutori” (fatti da
esperti esterni al quartiere e che si assumono la delega di risolvere le controversie in vece dei
cittadini), ma di accompagnare processi di rimessa in comunicazione, di ricerca partecipata di
soluzioni all’interno della comunità. Spesso le figure del “polo conflittuale”e dell’attore di
conflitto in tali contesti non sono così chiare e delineate, ma l’immobilismo dettato da una
conflittualità diffusa, da una atteggiamento di ostilità di tutti verso tutti, provoca una forte
situazione di stallo, di comunicazione sociale bloccata, di sofferenza diffusa, di cecità ed
inconsapevolezza di soluzioni in realtà spesso vicine e praticabili.
Con il tempo, i mediatori si sono visti riconoscere un ruolo dalla comunità, si sono configurati
come figure “meticce”, allo stesso tempo esterne e interne alla comunità locale, tanto da
comprenderne la storia ed i conflitti, facilitando e stimolando anche l’individuazione di
risorse ancora inesplorate. Ricorda a tal proposito Franco La Cecla (1992): “Quello che
distingue il processo di apprendimento individuale rispetto ad un luogo, dalla mente locale di
un luogo, è la frequentazione collettiva ed assidua nel tempo; la conoscenza è legata ad un
qui”. Le équipe di mediazione sociale hanno condiviso con gli abitanti proprio questa
“frequentazione collettiva ed assidua nel tempo” del territorio.
4) Le attività progettuali
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2. La sensibilizzazione alla mediazione
3. I tavoli sociali e la progettazione partecipata
4. L’apertura di spazi integrati di mediazione (Sportelli Arcobaleno)
Tra le attività più significative nel presente contributo si farà cenno anche alle azioni
progettuali realizzate sia in ambito scolastico, che in contesti multiculurali.
Gli operatori del progetto hanno inizialmente effettuato in ogni territorio operazioni di
scouting al fine di rilevarne le esigenze, i conflitti presenti, la percezione che i cittadini hanno
della qualità della vita sociale e della sicurezza nel loro quartiere, e la loro disponibilità a
collaborare per soddisfare le esigenze comuni. Uno dei cardini delle azioni di mediazione
sociale è stata infatti la promozione della partecipazione dei cittadini alla co- progettazione
dello spazio urbano abitato.
Attraverso tali attività di ricerca (costantemente aggiornate in ogni fase progettuale) gli
operatori del progetto di Mediazione Sociale sono generalmente riusciti a ricostruire la storia
del quartiere esplorato, a condividerla con gli abitanti, e a comprendere quanto le varie fasi
abbiano contribuito alla attuale dimensione sociale del territorio. I risultati di tali azioni di
ricerca sono stati elaborati in modalità tese a garantire la più ampia partecipazione dei
cittadini; attraverso incontri individuali e di gruppo.
La restituzione dei dati e delle analisi del territorio in termini di conflitti agiti e latenti ha
successivamente offerto elementi di discussione all’interno dei tavoli sociali e nei gruppi
tematici attivati con i cittadini.
Come sottolineano Pellicciari e Tinti (1984) “l’intervista è uno degli strumenti fondamentali
della ricerca di carattere sociologico. L’importanza che assume tra le varie tecniche
d’indagine deriva soprattutto dal fatto che essa si serve di quell’elemento specificamente
umano che è il linguaggio”.
Tale strumento si è rivelato poi particolarmente efficace nel rilevare la percezione degli
abitanti riguardo lo spazio urbano abitato e i comportamenti agiti. Gli abitanti hanno avuto
infatti la possibilità di esprimere esigenze, aspirazioni, difficoltà e desideri legati al vivere
quotidianamente nel proprio contesto urbano: in base a tali riscontri, il progetto di mediazione
sociale ha iniziato a costruire e ricercare, insieme ad associazioni, istituzioni e cittadini, forme
efficaci di socializzazione e gestione delle esigenze collettive.
