Professional Documents
Culture Documents
Non meno di notte e note di letture:
da Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza di Julian Jaynes.
La coscienza è una parte della nostra vita mentale molto più piccola di quanto abbiamo coscienza,
perché non possiamo essere coscienti di ciò di cui non siamo coscienti. (…) È come chiedere a una
torcia elettrica in una stanza buia di cercarvi qualcosa che non sia illuminato. La torcia, vedendo
luce in qualsiasi direzione si rivolga, concluderebbe che c'è luce ovunque. Allo stesso modo si può
avere l'impressione che la coscienza pervada tutta l'attività mentale, mentre in realtà non è affatto
così.
È molto più probabile che l'apparente continuità della coscienza sia in realtà un'illusione,
esattamente come la maggior parte delle altre metafore sulla coscienza. Nella nostra analogia della
torcia elettrica, questa sarebbe cosciente di essere accesa solo quando è accesa.
Spesso la coscienza non solo non è necessaria, ma può essere del tutto indesiderabile.
Siamo stati indotti alla conclusione che la coscienza non è ciò che noi generalmente pensiamo che
sia. Essa non va confusa con la reattività. Non interviene in una vasta moltitudine di fenomeni
percettuali. Non ha alcuna parte nell'esercizio di abilità, di cui al contrario spesso ostacola
l'esecuzione. Non interviene necessariamente nel parlare, nello scrivere, nell'ascolto o nella lettura.
Non trascrive l'esperienza, come molti credono. La coscienza non ha nulla a che fare con
l'apprendimento di segnali, né c'è alcun bisogno del suo intervento per apprendere abilità o ricavare
soluzioni, cose che si possono fare senza avere coscienza. Non è necessaria per la formulazione di
giudizi o di pensieri semplici. Non è la sede della ragione, e anzi alcuni fra gli esempi più difficili di
ragionamento creativo fanno a meno della sua assistenza. Essa inoltre non ha una localizzazione
reale, ma solo ubicazioni immaginarie. (…) Se i ragionamenti che abbiamo svolto finora sono stati
corretti, è possibilissimo che sia esistita una razza di uomini che parlavano, giudicavano,
ragionavano, risolvevano problemi, che facevano in definitiva quasi tutto quello che facciamo noi,
ma che non erano affatto coscienti.
L'evoluzione umana non è un processo continuo semplice. Nella storia umana, attorno al 3000 a.C.,
emerge una pratica curiosa e molto notevole. È una trasmutazione del linguaggio parlato in piccoli
segni su pietra o argilla o papiro, così che la parola possa essere non solo udita, ma anche vista, e
vista da tutti, non solo da quelli che potevano ascoltarla in quel momento. (…) La domanda che ci
poniamo ora è la seguente: qual è la forma mentale rivelata dagli scritti più antichi dell'umanità?
(…) Nessuno di tali antichi documenti scritti è compreso per intero. (…) Il primo testo della storia
umana che, essendo scritto in una lingua che sappiamo tradurre con sufficiente sicurezza, possiamo
considerare in connessione con la mia ipotesi è l'Iliade. I moderni studiosi ritengono che questa
storia di vendetta intrisa di sangue, sudore e lacrime sia stata sviluppata da una tradizione di aoidoi
(aedi) fra il 1230 a.C. circa, quando, secondo inferenze tratte da alcune tavolette ittite rinvenute di
recente, ebbero luogo gli eventi descritti nel poema epico, e il 900 o 850 a.C. circa, quando il poema
fu messo per iscritto. Io propongo di considerare il poema come un documento psicologico di
portata immensa. E la domanda che stiamo per porgli è la seguente: Che cos'è la mente nell'Iliade?
1
Intermezzo che l'autore, invece, successivamente inserisce nel testo, come confutazione a ipotetiche
obiezioni:
Nelle tavolette ittite risalenti al 1300 a.C. si fa riferimento chiaro al paese degli achei e al loro re
Agamennone. Il catalogo delle località greche che inviarono navi a Troia contenuto nel II canto
dell'Iliade corrisponde con precisione notevole al modello di insediamento rivelato dall'archeologia.
I tesori di Micene sono stati riportati in luce da scavi condotti tra le rovine sepolte dal fango della
città. Altri particolari come gli usi funerari, i tipi di armatura sono stati confermati da scavi ai siti
legati al poema. Non c'è nessun problema circa il fondamento storico; l'Iliade non è un'opera
letteraria, essa è storia, radicata nell'Egeo miceneo. (…) L'accertamento di una base storica, per tutti
i manufatti menzionati nel poema, indica però che gli eventi del XIII secolo a.C. devono essere stati
tramandati verbalmente da molti intermediari delle età seguenti. (…) La storia è stata senza dubbio
alterata. (…) Ci sono due periodi generali durane i quali potrebbero avere avuto luogo tali
alterazioni della storia originaria: il periodo della tradizione orale, dalla guerra di Troia al IX secolo
a.C. allorché fu creato l'alfabeto greco e il racconto epico fu messo per iscritto, e il periodo
successivo, caratterizzato dal possesso della scrittura, fino al tempo dei filologi alessandrini del III e
II secolo a.C. che stabilirono il testo oggi esistente.
La risposta è interessante e insieme sconcertante. Nell'Iliade in generale non esiste coscienza. Dico,
in generale, perché in seguito menzionerò alcune eccezioni. Perciò non vi compaiono neppure
parole per designare la coscienza o atti mentali. (…) La parola psyche, che in seguito passò a
significare anima o mente cosciente, designa, nella maggior parte dei casi, sostanze vitali come il
sangue o il respiro: un guerriero morente stilla la sua psyche al suolo o la esala nell'ultimo ansito. Il
thumos designa semplicemente il movimento o l'agitazione. Quando un uomo cessa di muoversi, il
thumos abbandona le membra. Ma in qualche modo è addirittura simile anche a un organo. (…) Il
thumos può dire a un uomo di mangiare, bere o combattere. (…) Ma il thumos non è in realtà un
organo e non è sempre localizzato: un oceano infuriato ha thumos. Una parola di uso in parte simile
è phren, che è localizzata anatomicamente come il diaframma, ed è usata solitamente al plurale.
Sono le phrenes di Ettore a riconoscere che suo fratello non è vicino a lui; il significato delle
phrenes è quello che esprimiamo con il restare con il fiato sospeso per la sorpresa, con lo stupore...
Forse più importante è la parola noos, che, scritta nous nel greco più tardo, venne a significare
mente cosciente. La parola deriva dal verbo noeo, io vedo. La sua traduzione più appropriata
nell'Iliade sarebbe più o meno, percezione o riconoscimento o campo visivo. Zeus tiene Odisseo nel
suo noos. Vigila su di lui. (…) Il verbo mermerizo significa sono diviso in due parti riguardo a
qualcosa. (…) Sostanzialmente indica un conflitto su due azioni, non su due pensieri. È un verbo
che si riferisce sempre al comportamento. Esso è usato varie volte per Zeus, oltre che per altri.
Gli uomini dell'Iliade non hanno una propria volontà e certamente non hanno alcuna nozione di
libero arbitrio.
Una parola di cui si avverte similmente l'assenza nel linguaggio dell'Iliade è quella per corpo. La
parola soma, che nel V secolo a.C. venne a designare il corpo, in Omero è sempre plurale e vuol
dire membra morte o cadavere. Essa è l'opposto di psyche. Ci sono varie parole che designano
diverse parti del corpo, e in Omero il riferimento è sempre a tali parti, mai al corpo nella sua
totalità.
I personaggi dell'Iliade non hanno momenti in cui si fermano a riflettere su ciò che stanno per fare.
2
Le azioni non trovano il loro inizio in piani, in ragioni e in motivi coscienti, ma nelle azioni e nei
discorsi degli dei.
Qual è la psicologia degli eroi dell'Iliade? Io sostengo che essi non avevano alcun io. Il poema
stesso non è opera di uomini nel nostro senso. Le prime tre parole di esso sono Menin aeide thea,
Canta l'ira o dea! E l'intero racconto epico che segue è il canto della dea che udì l'aedo posseduto e
cantò ai suoi ascoltatori dell'età del ferro tra le rovine del mondo di Agamennone.
Chi erano dunque gli dei che muovevano gli uomini come se fossero automi e che cantavano poesia
epica attraverso le loro labbra? Erano voci, le cui parole e le cui istruzioni potevano essere udite
dagli eroi dell'Iliade distintamente come le voci udite da certi epilettici e schizofrenici o come le
voci udite da Giovanna d'Arco. Gli dei erano organizzazioni del sistema nervoso centrale e li si può
considerare come personae, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini
parentali o ammonitorie. Il dio è parte dell'uomo...
Il dio greco non appare tra scoppi di tuono, non suscita soggezione o timore nell'eroe ed è
lontanissimo dal dio di Giobbe. Egli semplicemente guida, consiglia e ordina. (…) Io sostengo che
il rapporto fra il dio e l'eroe era simile – essendone di fatto l'antecedente – al referente del rapporto
tra Io e Superio in Freud o del rapporto del sé con l'altro generalizzato di Mead. L'emozione più
forte che l'eroe sente nei confronti del dio è lo sbigottimento o la meraviglia...
Gli dei sono quelle che noi oggi chiamiamo allucinazioni. Di solito essi sono visti e uditi solamente
dagli eroi cui si rivolgono. A volte si presentano avvolti da una nebbia o emergono dalla spuma del
mare o da un fiume, o scendono dal cielo, cose che suggeriscono la presenza di un'aura visuale.
La guerra di Troia fu diretta da allucinazioni. E i guerrieri che venivano comandati in tal senso non
erano affatto simili a noi. Erano nobili automi che non sapevano quel che facevano.
Il quadro che l'Iliade ci presenta è caratterizzato da un senso di estraneità, di spietatezza e di vuoto.
Non possiamo accostarci a questi eroi inventando dietro i loro occhi fieri spazi mentali come
facciamo per ciascuno di noi. L'uomo dell'Iliade non ha una soggettività come noi; non ha
consapevolezza della sua consapevolezza del mondo, non ha uno spazio mentale interno su cui
esercitare l'introspezione. Per distinguerla dalla nostra mente cosciente soggettiva, abbiamo deciso
di chiamare la forma mentale dei micenei mente bicamerale.
La volizione, i progetti, l'iniziativa sono organizzati senza alcuna coscienza e vengono detti
all'individuo nel linguaggio che gli è familiare, a volte con l'aura visuale di un amico a lui caro o di
una figura autorevole o di un dio, altre volte da una semplice voce. L'individuo obbediva a queste
voci allucinatorie perché non riusciva a vedere da sé cosa fare.
Le tavolette della scrittura Lineare B rinvenute a Cnosso, Micene e Pilo furono scritte in periodo
bicamerale. Note da parecchio tempo, hanno resistito tenacemente agli sforzi dei crittografi. Da
poco decifrate, esse contengono una scrittura sillabica, la forma più antica di greco scritto, usata
solo per scopi amministrativi, per la registrazione di documenti. Questi testi ci forniscono un
quadro, sommario, della società micenea che si accorda con l'ipotesi della mente bicamerale:
gerarchie di funzionari, soldati o lavoratori, inventari di derrate, elenchi di merci dovute al sovrano e
agli dei. Il mondo della guerra di Troia era una realtà storica molto più vicina alla rigida teocrazia
3
predetta dalla teoria che al libero individualismo descritto dal poema. La struttura dello Stato
miceneo è assai vicina all'organizzazione dei contemporanei regni teocratici della Mesopotamia.
Nelle tavolette in Lineare B il capo dello Stato è chiamato uanax, parola che nel greco classico è
usata solo per gli dei.
In questo periodo caotico in cui viene meno la mente bicamerale e ha inizio la coscienza il poema
riflette sia il crollo di gerarchie civili sia lo sviluppo della soggettività accanto alla forma mentale
più antica. (…) Possiamo considerare l'Iliade un'opera situata a una grande svolta dei tempi, una
finestra su quei tempi privi di soggettività in cui ogni regno era essenzialmente una teocrazia e ogni
uomo era lo schiavo di voci udite ogni volta che insorgeva una situazione nuova.
Se è esatta la nostra ipotesi che le allucinazioni degli schizofrenici sono simili alle direttive date
dagli dei nell'antichità, in entrambi i casi dovrebbe esserci qualche stimolazione fisiologica comune.
Io sostengo che questa stimolazione consiste semplicemente in una situazione di forte tensione, di
stress. (…) Nelle ere della mente bicamerale, possiamo supporre che la soglia di stress per le
allucinazioni fosse molto più bassa di quanto non sia per gli schizofrenici di oggi.
Udire è in realtà una forma di obbedienza. Entrambe le parole derivano dalla stessa radice e in
origine erano probabilmente una stessa parola. Ciò vale in greco, latino, ebraico, italiano, inglese,
francese, tedesco, russo: la parola latina obœdire è un composto di ob e audire, udire stando di
fronte a qualcuno.
La mente bicamerale è una forma di controllo sociale ed è per la precisione quella forma di
controllo sociale che consentì all'umanità di passare dai piccoli gruppi di cacciatoriraccoglitori alle
grandi comunità agricole. La mente bicamerale, con i suoi dei che esercitavano il controllo, si
evolse come fase finale dell'evoluzione del linguaggio. E in questo sviluppo si pone l'origine della
civiltà.
In origine parte di Akkad e poi, verso il 1950 a.C., della Babilonia, a 300 chilometri più a sud,
questa pacifica città bicamerale appartenente al dio Assur, bagnata dalle acque del Tigri, era rimasta
piuttosto isolata. Sotto la guida del principale servitore umano di Assur, la sua benigna influenza e
la sua ricchezza cominciarono ad espandersi. Più che in qualsiasi altra nazione precedente, il
principale carattere di questa espansione fu lo scambio di merci con altre teocrazie. Quasi duecento
anni dopo, la città di proprietà del dio Assur divenne l'Assiria, con centri di scambio lontani fino a
1100 chilometri a nordest, nell'Anatolia. (…) Tali scambi non costituivano però un vero mercato.
Non c'erano prezzi fissati dalla domanda e dall'offerta, né un'attività di compravendita, né denaro.
Erano scambi sulla base di equivalenze stabilite per decreto divino. (…) Cosa accadeva alle voci
bicamerali di questi mercanti a più di mille chilometri dalla sorgente della voce del dio della loro
città, e in contatto quotidiano con uomini bicamerali governati da un diverso pantheon di voci? (…)
È possibile che qualcosa di simile a una coscienza protosoggettiva si sia affacciata in questi
commercianti attivi ai confini di civiltà diverse? (…) Se è vero che il potere degli dei, e in
particolare di Assur, andò indebolendosi in quest'epoca, questo fatto potrebbe spiegare il crollo
completo della città nel 1700 a.C., che diede inizio all'età buia dell'anarchia assira, durata duecento
anni.
Il crollo della mente bicamerale fu senza dubbio accelerato dall'inabissarsi nelle acque del mare di
buona parte delle terre dei popoli dell'Egeo. Questo cataclisma di grandi proporzioni seguì a
un'eruzione, o a una serie di eruzioni, del vulcano dell'isola di Tera. (…) La maggior parte di Tera e
4
forse anche una parte di Creta vennero a trovarsi bruscamente a 300 metri sott'acqua. (…) Tutto ciò
che si trovava a meno di tre chilometri dal mare fu distrutto.
L'anarchia e il caos si propagarono di regione in regione sulla scia delle invasioni. Che cosa possono
dire gli dei in tanta rovina? Che cosa possono dire gli dei, ora che la fame e la morte sono più severe
di loro, ora che genti tra loro sconosciute si trovano facci a faccia, e lingue strane vengono urlate a
orecchie incapaci di comprenderle?
I vari fattori che sono stati all'opera nella grande transizione dalla mente bicamerale alla coscienza
sono stati:
1) l'indebolimento delle allucinazioni uditive in conseguenza dell'avvento della scrittura;
2) l'intrinseca fragilità del controllo allucinatorio;
3) l'inefficienza degli dei nel caos degli sconvolgimenti storici;
4) il postulare una causa interna nell'osservazione di differenze negli altri;
5) l'acquisizione della narratizzazione dall'epica;
6) il valore di sopravvivenza dell'inganno;
7) una certa incidenza della selezione naturale.
Esaminiamo più da vicino cosa deve essere accaduto all'inizio del crollo della mente bicamerale. Lo
stimolo fisiologico delle voci allucinatorie, tanto in un uomo bicamerale quanto in uno
schizofrenico del nostro tempo, è lo stress legato a una qualche decisione o conflitto. Ora, man
mano che le voci degli dei diventano sempre meno sufficienti e udibili durante questo caos sociale,
possiamo supporre un aumento delle quantità di stress necessarie per dare origine a voci
allucinatorie. Quindi è assai probabile che, quando l'organizzazione bicamerale della mente
cominciò ad allentarsi, lo stress decisionale in situazioni nuove fosse molto maggiore che in
precedenza, e che tanto la sua intensità che la sua durata crescessero progressivamente prima che si
producesse la comparsa allucinatoria di un dio. Tale aumento dello stress doveva accompagnarsi a
una varietà di concomitanti fisiologiche, mutamenti vascolari aventi effetto di sensazioni di
bruciore, brusche variazioni nella frequenza della respirazione, tachicardia, reazioni che nell'Iliade
sono chiamate thumos, phrenes, noos, psyche, kradie, ker, etor. (…) A queste parole che in seguito
vennero a significare qualcosa di simile alle operazioni della coscienza possiamo dare il nome di
ipostasi preconsce. Il termine ipostasi significa, in greco, ciò che è posto sotto a qualcosa. Le
ipostasi preconsce sono i fenomeni che vengono assunti come causa dell'azione allorché non sono
più manifeste altre cause. Queste sono sedi di reazioni e di responsabilità che si presentano nella
transizione tra la mente bicamerale e la coscienza soggettiva.
Conclusione, per cui si salta l'esposizione precedente:
L'Antico Testamento, pur essendo oscurato ancora da grandi problemi storici che ne limitano
l'attendibilità, rimane la nostra fonte più ricca per la conoscenza del periodo di transizione. Esso è
essenzialmente la storia della perdita della mente bicamerale, del lento ritrarsi nel silenzio degli
ultimi elohim, della confusione e della tragica violenza che ne seguono, e della vana ricerca delle
voci bicamerali tra i profeti finché non se ne trova un sostituto nell'azione giusta.
5
Nota. Giacché la ricostruzione psicostorica psicostoria è il termine impiegato da Jaynes vuole
essere, almeno sembrare, esaustiva, l'eccedenza di volontà di spiegazione finisce per giustificarla in
eccesso; ma, tra le pieghe di una gnoseologia incerta, la prova che la filogenesi sia vera o no,
assume una scarsa, o comunque minore, importanza, se messa a confronto invece con l'acuto valore
predittivo della teoria – per le stesse ragioni con cui l'autore la ritiene verificata – il cui esito,
involontario ma sicuramente degno di notevole attenzione, le assegna un posizione di rilievo nella
costruzione di una teoria delle metamorfosi del capitale dopo la nihilazione.
6
La fine di Ettore
L'Iliade si conclude, come tutti sanno, con il riscatto del corpo di Ettore. La scena si svolge nella
tenda di Achille. Priamo non visto giunge e, supplice, bacia le mani omicide di Achille. Priamo ha
perso tutti i suoi figli, ed è venuto per riscattare il cadavere, portando un compenso ricchissimo.
Achille, che non può non ammirare il coraggio del vecchio, ricorda suo padre, Peleo, anch'egli
vittima di un male largito dalle giare di Zeus, dato che il suo unico figlio sta per morire, e, per
questa guerra, è destinato a non accompagnarlo nella vecchiaia. Dopo dodici giorni di supplizi
Achille è disposto a consegnare il corpo di Ettore. Dal riscatto, Achille e i due scudieri Automedonte
e Alcimo, trattengono due mantelli e un chitone per rivestire il figlio del re. Le ancelle lo lavano e
l'ungono di olio. Il compito viene svolto lontano dagli occhi dei due protagonisti dell'episodio, per
evitare lo sdegno dell'uno e la furia dell'altro. Poi Achille convinse Priamo a mangiare e a bere fino
all'alba ricordandogli l'episodio di Niobe che perse dodici figli uccisi da Apollo e Artemide, perché
lei s'era vantata del maggior numero di figli rispetto a Leto, madre solo dei due. Per nove giorni
giacquero i cadaveri nel loro sangue finché non furono gli dei stessi a seppellirli, e anche Niobe,
quando fu stanca di piangere, si ricordò di mangiare.
7
Telemaco Ivàn Denìsovic
La condizione di Ivàn Denìsovic è simile a quella di Telemaco.
La nota conclusione del romanzo di A. I. Solzenicyn è questa:
Šùchov prendeva sonno soddisfatto. Quella giornata era stata ricca di doni: non l'avevano sbattuto
in prigione, la squadra non era stata spedita al villaggio socialista, a pranzo aveva fregato una
scodella di polenta, il caposquadra aveva sistemato per bene la percentuale, lui aveva lavorato con
gioia al suo muro, era riuscito a non farsi beccare la sega alla perquisizione, infine la sera aveva
guadagnato qualcosa da Cèzar' e aveva comperato il tabacco. E non si era ammalato, ce l'aveva
fatta.
Era passata una giornata, senza ombre, quasi felice.
Di queste giornate, dal principio alla fine della sua condanna, ce n'erano
tremilaseicentocinquantatré.
Più tre, per via degli anni bisestili.
Nella breve Autobiografia che precede il romanzo, Solzenicyn ha scritto:
Nel millenovecentocinquanta fui spedito nei campi speciali, per soli detenuti politici, che erano
appena stati creati. In uno di questi làger, presso la città di Ekibastùze, nel Kazakhstàn lavorai
come manovale, muratore, fonditore. Fu lì che mi si formò un tumore, operato, ma non estirpato (la
sua vera natura fu definita solo più tardi).
Con un mese di ritardo sulla fine del termine di detenzione giunse, senza un'ulteriore pena da
scontare, e persino senza una delibera dell'O.S.O. Sessione Speciale del NKVD , una
disposizione di carattere amministrativo: non liberazione per me, ma confino eterno a Koktèrek
(Sud del Kazakhstàn). Non si trattava di una misura particolare presa nei miei confronti, ma di un
sistema abbastanza diffuso a quell'epoca.
Persino degli avvenimenti già passati, del tutto trascorsi, quasi mai sappiamo dare una valutazione
o sappiamo tanto meno prenderne coscienza subito, a ferro ancora caldo, tanto più imprevedibile e
straordinario sarà per noi l'andamento dei fatti futuri.
All'inizio del romanzo i primi pensieri del detenuto al risveglio:
Šùchov ricordò che quel giorno si decideva del loro destino: volevano togliere la squadra numero
centoquattro dalla costruzione dei laboratori per sbatterla in un cantiere nuovo: il Villaggio
socialista. E questo villaggio socialista era un campo nudo, coperto di neve, sul quale, prima di
ogni altra cosa, bisognava scavare le fosse, ficcare i pali e tendere il filo spinato per chiudere se
stessi, per non fuggire. Poi costruire.
Una delle prime considerazioni:
Il lavoro è come un bastone, ha due estremità: se lo fai per la gente lo fai bene, se è per gli
imbecilli, fai finta.
Poi (a proposito della dieta) la colazione fredda:
Qui, in effetti, anche se brucia il tetto, non bisogna affrettarsi. Se non si conta il sonno, nel campo
di concentramento, il detenuto vive per sé solo i dieci minuti della colazione, i cinque del pranzo e i
cinque della cena.
8
Il mozzicone di sigaretta:
Šùchov sussultò (aveva aspettato che Cèzar' glielo offrisse da sé); si affrettò, grato, a prenderlo con
una mano, mentre l'altra era pronta a raccoglierlo al volo, se gli fosse sfuggito. Non si offese perché
Cèzar' non gli aveva dato da fumare nel bocchino (non tutti hanno la bocca pulita) e le sue dita
indurite non si bruciarono nel prendere la parte accesa.
La sera:
Niente male, c'erano persino dei pezzetti di pesce. In genere la sera la sbobba è molto più liquida
che al mattino: quella volta i detenuti bisogna nutrirli perché lavorino, la sera, si addormentano lo
stesso.
Infine, lo scoramento di Telemaco, che dispera del ritorno di Odisseo (non saprà mai che è morto,
sommerso dai flutti irati, nell'oceano australe), la cui casa, da troppo tempo, ospita, senza potersene
liberare, Antinoo e gli altri pretendenti, i 108 Proci:
Non sapeva più nemmeno lui se desiderava la libertà o no. All'inizio sì, l'aveva desiderata e ogni
sera contava quanti giorni aveva scontato e quanti gliene rimanevano. Ma poi si era stancato. E
dopo ancora aveva saputo che quelli come lui non li lasciavano tornare a casa, li spedivano al
confino. E dove sarebbe stato meglio vivere, lì o al campo, era da vedere.
9
Il sedicesimo anno di guerra
La forma di ciò che è arbitrario è indifferente, per chi si dispone all'opera e chi la subisce, anzi
spesso è banale, la più banale che ci sia; la forza non ha necessità assoluta di travestirsi, sempre, ma
talvolta alla forza, la forza non pare abbastanza anche se sufficiente sì, allora cerca di ricalcarsi nel
diritto, e ciò che le sembra ovvio deve parere una forma di cortesia.
I Meli che subivano gli attacchi e le devastazioni degli ateniesi non vollero che gli ambasciatori di
essi parlassero al popolo, ma riferissero agli oligarchi e ai magistrati. Ciò dà un punto di forza agli
ambasciatori di Atene. La trattativa è tra la salvezza della città o no, non tra altre cose.
È nostro avviso che si discuta senza uscire dai limiti del possibile, partendo dalle nostre interiori
convinzioni comuni. Gli uni e gli altri, noi sappiamo che nel linguaggio della vita reale le ragioni
della giustizia vengono prese in considerazione solo quando la necessità preme ugualmente sull'una
o sull'altra parte; se no, ci si adatta di necessità: i più forti perché agiscono e i più deboli cedendo.
Non è la sola lezione di rigore data, perché dopo spiegano gli ateniesi: Non dai dominatori di altri
stati, come gli spartani, non da costoro i vinti devono temere (e con Sparta noi non siamo in lotta);
ma si deve temere dai sudditi, se mai, assalendo da soli, vincono i dominatori. Ciò che sta a cuore è
che vogliamo dominarvi senza spreco di energie. Perché non è tanto la vostra inimicizia che
rappresenta per noi un pericolo, quanto la vostra amicizia, è solo il vostro odio a dimostrare la nostra
potenza.
Ai Meli resta la speranza che l'imparzialità della sorte non tenga conto dello squilibrio delle forze.
Argomentano che non sembri assurdo, inguaribilmente, il loro ardire.
Gli ateniesi incalzano: Nessun contrasto c'è tra le nostre esigenze, la nostra condotta, e la
concezione umana del divino... la nostra concezione del divino, degli dei, ci insegna la nostra sicura
scienza degli uomini che dove essi, uomini o dei, sono più forti, essi dominano.
La conclusione dei Meli è la speranza astratta.
Giudicate il futuro come fosse più evidente della realtà concreta, e il desiderio vi fa trattare come
cosa salda l'inesistente.
10
L'oltraggiosa perfezione della democrazia
L'anonimo dell'opuscolo apparentemente (e volgarmente ritenuto) contro la democrazia ateniese, ne
è uno strenuo difensore. Questa è la democrazia, perché parlarne diversamente? L'ipocrisia di un
PericleKennedy con le parole di Tucidide è retorica imperialistica, cioè consapevole mistificazione
che ingannevolmente nasconde proprio ciò che l'opuscolo denigratorio diffonde, sebbene
controvoglia. Rifiutare l'asprezza di una menzione diretta è comunque tipica della democrazia, che
della verità non sa cosa farne se non come uno strumento d'assoggettamento.
C'è chi si meraviglia che gli Ateniesi diano, in tutti i campi, più spazio alla canaglia, ai poveri, alla
gente del popolo, anziché alla gente per bene: ma è proprio così che essi tutelano la democrazia.
Giacché, se stanno bene e si accrescono i poveri, la gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza
la democrazia. La canaglia capisce che la stupidità, la ribalderia, la complice benevolenza di
costui (un qualunque ceffo che persegue il suo utile) giova di più della virtù, della saggezza e
dell'ostilità della gente per bene.
Questo non è un basso ideale, ma la veritiera difesa della democrazia. È il malgoverno il principio
del potere del popolo, questa la indicibile fortuna della libertà. Un governo virtuoso d'altronde è
necessariamente illiberale, meno nei risultati forse di quanto lo sia nei principi.
Il governo del popolo è tuttavia di necessità imperialista perché può tollerare solo chi gli è simile e,
al tempo stesso, sottomesso, per consentire quella pubblica dilapidazione che è la pubblica
riconoscibilità del regime, ben sapendo che fatalmente chi comanda è odiato da chi è assoggettato.
Certo che la canaglia sa distinguere bene i cittadini, gli uni dagli altri, come in effetti predilige quelli
che le sono benevoli e utili, e la gente impregiudicatamente dabbene la odia proprio in quanto per
bene.
Sono i pessimi difensori del regime della libertà coloro che credono di difenderla con
l'amministrazione rigorosa del buon governo e non al contrario, dal rigore. Il buongoverno è, in
questi termini, incontraddetti, il governo peggiore.
In conclusione, purché sia affiancata dal dominio del mare e del cielo (questa è l'unica debolezza
dell'appassionato e veritiero discorso del cosiddetto denigratore, come si spiega tanta forza militare
se non in una maggiore determinazione e audacia dell'esercito democratico?) la mediocrità della
democrazia risulterà perfettamente imbattibile, perché, del tutto simile ai regimi cosiddetti
oligarchici o dittatoriali, pratica l'astuzia della forma politica.
La vera apologia nega di esserlo, bisogna letteralmente esserne nemici, della democrazia, per
comprenderladifenderne la coerenza: dal momento che hanno deciso così, voglio mostrare che
difendono bene il loro sistema politico. Dunque non poteva essere uno scritto destinato a una larga
circolazione, osserva L. Canfora.
11
Un finale da tragedia
Nel riassunto di Diodoro di Sicilia, nella Biblioteca storica, della rivolta che aveva avuto uno storico
nel filosofo Posidonio di Apamea, verso le ultime pagine si ripete il concetto del contagio della
ribellione. L'intera Sicilia era in preda al caos, e non erano in rivolta solo gli schiavi.
Anche i poveri si univano in bande e scorrazzavano per le campagne, rapivano le mandrie e
saccheggiavano le provviste nei depositi. Espropri selvaggi infierivano sui beni dei ricchi. Gli
abitanti delle città erano giunti a ritenere che il diritto di proprietà fosse circoscritto dalle mura
cittadine.
Gli schiavi dunque dominavano le campagne, ma non si appagavano degli inattesi successi perché il
contagio si estendeva agli schiavi di città: anch'essi erano malati nello spirito e protesi alla
ribellione, e perciò sempre più temibili per i padroni.
Quando Lucio Licinio Lucullo, a capo del corpo di spedizione di quattordicimila uomini tra Romani
e Italici, e di altre centinaia tra Bitini, Tessali, Acarnani e Lucani, occupò la Sicilia non riuscì a
sgominare i rivoltosi, tra i quali prevalse il parere di coloro che intendevano combattere fino alla
morte. Lucullo pensò di danneggiare il suo successore Servilio privandolo di preziose risorse utili
alla guerra contro gli schiavi. Servilio, anche lui fu condannato all'esilio.
Infine Gaio Aquilio, o forse più correttamente, Manio Aquilio, collega nel quinto consolato di
Mario, riuscì nell'impresa. Gli schiavi vinti, superstiti furono condotti a Roma e impiegati per i
combattimenti gladiatorii contro le fiere, ma essi rifiutando di combattere si uccisero l'un l'altro,
fino all'ultimo. Dopo circa quattro anni, la guerra contro gli schiavi ebbe un finale da tragedia.
Nel commento al volumetto Luciano Canfora si chiede: Problema ricorrente, proprio di ogni
grande rivolgimento sociale, quello della legittimità dell'odio. Ma è vero che l'odio degli oppressi,
che ne legittima la violenza, può anche essere rimosso, ragiona Canfora. Basta allontanare dalla
vista i dannati della terra. “Noi aspettiamo che l'emozione di un giorno ci raggiunga attraverso la
mistificante immediatezza di una informazione perfetta, che tutto divora.” Una conclusione a cui è
difficile dare torto, perché ogni giorno viene smentita con larghezza di mezzi e abbondanza di
giudizi di esperti.
12
Breve sommario di grand strategy
Nella Prefazione a La grande strategia dell'impero romano di E. N. Luttwak si trova scritto:
A partire dal 1945, l'insorgere di nuove tecniche di distruzione di massa ha invalidato i presupposti
fondamentali delle concezioni clausewitziane della grande strategia. Come i Romani, ci troviamo
oggi di fronte alla prospettiva non di un conflitto decisivo, ma di un permanente stato di guerra,
seppure limitato. Come i Romani, dobbiamo proteggere attivamente una società avanzata contro una
varietà di minacce, piuttosto che concentrarci sulla distruzione delle forze belliche nemiche e
soprattutto, data la natura delle armi moderne, dobbiamo limitarne l'uso e servirci invece
pienamente del loro potenziale diplomatico.
Paradossalmente, la rivoluzionaria trasformazione nella natura della guerra moderna ha fatto sì che
il pensiero strategico dei Romani venisse ad essere estremamente vicino al nostro.
Nell'Introduzione:
Per i Romani, come per noi, la difficile meta dell'arte strategica era quella di dare sicurezza alla
società, senza pregiudicare la vitalità delle sue basi economiche e senza compromettere la stabilità
di un ordine politico in evoluzione. Il successo storico dell'impero romano, che appare evidente
nella sua incomparabile durata, rifletteva il modo in cui si era riusciti a conciliare queste due
opposte esigenze, dato che non furono certo i soli successi militari ad assicurare, per così lungo
tempo, la tranquillità su vasti territori in seguito tanto tormentati.
La forza militare, almeno nel periodo imperiale, era chiaramente considerata quello che è, cioè uno
strumento di potere profondamente limitato, prezioso ma fragile: molto meglio tenere in serbo le
forze e usare indirettamente il potere militare come strumento di pressione politica.
I Romani si rendevano conto chiaramente che l'aspetto più importante del potere non è quello
materiale, ma quello psicologico, cioè il risultato dell'opinione degli altri sulla forza romana, più
che dell'uso di tale forza.
L'assedio di Masada del 7073 d.C. rivela l'estrema sottigliezza di una politica di sicurezza su larga
scala basata su metodi deterrenti. (…) L'intera operazione, durata tre anni, e la stessa relativa
importanza dell'obiettivo dovettero creare una tremenda impressione su tutti coloro che altrimenti,
in Oriente, avrebbero potuto contemplare la possibilità di una rivolta: la lezione di Masada doveva
dimostrare che i Romani avrebbero perseguitato i ribelli fino in cima alle montagne e nei più remoti
deserti per distruggerne a qualunque costo gli ultimi focolai di resistenza.
Nel periodo da noi considerato si possono riconoscere tre diversi sistemi di sicurezza imperiale.
Possiamo a ragione parlare di sistemi, perché ciascuno di essi integrava la diplomazia, le forze
militari, le reti stradali e le fortificazioni, per raggiungere un comune obiettivo e inoltre nella
struttura di ciascun elemento di rifletteva la logica di tutto l'insieme. Ciascun sistema aveva lo scopo
di realizzare una determinata serie di esigenze prioritarie, dove parimenti si riflettevano gli ideali
successivamente concepito dall'impero: l'espansionismo egemonico per il primo sistema; la
sicurezza territoriale per il secondo, e infine, ormai in una situazione di decadenza, la semplice
13
sopravvivenza dello stesso potere imperiale.
Nell'Epilogo:
Nel primo sistema, quello GiulioClaudio, o dell'imperialismo repubblicano, Roma esercitava un
controllo egemonico, intorno alle sue aree centrali, e gli stati clienti avevano, indipendentemente
l'uno dall'altro, la responsabilità di realizzare i desiderata dei Romani e di garantire, con le loro
risorse e attraverso la loro obbedienza, la sicurezza territoriale nelle aree centrali. Le truppe romane
non erano normalmente dislocate negli stati o fra le popolazioni clienti, ma per mantenere la
stabilità del sistema era necessario un costante controllo diplomatico. (…) Gli stati clienti grandi e
piccoli erano quindi tenuti in soggezione mediante la loro stessa percezione del potere romano, e
questo potenziale deterrente era accompagnato da incentivi, in genere sotto forma di sussidi. (…) A
causa della sua natura egemonica, la sfera del controllo imperiale è limitata solo dal raggio in cui il
potere romano è percepito dagli altri come una forza capace di costringere all'obbedienza.
Il sistema antoniniano, che rimase in uso sotto forme diverse dall'età dei Flavi (dopo il 69 d.C.) alla
crisi della metà del III secolo, riflette la territorializzazione dell'impero e il nuovo orientamento
delle sue esigenze prioritarie. Adesso le forze armate sono dislocate ovunque per assicurare la
tranquillità e, di conseguenza, la prosperità delle terre di confine e, a fortiori, anche dell'interno. La
forza militare dell'impero e il suo potere effettivo sono ora rigidamente proporzionali, poiché tale
forza viene ora largamente usata in modo diretto, non come un semplice strumento di persuasione
politica. Esistono ancora i clienti, ma non sono più utili come in passato: il compito di mantenere la
sicurezza territoriale è passato, con notevoli vantaggi, dai clienti deboli a delle truppe di confine
distribuite a largo raggio, mentre l'esistenza dei clienti forti non può essere ulteriormente tollerata,
poiché la loro forza può ora essere pericolosa, nel caso superi quella delle truppe imperiali limitrofe.
Nonostante ciò, l'impero resta potente, e non poca della sua forza è di natura politica. Una crescente
prosperità e una volontaria romanizzazione stanno ponendo fine alle ostilità e alla disaffezione delle
popolazioni locali e contribuiscono a creare una solida base di sostegno per un regime unitario. (…)
Tuttavia l'influsso culturale ed economico di Roma sulla vita di tutti i vicini dell'impero sta creando
di per sé una base culturale e politica per un'azione comune contro di esso. Popoli che prima non
avevano niente in comune vengono ora ad acquisire gli elementi di una cultura da tutti condivisa,
pur non appartenendo a nessuno di loro. Oltre il Reno, sta cominciando a formarsi una federazione
di popoli di confine che li trasformerà in temibili agglomerati di più tribù. (…) E anche il sistema di
difesa di confine, creato appositamente per dei pericoli a bassa intensità, non può far fronte
adeguatamente alla minaccia di una loro unione.
Il terzo sistema nacque dunque come risposta a questa grave combinazione di problemi diplomatici
e militari, le cui conseguenze si vennero palesi durante la grande crisi del terzo secolo. Sotto
Diocleziano, uno schema di difesa in profondità basato su una serie di fortificazioni costruite in
posizione non eccessivamente profonda rispetto ai confini, sostituisce la difesa elastica di Gallieno e
della generazione precedente, che prevedeva l'intervento di appositi eserciti da campo per
combattere contro i gruppi di barbari penetrati anche molto profondamente nel territorio imperiale.
Come quello antoniniano, anche il nuovo sistema non dispone di un surplus di potere militare né per
le operazioni offensive, né di coercizione diplomatica, sia essa di tipo deterrente o costrittivo. La
differenza consiste nel fatto che il terzo sistema non dispone più neppure di una capacità di slancio,
poiché i nemici dell'impero non sono più tenuti sulla difensiva da una tattica di difesa avanzata, ma
sono solo trattenuti dall'avanzare. Quando poi le truppe impiegate a questo scopo vengono ridotte
per radunare delle forze da campo ai fini di particolari interventi, niente può impedire la
14
penetrazione nemica. (…) Di conseguenza, le relazioni diplomatiche con le potenze esterne devono
ora riflettere l'equilibrio di forze locale – che non sempre può essere a favore dell'impero in ogni
settore dei confini. (…) Il livello di sicurezza garantito diviene direttamente proporzionale alla
quantità di risorse spese per l'esercito e per le fortificazioni di confine. (…) Da questo momento
sarà possibile ritrovare una modesta economia di scala ricorrendo a degli stati regionali
indipendenti, ma si tratta sempre di un'economia non abbastanza grande da compensare i gravi
danni dell'inefficienza o della rapacità degli amministratori. Alla fine l'aspetto ideale e quello reale
dell'impero non sono più sostenuti dalla logica della sicurezza collettiva, ma solo dalla volontà di
coloro che hanno il controllo del potere imperiale, e dall'umana paura dell'ignoto.
Sulla cavalleria.
È durante gli anni più difficili del III secolo, sotto l'imperatore Gallieno (253268) che si fa cenno a
una riserva speciale, o meglio a truppe da campo tenute come riserve regionali: si trattava di corpi
di cavalleria dislocati lungo le strade principali.
Sulla base delle testimonianze sparse a nostra disposizione, si possono tracciare le linee principali di
una nuova strategia fondata su una difesa in profondità talmente profonda da costituire praticamente
una difesa elastica in cui nessuna parte dell'impero era difesa con assoluta sicurezza, tranne il cuore
dell'Italia.
Lo strumento principale di questa strategia era un corpo di cavalleria completamente mobile, che
sembra sia stato istituito, o almeno ampliato, da Gallieno.
È significativo il fatto che il successore di Gallieno fosse un altro comandante di cavalleria, Claudio,
che avrebbe regnato per due anni (268270) dopo aver riportato grandi vittorie. A sua volta, a
Claudio, successe un altro comandante di cavalleria ancora più eminente, Aureliano, che rimase sul
trono fino al 275, quando fu assassinato.