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hanno nel quartiere un ruolo di mediazione (naturale); sono state quindi valorizzate le
“funzioni mediative” di tali soggetti, e le relative risorse.
I mediatori sociali hanno consapevolmente scelto di non svolgere una funzione di erogazione
di servizi, ma di facilitare e costruire insieme ai cittadini e alle istituzioni percorsi di
mediazione e promozione della convivenza sociale, che scaturissero dalle caratteristiche
specifiche di ciascuna realtà urbana. In tale ottica il mediatore si è definito nel tempo sempre
più come un operatore “di processo” che “di intervento”.
Il progetto di mediazione sociale ha teso a promuovere l’utilizzo di tale approccio nei diversi
ambiti della vita sociale delle comunità, condividendone la teoria e la prassi con i cittadini
stessi. Partendo dal vissuto conflittuale degli abitanti il progetto ha attivato processi tesi allo
sviluppo delle capacità mediative presenti in ogni comunità e, al fine di renderle
maggiormente esplicite, ha costruito con gli abitanti momenti specifici in cui gestire insieme i
conflitti relativi ai problemi che di volta emergevano.
Tutti gli incontri di sensibilizzazione alla mediazione sociale sono stati coordinati e gestiti da
docenti e ricercatori della Cattedra di Psicologia Giuridica della Facoltà di Psicologia
dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”; gli argomenti affrontati sono stati
incentrati sulla metodologia della mediazione sociale e sulla possibilità di un suo utilizzo
anche come integrazione dell’attività degli operatori dei servizi pubblici e degli enti locali in
un’ottica condivisa di partecipazione e dialogo interistituzionale. Come ricordano infatti le
raccomandazioni degli esperti europei, “il superamento delle tensioni e l’aiuto nella
risoluzione dei conflitti coinvolge tutta la società, in particolare le autorità locali e
regionali”.
Durante questi incontri e successivamente ad essi, un ampio spazio è stato dedicato alla
partecipazione attiva dei cittadini, che hanno avuto la possibilità di confrontarsi sulla storia,
sulle esigenze e sulle possibili azioni condivise in un’ottica di riqualificazione urbana
partecipata. A tal proposito, durante gli incontri conclusivi si sono esplorate con i cittadini
diverse possibilità di intervento in relazione ai bisogni evidenziati dai territori. Da tali
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occasioni di confronto sono spesso scaturite narrazioni collettive dei luoghi, rivisitazioni delle
tradizioni e dei miti dei territori, che hanno stimolato gli abitanti ad uscire da una dimensione
spesso individualistica e autocentrata del vivere nel proprio quartiere.
Gli incontri periodici di tali tavoli sono stati coordinati da almeno due mediatori, con l’intento
di promuovere la collaborazione e la cooperazione tra le parti. Tali incontri hanno visto tanto
la partecipazione di cittadini privati quanto di rappresentanti tecnici o politici degli enti locali,
al fine di costruire, congiuntamente percorsi di riqualificazione contestuali alle esigenze dei
territori e dei cittadini che li abitano. I mediatori in tali occasioni hanno mantenuto la propria
imparzialità, svolgendo un ruolo di co- gestione dei lavori, secondo quanto suggeriscono
anche gli esperti europei al riguardo.
Nelle più volte citate raccomandazioni ci si augura infatti che la mediazione sociale possa
favorire una maggiore vicinanza tra le istituzioni e il pubblico, ed un progressivo adattamento
degli enti pubblici ai nuovi bisogni dei cittadini. Il tentativo è stato dunque quello di
contribuire ad una dimensione di co – protagonismo dei cittadini nel contesto territoriale,
favorendo un passaggio degli abitanti da utenti o destinatari di interventi a soggetti attivi e
promotori di operazioni progettuali e iniziative concrete.
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ricostruire significato e dignità nei luoghi abitati, ritrovando e rigenerando relazioni
significative con essi.