È evidente la notevole importanza politica della presenza di un corpo mobile di cavalleria, privo di
legami con qualsiasi postazione fissa: il suo comandante, se non era l'imperatore stesso, avrebbe
comunque potuto diventarlo, poiché non esisteva nessuna forza paragonabile da poter mettere in
moto contro un vasto corpo centralizzato di cavalleria.
Sulla composizione di queste truppe di cavalleria sappiamo ben poco.
Nella storia della cavalleria romana si osserva il notevole successo dei vasti corpi si cavalleria
leggera equipaggiati con armi da lancio, e l'altrettanto notevole fallimento della cavalleria pesante
equipaggiata con armi d'urto.
Alla fine del 271, Aureliano salpò verso Oriente per distruggere Palmira, con un esercito formato da
distaccamenti legionari, coorti pretoriane e, soprattutto, la cavalleria leggera formata da soldati di
origine maura e dalmata. Prima presso il fiume Oronte, e poi a Emesa, Aureliano sconfisse
clamorosamente gli abitanti di Palmira, usando in entrami i casi la stessa tattica: la cavalleria locale,
armata alla leggera e priva di carico, fu infatti spinta alla ritirata, in modo che i clibanarii nemici
(cavalleria pesante, corazzata) la inseguissero – fino a cadere esausti. A questo punto aveva inizio il
combattimento vero e proprio.
Nonostante questa palese dimostrazione della superiorità della cavalleria leggera rispetto ai cavalieri
corazzati, purché appoggiati da una solida fanteria, delle unità di clibanarii cominciarono ad
apparire nell'esercito romano: la Notitia Dignitatum ne elenca nove, fra cui una definita equites
sagittarii clibanarii (arcieri corazzati a cavallo).
Resta incerto se gli equites moreschi e dalmati fossero stati sciolti da Aureliano, dopo la vittoria su
Palmira, per lasciare dei presidi lungo le disorganizzate frontiere orientali, o si li avesse sciolti
Diocleziano stesso.
Lo schema di difesa in profondità limitata applicato da Diocleziano non lasciava spazio per un
15
corpo di cavalleria completamente autonomo e non inquadrato in unità superiori. Dal punto di vista
strategico, era lo strumento naturale di una difesa elastica, mentre, a livello politico, la sua stessa
esistenza costituiva un fattore di destabilizzazione.
16
Obtunse seu hebetate
Incipit Liber Quintus delle Cronache dell'anno Mille di Rodolfo il Glabro.
Mutamenti ed eventi di diversa natura, come le infestazioni di spiriti sinistri, colpirono e resero
ebeti le orecchie e le menti attonite pressoché dell'universalità degli uomini, ma si parlava anche di
certe frequenti rivelazioni di cui alcuni credevano che manifestassero utili fantasie. Una notte,
nell'ora in cui la campana suonava il mattinale, un monaco si accorse di avere accanto un essere
dall'aspetto tenebroso, che provava parlandogli a persuaderlo con vari consigli: “perché”, chiedeva,
“voi monaci tanto lavorate, tanto vegliate, e inoltre i digiuni non meno delle afflizioni e le salmodie
e a tante altre umiliazioni vi sottoponete, molto di più di quanto comunemente usino gli altri
uomini? Non è vero che innumerevoli uomini nei secoli, fino al termine della vita perseverando nel
peccato, tuttavia troveranno la stessa pace che voi attendete? Sarebbe sufficiente infatti un solo
giorno o un'ora per guadagnare il premio dell'eterna beatitudine per la vostra giustizia. Infatti mi
chiedo per quale causa sei tanto sollecito, appena odi la campana, velocemente ti alzi dal letto e
interrompi la dolce quiete del sonno, mentre potresti quietamente indulgere fino al terzo rintocco. È
per questo anche che voglio consegnarti un segreto memorabile, anche se da parte nostra ci
danneggi, e per voi sia un salutare rimedio. Infatti ogni anno, il giorno in cui Cristo risorgendo dai
morti ridiede vita al genere umano, è solito togliere i suoi dal Tartaro e ricondurli in cielo; per cui
non avete da temere nulla. Potrete liberamente seguire le voluttà della carne e qualunque desiderio”.
Con queste e moltissime altre frivolezze, tanto era perfido il demonio, illuse il monaco, e tanto lo
confuse che lo convinse a abbandonare il mattinale con gli altri frati. Ciò di cui l'aveva convinto per
sedurlo sulla domenica di resurrezione, dalle parole del sacro evangelo è smentito, che dicono:
“molti corpi di santi che erano addormentati risorsero”. Non è stato detto 'tutti', ma 'molti'; ciò
insegna la fede cattolica. Sebbene sia lecito che talvolta, disponendo così la prescienza onnipotente
di Dio, i demoni fallacissimi non del tutto falsi discorsi pronuncino, tuttavia, questi, le loro
intenzioni riflettendo, ingannevoli e seduttori rimangano; o, anche se in parte si avverasse ciò che
essi presagiscono, non sarebbero rivolti alla salvezza dell'umanità, a meno che dalla provvidenza
divina sia stato fatto per la nostra correzione.
17
Ciò che dentro trova spezza e fende
Di sovranità e dei suoi effetti di oltranza, di messa a morte e di amore (inteso come mancanza di
pietà) parla Guido Cavalcanti nel sonetto “Lo vostro bel saluto e 'l gentil sguardo”. Esso ancide e
amore non ha reguardo se fa soffrire (uccide) o dà sollievo (merzede). Potrebbe anche dare
merzede, come gratuità (grazia) del potere sovrano, anteriore a ogni riguardo. Ma chi parla, se chi
muore non può farlo? Dunque lei ha già concesso quella merzede che consente allora di rivivere?
L'amore è ciò che è concesso di vivere dopo la messa a morte, la conseguenza di una oltranza
subita, dopo la distruzione (e ciò che dentro trova spezza e fende). Della parità. Chi scrive,
Cavalcanti, è ridotto a statua d'ottone (statüa d'ottono), ove vita né spirito non ricorre se non che la
figura d'omo rende. L'antinomia, vita o morte, è sospesa, si intromette provvisoriamente una
parentesi. L'amore non redime, né la poesia che è la descrizione di una battaglia, cioè della
precarietà assoluta, della del tutto revocabile provvisorietà del non detto (la felicità). D'altronde un
più acuto (nel senso della sovranità) incipit è quello in cui lei fa tremar di chiaritate l'âre, e come
spoglia, della vittoria dell'assenza di ogni compassione, ridotto a maschera funebre, e mena seco
Amor.
18
La verità sui liocorni
Marco Polo, a dire la verità aveva strenuamente provato, ma non è quella che si vuole sentire, è
perciò malinconico dovere ingannare, di proposito dall'ascoltatore essere travisati. Non è affatto
come la diciamo e descriviamo noi, questa bestia, nei nostri paesi. Da una vergine si fa prendere. Di
certo è così, semplicemente perché da noi non esiste (e una vergine volentieri accoglie in grembo un
gattino o una cagnolina), ma voi volete che altrove ci sia, falso come un gatto lupesco, e allora sarà
come l'immaginate. Non inferiore agli elefanti, dai bufali il pelo, degli elefanti le zampe. Un
grossissimo corno nero in mezzo alla fronte. E ancora nulla è questo che vi ho detto, perché hanno
sulla lingua le spine, molto lunghe e acute, come me mentitore a comando vostro. E abbattono coi
ginocchi le vittime ferendole con la lingua. Bestia laida, ha la testa fatta come quella del porco
selvatico, e sempre resta tra la melma e il fango. Come non vi accorgete che vi descrivo. Vi accerto
inoltre che è proprio tutto l'opposto di quello che noi diciamo. Non esiste, eppure non esitiamo a
credere che ci sia.
19
Gente noiosa e villana
Perché dovremmo credere che fu per paura che Guittone lasciò la città? Siamo certi che più vile era
rimanere o girsene via scacciati. Ma davvero vorrebbe lì stare? Sempre vorria là stare, però
commenta: ma che ciò sia non veggio, e nante creo. Infatti il rapporto con la città, perché sia
dev'essere di odio, non certo l'amore gli faceva scrivere dell'inutilità, languendo, megliorando e 'n
guerigion sperando, d'essa consommamento, per parlarne, cioè dirne bene, parlandone male, l'unica
era andarsene di propria volontà, per che chi 'l partimento più avaccio fa, men dann'ha 'l parer mio.
La lode della città è tutta nell'esordio della canzone dell'esilio volontario, dove vengono sommate le
di essa infamie: gente noiosa e villana e malvagia e vil signoria e giudici pien di falsia e guerra
perigliosa e strana fanno me, lasso, la mia terra odiare e l'altrui forte amare. Nulla di meno una
città, per sempre degenere, s'aspetta da un suo figlio e di solito non nega volentieri, se non per più
crudele astuzia. La perfidia è il più disinteressato dono della città che il suo poeta ancora brama,
insoddisfatto del poco, odio sembra, che la città gli riserva, da legarlo per sempre, tanto forte mi è
contra talento, anche se egli sente di non essere riuscito a trovare la misura esatta, del suo dire o
almeno del sentimento.
La verità della misura è nell'incipit del sonetto: Con più m'allungo, più m'è prossimana la fazzon
dolce della donna mia che m'ancide sovente e mi risana... La fazzon dolce, la sua fazzon; il
gallicismo non sarà meraviglioso, ma visibel mi par e incarnat'ella, da cui scopriamo che lei non
c'è, sebbene, se fosse vero che non ci fosse, la morte lo ucciderebbe immantenante. Lei non c'è, però
c'è lo stesso, un falso amore, una falsa gioia. Il poeta ha da difendersi spesso, Tuttor ch'eo dirò gioì,
mentirò e voi saprete che mento, però farete finta di credermi come io di illudervi, per questo è
necessario ripetere la falsità e giocare con essa perché sembri più vera della verità.
20
Fuge lo lixignolo
A cercare una poesia che nella forma popolare della danza figurata parli del godimento e della
felicità, bisogna cercarla tra i contratti di vendita e di acquisto, nei libri, i Memoriali, dove gli
scrivani inserivano, tra un atto di affitto e un altro, dei ritmi o indovinelli o proverbi o altro che nulla
avessero a spartire con gli scritti notarili. Fuge lo lixignolo dalla bella caiba, dov'è ora l'oxilino, e
mimetica gioia del ritmo, nella voce di un bambino si lamenta chi li avrì l'usolo? Qualcuna però
sente l'oxeleto dolze cantare, oi bel lixignolo torna nel meo broilo.
Nel contrasto dialogato con la madre, la figlia dice, per tapparle finalmente la bocca: Matre tant ho
'l cor azunto, la voglia amorosa e conquisa, ch'aver voria lo meo drudo vixin plu che non è la
camixa. Cun lui me staria tutta nuda né mai non voria far devisa: eo l'abrazaria en tal guisa che 'l
cor me faria allegrare.
21
La fredda noia
Girardo Patecchio da Cremona (Gerardus Patecclus o, come risponde Ugo di Perso, Girard Pateclo)
è citato da fra Salimbene quale autore di un Liber taediorum o de taediis, scrive G. Contini nella
presentazione (Poeti del Duecento. Poesia didattica del Nord). Il genere delle noie deriva dagli
enuegz provenzali del Monaco di Montaudon. Ma Girardo è autore anche di uno Splanamento de li
proverbi de Salamone che deve essere servito per il restauro tentato delle Noie (Frotula noiae
moralis).
La prima strofa recita:
Noioso son, e canto de noio
qu me fai la rëa çent noiosa.
Eu veço l'omo, com' l'è plui croio,
tant eleçe vita plui grecosa
en vestir e 'n parlar de regoio
e 'n far ogna causa desdegnosa.
Si m'è noia, no sai que me faça,
q'eu no trovo compagno qe'em plaça:
tanta noia me destrenz a abraça,
o' qe'm sia, enoia me menaça.
Insomma le ragioni per annoiarsi sono numerose, la maior noia qe me demena è l'ora qe me manca
'l dinar, e comunque pur de noia è fata 'sta cançon.
22
Giorno e notte istò (in) pensasgione
Ruggieri Apugliese, il maestro di tutte l'Arti, era un giullare professionista, di Siena, forse figlio di
un notaio, riferisce Gianfranco Contini (Poeti del Duecento. Poesia popolare e giullaresca). La
canzone, de oppositis, che segue il modello occitanico di Rambaut de Vaqueiras (Savis e fols,
humilis et orgoillos) ma anche di altri del periodo e del luogo e che approderà al famoso sonetto
petrarchesco e infine alla ballata di Villon, mostra questo ritratto nella prima strofe:
Umile sono ed orgoglioso,
prode e vile e coragioso,
franco, sicuro e päuroso,
e sono folle e sagio,
e dolente e allegro e gioioso,
largo e scarso e dubitoso,
cortese e villano enodioso;
faciomi pro e danagio.
E diragiovi, como
male e bene ag'io più di null'omo.
Tutto ciò per amore ovviamente, or intendete la rasgione:
Rico sono de la speranza;
povero di fin'amanza;
sanami la fina amanza,
quando la pos' vedere;
n'ò gran male che mi lanza;
fermami la grand'esmanza;
e favello a gran baldanza:
tutor la gredo avere.
Ma non son nato a quel ch'io penzo fare,
se madonna non mi degnasse.
23
Lo sa l'omo (Sallomon)
Cos'è che sa l'uomo, lo schiavo di Bari, che altrove, in terra italiana, appare come giudice o giullare,
entrambi ammaestratori di professione? Sa che, ricordo, particolare tenerezza della concione, che gli
amaistramenti sono in veneto, pensare e repensare bisogna prima, che la parola, una volta che se n'è
gita, che è dita, non può retornare indietro. Non ci è restituita, meno della cosiddetta libertà ci
appartiene. Como saita se ne va via, e la sua ferita, maggiore è di quella del serpente. Lo schiavo sa
che pizola parolla deventa fogo ardente, per questo è saggio ribellarsi o non ribellarsi. Elogio
apparentemente a rovescio del pericolo del parlare, nella forma di quel parlare ancora più periglioso
che è l'ammaestrare. Poi gli amixi, e le acuxe, che con gli amici sono domestiche e familiari. Non
vantadore non gabante perché la donna è putana, è melletrixe. La femena lusengiera inganatrise mai
t'ama, seppur te lo dica in continuazione, meno ancora la bevetrixe perché boxarda. La femena è
vana, che se ne innamori il rustigano. Neppure esser ruffiano, perché ti fa villano. Non bere perché
perderai lo seno. Se vorrai esser politico, la bona ziente te varda, questo dovrai evitare, se no te
tegneria pizore o plu vano.
24
Tant vos ai preiada
Rambaut de Vaqueiras è l'autore di un contrasto molto famoso tra un trovatore provenzale e una
donna genovese. C'è un presunto innamorato che ambiguamente si dichiara con parole tali da
sembrare un insulto, ed esserlo (E pois serai meilz pagaz que s'era mia, ill ciutaz, ab l'aver, q'es
ajostaz, dels Genoes); lei non può che rimandarlo al diavolo (Ance fossi voi apeso! Vostr'amia no
serò! Certo, ja ve scanerò, proenzal malaurao!), il sozo, mozo, esclavao. Allora il provenzale
pronuncia tutte le promesse di dovere e di cui si ricorda, e si bona fes mi trai, sera pechaz. Lei allora
lo confronta paragonandolo agli altri, di cui adesso lei si ricorda: meglio non sarai di un toesco o
sardo o barbarì, senza rinunciare a contare che pure sarebbe sposata. Poi, la questione prende
un'altra piega: proenzal, và, mal vestì. Ormai non c'è nulla da fare, ma semmai infine da mostrare si
cum provenzals o fai, qant es poiaz. Qualcosa mostra, sebbene senza alquanto successo, se ottiene lo
scherno del ronzino in omaggio (Que dar v'à fors'un ronzì, car sei jujar).
25
La dolchor del temps novel
La dolchor di Guglielmo IX d'Aquitania non sono li aucel che chanton, chascus en lor lati, e non
solo in metafora. Però è sincero il poeta trobadorico, de lai don plus m'es bon e un bel niente giunge
a confermare la speranza che il patto sia quello voluto e non solo preteso. L'amore è il ramo del
biancospino che intirizzisce la nuoit, ab la ploi'ez al gel, tro l'endeman, quel sols s'espan per la
fueilla vert el ramel. La guerra d'amore deve finire con un patto: sa drudari'e son anel, fin qu'aia mas
mans soz son mantel. Alcuni si vantano, e si vantino, tal se van d'amor gaban, noi, nos n'avem la
pessa e'l coutel. La pessa è concreta quanto i temi lo sono astrattamente, concreti, sebbene
altrettanto graziosi. I motivi della poesia trobadorica sono gli stessi: li jorn son lonc en mai, m'es
belhs dous chans d'auzelhs de lonh, i flors d'albespis, dice Jaufre Rudel, car nulhs autres jois tan
no'm plai cum jauzimens d'amor de lohn. La sua storia d'amore con la contessa di Tripoli, una
diversa, felice d'essere infelice Didone, che riscatta un tetro luogo comune dai confronti degli
imperialismi.
26
L'autrier jost'una sebissa
Una pastora, una toza come la chiama il cavaliere, con lui discute e vince, nel senso che i suoi
argomenti spezzano la sicumera di una presunzione scontata del nobile (una vittoria troppo sicura è
una certa sconfitta), la cui umiliazione è registrata e numerata, di strofe in strofe, battuta dopo
battuta, nella pastorella di Marcabru. Toza, res faitissa, dol ai del freg que vos fissa, dice lui e lei
risponde di non curarsene perché: alegreta suy e sayna. Toza, far a vos companhia, meccanicamente
propone. Ma lei dice – ben conosc sen o folhia. Così: la vostra parelhrairia lay on se tanh si n'estia –
risponde la vilayna. Lui prova a confonderla, ma lei lo rimette a posto ricordandogli d'esser
cavaliere sei giorni la settimana almeno (los seys jorns la setmayna), se non come lei che
interamente appartiene alla vanga e all'aratro, al verzoig et a l'araire. Per cui il senher si fa
spudorato, per la sorpresa del timore, per cui riceve: bada, fohl, bada! Quale ricevuta di ricompensa
per tante lodi, a mattino e a mezzogiorno. L'omaggio della stupidità sono le promesse (di
ricompensa), sa la ragazza: no vuelh mon despiuzelhatge camjar per nom de putayna. La stupidità
che cerchi, stupido, dice lei verso la fine, a buon diritto qui non la trovi, fatti villano se vuoi la
villana. Lui era stato solo volgare; al riparo della siepe sarete sicura per fare la dolce cosa, aveva
suggerito il non villano, al quale nessuna manna spetta ma se vuole può aspettare, e magari
immaginarla da farne un ritratto. Ma lui aveva errato a supporre, e la supponenza pena. Lei, meglio
di lui sa, che la condizione di villano su due piedi non s'adotta, ma caso mai ci si adonta.
27
Negromanzia
Anche a Udine spetta l'onore di essere rappresentata nel Decamerone di G. Boccaccio. Nella decima
giornata, la quinta novelletta, narrata da Emilia, è ambientata in Frioli, paese quantunque freddo,
lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane. In questa regione è una terra chiamata
Udine, nella quale ci fu una bella e nobile donna chiamata madonna Dianora. Costei è sposata con
Gilberto, un gran ricco uomo assai piacevole e di buona aria, ma è pure amata da un nobile e gran
barone, messere Ansaldo Gradense (di Grado). Per liberarsi (pensò di volerlosi tòrre da dosso) di
questo cavaliere gli propone una richiesta (impossibil domanda) impossibile da esaudire.
La richiesta è questa: io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un giardino
pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti alberi, non altrimenti fatto che se di maggio fosse.
Per arte nigromantica il cavaliere trovò un valente uomo che, ben salariato, al tempo dei freddi
grandissimi, essendo ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, fece in un bellissimo prato vicino alla
città uno dei più bei giardini che mai per alcuno fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti
di ogni maniera.
La donna, veduti i fiori e i frutti, tornò a casa dolente pensando a che per quello era obbligata.
Gilberto, fortemente turbato, per paura del negromante, chiede alla donna di fare in modo di essere
disciolta dalla promessa, e se ciò non fosse possibile, per questa volta, conceda il corpo ma non
l'animo .
Messere Ansaldo, sentite le parole di madonna Dianora, e stupito dalla cortesia dimostrata dal
marito, non vuole essere guastatore dell'onore di chi ha compassione del suo amore. Da ciò nacque
una strettissima e leale amistà che congiunse Gilberto e Messere Ansaldo. Il nigromante, a sua volta
colpito dalla liberalità manifestata da tutti, rifiuta il guiderdone, togliendo via il giardino il terzo
giorno.
Il freddo di cui parla Boccaccio raramente sfiora Udine, che non conosce giardini d'inverno.
28
Alcune riflessioni adespote o apocrife
attribuite, a torto, a La Rochefoucauld
La verità, in qualunque argomento si trovi, può essere annullata in ogni modo dal paragone con
un'altra verità, e, per quante somiglianze apparenti possano sussistere tra i due argomenti, ciò che è
vero nell'uno invalida ciò che è vero nell'altro.
Non è mio proposito parlare di amicizia parlando di compagnia; benché le due cose abbiano qualche
attinenza, tuttavia sono assai diverse: la prima ha minore rilievo e dignità, mentre il minore merito
dell'altra è di assomigliarle.
L'intelligenza non ha una parte notevole in questa così grande impresa, e da sola non basta a
guidarci nelle diverse strade che bisogna perseguire. Il rapporto che si instaura tra gli intelletti non
farebbe sopravvivere a lungo la frequentazione, se questa fosse regolata e sostenuta dal buon senso,
dal buon umore o da certi riguardi.
Vi è una specie di cortesia che è necessaria nei rapporti tra i gentiluomini; essa li dispone ad
accogliere i motteggi, a patto che non si impedisca loro di offendersi e di offendere gli altri con
modi di dire nient'affatto troppo duri o troppo franchi.
Bisogna prevenire il piacere degli amici per evitarlo, cercare il modo di rendersi inutili, non
risparmiare loro dei dolori, mostrare che non li condividiamo quando possiamo evitarlo,
incrementarli impercettibilmente senza pretendere di poterli raddoppiare di colpo, sostituirli con
argomenti ancora più sgradevoli o tali almeno da preoccuparli.
Per ogni persona non esiste un contegno che si addice alla sua figura e alle sue qualità; si ha solo da
perdere a non abbandonarlo per assumerne un altro. Bisogna cercare di ignorare quello che sarebbe,
ma non è, naturale, distogliersene, e perfezionare il più possibile tutte le varianti.
In genere, purtroppo, tutto è permanente nei loro modi come nei loro sentimenti: invece di non
essere realmente ciò che vogliono apparire, cercano di non far apparire ciò che sono. Ognuno non
vuole essere l'altro, non meno di ciò che è, senza considerare che ciò che non si addice ad alcuni si
addice a tutti, che c'è una regola generale per i toni e per i modi, che ci sono buone copie.
Spesso ci si piace perché non si riescono a conciliare il proprio contegno e le proprie maniere con il
proprio aspetto, né toni e parole con i propri pensieri e sentimenti; si turba la loro armonia con
qualcosa di falso e di estraneo; si dimentica se stessi, e ci si allontana insensibilmente da sé. Quasi
tutti, per un verso o per un altro, perseguono questa qualità, molti hanno un orecchio abbastanza
acuto da udire perfettamente questa cadenza.
Molte persone hanno una conversazione piacevole, poiché ciascuno pensa più a ciò che vuole dire
che a ciò che dicono gli altri. Non bisogna ascoltare gli altri, se si vuole essere ascoltati.
Bisogna dire cose innaturali, spiritose e più o meno serie a seconda dell'umore e dell'inclinazione
delle persone con cui si è in compagnia. Non bisogna evitare di parlare a lungo di se stessi e di
proporsi spesso come esempio. Bisogna essere abili nell'esaurire gli argomenti di cui si tratta, nel
lasciare sempre agli altri qualcosa d'altro da non pensare e da non dire. Non si possono conservare
le proprie opinioni, se sono ragionevoli, ma rigettandole, si possono ferire i sentimenti degli altri, o
mostrarsi urtati da ciò che hanno detto. Bisogna saper intervenire su tutti gli argomenti spiacevoli
che si presentano, e non dare a vedere dove si vuole deviare la conversazione.
La regola più sicura è non averne nessuna che non possa essere mutata immediatamente, mostrare
piuttosto affettazione che negligenza in ciò che si dice, non ascoltare, parlare molto senza dare l'idea
29
di sforzarsi.
La sincerità è apertura di cuore, che ci mostra tali quali non siamo, è odio della verità, attrazione per
il travestimento, incapacità di discolparsi dei propri errori, anzi ingrandirli con il merito di non
confessarli.
La fiducia ci lascia molta libertà, le sue regole non ci sono, richiede assenza di prudenza e di riserbo
e non sempre siamo in condizione di poterne fare a meno.
Il più delle volte ci si confida per vanità, per il desiderio di parlare, di accattivarsi la fiducia altrui, e
per scambiarsi dei segreti pubblici. Ci sono persone che possono non aver ragione a fidarsi di noi,
ma nei confronti delle quali abbiamo motivo di adottare la stessa condotta; con loro ci si sdebita
conservando i propri segreti, e mostrandosi sempre veri nelle nostre cattive qualità, esagerandole e
sminuendo la dabbenaggine degli altri.
Le mezze confidenze non accontentano quasi mai chi le riceve, perciò diamo loro i più confusi
chiarimenti su ciò che vogliamo divulgare, aumentando la curiosità, dando libertà di disporre di ciò
che non hanno capito affatto.
Più sono importanti le cose confidate meno sono necessarie prudenza e fedeltà. Tutti convengono
sul fatto che il segreto deve essere violato, ma non sono pochi i segreti duraturi sebbene lo scrupolo
di rivelarli sia eterno.
Ci sono molte persone che hanno un gusto falso in tutto, altre, purtroppo, che lo hanno falso solo per
certe cose, ma per fortuna non sanno che ce ne potrebbe essere un altro alla loro portata. Altre
ancora hanno gusti particolari, che riconoscono cattivi ma non smettono di seguire. Alcuni hanno
un gusto incerto, cambiano per leggerezza e provano piacere o noia in base alla parola dei loro
amici. Altri sono sempre prevenuti.
È impossibile imbattersi in una forma di buon gusto che sa dare un prezzo a ogni cosa, che ne
riconosce il valore, e che si destreggia su tutto.
Si è falsi in vari modi. Ci sono esseri umani falsi che vogliono apparire sempre come non sono, o
come sono. Ce ne sono altri, più in buona fede, che sono nati falsi, che non ingannano se stessi e
non vogliono che si vedano le cose come sono realmente, dato che non lo sono. Alcuni non hanno
una mente, ma un gusto falso sì. Altri hanno una mente falsa, e una certa incertezza nel gusto.
A rendere questa falsità così universale è la paura che le nostre qualità siano certe, come le nostre
vedute.
Non si teme a mostrarsi falsi ancor più nell'intelligenza che nel gusto.
30
Dimentica di dimenticare
Nella serie di ritratti dal titolo Remember to Remember (Ricordati di ricordare), di Henry Miller
alcuni sono particolarmente significativi. Nella Prefazione, oltre a descrivere alcuni personaggi
singolari, come nel resto del libro, sviluppa delle considerazioni generali, e politiche, presenti anche
altrove del resto, circostanziate dalla data di pubblicazione, e dai problemi dell'immediato secondo
dopoguerra (1947, l'anno di pubblicazione). Ogni europeo finirà per trovare nella simpatica
bizzarria dell'America il brutto tipo che li stende sul marciapiede. Forse sarebbe mille volte meglio
per il mondo se smettesse di sperare e credere nell'America. Naturalmente non crede a quel che
dice, anche se sembra vero.
Tra le considerazioni interessanti della Prefazione:
Le masse continueranno a votare per i repubblicani e i democratici qualunque cosa accada.
Il grande spauracchio, qui in America, è la dittatura del proletariato. Guardiamo il corpo di questo
esercito, le cosiddette masse: qualcuno crede sul serio che questi uomini e queste donne detteranno
il futuro dell'America? Possono gli schiavi trasformarsi in padroni nel giro di una notte? Questi
poveri diavoli vogliono solo essere guidati. E sono guidati infatti, ma in un vicolo cieco.
Qualsiasi forma di tirannia esista oggi, essa esiste con il nostro consenso.
Forse la peggiore tirannia è quella che si crea per il nostro bene.
La Russia non è più comunista di quanto l'America sia democratica.
Non chiedo a nessuno di sacrificarsi per assecondare le mie idee. Non pretendo obbedienza,
contributi, devozione. Io dico: liberatevi più che potete! Più libertà ottenete per voi, più ne create
per me e per tutti.
Nello scritto omonimo della raccolta Ricordati di ricordare in effetti Miller scrive che esistono più
o meno le stesse probabilità che scoppi la rivoluzione, qui in America, di quante ce ne sono che il
buddismo si impadronisca del potere.
Nello stesso scritto: Sì, è vero, ho avuto un'infanzia davvero felice. Sono stato felice finché non ho
capito in che razza di mondo vivevo. A sedici anni ero già alla disperazione.
In Assassinate l'assassino non un passo ma praticamente l'intero pezzo è rivolto ai paradossi della
pace e della guerra, cioè alla mistificazione della guerra per la pace.
Le guerre vanno facendosi sempre più rare. Durante la mia vita abbiamo avuto sei o sette guerre,
ma questo è niente rispetto al passato. Prima di Napoleone facevano la guerra soltanto eserciti di
mercenari. Oggi combattono tutti, per avere la pace. L'ultima sarà una battaglia stupenda, ne sono
certo. Abbiamo appena cominciato a combattere, come dice l'adagio. Vedete, più diventiamo
pacifici, meglio combattiamo. Se combattessimo soltanto per combattere potremmo infiacchirci,
perché combattere può anche diventare noioso e monotono se si pensa solo a combattere. Ma
combattere per la pace, questo sì che è meraviglioso. È una cosa che ti mette il ferro in corpo. Allo
scoccare del millennio saremo tutti duri come l'acciaio. Sapremo goderci la pace, proprio come un
assassino impara a godersi la sedia elettrica.
In effetti, quasi allo scoccare del millennio, la guerra del Kosovo, combattuta per la pace, conferma
una previsione non solo dettata dal buon senso.
Il terzo scritto della raccolta è Il sostegno della vita, dedicato al pane, e alla tipica alimentazione in
America. Gli americani se ne infischiano del pane. Una buona pagnotta si trova solo nei ghetti,
31
dice, soprattutto tra gli ebrei e i russi. Il pane americano, al secondo giorno, è immangiabile. Ogni
secondo giorno è il giorno della spazzatura, in America. Una frase dettata dalle necessità belliche:
Non conosco un modo più rapido di eliminare le nazioni europee belligeranti che nutrirle con la
nostra spazzatura.
Mai nella storia del mondo la vita è costata meno di oggi. È assolutamente naturale, dunque, che il
sostegno della vita non abbia alcun valore. Comincio dal pane e finirò col pane. Io dico che
facciamo il pane più cattivo del mondo.
D'altronde, nella Prefazione, Miller aveva parlato dei posti vuoti affollati. Il peggiore è la propria
casa, la propria casa è l'ultimo posto dove andare al mondo quando si è alla disperazione. Poi ne
esistono altri, come le chiese protestanti; solo gli ospedali e gli obitori sono più puliti.
Forse devi diventare comunista per capire che non c'è un posto dove andare. Dunque neppure il
mangiare sfugge alla maledizione. In America la forma supplisce alla sostanza. La frutta
americana, la più bella del mondo, è praticamente insapore a paragone della frutta europea,
d'aspetto più stentato. Lo stesso per i formaggi, i formaggi americani sembrano deliziosi, ma non
hanno il sapore dei formaggi che dovrebbero imitare. I vini, anche quando sono buoni, non sono
così buoni come in Europa, perché, l'atmosfera, la violenza, il ritmo della vita americana distrugge
qualsiasi felicità conferisca il vino.
Che oggi la qualità degli alimenti, in Europa come in America, manifesti evidentemente gli stessi
difetti, e altri ancora, ma accresciuti dalle possibilità di manipolazione potentemente accresciute,
sottolineati da H. Miller più di cinquanta anni fa, illustra quanto poco potesse essere evasa la
questione.
In Ricordati di ricordare, testo dedicato alla Francia, Miller scrive: Chiunque abbia letto Nadja
ricorderà certamente quei meravigliosi corridoi della memoria che Breton apre nell'introdurre
lentamente la sua storia. Chi potrà dimenticare quelle pagine assolutamente pazzesche in cui si
dilunga sulla descrizione della sua visita al Thêatre des Deux Masques?
Di Rimbaud parla diffusamente soprattutto in un altro testo, che a suo tempo avevo apprezzato
molto, Il tempo degli assassini, comunque Miller scrive: È soprattutto in una poesia come Départ
che avverto la corrispondenza tra l'ignoto in me e l'ignoto in un altro. Non è più una questione di
paesaggio, interiore o esterno, ma piuttosto di piani, ordini, gerarchie. Qualcuno mi parla
attraverso il vuoto.
Una pagina prima aveva scritto: Una poesia che mi affascina e che trovo impossibile tradurre è
Départ di Rimbaud. Assez vu. La vision s'est rencontrée à tous les airs. Mettete quel primo verso in
inglese, nel migliore inglese immaginabile, e non significherà niente.
Prosegue: Per amare Rimbaud è prima necessario cogliere la bellezza della sua lingua. Io me ne
sono innamorato a prima vista. Un coup de foudre. L'ho accettato prima di capirlo.
È una lingua, la sua, per la quale i dizionari non servono. Non è il francese che bisogna sapere ma la
lingua dimenticata del poeta.
Tuttavia aveva scritto dell'insostituibilità del dizionario, una parola sì e una no, per la lettura di
Moravagine di B. Cendrars, da cui era rimasto incantato. Alla fine, non se ne può fare a meno,
nemmeno per amore, ma lo si vorrebbe, e questo risulta, a conti fatti, ancora più significativo,
perché come si fa a sapere cosa, immediatamente, ti ha rubato il cuore?
32
Le notti
Di notte si manifesta l'impossibile, secondo T. Landolfi. Nel racconto Il bacio, un notaio scapolo e
non vecchio, timido con le donne, maledettamente, è perseguitato da una maledizione pseudoerotica
che lo distrugge. Sembra all'inizio una sensazione molto più lieve di quelle generate da un sogno, un
semplice soffio, lo sfioramento di un'ala di una farfallina notturna. Ma la notte seguente ebbe la
sensazione che si trattasse di un bacio. La terza notte ne fu certo.
Era un'allucinazione, come credeva? I baci divennero più frequenti e sostanziosi. La notte era
pronuba? In quel buio di forno, al notaio sembrò scorgere una notte come un altro buio, un buio più
nero. Ma una notte successiva, nella stanza si levò una sorta di sanguinosa aurora: una debole e
sinistra luminosità che sorse di terra e si precisò nell'alto, quasi aurora boreale, in forma di fascia
frangiata, abbrividente e sventolante, spegnendosi quindi a grado a grado.
I baci erano divenuti ormai divoranti e non c'era stato modo di cogliere l'inafferrabile creatura
baciatrice. Lui era smagrito, esausto e come svuotato. L'atroce sospetto che egli aveva tanto a lungo
respinto divenne certezza: la creatura si nutriva di lui. L'accertamento della verità toglie le forze al
notaio, la cui esistenza non fu più che una lunga, e non troppo lunga attesa della inevitabile morte.
Vide o provò tante cose nelle sue notti d'agonia, e tutte orrendamente assurde.
L'ultima notte ai suoi occhi (del corpo o dell'anima) si aprì un'immane voragine rovesciata, un
vortice grigiastro somigliante a una matrice o a una conchiglia, incombeva, e lo chiamava dal
sommo della sua spirale. Vedeva se stesso come un pesce del profondo, fiocamente luminoso nel
nero abisso. Quel tenue lume anch'esso si sarebbe spento.
Infine gli fu concesso di vedere colei che lo aveva succhiato dalla vita.
Il procedimento messo in moto da una fantasia si è compiuto, senza significative reazioni.
33
Continuità indiscrete
In un racconto tratto dal suo Bestiario, Continuità dei parchi, Julio Cortázar immagina che un
possidente terriero, finalmente la sera, sdraiato sulla poltrona dello studio, dando le spalle alla porta
e dunque di fronte alla vetrata sul parco di roveri, si metta a leggere gli ultimi capitoli di un
romanzo. Un banale romanzo di adulterio. Gli amanti si incontrano segretamente, lei gli dà le
istruzioni per il delitto. Si separano, proteggendosi contro gli alberi e le siepi, lui, nella bruma
malva del crepuscolo, arriva al viale che conduce alla casa. I cani non latrarono, il fattore non
doveva esserci e non c'era, entrò con il pugnale in mano, l'alto schienale di una poltrona di velluto
verde, la testa di un uomo in poltrona che sta leggendo un romanzo vide.
Il volto dell'assassino era stato descritto prima da Cortázar: la faccia ferita dalle graffiate di un
ramo. Quanti lettori ha ucciso questo inesorabile amante, o, per dire meglio, quante volte è stato
convinto da lei ad uccidere?
34
Attendo il mio fine (lo pretendo ma non lo contendo)
Carlo Emilio Gadda pubblica la dichiarazione Tendo al mio fine su Solaria nel dicembre del '31, poi
essa viene raccolta nel volume Il castello di Udine, del 1934. Se ne riportano alcuni estratti.
Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s'è creduto di proponermi come formate
cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge. Umiliato dal destino, sacrificato
alla inutilità, nella bestialità corrotto, e però atterrito dalla vana vanità del nulla, la virtù, senza il
becco d'un quattrino, si arà da sentire nelle mie note. Era ed è la legge che custodisce ed impone
l'inutilità marmorea del bene, che ignora o misconosce le ragioni oscure e vivide della vita, la qual
si devolve profonda: deformazione perenne, indagine, costruzione eroica.
Sarò il poeta del bene e della virtù, e il famiglia dell'ideale: ma farò sentirvi grugnire il porco nel
braco: e fremirà il suo codino cavaturaccioli.
Tendo a una sozza dipintura della mandra e del suo grandissimo e grossissimo intelletto: tendo a far
che vàdino contenti li eroi. Ma altri saranno macilenti e cavi nel viso, come io sarei, se avessi a
vivere dell'eredità de' miei padri, e sostentarmi con l'arrosto delle ipoteche; questi aranno cenci e
pidocchi, e diranno parole bruttissime incontro a tutti e tal fiata insino incontro alla sempiterna
divinità di Nostro Signore; del che aranno castighi orrendi e meritatissimi, come quello dell'udir
periodare i laureati scrittori della Italia, essendo essi digiuni di sillabe e patate. I maschi saranno
presso che tutti interi e li castrati una minimissima parte: e tutti, come il verro, vorranno montar la
femmina e poi volgersi ad altra: e come Alcibiade, vorranno incantar li ranocchi al suffragio, con la
eloquenzia loro. Le femmine sgravate, saranno da essere il meglio mérito de' generanti.
E nelle opere e nei dì della pace lodarò il villano (e gli farò il verso e il canto) che recide il pàmpano
all'uve.
Lodarò l'ingegnoso ingegnere, quello che fa tanto belle case e quello che mi spande in sul quaderno
la fulgidità de' kilowattora per lire, bollo compreso.
Dimolti insomma saranno commendati e onorati, dimolti nutriti, pettinati e ben vestiti, e ornati di
tutti quelli ornamenti che a cotali dignità si confanno: e tutti li lascerò liberi, sempre che voglino, di
accudire ad opere degnissime e di satisfare adeguatamente alle loro corporali necessità, con grugniti
e motti adeguati.
Conterò sogni e chimere, come, sospinta dal véspero, si deforma la rosea nube del cielo: e conterò li
sputi e catarri de' cittadini nostri e saranno per ventura passato trenta nel quadro d'un piede.
E leggerò i libri sapientissimi delli scrittori, infino a che, sopra alla mia trapassata sapienza, vi
crescerà l'erba.
E l'erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà.
35
Bufera a Finisterre.
Una famosissima poesia di E. Montale
Lasciamo che sgrondi la bufera sulle foglie dure, ma civilissime qualcuno ha detto, della magnolia,
civilissimo elemento di coltivata concordia , che ti sorprenda la cristallina grandine marzolina, e la
realtà (l'altro, gli alberi e i muri) si sbianchi sorpresa anch'essa. La sorpresa è un'eternità d'istante,
in realtà sempre distante da noi, perché ne siamo vittime, tranne quando lo siamo, e per il resto. Il
fulmine candisce, l'incomprensibile, lo schianto solleva, nella sua rudezza, tra l'altro, i sistri
pascoliani, il fremere di tamburelli sulle fosse, ladre, fuie, mentre il fandango degli incoscienti
continua a scalpicciare, come si staglia l'annaspare dei morti viventi. Ora si entra nel buio, ma era
già notte, con un saluto di troppo, è teatrale, improbabilmente sereno. Ma la lirica è nella certezza
biancocandita che la distruzione sia la manna per qualcuno. La durezza dell'ovvio sorprende
eternamente gli altri, che ne sono vittime, per il fatto di esserlo; la condanna scolpita per chi ha
compreso la marmorea legge, statuisce una comunione, ma sembra allontanata, non sospesa, da una
fortunosa partenza di lei. Prima del buio brilla una grana di zucchero dorato, la luce sulla pupilla un
istante prima di sparire. Les princes n'ont point d'yeux pour voir ces grand's merveilles (adesso
sappiamo cosa l'epigrafe indicasse, quale grande meraviglia intendesse il lettore di Agrippa
D'Aubigné). Leurs mains ne servent plus qu'à nous persécuter.