Sono state organizzate insieme ai cittadini iniziative pubbliche tese al coinvolgimento di fasce
differenziate di popolazione (adulti, giovani, anziani, bambini), unendo il bisogno di socialità
al recupero urbano delle aree degradate e stimolando un’attenzione condivisa allo spazio
urbano, che prevenga possibilmente episodi di vandalismo e di incuria per i luoghi e per i beni
pubblici. Attraverso la riqualificazione e la manutenzione di una piazza, o di altri spazi
comuni, le équipe territoriali hanno condiviso con i cittadini il valore del rispetto e del
“prendersi cura” dei luoghi di aggregazione e del vissuto quotidiano.
Tali spazi nella maggior parte dei territori in cui sono stati attivati hanno rappresentato la
naturale evoluzione del percorso che il progetto di mediazione sociale ha effettuato negli anni
insieme alle comunità locali, alle associazioni e alle istituzioni.. Sono aree in cui matura una
pluralità eterogenea di esperienze, scaturite dalla stretta cooperazione tra il progetto di
mediazione sociale, le associazioni, le istituzioni e la cittadinanza attiva dei quartieri.
Inoltre all’interno degli “Sportelli Arcobaleno” è presente uno spazio apposito per la
mediazione dei conflitti interindividuale, in cui un operatore specificamente preparato
accoglie ed ascolta i cittadini, e li aiuta a gestire in modo cooperativo le controversie di
quartiere o di vicinato, utilizzando alcune tecniche e strategie derivate dalle discipline
psicologiche e sociologiche (la riformulazione, la ristrutturazione, lo scambio dei ruoli,
l’intervista libera, strutturata o semi – strutturata, il problem – solving, l’analisi contestuale).
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Tali incontri di mediazione prevedono la possibilità tanto che il mediatore possa effettuare
incontri individuali con le parti, quanto incontri congiunti. Il servizio di mediazione sociale
garantisce la confidenzialità circa i dati emersi durante gli incontri e l’esito del percorso
stesso. Gli incontri di mediazione sociale hanno generalmente la durata di 1 h. – 1.30, ed
hanno una cadenza per lo più settimanale, che tuttavia può variare, così come il numero
complessivo degli incontri, a seconda dei singoli casi.
La cadenza preferibilmente settimanale lascia tempo alle parti di sperimentare gli accordi
presi e di verificare se realmente soddisfino le reciproche esigenze. Il setting per gli incontri
di mediazione prevede una sedia o una poltroncina per ciascun partecipante, ed un tavolo
rotondo, che veicola il messaggio di uguale valore di tutti coloro che collaborano nella
gestione del conflitto esaminato, ivi compreso il mediatore.
Essa inoltre permette di visualizzare agevolmente tutte le fasi del percorso di mediazione
sociale, dai dati emersi dalle interviste, alla definizione congiunta del problema, dalla
creazione di una storia comune, condivisa e riconosciuta da tutti gli attori del conflitto, al
brain storming per individuare tutte le possibili soluzioni, dalla valutazione delle opzioni alla
scelta della soluzione più soddisfacente per tutte le parti coinvolte. Inoltre la permanenza dei
fogli utilizzati consente alle parti l’immediata visualizzazione del percorso compiuto,
rafforzandone la fiducia nel processo e nella possibilità di lavorare reciprocamente. La
lavagna elettronica consente inoltre la stampa immediata del lavoro svolto durante gli incontri
di mediazione: tale materiale, protetto ovviamente dalla più stretta confidenzialità, può essere
consegnato alle parti come restituzione simbolica ad un tempo e concreta del frutto dei
reciproci sforzi.