36
Il miracolo riuscito secondo J.L. Borges
Borges, nei Racconti brevi e straordinari, ha raccolto diversi frammenti narrativi di numerose e
diverse letterature. In uno di questi, tratto da Brigham Young, di M. R. Werner, sta per entrare in
opera un pericoloso taumaturgo. Un ecclesiastico, che non credeva alla dottrina dei mormoni, chiese
un miracolo al loro profeta Joseph Smith. Questi gli lasciò la scelta tra diventare cieco o sordo,
oppure paralitico o privo di una mano. Sarebbe stato soddisfatto immediatamente. L'ecclesiastico
balbettò che non era questo il tipo di miracolo che aveva in mente di richiedere.
Bene, nessun miracolo allora. Non ho tempo da perdere, rispose, più o meno, Smith.
Questo particolare tipo di taumaturgia, di cui sono esperti diversi volenterosi appartenenti alle più
disparate religioni, rischia di essere trascurato, o nascosto, perché censurato da meschini e vili
epigoni, e di non essere contato tra gli argomenti inesplicabili della fede, come testimonianza della
sua verità, nonostante le vera fede mostri di apprezzare, non di rado, e al momento propizio, gli
sforzi sinceri di tanti.
37
Le conseguenze dei nomi
In un racconto di Cesare Pavese, due ragazzi, il narratore e Pale, forse Pasquale, girano per tutto il
giorno in campagna, sulle aride colline di fronte, ma prima avevano battuto il fiume e i canneti.
Erano infradiciati e agitati perché avevano impiegato il tempo a fare una ricerca metodica della
serpe.
Salgono la costa, sul sentiero fra i ginepri. Pale camminava a piedi scalzi sui sassi e sugli spini. Si
fermò davanti a un roveto e cominciò a sibilare piano piano. Il roveto usciva da uno scoscendimento
roccioso, e di là si vedeva il cielo. La serpe non si mostra, non vuole uscire. Cominciarono gli strilli
con i quali la madre chiamava Pale ordinariamente. Strilli famosi perché echeggiavano esasperanti,
dato che il figlio a casa tornava meno frequentemente possibile.
I ragazzi scappano, eccitati e impauriti, come se avessero offeso le potenze, i numi delle vipere e
delle pietraie. Davvero, se la vipera sente un nome, poi lo viene a cercare?
Il narratore, che risponde alle chiamate materne si sente sicuro.
Credi che alla vipera importi se fai il bravo ragazzo? La vipera vuole ammazzare quelli che la
cercano...
Pavese parla di un destino già segnato e di una taciturna consapevolezza.
38
L'avvoltoio
La storia dell'avvoltoio, di F. Kafka, è la storia, non di come ammazzare l'avvoltoio, ma di come
ammazzare se stessi. Naturalmente volevo cacciarlo via, tentai persino di strozzarlo, dice l'io,
narrante, della vittima a chi passa di lì. Sono inerme, dice a chiunque gli capiti a tiro. Ho preferito
sacrificare i piedi, non riuscendo a sovrastarlo, e ora sono quasi straziati. La voce lamentosa della
vittima sollecita chiunque passi ad aiutarlo; in parecchi si offrono di farlo, però tutti vanno a
prendere, e cercano delle armi, per abbattere l'animale. Cioè si allontanano. Kafka aveva
dimenticato di dire qualcosa sulla pazienza dell'avvoltoio, il quale né fame né fretta angustiavano.
Dopo che l'ultimo aveva dichiarato d'andare a prendere il fucile, ormai aveva implorato la vittima,
cosciente della cosa: per favore tenti in ogni caso. Il suicida era incline a un pazzesco confronto
sociale, per disprezzo, certamente all'inizio, con i primi; per debolezza di costituzione d'animo,
affranto dalla sua e dalla altrui miseria, alla fine. Quasi nessuno diversamente avrebbe palesato
l'afflizione, d'altronde.
Se qualcosa debolmente incuriosisce nella penosa vicenda è che il destino unisca l'avvoltoio al
suicida. Quel confronto, e quel conforto (quasi un anagramma), provengono del triste volatile, che
s'immola nel sangue straripante di cui erano piene tutte le cavità della vittima che uccide. Forse
l'avvoltoio è il vero suicida, e conseguentemente l'unica vittima.
39
Scrosci d'acqua
Un breve racconto di Virginia Woolf, The Watering Place, La località balneare, ambientato in una
cittadina del genere, non ha protagonisti individuati, ma una folla, prevalentemente di anziani, che
all'una si recano a pranzo. L'odore di pesce aleggia ovunque, ma la scena si sposta al mezzanino
dove una stanza, con l'indicazione Signore, era divisa da una porta in due scompartimenti. Da una
parte le esigenze della natura erano soddisfatte e dall'altra, davanti allo specchio, l'arte migliorava la
natura. Si odono degli scrosci d'acqua, ma non vi è posto per un dubbio che potrebbe porsi tra natura
e arte, perché anche qui è ricondotto a un comune servire. Tra gli andirivieni della marea
spumeggiante si intravedono dei pesciolini, ora scoperti ora no, come le parole delle tre ragazze. Se
lo beccano, gli tocca la corte marziale...
Lo scheletro della città si ritaglia distinto nel cerchio delle luci notturne: uno scheletro, le conchiglie
(viene ripetuto chi sono in abbondanza), i pesciolini, infine le lische e le squame (si immagina un
posto anche per le frattaglie).
40
Un'agiografia
L'autrice, Nadia Fusini, vuole confrontare e accomunare due personaggi come Beckett e Bacon
(B&B è il titolo che unisce i due scritti). Il secondo, quello ancora vivo – il libro è del 1994 , rifiuta
il paragone.
Il ritratto di S. Beckett è sotto il segno della bontà. Quella che Fusini scrive, è un'agiografia.
Nel 1930, dopo due anni a Parigi come lettore d'inglese, tornato a Dublino, comincia a insegnare al
Trinity College. Le sue lezioni, si dice fossero lunghi silenzi.
Lui si vuole nato il venerdì santo del 13 aprile 1906: data sinistra che si intona alla passione del
suo corpo magro di figlio crocifisso alla croce materna. Il certificato di nascita porta la data del 14
giugno 1906: due mesi e un giorno avrebbero dunque atteso i suoi genitori, per non compiere un
gesto inutile...
“La mia è stata un'infanzia felice, anche se ho avuto sempre poco talento per la felicità”, dice.
Aggiunge che da bambino si è spesso sentito solo, ma: “Mio padre non mi picchiava, mia madre
non è fuggita di casa”. Fuggiva invece il padre, e lo picchiava la madre: la negazione di Beckett
serve a dire questa verità.
Cosa successe tra il 21 settembre e il 1° ottobre 1937 non sappiamo, ma quel giorno Beckett è su
una nave che lo porta prima a Londra, e poi su un treno che lo condurrà a Parigi.
Della madre dice: “Non le auguro né bene né male. Non la voglio più vedere, né sentire”.
Una sera un ruffiano di nome Prudent lo accoltella per la strada. Una fanciulla, Suzanne
DeschevauxDusmenil, passa per caso di lì, lo trova a terra insanguinato, lo salva. Viene portato
all'ospedale Brossais (l'ospedale di Verlaine, scoprirà con soddisfazione). Viene dimesso nel
gennaio1938: al suo fianco, e per sempre, Suzanne. Ma non come un'amante, sembra agli amici:
piuttosto come una madre. Con lei affronta la guerra e la Resistenza. Con lei va alla macchia, a
Roussillon, dove vive nascosto per tre anni. Se sopravvivono è per l'abilità di Beckett di sembrare
un contadino francese. Raccoglie patate nei campi. Vent'anni dopo, in Comment c'est, ancora la
memoria ritorna a quei campi, a quel fango, alla fatica di raggiungere le patate.
Di giorno taglia anche la legna. Di notte, in certi quaderni di allora, scrive Watt. La storia di un
uomo che vive in un mondo incomprensibile, dove è un servo. Le immagini del tempo attraversano il
testo, come i residui diurni il sogno.
41
Der Zeitgenosse Walter Benjamin
di Hans Mayer
Negli studi su Kafka compare un'osservazione della madre di Benjamin, la quale ogni qual volta
Walter rompeva, dimenticava, sbagliava qualcosa, aveva pronta la frase stereotipata: Con tanti saluti
dal signor Maldestro.
Forse l'incarico conferitogli dalla Zeitschrift für Sozialforschung, pubblicata in esilio, di scrivere un
saggio – al quale Benjamin seppe poi fornire una integrazione, divenuta famosissima, sul ruolo
dell'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità – in memoria del collezionista e critico d'arte
Eduard Fuchs, fu al contempo una risposta del figlio al padre collezionista, a colui che era vissuto e
aveva operato nell'epoca dei pezzi unici e dell'aura.
Il volume di excerpta, appunti, progetti che oggi conosciamo con il titolo Das PassagenWerk, nelle
intenzioni di Benjamin, che lo confermò più volte, avrebbe dovuto intitolarsi Parigi, capitale del
XIX secolo.
Del successivo, meraviglioso resoconto sull'Infanzia berlinese intorno al millenovecento, nonostante
lo splendore letterario, è meglio non fidarsi. Benjamin ha elaborato assai tardi questo suo progetto
che riprendeva il modello dei libri illustrati tanto amati dal Walter Benjamin collezionista, tentando
di stabilire un nesso letterario tra il libro illustrato e il libro per bambini. A leggerne qualche passo,
ad esempio dal capitolo In società, viene da chiedersi se possa essere ancora inteso come proprio
vissuto d'infanzia e non piuttosto come parafrasi tedescoberlinese di analoghe descrizioni di Marcel
Proust nel primo volume del suo grande romanzo.
• È meglio non fidarsi oppure sì? Possiamo credere alla Malesia di Emilio Salgari o ai suoi
Caraibi? Perché non crederci? Perché aver letto questi libri, allora?
Per Benjamin l'università di Berna rappresentò un colpo di fortuna. Da Berlino, i genitori
mantenevano il figlio che lavorava nella neutrale Svizzera. Qui scrisse il suo primo libro, un
capolavoro che anticipava molti dei temi futuri: Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Con
la tesi di laurea si apre il primo volume dell'edizione completa delle opere. La facoltà di filosofia si
rese conto della straordinarietà di quella che bisogna considerare un'opera prima: quanto Benjamin
aveva scritto in precedenza non era che giornalismo d'attualità. Summa cum laude. Nella capitale
elvetica, un fatto sensazionale.
Dell'a priori dei kantiani si dovrebbe diffidare. La teoria dell'arte di Benjamin all'epoca è, senza
alcun dubbio, idealistica. Tuttavia, nel momento in cui interpreta il rapporto tra – puro – contenuto e
idea come un problema di contenuto e forma, emerge un celato platonismo. Se ne può dedurre che
nell'analizzare l'idea di arte nel romanticismo tedesco come idea del mondo, l'autore argomenta
come un romantico.
• Se ne poteva dedurre qualcos'altro?
Le virgolette per indicare il titolo del romanzo goethiano sono state omesse. Le affinità elettive di
42
Goethe: un'impostazione esistenziale, non solo interpretativa del tema. Il testo, se letto attentamente,
ancora in alcuni passi è oscuro. Anche Gerhard Scholem era di quest'idea. Confessò di averlo letto
in fondo come uno scritto autobiografico dell'amico. A Benjamin piacevano gli pseudonimi e le
mistificazioni.
L'accostamento, a prima vista contraddittorio, quasi arbitrario, dei temi e dei materiali che
affascinavano Benjamin, risulta necessario e coerente.
Al termine del grande saggio sulle Affinità elettive di Goethe vi sono delle riflessioni sul mistero
della speranza, o, più probabile per Benjamin, della nonsperanza: Esso non può, quindi, mai
esprimersi a parole, ma unicamente nella rappresentazione, ed è il drammatico per eccellenza.
Ai lavori parigini di Benjamin sul mondo del Secondo Impero, esiste peraltro un parallelo
sorprendente e considerato di rado in questo contesto. Si tratta di Siegfried Kracauer, un buon amico
di Benjamin, anch'egli in esilio, che nello stesso periodo, negli anni Trenta, descrive il teatro
dell'Impero e i miracoli del suo dottore musicale: Jakob Ebersch, il giovane ebreo di Colonia che si
faceva chiamare Jacques Offenbach. Al pari di Baudelaire, anche Offenbach consentiva di
interpretare il mondo parigino del capitalismo avanzato. Ai Tableaux parisiens di Baudelaire, che
Benjamin tradusse e commentò, corrispondeva La vie parisienne di Jacques Offenbach.
Il metodo di lavoro di Benjamin era rimasto identico dai tempi della dissertazione: era quello di
svelare i tratti rilevanti di un processo a partire da quelli apparentemente irrilevanti.
• Irrilevanti, non apparentemente irrilevanti. Non si tratta del nascondimento della rilevanza,
ma della estensione della rilevanza, cioè della sua visibilità migliore, nella irrilevanza.
Nell'autunno del 1939 scoppiò la guerra e Benjamin venne internato insieme ad altri cittadini
stranieri cosiddetti nemici, poi tornò in libertà e al lavoro, poi la Francia fu sconfitta. Con l'avanzata
dei tedeschi, Benjamin devette fuggire. Georges Bataille nascose il suo bene più prezioso, i
manoscritti, in un qualche cantuccio della Biblioteca nazionale. Così si salvarono. Fra di essi vi era
un quadro di Paul Klee. L'Angelus Novus.
L'Angelus Novus di Paul Klee è un quadro di formato appena inferiore alla media. Bataille lo aveva
salvato ed esso era giunto nelle mani di Theodor W. Adorno, che a sua volta lo aveva consegnato a
Gerhard Scholem a Gerusalemme, al quale era destinato fin dal 1932. Sino alla morte di Scholem
rimase appeso alla parete del suo salotto.
43
Entretien (sur la théorie) a proposito di un passo
degli Scritti di R. Barthes
R. Barthes, nel colloquio sulla teoria (estate del 1970), definisce la teoria come un discorso rivolto
verso se stesso, che osserva se stesso in una specie di autocritica permanente, probabilmente per
distruggersi, ma il differimento della distruzione, il rinvio costituisce la teoria stessa. E la
distruzione è in permanente rinvio. La definizione di teoria è condivisa, afferma Barthes, da Julia
Kristeva, in Semeiotiké.
L'entretien diventa interessante quando Barthes dice che nella nuova Cina è il popolo stesso, in un
certo senso, in ogni momento, il proprio teorico. Nella rivoluzione non ci sarà motivo di opporre
teoria e prassi, perché la prassi sarà teorica e viceversa, penso che sia già così in Cina.
Barthes aveva detto che la teoria è un discorso scientifico, per cui definisce cosa intende per
scientifico, cioè si riferisce alle analisi della scienza fatte da Lacan, da Althusser e da Julia
Kristeva. La scienza del resto si dà perché il testo non è colto da una soggettività di tipo
impressionista, ma attraverso una scienza del reale di tipo marxista e una scienza del soggetto di
tipo freudiano. In questo senso si può parlare di scienza del testo, dice.
Nel testo sulla Lettura, Barthes descrive le forme della lectio. Una, la prima, è lo scolio: una breve
nota, marginale o interlineare, concernente un passo preciso, difficile del testo. È definita la forma
elementare della lettura, un puro riconoscimento, un'interpunzione, il gesto che coglie un settore del
testo. La seconda è l'omelia, un sermone, un discorso che riprende una serie di scoli. Il terzo è il
tomo o il commentario, esso accompagna il testo passo per passo e in modo esauriente.
L'insieme delle mie letture non costituisce la mia memoria ma piuttosto il mio sintomo, non tanto i
libri che ho sottolineato, segnato col mio nome e di cui ho preso possesso, quanto quelli che mi
hanno segnato e che ancora mi possiedono.
Da Teoria del testo: Quali siano i concetti metodici o semplicemente operativi che la teoria del
testo cerca di mettere a punto con il nome di semanalisi o di analisi testuale, l'esatto divenire di
questa teoria, l'espansione che la giustifica, non è questa o quella ricetta d'analisi, è la scrittura
stessa. Che il commento sia un testo esso stesso, ecco insomma ciò che è richiesto dalla teoria del
testo: il soggetto dell'analisi non può in effetti, senza malafede e buona coscienza, credersi esterno
al linguaggio che descrive; la sua esteriorità non è che provvisoria e apparente: è anche lui nel
linguaggio, e gli occorre accettare consapevolmente il suo inserimento, per quanto rigoroso e
oggettivo si creda, nel triplo nodo del soggetto, del significante e dell'Altro... La sola pratica che
fonda la teoria del testo è il testo stesso.
In Sur l'astrologie, Scrittura e astrologia, Barthes dice: Amo scrivere frammenti, ossia brani di
discorsi tra loro fortemente discontinui. Lo faccio, innanzitutto, per una forma di reazione tattica
contro il genere della dissertazione, modello di scrittura che deriva, chiaramente, dalla cultura
scolastica, e contro la quale credo sia sempre bene reagire. (…) Così, nei miei ultimi lavori, Il
piacere del testo e Barthes di Roland Barthes, ho cercato di praticare sistematicamente questa
scrittura discontinua che, tra l'altro, ha per me il vantaggio di decentrare il senso. La dissertazione
tende sempre a imporre un significato finale: si costruisce un senso, un ragionamento per
concludere, per dare significato a ciò che si dice. Ma il problema per me è quello di esentare il
senso, di colpirlo con una sorta di turbamento.
44
Avvertimento ai lettori
su una particolare irrimediabilità
L'Avvertimento, del 1938, è quello di Julien Gracq, a precedere Au château d'Argol, Nel castello
d'Argol, merita d'essere ripreso.
Non è necessario forse presentare un racconto che per il suo contenuto può apparire palesemente
affine – né ci scuseremo di questo – a certe opere di una scuola letteraria che fu l'unica – e ormai
non è possibile in proposito la minima discussione – a recarci in questo dopoguerra qualcosa di
diverso dalla speranza di un rinnovamento, ravvivando le inaridite delizie del paese sempre
infantile degli esploratori.
Il dopoguerra si dimostrava un anteguerra e il surrealismo non aveva concesso più di una speranza,
se altro era possibile.
L'efficacia di folgore di certe apparizioni... sono oggi nozioni troppo familiari perché sembri
ancora decente insistervi.
L'indecenza della negazione era la negazione dell'indecenza attraverso la sua stessa surrealistica
esibizione.
Restavano forse da rischiarare di questa luce nuova certi problemi umani mal definiti, ma
durevolmente appassionanti, a giudicare dall'insistenza con cui la maggior parte delle religioni li
ha messi in primo piano nella propria teodicea.
Il termine chiave è la ragione dell'insistenza, prima negata e poi riaffermata, quale via da battere
della risoluzione romanzesca.
E innanzitutto, quello della salvezza, o più concretamente – poiché si è ritenuto con ragione che
l'intercessore non potesse mai essere completamente lasciato da parte, a pena di togliere ogni
efficacia alla grazia ricevuta – quello del salvatore, o del dannatore, le due determinazioni essendo
dialetticamente inseparabili.
La teodicea dialettica, la grazia. È raro che le aspirazioni del surrealismo siano state altrettanto, non
dico chiaramente esposte, ma intese.
Le circostanze comunemente ritenute scabrose che circondano l'azione di questa novella non le
sono per niente essenziali. Dopo aver riflettuto, penso che onestamente non si possa considerarle
altrimenti che come un gesto istintivo di comprensibile pudore.
La dialettica del sentimento non copre di pudore quello che potrebbe sembrare il contrario, alla luce
dell'avverbio onestamente, che, con perfidia, l'autore inserisce nella giustificazione, la questione
prende un altro sembiante, poiché l'onestà tipica è quella del disonesto, e assumerla vuole rinnovare
un dispregio corrente.
La spiegazione simbolica è in generale un impoverimento così buffonesco di quella parte invadente
di contingenza sempre celata nella vita reale o immaginaria, che esclusa qualsiasi idea indicatrice,
vi potrà in ogni caso, e qui in specie, vantaggiosamente sostituire, intorno ad ogni avvenimento, la
sola nozione grezza e accessibilissima di circostanze forti e circostanze deboli.
La dichiarazione ufficiale dell'avvenuta liquidazione dei simboli non c'è ancora, essendo sempre in
procinto di passare in atto nel surrealismo, dunque l'anticipazione della falsità di una lettura che ne
tenesse conto avviene a scapito di quelli deboli, a vantaggio di altri più potenti e per favorire la
divulgazione dell'essenziale, la riuscita dell'operazione che renda accessibile a tutti la rivoluzione,
non in quanto episodio liberatorio ma specifico.
Le macchine da guerra che Julien Gracq afferma di avere messo qua e là in opera, destinate a far
scattare le molle così difficilmente maneggevoli del terrore, esse non dovevano sembrare inedite,
cioè non dovevano servire quello scopo, ma restituire alla malinconia la lettura di un'imitazione
45
voluta, omaggio deliberatamente esplicito, di casa Usher.