Il ricorso alla mediazione nella gestione dei conflitti è ovviamente volontario e scelto dalle
parti, che possono decidere liberamente di interromperlo in qualsiasi momento. Tuttavia si è
sperimentato che un percorso di mediazione concluso con successo lascia ai partecipanti non
soltanto accordi pratici ed immediati raggiunti insieme, ma la consapevolezza che
l’esperienza sia riproponibile anche autonomamente in altre situazioni, e le competenze
necessarie per risolvere cooperativamente le controversie. In tal senso la mediazione diviene
prassi sociale responsabilizzante e strumento attraverso il quale promuovere cambiamenti
nelle relazioni all’interno della comunità. Si evita infatti la delega ad altri della cura dei
conflitti caratteristici della quotidianità, e si opera perché la loro gestione risulti infine
soddisfacente per entrambe le parti.
Coerentemente con il mandato progettuale e con la natura stessa del processo, gli operatori
che si occupano di mediazione dei conflitti non intervengono in controversie che implichino il
ricorso al codice penale o più generalmente a violazioni della legge. La mediazione non si
propone certo di sostituire altre modalità, in alcuni casi giustamente preventive e repressive di
forme di criminalità, ma semplicemente di integrarle, in un’ottica più ampia di partecipazione
e co – protagonismo dei cittadini alla costruzione della sicurezza urbana dei quartieri abitati, e
della relativa percezione.
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E’ noto che un processo di mediazione è generalmente impraticabile se è eccessivo il divario
di potere tra le parti in conflitto. In tal caso verrebbero meno le condizioni necessarie perché
tutti abbiano pari capacità negoziale: a tal proposito, in un’ottica di “empowerment” delle
parti socialmente più deboli, presso alcuni degli “Sportelli Arcobaleno”, è possibile usufruire
di un servizio di consulenza legale, gestito da un professionista del diritto, che eroga
informazioni in base a specifiche esigenze dell’utenza.
Gli “Sportelli Arcobaleno” sono per loro natura aperti a collaborazioni da parte degli
operatori dei servizi pubblici, di associazioni locali e della cittadinanza attiva: è emblematica
a tal proposito l’esperienza maturata a Largo Sperlonga, dove si è costruita nel tempo una
efficace cooperazione sia con i Servizi Sociali di zona sia con un’associazione riconosciuta a
livello mondiale, Medici Senza Frontiere, che ha offerto occasioni di informazione e
orientamento in ambito sanitario e contribuito a promuovere corsi di italiano per stranieri, una
risorsa importante in un contesto prettamente multiculturale.
E’ probabile che la stessa particolarità dei territori di competenza del progetto, caratterizzati
in alcuni casi da una totale assenza di servizi e istituzioni, abbia favorito la costruzione di
spazi polivalenti dove trovassero luogo anche alcuni servizi informativi e di orientamento. La
localizzazione di tali servizi integrando le attività e le azioni dei progetti e delle realtà
associative presenti nei territori ha consentito di avvicinare maggiormente i cittadini sia alle
offerte municipali sia ad un potenziamento delle risorse locali. In tale contesto la mediazione
oltre a gestire un proprio ambito specifico ha favorito la comunicazione, lo scambio e
l’interconnessione tra la pluralità eterogenea dei soggetti presenti nei territori.
e) La mediazione scolastica
Secondo quanto espresso dalle più volte citate Raccomandazioni degli esperti europei sulla
mediazione sociale, “l’educazione alla gestione dei conflitti, nelle scuole come nelle città, è
un mezzo privilegiato per promuovere il senso di cittadinanza e per mantenere la pace e deve
essere incoraggiata nell’ambito dell’Unione Europea”.
Gli operatori coinvolti nei percorsi di mediazione scolastica hanno inoltre condiviso con i
ragazzi gli strumenti ed i mezzi (macchine fotografiche, strumenti musicali, telecamere,
tecnologie multimediali) per rappresentare la realtà urbana, stimolandoli ad esprimere
liberamente la propria visione e la propria percezione su quanto li circonda. Generalmente i
ragazzi che abitano le aree più disagiate di Roma tendono a non menzionare la loro zona
provenienza, indicando genericamente il settore della città o le vie che lo attraversano,
piuttosto che il nome del quartiere. Anziché dire “vengo da Pietralata” o “da Ponte di Nona”,
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preferiscono dire “sto sulla Tiburtina” o “sulla Prenestina”, citando le strade più importanti
che percorrono il loro quartiere.
Ulteriori momenti dei percorsi di mediazione scolastica integrata sono stati i laboratori di
gestione del conflitto in classe riservati agli insegnanti. Coordinati da professionisti
specificamente preparati, psicologi e psicoterapeuti specialisti in mediazione scolastica, tali
laboratori teorico – esperienziali hanno stimolato gli insegnanti ad osservare le dinamiche
interne alla classe secondo una prospettiva sistemico relazionale; secondo tale approccio, il
ragazzo che agisce comportamenti in vario modo “disturbanti” è visto come colui che
manifesta e si fa sintomo di un disagio che attraversa tutta la classe.
Attraverso laboratori ludico – espressivi di arte –terapia centinaia di bambini delle scuole
materne ed elementari sono stati coinvolti nella costruzione di villaggi ideali, al fine sia di
leggere le dinamiche conflittuali vissute all’interno o all’esterno delle loro abitazioni, sia di
lasciarli esprimere la propria percezione dello spazio in cui si muovono quotidianamente.
Lavorando insieme ad insegnanti e studenti, inoltre, gli operatori del progetto di mediazione
sociale hanno stimolato e accompagnato la realizzazione da parte delle scuole di eventi
culturali, particolarmente significativi in quartieri considerati degradati anche da questo punto
di vista.
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L’opportunità di lavorare in contesti caratterizzati dalla presenza di comunità culturalmente
eterogenee, come in particolar modo a Largo Sperlonga, ha stimolato un dibattito interno agli
operatori coinvolti nel progetto di mediazione sociale, sul significato della propria presenza e
sulle finalità del proprio lavoro. Ci si è interrogati sul valore effettivo dei concetti di
“integrazione”, di “tolleranza”, di “inclusione” ed “esclusione”, e di parità di diritti di
cittadinanza.
Tali azioni rientrano d’altronde pienamente nelle finalità della mediazione sociale, secondo
quanto espresso dalle già citate “Raccomandazioni degli esperti”: “la mediazione sociale deve
aiutare le persone a vivere assieme in maggior armonia facilitando la comunicazione tra tutti
i membri della società” e “la mediazione sociale deve alimentare i legami, la comprensione
tra gli individui ed i gruppi sociali e deve facilitare l’integrazione sociale ed il
riconoscimento delle culture. I processi di mediazione sociale, nel corso della loro
applicazione dovranno assicurare soprattutto il rispetto del principio di uguaglianza in modo
da evitare l’isolamento e l’esclusione”.
La collaborazione di tutti gli abitanti alla gestione di obiettivi comuni e condivisi testimonia
concretamente la possibilità di cooperare per la loro realizzazione, al di là di qualunque forma
di pregiudizio, fantasma o raffigurazione sociale. Attraverso la discussione sulla gestione e
l’utilizzo dei medesimi spazi, si possono favorire relazioni che non minaccino le rispettive
identità culturali, ma al contrario riconoscano concretamente a tutti pari diritti e la possibilità
di cooperare, valorizzando le differenze come risorse. Così è accaduto per la progettazione
della piazza di Largo Sperlonga, che ha visto anche la partecipazione attiva degli abitanti del
quartiere; attraverso la presentazione di varie ipotesi progettuali e nuove idee, contestuali ai
bisogni quotidiani e del vivere comune.
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mediante percorsi di scambio e contaminazione, in cui il territorio, con le sue problematiche e
le sue risorse è diventato il principale degli alleati: si è voluto così evitare che un lavoro
condotto esclusivamente sul senso di appartenenza a vincoli comunitari pregiudicasse la
comunicazione tra le persone appartenenti a diverse culture, favorendo l’insorgere di
dinamiche di chiusura ed esclusione una percezione del territorio più vicina al luogo di
possesso che a quella di condivisione. I mediatori hanno lavorato al confine delle comunità, in
quelle linee interstiziali che le percorrono, cercando di stimolarne il senso di permeabilità,
cercando di sottolineare le differenze e di valorizzarne il ruolo in un contesto comune.