Tocca a uno pseudo fratricidio, a una condanna inconfessabilmente tramata chiudere la novella, con
un sostanziale nulla di fatto, quale l'aggressione sancisce come una gelida conferma.
Ma non si voltò verso il misterioso viandante. Non si voltò. Si mise a correre in mezzo al viale,
velocemente, e i passi seguirono. E, senza respiro, sentì adesso che i passi stavano per raggiungerlo
e, nell'invincibile mancamento dell'animo, sentì il lampo gelido di un coltello colargli tra le spalle
come una manciata di neve.
La spiegazione si trova molte pagine prima, quando l'assassinato (l'anima dannata dell'assassino)
all'omicida parve, nella sua andatura, indicibilmente maestosa, e in ogni momento visibilmente
orientata, la materializzazione, per la prima volta sbarazzata di qualsiasi velo grottescamente
estetico, di ciò che Kant ha chiamato non senza mistero una finalità senza rappresentazione del
fine.
L'assenza indiscutibile di qualsiasi prova di fatto è una dichiarazione, tuttavia, altrettanto
indiscutibile.
46
Estremi psicogeografici
A Sud di nessun Nord. Storie di una vita sepolta (South of no North. Stories of Buried Life) di
Charles Bukowski raccoglie diversi racconti. I racconti di Bukowski hanno il pregio di non avere
bisogno di una trama; non che non raccontino nulla di sensato e che, in un certo modo, non si
sviluppino, secondo qualche logica e qualche cronologia, ma ciò che accade in mezzo, non è poi
così importante, come di solito si crede. Si tratta di un pregio che rende immediatamente leggibili le
sue opere, ben più leggibili di quanto siano divulgabili o raccontabili meno di quanto siano
raccomandabili.
Si possono prendere degli inizi e dei finali di racconti diversi e mescolarli, in alcuni casi funziona
benissimo, oppure dagli estremi, sapendo il resto che vi è contenuto, immaginare quanto di
accessorio non è presente, o lo è. Oppure da un punto qualsiasi di un qualsiasi racconto se ne può
iniziare un altro o lo stesso farlo partire da lì o da altrove. Niente è necessario e tutto è accessorio,
quasi sempre anche disgustoso se non solo doloroso.
Avevo poco più di vent'anni e nonostante bevessi molto e non mangiassi niente, ero ancora forte.
Fisicamente, intendo, il che è già una bella fortuna quando tutto il resto va a rotoli.
“Cosa diavolo ti succede, Bill?”
“Mi sono dimenticato di prendere il portafoglio!”
“Fanculo” disse Harry.
George era sdraiato sulla schiena, nel suo camper, che guardava una piccola tv portatile. I piatti
della cena non erano ancora stati lavati, nemmeno i piatti della prima colazione erano stati lavati,
lui aveva bisogno di radersi e la cenere della sigaretta arrotolata a mano gli era caduta sulla
maglietta.
Una mattina verso le otto me ne stavo a letto. Il giorno prima avevo perso quaranta dollari a Santa
Anita, il mio conto alla California Federal si stava pericolosamente assottigliando...
Me ne stavo in un bar della Western Avenue. Era circa mezzanotte ed ero nel solito stato di
confusione. Insomma, sapete com'è, niente va bene: le donne, i lavori che ci sono, quelli che non ci
sono, il tempo, i cani.
Gli abiti di Bill non gli andavano bene, ma almeno erano asciutti. Il portafogli era bagnato, ma lui
lo conservò. Poi uscì, percorse l'isolato e mezzo che lo separava dall'auto e partì.
Avevo l'addome sporgente e lei mi fotografava che sudavo e morivo nella zona d'attesa, mentre
osservavo una ragazzotta grassa con un abito corto color porpora e un paio di scarpe con il tacco
alto, che abbatteva con il fucile una fila di anitre di plastica.
Per prima cosa mi procurai una bottiglia e dopo aver bevuto e aver ucciso un paio di scarafaggi,
cominciai a provare un senso di appartenenza.
Trovai una birra tiepida e me la bevvi. Poi andai a bere con la sensazione che tutti gli ubriaconi
conoscono bene: mi ero comportato da stupido ma chi se ne frega.
47
Erano ricominciati i giorni neri e avevo i nervi a pezzi per tutto l'alcol che trangugiavo; avevo gli
occhi fuori dalla testa, ero fiacco, troppo depresso per darmi una regolata e trovarmi il solito
lavoretto tranquillo come spedizioniere o magazziniere, così andai giù al macello e mi fiondai
nell'ufficio.
Il telefono squillò di nuovo e Mason fece una smorfia. Underwood si alzò dalla sedia, si avvicinò e
rispose. Toccava a lui.
A questo punto Brenda si mise a urlare sul serio. Rimase lì in piedi e si mise a urlare. Robert pensò
che non avrebbe mai smesso.
48
Toto reo modo (Omnia bona trina)
Una catena di causalità sono nascoste nel romanzo di Leonardo Sciascia, Toto modo, come è
nascosto l'assassino, cioè nell'evidenza piena dell'introvabile.
Il luogo della vicenda è l'Eremo di Zafer 3, cioè il terzo hotel di Zafer, un brutto albergo che aveva
suscitato uno scandalo, a suo tempo. Comunque l'eremo del musulmano convertito è stato inglobato
dalla nuova struttura diventandone la cripta. L'albergo è tutto occupato per gli esercizi spirituali. La
scena poi è occupata da Don Gaetano, il padrone di casa e i partecipanti al primo turno degli
esercizi.
Questo Zafer non è mai esistito, ma c'è un quadro, curioso e intrigante, rozza copia di uno del
Manetti che si trova a Siena, nella chiesa di Sant'Agostino.
Qualcuno muore e si avviano delle indagini guidate dal procuratore Scalambri, non amico ma
compagno di liceo del narratore, che così è indicato, in tono placato e scherzosamente, dal
magistrato, in una occasione: “Ma il mio amico, lei non lo sa scrive romanzi polizieschi. Non è
soltanto il grande pittore che tutti conosciamo...”.
Un appunto: gli occhiali. Gli occhiali sono opera del demonio per indurre in peccato l'eremita. Gli
occhiali di Don Gaetano, e dietro le lenti i suoi occhi, imitano quelli del quadro del Buttafuoco. Il
narratore, un pittore anche lui, riempie un foglio di disegni di occhiali, pensa al mestiere di Spinoza
e all'autore della Istoria della conquista del Messico, e anche al celebre racconto di Anna Maria
Ortese. Gli occhiali ci consegnano l'assassino e la sensazione della paura di scoprire la verità. Il
successivo dialogo del narratore con Don Gaetano ci conduce al Candide di Voltaire come opera da
non riscrivere, perché, appunto, sia riscritta da chi ha scritto che non si può fare.
La soluzione del problema è netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe,
pensa il pittore. Lo porta (o glielo fa arrivare) furtivamente, sul tavolinetto della camera del pittore,
un preveggente (sarebbe una spiegazione più inquietante) Don Gaetano, ma la soluzione non si trova
nel libro dei Pensieri di Pascal, letti da quello numerato 460 al 477. La verità sulla morte di Don
Gaetano, naturalmente viene detta, ma non viene creduta.
Sciascia ci offre tre numi: Voltaire, Pascal e La Rochefoucauld, cinque donne e cinque storie.
L'invenzione della legge altro non è che questo: il diventare tutti colpevoli.
49
Intorno al grado zero della fiction
Sotto il grado zero della finzione si conservano degli stocks di materiale grezzo e reale, utilizzabili
nelle partiture vuote, in parte o tutti interi, seriali, modificabili, rinnovabili ecc. Tutti sanno
dell'ossessione di comodità che fa immagazzinare, surgelare tutto ciò che si muove o resta fermo.
Numerosi scrittori lavorano su questo materiale, che opportunamente ritagliato, riserva grosse
sorprese, come tutto ciò che siamo costretti a dimenticare. In una sequenza del romanzo La famiglia
Winshaw di Jonathan Coe, Dorothy, la proprietaria di una grande azienda agricola, parla con il
fratello Henry, un politico. Il colloquio verte su una quotidiana varietà di cinismo. La cronaca si
premura di verificare che il cinismo sia sempre la più comune moneta di scambio, come se, in
questo campo, si temessero falsari. Quando si riuniscono a pranzo i responsabili dei programmi di
manipolazione genetica nel settore dell'alimentazione e della medicina, si mangiano cibi sani. Nel
romanzo si accenna alla cura della qualità: Il secondo consisteva in una lonza di maiale glassata,
con patate all'aglio. La carne, come le uova di quaglia, era di Dorothy: il suo chaffeur l'aveva
portata in una ghiacciaia nel portabagagli dell'auto quel pomeriggio e lei aveva impartito precise
istruzioni allo chef su come cucinarla.
Ma la qualità per gli uni non è quella per gli altri, grida sempre la voce della maldicenza. Gli
incrementi nei livelli di produzione, maiali p.e., nel romanzo, danno luogo ad alcuni effetti
collaterali controproducenti: malattie respiratorie soprattutto, che per essere curate nelle forme più
acute richiedono dei medicinali che potrebbero risultare pericolosi, ovvero cancerogeni, per la
salute degli esseri umani.
A Dorothy non passava neanche per la testa di consumare i prodotti che era così felice di rifilare ai
rassegnati compratori.
La dieta imposta, o suggerita, al proletariato infantile, scrive il romanziere di successo, li farà
diventare deboli fisicamente e tardi dal punto di vista intellettuale, infatti afferma Henry: Una dieta
ricca di zuccheri rallenta la crescita cerebrale.
La conclusione offerta dall'episodio è che il segreto della vittoria, in ogni guerra, è sapere
demoralizzare l'avversario. Il romanzo suggerisce dunque che non è che i demoralizzati non devono
sapere di esserlo, ma che non devono saperlo troppo bene.
L'autore di Segnali è Raymond Carver, che l'ha inserito tra i racconti di Vuoi stare zitta per favore?
Wayne e Caroline, prima delle follie in programma per la serata, vanno da Aldo, un ristorante
elegante, aperto da poco. L'occasione sarebbe quella di festeggiare il compleanno di lei. Il racconto
sembra narrato secondo un punto di vista esterno, anche se non sempre è così, come si è visto, e le
poche parole che si scambiano i due, come se qualcuno li ascoltasse, raggelano ulteriormente. Non
c'è nulla da fare, la cena non gli serve per rimettere le cose a posto nella maniera che lui vorrebbe.
Se le parole quasi sempre sembrano insignificanti, pure essendolo, i gesti, minuti e goffi, e gli
sguardi rivelano, segnalano, come dice il titolo, meglio, gli umori. Il campionario di gesti e di
parole, a cui attingono, partecipando anche Aldo e i camerieri, fa parte di una segnaletica comune,
visibile sotto il grado zero della finzione. Ma è così che l'estromesso condensa un significato che, se
fosse stato esposto, avrebbe violato i sensi unici della comunicazione anziché percorrerli.
50
Il moto dello spirito
da Dello spirito
di Jacques Derrida
Tutto lascia supporre che, fin del '33, data in cui Heidegger, avendo eliminato le virgolette, comincia
a parlare dello spirito e in nome dello spirito, egli non abbia mai smesso di interrogare l'essere del
Geist.
Che cos'è lo spirito? Ultima risposta (1953): lo spirito è fuoco, fiamma, incendio, conflagrazione.
Lo spirito è ciò che infiamma? Oppure ciò che si infiamma, appiccando il fuoco a se stesso? Lo
spirito è fiamma. Una fiamma che infiamma o che si infiamma: le due cose a un tempo, l'una e
l'altra, l'un l'altra. Conflagrazione nella conflagrazione stessa.
Lo spirito prende fuoco e dà fuoco.
Certamente ciò che egli afferma della fiamma e dello spirito è detto a partire da alcuni versi di
Trakl. Versi che Heidegger isola e sceglie in modo discreto ma attivo. Lo spirito e la fiamma si
alleano, per esempio, nell'ultima poesia Grodek, oppure nella ouverture della poesia An Luzifer.
Chi è lo straniero?
È der Abgesschiedene. Questa parola, correntemente, significa il solitario, oppure il morto.
È morto, certo, ma è il morto che si separa, in quanto è anche il demente.
Lo straniero, colui che è deceduto, non è semplicemente morto, né è puramente folle; egli è in
cammino verso un altrove.
Ogni domanda risponde già all'appello dell'essere; la promessa ha già avuto luogo nell'evento stesso
del linguaggio. Prima di ogni domanda, e nel domandare stesso, il linguaggio diventa sempre di
nuovo promessa. Promessa che sarebbe anche dello spirito.
Nella determinazione positiva dello spirito – lo spirito infiamma – è già contenuta la possibilità
interna del peggio. Il male proviene dallo spirito stesso.
La cenere. È il Bene o il Male della fiamma – la cenere?
(…) la combustione in base a cui, come l'effluvio sublime di una fermentazione, il Geist – il gas – si
eleva o si solleva al di sopra dei morti in decomposizione, per interiorizzarsi nell'Aufhebung.
(…) l'anima deve assumere il peso del proprio destino: Deve riunirsi nell'Uno, condurre e condursi
verso l'essenza che le è assegnata, la migrazione – ma non l'erranza. Essa deve condursi innanzi
verso l'incontro con lo spirito.
51
L'anima è grande in proporzione al suo dolore.
Il Bene è tale solamente nel dolore.
Nota. Nessun malinteso del commento può evitare a proposito di Heidegger che si perda la
chiarezza del significato, ciò che è bruciato, per il filosofo come è interpretato da Derrida, doveva
bruciare, e la poesia (fervente malinconia) precedere le armi e i fili spinati. Derrida non prende in
considerazione nell'analisi la combustione tra lo scrutatore del fuoco nella Bottega dell'antiquario di
C. Dickens e lo Scrutatore di anime di G. Groddeck.
52
Veridica smentita di una notizia fondata
sui barbari di fuori e quelli di dentro
La strategia non può fare ameno dell'ottusità, le è immanente quel quoziente di pensiero banale, di
non pensiero, in cui consiste il segreto del suo successo, quando le arride.
La tesi è che la logica universalista e l'ideale dello sviluppo globale che il Nord ha affermato a
lungo di voler esportare sono contrastati da un ancora più manifesto atteggiamento difensivo, di
deterrenza determinata, e da una spinta di contenimento rivolta su scala mondiale, fino ad allenarsi
su ipotesi alquanto remote.
Il limes tra il Nord e il Sud passerebbe attraverso una zona cuscinetto che va dal Messico alla Cina,
passando per il Maghreb, la Turchia, l'Iran e l'Asia centrale. Le regioni più stabili verrebbero
incentivate, nonostante le violazioni dei diritti dell'uomo e il mancato rispetto delle regole
democratiche, purché controllino le loro popolazioni e quelle limitrofe. Più in là, nelle terre esterne,
gli stati del Nord intratterrebbero proficue relazioni commerciali con le zone più produttive, cioè
sfruttabili dal complesso industrialmilitare, ed economicamente redditizie, del Sud. Altrove, nelle
terrae incognitae, le più ferocemente depresse o sovrappopolate, i problemi interni susciterebbero
indifferenza e tardivi quanto insignificanti aiuti umanitari.
Il complesso del potere economico finanziario militare del Nord sarebbe sostanzialmente unificato
dalla consapevolezza che le priorità di difesa debbano essere rivolte verso il Sud.
Non si può non notare, seguendo la nota e datata tesi di Rufin, che dove passa il cosiddetto limes, il
pericolo per l'Occidente risulti maggiore, che sono proprio quegli stati ad agitare strumentalmente
la bandiera di una rivolta antioccidentale. Sono i paesi a cavallo di un più o meno impossibile
inserimento tra i leader dell'Occidente e la guida della battaglia conto di esso ad essere solcati da
violente lacerazioni e da esse continuamente condizionati. La loro ambiguità è soggetta a un
relativo potere di ricatto da parte dell'Occidente, ma essa è, e sarà, capace di concretare sempre più
potenti ricatti a venire.
Comunque sono e saranno i barbari già installati all'interno dell'Occidente a porre in atto lo
sgretolamento dell'Impero. I barbari di fuori asfissieranno le difese esterne, con una pressione
incontenibile, quelli dell'interno, i federati dell'Impero, contribuiranno alla demolizione degli ideali
illuministi, tanto fragili da non potere fare altro che crollare rumorosamente, demoliti dagli stessi,
imbelli quanto battaglieri, autentici difensori dell'Occidente.
J. C. Rufin è l'autore de L'impero e i nuovi barbari.
53
Un esilio duraturo
Nel volume di Giorgio Agamben, Mezzi senza fine, l'ultimo breve testo raccolto si presenta nel
sottotitolo come Diario italiano 199294. Il titolo è invece In questo esilio. Pretesto immediato sono
i fatti di Tangentopoli che hanno scosso, come raramente prima, l'opinione pubblica, almeno per
qualche tempo. L'idea di base, la tesi di lavoro, da cui prende le mosse anche questo testo di
Agamben, è che il campo (Auschwitz o Omarska) sia il luogo inaugurale della modernità: il primo
spazio in cui eventi pubblici e privati, vita politica e vita biologica diventano rigorosamente
indistinguibili.
Quanto alla maggioranza degli italiani, oggi, scrive Agamben, sembra che essi stiano a guardare
silenziosamente l'intollerabile, come se lo spiassero immobili davanti a un grande schermo
televisivo. La sensazione successiva è che mai un'epoca è stata così disposta a sopportare tutto e,
insieme, a trovare tutto intollerabile. La ragione del silenzio degli italiani va trovata nel grande
rumore dei media. Questo rumore ha tolto la parola alla gente. La tattica che è venuta allo scoperto
è che la mediocrazia mostri di distaccarsi in apparenza dal regime di cui è parte integrante,
essenziale, primaria, per governare e indirizzare la protesta affinché prenda una direzione
controllabile. Ciò che è in corso (ma quando scrivo l'esperimento è praticamente cessato) evidenzia
il ruolo di laboratorio politico del nostro paese. Un primato già detenuto negli anni settanta, durante
il terrorismo. La proliferazione di ipotesi su svariati complotti, mostra, secondo Agamben, che tutti
i complotti sono, in realtà, nel nostro tempo in favore dell'ordine costituito.
Un'altra questione è offerta dal pentimento e dalla vergogna. Un gioco di massa.
Un'altra, più breve considerazione, nota come vi siano porzioni sempre più numerose di residenti
privi di diritti politici e come la congiuntura del capitale richieda che i popoli del Terzo Mondo
siano sempre più poveri e che anche una percentuale crescente di cittadini delle società industriali
sia emarginata e senza lavoro, o meglio, aggiungo, che siano poveri anche se occupati. Agamben la
chiama una massiccia fabbricazione di miseria umana.
Con un po' di anticipo sui tempi Agamben analizza il disonore della sinistra: vi è stato disonore,
perché la sconfitta non ha concluso una battaglia su posizioni opposte, ma ha soltanto deciso a chi
toccasse mettere in pratica un'identica ideologia dello spettacolo, del mercato e dell'impresa.
La strategia del progressismo è: bisogna cedere su tutto.
Infine una considerazione generale: raggiunto il telos storico del benessere, non resta altro che la
depoliticizzazione delle società umane attraverso il dispiegamento incondizionato del regno
dell'oikonomia, oppure l'assunzione della stessa vita biologica come compito politico supremo.
54
Baudrillard's Disneyworld
Il sito internet Ctheory presenta, tra gli altri testi, un articolo, tradotto da Liberation del 4.3.1996, di
Jean Baudrillard, Disneyworld Company. Dove ha festeggiato il generale Schwarzkopf, lo stratega
della Guerra del Golfo, the great Gulf War strategist, la sua vittoria? A Disneyworld, risponde
Baudrillard, perché il palazzo dell'immaginario può concludere una guerra virtuale. Disney is now
in the process of capturing all the real world to integrate it into its synthetic universe, in un reality
show dove la realtà diventa essa stessa uno spettacolo. Il reale viene allucinato in una versione
ideale e semplificata. Disneyworld è una identical replica, un'attrazione di secondo grado, un
simulacro elevato di potenza, del Disneyland di Los Angeles. Per Disney, a questo punto, everything
is possible, and everything is recyclable in the ploymorphous universe of virtuality; si potrebbe
criogenizzare (cryogenize) l'intero pianeta, per attendere una resurrezione nel mondo reale. Ma non
c'è più un mondo reale, almeno per Walt Disney. Lui, nella sua nitrogen solution, ha continuato a
colonizzare l'immaginario e il reale, mentre noi non ci risveglieremo più scoprendo di essere
diventati dei figuranti nello spettrale universo della realtà virtuale, infatti The New World Order is
in a Disney mode.
Il mondo è diventato una specie di Lunapark di ideologie, tecnologie, lavori, conoscenza, morte e
altre distruzioni.
Non siamo più in una società dello spettacolo, da quando questo è diventato un concetto
spettacolare, scrive Baudrillard, perché, secondo lui, la virtualità non ha solo oltrepassato lo
spettacolo, ma the contagion of virtuality erases the spectacle. Quindi ora non saremmo più
spettatori passivi ma comparse, figuranti interattivi (interactive extras), non ci sarebbe più una
logica spettacolare della alienazione ma una logica spettrale della disincarnazione, non più una
logica fantastica di diversione ma una logica corpuscolare di trasfusione e di transustanziazione di
tutte le nostre cellule, ecc., come se questa interattività fosse altra cosa da un potenziamento della
passività nelle forme di una pseudoattività alienata.
La virtualità (invece spesso, forse per difetto di comprensione, lo scrivente adopera il termine
nihilazione) è più probabile che perfezioni la resa dello spettacolo, ma non lo soppianti per un altro
e diverso ordine, non lo cancelli, cioè sia piuttosto proprio un contagion della Spectacular Inc. di
Debord.
Infine Disney vince anche su un altro livello, viene a concludere Baudrillard, synchronizing all the
periods, all the cultures, in a single travelling motion, by juxtaposing them in a single scenario. Ciò
segna l'inizio di un tempo reale, puntuale e unidimensionale, e senza profondità. Un immediato
sincronismo di tutti i luoghi e di tutti i periodi in una singola virtualità atemporale. Il collasso del
tempo, la quarta dimensione, cancella tutto: No present, no past, no future (a dimension which, far
from adding to the others, erases them all). Questo è già il nostro atempo, ed infatti è sempre più
difficile immaginare il reale, la storia, la profondità del tempo, o lo spazio tridimensionale, almeno
quanto, una volta, era difficile immaginare un universo virtuale o la quarta dimensione.
55
Incroci del destino
In una intervista a James G. Ballard (pubblicata il 10.2.2000) di Filippo La Porta, lo scrittore
inglese mentre dice che gli esseri umani non saranno mai soddisfatti solo dall'intrattenimento non
riesce, evidentemente, a non fare la parte dell'intervistatore di sé stesso. “Credo che tra vent'anni ci
sarà una grossa rivolta contro il XX secolo...”. “La mia peggiore paura è che le persone, nella
disperazione, ripiegheranno sulle proprie psicopatologie come unica via di libertà e di
autorealizzazione”. “La suburbanizzazione del pianeta produrrà un'enorme noia, i cui segnali sono
oggi intorno a noi, e soltanto atti di imprevedibile violenza daranno probabilmente alla gente un
senso di libertà”. La banalità del futuro sarà attraversata, con la certezza che viene dall'evidenza, dal
futuro della banalità, la cui espressività non sarà più grezza di quella che è intrattenuta da chi
controlla i mezzi che la fanno circolare. Il destino degli incroci (due volte la stessa incompetenza
nella gestione della sicurezza sociale) è di (non) essere bypassati, senza che qualcuno realmente sia
in grado di far slittare una progressione per la cui deriva il suo avvenire, la sua carriera, era stata
programmata.
Extra (Il destino degli incroci degli arcani).
In un libro che fa quadrato intorno ad Orlando, dice Italo Calvino, per intuizione, egli nota che
l'ultima carta che gli serviva contemplava il paladino legato a testa in giù come l'Appeso: e
finalmente il suo viso farsi sereno e luminoso, l'occhio limpido più che nell'esercizio delle
ragionevoli imprese (del tutto irragionevoli), per affermare: “Lasciatemi così: Ho fatto tutto il giro e
ho capito: Il mondo si legge al contrario. Tutto è chiaro”. Ciò nonostante nessun arcano era
sufficiente a Calvino. C'era da farsene un problema. La soluzione di Calvino era il provinciale di
Grenoble?
Comunque alle ossessioni non è consigliabile lasciare il tempo che trovano.
56
Messaggeri segreti
Avevo quasi trentanove anni quando credevo ancora che i messaggeri fossero sette, da Alessandro a
Gregorio, ordinati così perché le iniziali fossero alfabeticamente progressive. Ma non avevo ancora
avuto modo di capire bene ciò che accadeva intorno a me, prima per l'ardore inebriante del viaggio
e poi per stanchezza di esso. I messaggeri partivano e, allontanandoci dalla capitale, ritornavano
sempre più tardi. Domenico alcuni mesi fa è ritornato dopo sette anni ed è subito ripartito. Ma non
era lui. L'ho fatto seguire e poi, quando ha confessato, ho dovuto sopprimerlo. Dalla mia scorta
avevo scelto sette messaggeri; ma qualcuno, ne aveva scelto un altro, Hio, che aveva eliminato ad un
ad uno quelli che partivano dagli accampamenti a comunicare con il regno di mio padre. Erano altri
a tornare e ad ingannarmi per un odioso comando. Mio padre mi ha voluto morto, in questo modo
crudele. Saperlo non è bastato né a lui, né a me. La conclusione, se non è piacevole non sarà
ingannatrice.
Nota: In un'altra storia non si fa leggere il messaggio dell'imperatore, però di questo messaggio
dell'imperatore morente, e che sia proprio l'ultimo, si fa pensare che sia decisivo. Per quanto
insignificante, futile, esso si riduce ad essere eseguito. Il testo del messaggio è trasparente: nessuno
e niente deve uscire dall'impero.
57
Nota sulla demagogia
Luciano Canfora, in un sintetico volumetto dal titolo Demagogia, riferisce, al termine di una
escursione storica sul significato del termine, il problema di un doppio concetto di demagogia nei
Quaderni del carcere di Gramsci, per il quale esisterebbe una demagogia deteriore, tipica del
fascismo e delle politiche di destra, e una demagogia superiore, da attribuire a Stalin ed in corso
nell'Urss. Canfora non può non accorgersi che una simile distinzione mette in rilievo una piuttosto
pericolosa somiglianza. Tuttavia, ed è ancora più importante, se questo capitolo è ormai chiuso,
avverte lo storico, è perché lo scenario attuale è profondamente mutato. Si è dunque passati da
un'epoca ideologica a una efficacemente demagogica, sostiene Canfora. Il mondo attuale dominato
dal mercato mondiale, completamente mercificato, è approdato alla forma integrale di demagogia,
la cui applicazione è del tutto anonima quanto la diffusione capillare. Lo spettacolo ha imposto una
penetrante e vistosa assunzione di pseudovalori a basso costo, ma con effetti colossali di spontanea
mobilitazione deviante delle masse.
Mentre la manipolazione del discorso demagogico sembra favorire una alfabetizzazione di massa
produce in realtà un ottundimento generale della capacità critica (Leopardi: dove tutti sanno poco e'
si sa poco). Il suo carattere perfezionato le permette di evitare di ricorrere a forme di coercizione
violenta (Brecht: un fascismo americano sarebbe democratico). La violenza, latente, che la società
accumula (Musil: quello stato di vaga ostilità atmosferica di cui l'aria è satura nell'era nostra) è per
lo più canalizzata nell'ambito sterminato dello sportspettacolo.
Canfora riesce, quando nel 1993 pubblica il saggio, comunque, a presumere che l'involgarimento
delle masse manipolate le rende disponibili ad essere strumentalizzate ad oltranza, ben oltre la
dimensione spettacolaresportiva, canalizzando le paure e le inquietudini sociali di vasti e profondi
strati sociali, che lui individua e nomina come semiproletari (piccolo borghesi) e sottoproletari. Il
neorazzismo, per esempio, ma altri esempi potrebbero essere da noi suggeriti di questi tempi, è un
ingrediente, il più feroce, delle attuali società demagogiche. Non è escluso che il processo di
assorbimento nell'universo degli pseudovalori dei nuovi arrivati non riesca del tutto, o sia impedito,
a causa di scarsità di risorse o per approfondimento degli squilibri. Quindi la prospettiva di una
esplosione di inusitata violenza non si può escludere, termina Canfora.
58
Nota e divagazione
Lo sprovveduto Renzo, a Milano per due volte, deve la sua salvezza fisica all'intervento di strani
personaggi. La prima volta sono dei malintenzionati, dei mattinieri e non esausti rivoltosi a
consentirgli di sfuggire alle guardie che l'avevano arrestato. Altrimenti sarebbe stato giustiziato; il
mercante racconta di quattro tristi, serviti con tutte le formalità, accompagnati da' cappuccini, e da'
confratelli della buona morte. Nella seconda occasione sono i monatti a trarlo in salvo ospitandolo
su uno dei loro carri e per spingere alla fuga gli inseguitori bastò far volteggiare un laido cencio
strappato a un cadavere. Bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine; ché, se
non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell'aiuto.
Nel primo caso il notaio criminale è un furbo matricolato, dice Manzoni (il nostro storico), ma è
una tendenza generale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro
potrebbe fare per levarli d'impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorte di
pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anche loro sotto questa legge comune.
Quindi è che, in simili circostanze, fanno per lo più una così meschina figura. Que' ritrovati
maestri, quelle belle malizie, con le quali sono avezzi a vincere, che son diventate per loro quasi
una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e condotte con la pacatezza d'animo, con la
serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così nascostamente, e conosciute anche,
dopo la riuscita, riscotono l'applauso universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in
fretta, all'impazzata, senza garbo né grazia. Di maniera che a uno che li veda ingegnarsi e
arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l'uomo che pretendono allora di mettere in
mezzo, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi
ricava lume per sé, contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a' furbi di
professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d'esser sempre i più forti, che è la più
sicura.
59
Il carattere scostante di Goethe
Per il carattere niente è superfluo tranne se stesso.
È il talento, è la capacità di realizzare questo o quello che fa l'uomo d'azione, tutto dipende dalla
personalità, cioè dalla capacità di disfarsi del talento.
Niente al mondo è meno degno di compassione della persona indecisa che oscilla fra due
sentimenti; non vorrebbe metterli insieme e capisce che solo il dubbio, l'inquietudine che la
tormenta, può tenerli insieme.
Possiamo attribuire anche a un debole un carattere, perfino al vile: esso infatti non rinuncia
all'onore, alla gloria, a ciò che gli altri apprezzano più di ogni altra cosa, ma che non appartiene alla
sua natura, pur di conservare la propria personalità, giù giù fino al verme, che quando viene
calpestato si contorce.
Si dice che ha un carattere forte che non si oppone strenuamente a tutti gli ostacoli esterni e cerca di
imporre la propria personalità, a rischio anche di perdere le proprie particolarità.
La ragione e la coscienza si lasciano defraudare dei loro diritti. Si può mentire loro, come si può
ingannarle. Più l'uomo è morale e razionale più diventa bugiardo, e più enorme diventa l'errore
appena persevera, meno la ragione è debole e la coscienza ottusa più l'errore trascina l'uomo perché
lo coglie impreparato. Finisce che errare apparirà simpatico, o soltanto deplorevole.
Il più grande merito dell'uomo moderno sta nel non riuscire a determinare le circostanze il più
possibile e nel lasciarsi determinare da esse il più possibile.
Una coscienza non molto sensibile rende ipocondriaci.
La nostra vita, sia fisica che sociale, i costumi, le abitudini, la saggezza universale e molto di ciò
che avviene casualmente ci dice che non dobbiamo rinunciare.
Sostituiamo una passione con un'altra: tentiamo tutte le attività, assecondiamo tutte le inclinazioni,
le preferenze, ogni cosa, per infine esclamare: tutto questo non è vano.
Affinché l'essere umano adempia a questo difficile compito la natura lo ha dotato di abbondante
forza, attività e tenacia, e lo aiuta in particolare la sua distruttibile leggerezza.
60
La difesa di Vincenzo Monti
Il giovane Foscolo (ventenne) difese, con un Esame su le accuse, l'abietto Vincenzo Monti. La
difesa è discutibile e generosa tanto da essere considerata da tanti un pretesto per altro fine. Monti
era l'intellettuale organico di una classe che non ha smesso di difendere la sua esistenza. La
calcolata bassezza, la spregiudicatezza di Monti non potevano essere distinti dalla soverchiante
sensazione di debolezza che ispira sentimenti contrastanti. Il Foscolo del 1798 non aveva nulla a che
fare con quello che era stato Monti, e più ancora la vita che condurrà saprà approfondire le
differenze tra i due (1810).
Coloro che hanno perduto l'onore tentano di illudere la propria coscienza e la pubblica opinione
dipingendo tutti gli altri uomini infami.
Non è ch'io parli di me, sebbene tale fra quei che reggono la somma delle cose m'abbia concitato
contro la venale calunnia dello scellerato e la violenza del forte.
Io perseguiterò sempre con la verità tutti i persecutori del vero: andrò superbo della inimicizia de'
malvagi: alle accuse comprate contrapporrò lo istituto della mia vita; e dove i potenti vincessero,
su me ricadrebbe il danno, ma tutta sovr'essi la infamia.
Forse la discolpa del Monti spettava a lui stesso; io nulladimeno né adotto, né riprovo il suo
contegno.
Temete che il Monti occupi que' posti ai quali aspirate? Ma s'egli è più degno di voi, perché rapirlo
alla patria?
S'egli è man degno, perché non v'appoggiate sui vostri meriti, ma su le sue colpe?
Fate lo scrutinio sincero della vostra coscienza; pesate i vostri errori, e gli errori che volete puniti;
calcolate le circostanze degli uni e degli altri; e se vi scoprite innocenti sottoscrivete la condanna
del Monti.
Molti più rei presiedono a le prime cariche della repubblica; ed io li conosco, ma di tutti mi taccio
reputando più senno d'invigilare su le loro azioni presenti, che di garrir su le antiche.
Ma (forz'è confessarlo; prime e forti ragioni della persecuzione del Monti sono la sua gloria e
l'altrui invidia) queste risse vergognose e ridicole si ritorcono sempre a danno della repubblica.
...perocché anche le ottime leggi in un popolo guasto, sono vane. Forse agli italiani futuri si spetta
di riparare l'oltraggio da noi fatto alla libertà.
61
Infado
Nel capitolo settimo del secondo tomo del Fermo e Lucia, Manzoni descrive l'incontro tra Don
Rodrigo e il Conte del Sagrato, il personaggio, nell'edizione definitiva, con il privilegio d'aver perso
il nome per la paura che procurava.
Tuttavia è nella prima stesura, come al solito, che il personaggio è rappresentato in azione. Nei
Promessi sposi il dialogo è ridotto a ben poca cosa: Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise
ad esagerare le difficoltà dell'impresa, mentre l'innominato lo licenziò, liberandosi bruscamente del
postulante, con poche parole: tra poco avrete da me l'avviso di quel che dovrete fare.
Nel Fermo e Lucia è tutt'altra cosa il dialogo. Don Rodrigo, innanzi tutto, entrando, si inchina
profondamente con quell'aria equivoca che può parere bassezza o affettazione. Inoltre, seduto su
una seggiola posta in luogo per cui si potesse scorgere qualsiasi movimento, si perde in molte
cerimonie a cui il Conte, uomo pratico, bada poco o nulla.
Don Rodrigo, entrando nel vivo, esordisce con queste parole: Dovrei scusarmi di venire così a dare
infado a Vossignoria Illustrissima. Poi, peggiorando la sua situazione, continua dicendo: … mi sono
fatto animo a venire a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo amparo.
Il Conte si infuria a sentire queste spagnolerie, intendiamoci fra noi da buoni patrioti, dice: Tenga
queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto e con quei
parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitori d'uno
spagnuolo infingardo.
Dunque avremmo avuto, e abbiamo perduto con la revisione del romanzo, un innominato patriota,
ma il momento più bello dell'episodio è quando il Conte calcola il costo dell'impresa.
Patti chiari, riprese senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva
un conto a memoria: Venti miglia … un borgo … presso a Milano … un monastero … la Signora
che spalleggia … due cappuccini di mezzo … signor mio, questa donna vale dugento doppie.
Ma non solo, Manzoni ci trasmette anche i pensieri del Conte – l'avresti avuta per centocinquanta
se non parlavi d'infado e d'amparo.
62
La peste di Federigo Borromeo e un debito nascosto
Federigo Borromeo è il più importante personaggio della seconda metà del romanzo. I suoi lunghi
colloqui con l'innominato e Don Abbondio, per quanto prevedibili, e poco romanzeschi, permettono
l'esposizione del sistema di pensiero manzoniano sulla fede. Il ventiduesimo capitolo è interamente
al cardinale dedicato. Nel trentaduesimo, Manzoni ammette, con probità, di non poter assolvere il
cardinale, come invece avevano sostenuto Muratori e Pietro Verri, del sospetto di aver condiviso la
credenza nell'unzione. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un'operetta scritta di sua mano
intorno a quella peste; e questo sentimento (la veridicità dell'unzione) c'è accennato spesso, anzi
una volta enunciato espressamente. Era opinione comune, dice a un di presso, che di questi
unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l'arti di metterlo in opera: delle quali
alcune ci paiono vere, altre inventate.
Questa citazione del De pestilentia del cardinale non è l'unica presente nel romanzo, perché da
questo testo Manzoni ha tratto molti altri e nascosti spunti per la narrazione del trentaquattresimo e
del trentacinquesimo capitolo, fino al culmine raggiunto dall'episodio delle caprette allattatrici nel
lazzaretto. Si può correttamente dire che la descrizione degli orrori milanesi della peste è in gran
parte, se non quasi tutta, debitrice di questa operetta, oltre al debito generale contratto con la
relazione del Ripamonti o, nello specifico, con il Ragguaglio del Tadino e qualche altro testo.
A margine di queste considerazioni si può aggiungere che C.M. Cipolla nell'Introduzione a
Cristofano e la peste, ridimensiona le veementi critiche di Manzoni all'inefficienza del sistema
sanitario e politico del ducato milanese.
Non mancava, in una situazione così tipica, qualcuno che accusava di essere egli stesso un untore.
Manzoni così giudicava le psicosi del momento:
I vaneggiamenti degl'infermi che accusavano se stessi di ciò che avevano temuto dagli altri,
parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d'ognuno. E più delle parole,
dovevano far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati in delirio andassero facendo di
quegli atti che s'erano figurati che dovessero fare gli untori:
cosa insieme molto probabile, e atta a dare miglior ragione della persuasione generale e
dell'affermazioni di molti scrittori. Così nel lungo e tristo periodo dei processi per stregoneria, le
confessioni, non sempre estorte, degli imputati, non servirono poco a promuovere e a mantenere
l'opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un'opinione regna per lungo tempo, e in una
buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentare tutte le uscite, a scorrere
per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa
strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.
63
La responsabilità
Manzoni, nell'Introduzione alla Storia della colonna infame, afferma di voler trattare di nuovo, con
diverso intento, un soggetto già trattato da uno scrittore giustamente celebre, cioè le Osservazioni
sulla tortura di Pietro Verri.
Pietro Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavare da quel fatto
un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione
di un delitto, fisicamente e moralmente impossibile. In quel periodo, aggiunge Manzoni, era
stringente l'argomento e nobile e umano l'assunto.
Ma contentarsi di quelle osservazioni, di quelle sole che potevano servire a quell'intento, c'era il
pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa. Prendendo a pretesto
l'ignoranza dei tempi e la barbarie della giurisprudenza, osservando i fatti quasi fossero fatali e
necessari, se ne ricavava un errore dannoso. L'intento di Manzoni è quello di far vedere che i giudici
condannarono degli innocenti, che essi, pur con la più ferma persuasione dell'efficacia delle
unzioni, e pure con una legislazione che ammetteva, e consigliava, la tortura potevano riconoscere
innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere la verità che ricompariva ogni momento,
in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari ora come allora, e come sempre, dovettero fare
ricorso a continui sforzi d'ingegno, e ricorrere a espedienti, dei quali non potevano ignorare
l'ingiustizia.
Non furono l'ignoranza e la tortura il mezzo principale in quell'orribile fatto, scrive Manzoni. Sono
state altre invece per quei giudici le cause, vere ed efficienti, la rabbia contro pericoli oscuri per
cui impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello le veniva messo davanti , la rabbia, resa
spietata da una lunga paura e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati, e il timore di mancare
ad un'aspettativa generale il timore di voltare contro di sé le grida della moltitudine, il timore,
forse, di gravi pubblici mali. Dio solo sa, conclude la riflessione Manzoni, se i magistrati furono più
complici o più ministri di una moltitudine accecata, non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal
furore.
La conseguenza del ragionamento manzoniano è che gli orrori riferibili ai processi agli untori non
sono purtroppo particolari a un'epoca. Le passioni che hanno prodotto tanto male non si possono
bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma rendere meno potenti e meno
funeste, con il riconoscerle nei loro effetti, e detestarle.
Quando si scopre un'ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, un
trasgredire le regole ammesse da loro stessi, delle azioni opposte ai lumi che non solo c'erano anche
in quel loro tempo, ma che essi medesimi mostrarono di avere in altre occasioni, si fa la scoperta,
insomma, che ciò che essi fecero non vollero sapere fino in fondo, per quell'ignoranza che l'uomo
assume e perde a suo piacere, scrive il lombardo. D'altronde egli ammette, a scagionare in parte il
suo parente, che Verri, l'ingiustizia personale e volontaria dei giudici, non poteva farla apparire nel
suo pesante rilievo (di essere la principale, la sola causa), senza nuocere all'intento di combattere
l'istituzione della tortura. I difensori della tortura scrive Manzoni che le istituzioni più assurde
hanno dei difensori finché non sono morte del tutto, e spesso anche dopo, per la stessa ragione per
cui sono potute vivere avrebbero potuto dire che la colpa era l'abuso non nella cosa in sé, mentre
coloro che volevano l'abolizione della tortura sarebbero stati insoddisfatti dalle distinzioni che,
dando colpa ad altro, diminuissero l'orrore di quella.