Conclusioni
Secondo l’esperienza delineata, la mediazione sociale può assumere una doppia funzione:
quella di “fare società” 12 e quella di promuovere una gestione creativa e non violenta dei
conflitti. Il progetto di Mediazione Sociale a Roma tende a muoversi lungo entrambi gli assi,
soprattutto perché segue le comunità locali in un’ottica di sicurezza urbana partecipata. La
mediazione è stata interpretata sia come una pratica per la gestione dei conflitti, sia come
approccio per ri – creare e mantenere un tessuto sociale funzionale alle esigenze degli abitanti
di un quartiere, soprattutto attraverso la riscoperta e la valorizzazione del legame con
l’ambiente urbano di appartenenza.
La mediazione è divenuta quindi, nella prassi operativa, una metodologia attraverso la quale
favorire la comunicazione, la condivisione di regole, la costruzione di patti di cittadinanza
efficaci tra i cittadini, anche a livello intergenerazionale, e tra questi e le istituzioni. Le équipe
territoriali hanno svolto un intenso lavoro con gli abitanti dei quartieri di competenza,
finalizzato soprattutto alla rimessa in comunicazione di tutti gli attori locali, relativamente alla
conoscenza reciproca, alla condivisione di esigenze ed obiettivi, e alla gestione di conflitti ed
aree critiche contestuali ai quartieri stessi.
A livello interindividuale, negli sportelli di mediazione attivati dal progetto, i cittadini sono
stati accolti in uno spazio in cui poter esprimere i conflitti vissuti e le emozioni ad essi
collegate. In tale spazio gli operatori hanno sollecitato le persone ad elaborare la propria
esperienza e a trovare insieme soluzioni creative e soddisfacenti per tutte le parti coinvolte
nella disputa, attraverso lo sviluppo e l’utilizzo delle capacità di ascolto attivo, comunicative e
relazionali. L’obiettivo ultimo è stata la diffusione e la condivisione della mediazione come
“buona prassi” per la gestione dei conflitti legati alla quotidianità, nella convinzione che sia
possibile apprendere approcci diversi dal tentativo di sopraffazione reciproca, talvolta
purtroppo anche violenta.
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sviluppare e di cui possano disporre fin da giovani. La mediazione offre infatti un processo in
cui tutte le parti “vincono”, e realizzano per quanto possibile i propri obiettivi, collaborando
reciprocamente. Attualmente sono attivi in diverse scuole di ogni ordine e grado dei sei
territori percorsi di mediazione scolastica integrata con il coinvolgimento di centinaia di
giovani e di insegnanti.
Gli effetti della partecipazione ormai triennale di molti giovani si riverberano anche nei
contesti territoriali, rilevabili attraverso la presenza dei ragazzi in diverse iniziative che il
progetto ha stimolato anche con gli adulti. Cambiano gli strumenti, gli approcci, le tematiche
trattate, ma rimane inalterato l’obiettivo centrale del progetto nel suo complesso: trasformare
l’idea che il conflitto sia necessariamente qualcosa di negativo da evitare e da reprimere o al
massimo da agire in modo esclusivamente violento. Attraverso una gestione mediativa il
conflitto può divenire altresì strumento di cambiamento di uno status quo ormai
insoddisfacente e non funzionale per l’evoluzione e la crescita dinamica della vita sociale.
L’attenzione in quest’ottica non è posta sul potenziamento di chi ricopre già, anche solo a
livello informale, un ruolo decisionale nel territorio, ma sul coinvolgimento e sullo stimolo
alla partecipazione dei cittadini, generalmente ritenuti soggetti passivi nel vivere i quartieri;
tali processi rafforzano l’assertività degli abitanti e la fiducia di poter contribuire realmente
alla espressione e alla definizione delle proprie idee e dei propri bisogni. Altri attori entrano
così nel gioco delle relazioni sociali, restituendo un valore aggiunto prima inespresso.
Centrale in tutta l’articolazione progettuale sin qui delineata è la (“rimessa in)
comunicazione” attivata in ogni fase del percorso al fine di rimettere dapprima in contatto tra
loro diversi attori del medesimo territorio e successivamente di strutturare reti formali e
informali di coordinamento a livello comunitario e istituzionale per una gestione integrata
degli aspetti relativi alla vita sociale. In tal modo la mediazione manifesta le proprie
potenzialità nel sostegno e nell’orientamento ad una progettazione in una ottica di sicurezza
urbana strutturata nel medio e lungo periodo e non soltanto a seguito di eventi emergenziali.
Nei territori dove il progetto è presente da circa quattro anni tali dimensioni hanno conosciuto
fasi e dinamiche evolutive legate alla storia stessa della comunità e al tempo necessario
perché la popolazione locale facesse proprio tale approccio mediativo.
Resistenze, rifiuti e difficoltà non sono mancate e possono manifestarsi anche quando i
cittadini, che hanno fatto proprio tale approccio, lo utilizzano, rispetto a consuetudini
conflittuali basate sulla sopraffazione. E’ necessario infatti un tempo maggiore affinché il
progetto possa rilevare effetti moltiplicatori che comunque, seppur limitatamente, divengono
progressivamente sempre più evidenti. Segnali al riguardo si rilevano in una maggiore cura
degli spazi pubblici o nella loro difesa da attacchi vandalici; nell’adozione di modalità di
convivenza pacifica rispetto a dinamiche precedenti improntate all’aggressività; nella
reazione non violenta ad atti provocatori e violenti, e in una nuova modalità di organizzazione
e gestione collettiva della risposta a simili episodi. Altre azioni significative si registrano nella
partecipazione attiva dei cittadini a progetti di riqualificazione di piazze o giardini pubblici.
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attraversa trasversalmente anche servizi municipali e competenze amministrative sino a
qualche anno fa impensabili nell’ottica di una gestione integrata della sicurezza urbana.
Ricordiamo che l’esperienza sin qui descritta, nasce come una sperimentazione, e nel periodo
considerato (1999-2003) ha dovuto continuamente confrontare le proprie azioni e conseguenti
analisi e valutazioni con modelli preesistenti, rappresentazioni e percezioni della realtà
sociale, che spesso hanno evidenziato ritardi e limiti nelle modalità di gestione dei conflitti e
nel rapporto tra i cittadini e di questi con le istituzioni. Le analisi effettuate in questi anni
hanno evidenziato la forte presenza di conflitti e di processi comunicativi spesso insufficienti
o interrotti: la semplice mancanza di illuminazione di un’area urbana, per esempio pur
arrecando senso di insicurezza, rischiava non solo di rimanere tale nel tempo ma anche di non
essere valutata come una delle componenti essenziali di un intervento che possa favorire una
maggiore sicurezza urbana.
Tale concezione trasversale ancora non trova pienamente la sua corrispondenza a livello
istituzionale, mentre nei sei territori entrano sempre più in tale concezione anche le feste di
quartiere, eventi sportivi, attività di recupero di luoghi e piazze, ecc.. Tali attività
generalmente documentate attraverso la realizzazione di video, mostre fotografiche e da una
cospicua produzione di giornalini di quartiere comprovano la tipologia delle iniziative
implementate, gli strumenti utilizzati e la costante ricerca di una comunicazione efficace.
Infatti, un dato che accomuna la quasi totalità delle esperienze del progetto a Roma è stato il
tentativo di dare una risposta metodologica alla carenza di comunicazione registrata tra la
popolazione e le istituzioni locali e centrali.
Dalle attività maturate emerge infatti come il senso di insicurezza della popolazione riguardo
il degrado e l’abbandono dei quartieri sia anche causato dalle difficoltà di accedere alla
informazioni riguardanti il funzionamento dei servizi e ai canali di comunicazione formale
con le istituzioni. La padronanza delle informazioni aiuta a rimuovere pregiudizi, la diffidenza
e l’ansia conseguenti al non sapere; conoscere significa attivare canali comunicativi, sentirsi
parte del corpo sociale, indurre atteggiamenti positivi nei confronti dei problemi sociali, del
senso di insicurezza e del senso di “poter fare”. Va ricordato altresì che i processi avviati sono
dinamici, motore di mediazioni e di nuove e ulteriori conflittualità. E’ importante per il
mediatore non dare al concetto di conflitto connotati negativi e percepire la dinamica del
conflitto come potenzialmente virtuosa. La comunità risulta essere così un campo a volte di
conflitto, a volte di dialogo in cui occorre non ignorare mai differenze e processi di
occultamento.
E’ la staticità, figlia di situazioni conflittuali bloccate, il vero ostacolo alla dinamica del
“campo di confronto”. La possibilità di uscire dalla staticità delle relazioni bloccate,
all’interno del campo di confronto, non è automatica, ma necessita di un intervento attivo che
sblocchi le relazioni; la mediazione dei conflitti richiede una paziente costruzione delle
condizioni necessarie perché il dialogo sociale possa essere attivato e gestito in maniera
creativa. Tale processo ha bisogno di un fondamento collettivo; del riconoscimento della sua
necessità e della convenienza da parte della comunità. Il processo di costruzione di una
comunità partecipante (che alimenta un senso di sicurezza della popolazione) richiede risorse
e capacità che non sono distribuite uniformemente tra tutta la popolazione; il riconoscimento
di questa differenziazione è necessario per arrivare davvero a coinvolgere le comunità nel
processo. Occorre infatti non fermarsi ai risultati acquisiti, ma continuare a svolgere il lavoro
di rimessa in comunicazione garantendo lo spazio di confronto, evitando la stabilizzazione di
punti di vista egemonici che soffochino la conversazione sociale. La partecipazione dei
cittadini diviene in questo modo un passaggio fondamentale ai processi di mediazione, ne è
contemporaneamente la condizione preliminare e il prodotto finale: non possesso,ma
condivisione di sicurezza urbana.
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in C. Morgandini (a cura), Il conflitto nella cultura moderna, Roma.
NOTE
1 Caratteri di invivibilità emergono anche nelle analisi di Booth, Malthus e di Engels sulle aree degradate di
Londra.(Cfr.Landuzzi , 1999)
2 Anche per J. Jacobs (1971) il villaggio urbano può riprendere nuova vitalità nella misura in cui gli viene
attribuita, da parte degli abitanti, capacità di protezione dai rischi e supporto alle immagini di insicurezza.
3 Censis 2003
4 Cit in Elisabetta Forni, La città di Barman. Bambini, conflitti, sicurezza urbana, Torino, Bollati Boringhieri,
2002
5 Tali raccomandazioni sono state redatte a conclusione del Seminario Europeo sulla Mediazione Sociale e sui
nuovi modi di risolvere i conflitti nella vita quotidiana, organizzato per iniziativa della Presidenza francese
dell’Unione Europea e tenutosi a Creteil il 22 settembre del 2000. Le citazioni sono state tratte da L. Luison (2000)
Tali Raccomandazioni saranno citate più volte nel corso del seguente contributo, evidenziando come siano state
recepite ed attuate dal progetto di Mediazione Sociale promosso dal Comune di Roma
7 Cit. in Silvia Laici, Situazione e sviluppo della mediazione in Italia, in L. Luison, (2000), p.38.
8 Simmel, G., (1976) Der streit in Soziologie, Lipsia 1908, Berlino 1958; trad. italiana in C. Morgandini (a cura),
Il conflitto nella cultura moderna, Roma, cit. in Luison (2000), p.27.
9 Dahrendorf, 1971).
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