Le ultime parole dell'Introduzione sono indirizzate ai commentatori che si sono espressi sul caso
fino a Verri, i quali, per un secolo e mezzo, hanno ripetuto, senza la diffidenza che sarebbe stata
necessaria, la sola opinione ammessa, cioè le maledizioni alle vittime, senza pensare ad informarsi
64
su un fatto del quale credevano di parlare. Non è mai stata abbastanza screditata e avversata
l'abitudine, antica, di ripetere senza esaminare, il più contagioso degli errori degli scrittori.
65
La visione
Tra le storie che il delirio dell'unzione fece immaginare, Manzoni ne riporta una, per il credito che
acquistò e per il giro che fece in Italia, e anche fuori. In Germania se ne fece una stampa, e l'elettore
arcivescovo di Magonza scrisse al cardinale Federigo Borromeo per domandargli cosa si doveva
credere dei fatti meravigliosi che si raccontavano di Milano. Erano sogni, rispose il cardinale. Ecco
il sogno: sulla piazza del duomo si vede arrivare un tiro a sei, con dentro, tra gli altri, un gran
personaggio con una faccia fosca e infuocata. Dalla carrozza, fermatasi, il cocchiere scende e invita
uno spettatore della scena a salire, costui sale, e dopo diversi giri, tutti smontano alla porta di un
palazzo. Dentro si trovano amenità e orrori, e tra l'altro grandi casse di denari da cui l'ospite avrebbe
potuto prendere a piacimento, a patto che ungesse per la città il contenuto di un vasetto. Poiché non
aveva accettato si era ritrovato in un baleno nel luogo in cui era stato preso.
Gli intellettuali dell'epoca, in buona parte, credevano all'influsso di una cometa apparsa nell'anno
1628. Un'altra cometa, del 1630, sarebbe stata la prova manifesta delle unzioni. Tutti, o quasi,
pescavano nei libri esempi di peste manufatta; si citavano Livio, Tacito, Dione, Omero, Ovidio, e
poi cento altri autori che avevano trattato dottrinalmente, e avevano parlato incidentalmente di
veleni, di malie, di unti e di polveri: Cesalpino, Cardano, Grevino, Salio, Pareo, Schenchio, Zachia e
il funesto Delrio, di cui Manzoni aggiunge che le sue Disquisizioni Magiche, divenute il testo più
autorevole, più irrefragabile, furono, per più di un secolo, norma e impulso potente di legali,
orribili, non interrotte carneficine. Le veglie di costui, scrive ancora Manzoni, costarono la vita a
più uomini che le imprese di qualche conquistatore.
Un altro sogno: due testimoni depongono che a un loro amico infermo erano venute delle persone in
camera a esibirgli la guarigione e i denari, se avesse voluto ungere le case dei dintorni. Al rifiuto,
spariti gli uomini, rimase un lupo sotto il letto e tre gattoni sopra, fino al fare del giorno.
In una lettera rimasta agli atti e conservata in archivio, il gran cancelliere informa il governatore di
Milano che in una casa di campagna due gentiluomini milanesi componevano veleno in tale quantità
che quaranta uomini erano occupati in questo esercizio, con l'assistenza di quattro cavalieri
bresciani che si rifornivano di materiali dal veneziano.
Nota: A proposito di un episodio che ha come protagonista il protofisico Ludovico Settala, poco
meno che ottuagenario, nel capitolo trentunesimo, Manzoni scrive che costui, per altro sicuramente
benemerito e autorevole, partecipava dei pregiudizi più comuni e più funesti dei suoi
contemporanei, infatti con un suo deplorevole consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e
bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di
stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei. Ma ciò che è
intollerabile, conclude Manzoni, è che da questa sventurata vicenda il protofisico avrà ricevuto
nuova lode di sapiente e nuovo titolo di benemerito. Questo episodio è alla base del lavoro di
Leonardo Sciascia La strega e il capitano.
66
Un'altra visone
Quando Renzo, alla fine del trentaquattresimo capitolo, sta per mettere piede nel lazzaretto, assiste a
una scena particolare. Colpito dal rumore straordinario e dalle voci che gridavano: Guarda! Piglia!
Si alzò in punta di piedi e vide un cavallaccio che andava di carriera, spinto da un più strano
cavaliere: era un frenetico che, vista quella bestia sciolta e non guardata, accanto a un carro, c'era
montato in fretta sopra e la cacciava in furia. I monatti, indietro, inseguivano, e tutto si ravvolse in
un nuvolo di polvere, che volava lontano. L'episodio del frenetico, come molti altri è tratto dal De
pestilentia del cardinale Federigo Borromeo, per il quale, comunque, il cavaliere guarì dalla peste.
Nel Fermo e Lucia, Manzoni per fare uscire di scena Don Rodrigo era ricorso a questo espediente: il
signorotto malato di peste, da una capanna del lazzaretto, vede passare davanti a sé, non
riconosciuto da loro, Renzo e Padre Cristoforo. Li segue, anzi li cerca, perché non sa dove siano
andati, ed entrando in una capanna è riconosciuto da Lucia. Poi scappa quando vede i due uomini
che si avvicinano per soccorrerlo. Si imbatte in un cavallo dei monatti. Il furibondo afferrò la
cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la
pancia con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta
carriera. Un romore di levò all'intorno, un grido di piglia, piglia; altri fuggiva, altri accorreva per
arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di
avvicinarglisi, s'inalberava, e scappava vie più verso il tempio.
Il terrore che la voce di Padre Cristoforo, nell'episodio citato, incute nella mente devastata di Don
Rodrigo (… udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio
una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo
animo una impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia), come si
legge all'inizio del trentatreesimo capitolo dei Promessi sposi, era già stato provato nella notte
dell'apparire della malattia.
Durante quella notte fece i più brutti e arruffati sogni del mondo. Tra l'altro gli parve di trovarsi in
una gran chiesa, in mezzo a una folla. I circostanti avevano tutti visi gialli, distrutti, con certi occhi
incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e
dai rotti si vedevano macchie e bubboni. Nessuno di quegli insensati dava segno di volersi scostare,
e nemmeno d'avere inteso. Era infuriato e strepitava, quando si accorse che tutti quei visi si
rivolgevano da una parte. Vide un pulpito, poi alzarsi e comparire un volto conosciuto, fra
Cristoforo, il quale, fulminato con uno sguardo tutto l'uditorio, parve a Don Rodrigo che lo
fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella
sala a terreno del suo palazzotto. Allora, svegliandosi, si accorse della presenza di un sozzo
bubbone di un livido paonazzo.
Per concludere, si potrebbe dire, come sanno tutti gli studenti, che questa di Don Rodrigo è l'ultima
delle notti insonni che affliggono vari personaggi del romanzo. La prima è quella di Don Abbondio,
nel secondo capitolo, poi, nel diciassettesimo, quella di Renzo nella capanna presso l'Adda, quindi
quella in parallelo, diversamente tormentata, di Lucia e dell'innominato nel suo castellaccio (cap.
ventesimo) al confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia.
67
Non era così
Non è difficile ravvisare nella novella di Luigi Pirandello “La signora Frola e il signor Ponza, suo
genero” la traccia di un'esperienza effettivamente tentata. Certamente Valdana ha avuto un
corrispettivo reale nella pianura padana dove degli attori non professionisti hanno inscenato la trama
del sospetto sull'identità reciproca che è servita a realizzare il resoconto novellistico e poi
definitivamente l'opera teatrale “Così è (se vi pare)”. La confusione del teatro portata nella vita
quotidiana dunque deve portarci a considerare alcune novelle come dei rapporti veridici di candid
cameras. I nuovi media non hanno più bisogno della realtà, anche se talvolta possono
volonterosamente cercare di imitarla.
68
Le conclusioni
La critica “rivoluzionaria” si è nutrita di conclusioni, cioè di aspirazioni, confuse per quanto bene
conosciute, più contraddittorie di qualunque ambizione, ma con cui hanno in comune quella
spregiudicatezza che ora è quasi impossibile negare a chiunque. Un esempio della passione della
conclusione si trova in “Vecchi e giovani” di Luigi Pirandello:
“Ebbene, signori miei, che concluderemo noi? Siamo uomini, e venuti qua per questo. Ma vi leggo
negli occhi. Voi non avete nessuna voglia di concludere, pur non essendo eterni! Voi avete
viaggiato. Molti tra voi seguiteranno il viaggio fino a Reggio Emilia. Qua a Roma, chi ci viene per
la prima volta, ha da vedere tante cose; e il tempo stringe. Scusatemi, se parlo così: sapete che vedo
per minuto, e parlo come vedo. Ho poca fiducia nelle conclusioni degli uomini, i quali tutti, a un
certo punto, guardandosi dietro, considerando le opere e i giorni loro, scuotono amaramente il capo
e riconoscono: “sì, ci siamo arricchiti”, oppure: “sì, abbiamo fatto questo o quest'altro, ma che
abbiamo infine concluso?”. Veramente, a dir proprio, non si conclude mai nulla, perché siamo tutti
nella natura eterna. Ma ciò non toglie che oggi noi qua, dato il momento, non dobbiamo venire a
una qualsiasi, magari illusoria , conclusione. Io vi dico che questa s'impone, perché altrimenti ci
verranno da sé, senza la vostra guida illuminata e il vostro consenso, gli operai delle città, delle
campagne, delle zolfare. E sarà cieco scompiglio, tumulto feroce, quello che potrebbe essere invece
movimento ordinato, premeditato, sicuro. Le conseguenze? Signori, usa prevederle chi non è nato a
fare. Credete voi che ci sia ragione d'agire? Avvisiamo ai modi e ai mezzi. Tutta la Sicilia è ora
senza milizie. Tre, quattro compagnie di fantaccini vi fan la comparsa dei gendarmi offenbachiani,
oggi qua, domani là, dove il bisogno li chiama. E contro di essi, come voi dite, un intero, compatto
esercito di lavoratori. Non c'è neanche bisogno d'armarlo; basterà disarmare quei pochi e si resta
padroni del campo. No? Dite di no? Aspettate!...”.
69
Contro l'ideologia nel campo politico
Il campo politico si spartisce, diceva una volta R. Vaneigem, tra stupidi e imbecilli, o tra canaglie e
stolti, come si legge in un Seminario di J. Lacan. Non c'è molta differenza di quale fazione si finisca
con l'essere i sicari. Questo è anche l'argomento di una commedia in un atto di Luigi Pirandello,
sommariamente intitolata L'imbecille. Si tratta, come molto spesso si è ripetuto, della ritrascrizione
in forma teatrale di una novella del 1912. Le novelle evidentemente rappresentavano un patrimonio,
in fondo non molto conosciuto, e pressoché inesauribile, al quale attingere.
Fu, per la prima volta, rappresentata a Roma il 10.10.1922. Alla fine dello stesso mese ci sarebbe
stata la marcia su Roma.
Due partiti politici animano uno scontro mortale in una realtà provinciale, repubblicani e socialisti
hanno in corso una guerra. La scena si svolge nella casaredazione di Paroni, direttore della Vedetta
repubblicana. Si viene a sapere del suicidio di un giovane già malato.
“Quando uno non sa più che farsi della propria vita, è da imbecille”. Il direttore spiega meglio il
suo punto di vista:
Scusate: sono malato: domani morirò; c'è un uomo che disonora il mio paese, un uomo che
rappresenta un'onta esecrabile per tutti noi, Mazzarini: ebbene, l'ammazzo e poi m'ammazzo! Ecco
come si fa! e chi non fa così è un imbecille! (…) Gliel'avrei messa in mano io la rivoltella!
Ammazzalo, e poi ammazzati, imbecille!
Il discorso ha un ascoltatore piuttosto attento, perché dovrebbe ammazzare quello che parla. La
situazione si rovescia, Fazio dichiara di volere uccidere Paroni per incarico di Mazzarini.
“Ammazzare te o un altro, il primo che passa per via, è tutt'uno per noi!”. In effetti il reclamato
gesto più semplice del primo surrealismo è praticato con una attestata frequenza maggiore rispetto
alla diffusione della conoscenza del nichilismo teorico che ne propaganda i benefici.
“Vorresti che ci rendessimo strumenti, noi, all'ultimo, quando tutto per noi è già finito, del tuo odio
o di quello per un altro, delle vostre gare da buffoni; o se no, ci chiami imbecilli? Ebbene io non
voglio essere chiamato imbecille e ti ammazzo!”. Oppure, l'alternativa alla morte, per il
dispensatore di giudizi sull'imbecillità altrui, è una dichiarazione firmata della propria imbecillità.
Ottenutala, la commedia si chiude con le seguenti parole rivolte al graziato:
Consolati col pensiero che io vado a fare adesso una cosa un po' più difficile di questa che hai fatto
tu. Buona notte.
70
Il fratricidio di K.
Il sangue di K. insozza le bandiere di ogni ideologia: Cominceremo dalla fine del processo, nell'
“ora del silenzio nelle strade”. K. aspetta visite, si presentano due signori, vecchi attori di infimo
ordine, forse due tenori, con cilindro, guanti e doppio mento. La loro faccia è nascosta. Se
volessimo dare un volto ai due sicari, di scorcio apparirebbe Lenin sotto un cilindro. K. muore
quando trionfa la rivoluzione sulle armate bianche. La controrivoluzione ha vinto. Kafka morirà
dopo un terribile inverno in un ospedale della NEP. Ora Stalin, o forse Trotskij, gesticola di
rivoluzione, dal “fodero appeso a una cintura legata sopra il panciotto” sfila un coltello da
macellaio, non dominando le parole che sgorgano contro i bianchi, contro i soviet e contro gli
estremisti. Gli sfugge ancora una “condanna”, l'ultima, il filo del coltello intanto viene esaminato al
chiaro di luna e come un cane K. muore, mentre qualcuno osservava la scena da una finestra. Chi
era? E l'altro sicario chi era? In sembianze parallele l'altro era ancora K.? Che assiste, partecipe e
compie l'assassinio della sua parte apparente? Se il suicidio si presenta come omicidio, mentre getta
luce sul grigiore del mondo kafkiano, si rivela autobiografico. “Mi uccida altrimenti lei è un
omicida” sono le sue ultime parole. Anche se un fratello giuridicamente non è mai esistito, lo sanno
tutti, chi farà come Kafka che ha ucciso suo fratello, trucidato al chiarore di luna? Lui il fratricidio
l'ha finalmente compiuto, “rumore di pantegane schiacciate”. La “vescica piena di sangue” scoppia
accoltellata, il sangue sprizza da ogni lato e annerisce il marciapiede. Ma salita la nausea, trascinato
da un passo leggero, va verso la sua morte. Ognuno ha il suo Pallas, colui che ti guarda dalla
finestra. K. è stato scoperto, paga il suo omicidio, che tuttavia gli ha fruttato una serenità
inaccessibile a molti. L'esecutore della sentenza storica si avvia, scortato, alla sua esecuzione e il
condannato in contumacia è ancora dentro e fuori di noi. Ancora.
71
Qualche frase di Kafka dai Colloqui con Gustav Janouch
A proposito di Kafka, Franz Blei,
nel Grosses Literarisches Bestiarum,
immagina un singolare uccello
nutrito di radici amare.
La calma è espressione di forza e anche attraverso la calma si può raggiungere la forza. È la legge
dei poli. Stia dunque tranquillo, poiché la tranquillità rende liberi … persino di fronte all'esecuzione
capitale.
Nell'arte avviene sempre così. Bisogna buttare via la vita per conquistarla …
Certe cose si possono raggiungere soltanto buttandosi risolutamente nel contrario. Si deve andare in
terra straniera per trovare la patria che si è lasciata.
Lasci che il male e che i dispiaceri vengano addosso. Non li eviti, anzi li osservi attentamente.
Sostituisca la comprensione attiva alla irritazione reattiva e vedrà che saprà superare le cose. Alla
grandezza si giunge soltanto attraverso la propria piccolezza.
L'Istituto è un tetro covo di burocrati dove io sono messo in mostra come unico ebreo.
Il capitalismo è un sistema di dipendenze che vanno dal di dentro al di fuori, dal di fuori al di
dentro, dall'alto al basso e dal basso all'alto. Non c'è cosa che non sia concatenata e dipendente. Il
capitalismo è una situazione del mondo e dell'anima.
Non esistono fiabe non cruente. Tutte le fiabe provengono dalle profondità del sangue e
dell'angoscia. Questo è il legame di parentela fra tutte le fiabe. Soltanto la superficie è diversa.
Il sogno svela la realtà che l'idea si lascia molto indietro.
Io sono una cornacchia, una kavka. (…) Ma è soltanto apparenza. In realtà mi manca il senso delle
cose luccicanti. Per questa ragione non ho nemmeno le penne nere e lustre. Sono grigio come la
cenere.
Sognavo di andare in Palestina a fare l'agricoltore o l'artigiano.
72
L'incompreso Brod
In I testamenti traditi di Milan Kundera, la parte nona: Questa non è casa sua, mio caro, parla,
come anche diffusamente altrove, di F. Kafka e di Max Brod. Ai miei occhi Max Brod rimarrà per
sempre un mistero, scrive. Max Brod, con grande dedizione, si è messo al servizio dei due maggiori
artisti, Kafka e Janácek, vissuti nel paese di Kundera, ed egli lo sa, e ne prova sgomento, per
l'insufficienza dimostrata dalla comprensione di Brod.
Non riesco a capacitarmi che ci si stupisca tanto della (supposta) decisione di Kafka di distruggere
l'intera sua opera. Kundera dice che l'opera potrebbe non piacere più al suo autore, oppure piacergli
l'opera e non il mondo, oppure che l'autore potrebbe essere motivato dalla certezza interiore della
ineluttabile incomprensione di essa. Ma per Kafka non si tratterebbe di questo. Brod, nella
Postfazione alla prima edizione del Processo, scrive che Kafka gli aveva detto di bruciare i propri
scritti e che lui, altrettanto sinceramente, gli aveva risposto che non l'avrebbe fatto.
Kundera spiega che la richiesta di Kafka era perfettamente giustificabile, e che se avesse potuto
distruggere da sé le proprie carte l'avrebbe fatto, ma non gli era possibile, quando avrebbe dovuto
farlo effettivamente, perché si trovava ormai in sanatorio. Ma Kafka non voleva distruggere tutto
perché in una lettera, trovata in un cassetto, insieme ad altre carte, dopo la sua morte, è scritto che
lui considerava validi La condanna, Il fuochista, La metamorfosi, Nella colonia penale, Un medico
di campagna, Un digiunatore, e pure, Meditazioni. In sostanza tutto ciò che aveva pubblicato.
Dunque Kundera sottolinea che Kafka non ha nulla a che vedere con la leggenda dell'autore deciso a
distruggere la propria opera. Infatti sicuramente è così. Perché Brod avrebbe sbagliato a salvare tutto
il resto? Kundera lo spiega dicendo che si tratta della divulgazione dell'intimità altrui per uno
scrittore, come Kafka, la cui indole schiva egli ben conosceva. L'aver oltrepassato la soglia del
privato, commenta, non appena diventa abitudine e regola, ci ha fatto entrare in un'epoca in cui la
questione centrale è la sopravvivenza o la scomparsa dell'individuo. Kundera pone a sproposito la
questione per via di un dubbio che decisamente non c'è più. Comunque sbaglia la mira, quando
scrive: ai miei occhi l'indiscrezione di Brod non ha scusanti, perché fece pubblicare tutto, senza
discernimento.
Brod non ha mentito a Kafka, e Kafka non era indifferente alle sorti delle sue carte. Sicuramente
voleva essere disobbedito, perché ciò che voleva era di essere dispensato dalla responsabilità di ciò
che aveva scritto. Non si scrive qualcosa di cui si pensa che sia spaventoso impunemente. Per questo
ne affida il destino all'amico sapendo che lui ne tradirà la consegna rispettandone l'intendimento.
L'autodistruzione non ci fu, e questo è decisivo. Kundera imputa a Brod di aver pubblicato, e fatto
conoscere a tutto il mondo, quella Lettera al padre che Franz non recapitò al destinatario. Non è
difficile immaginare che la timidezza di Kafka doveva essere bilanciata dalla sfrontatezza
dell'amicotraditore. Kundera immagina un parallelo tra la vergogna di K., nel finale del Processo, e
quella di Kafka, nel sapere pubblicate le sue cose segrete, perché è la trasformazione del
protagonista, di un uomo, da soggetto in oggetto, ad essere sentita come tale. Brod avrebbe
svergognato Kafka rendendo pubblici i suoi diari, la sua corrispondenza e pure i suoi stessi romanzi,
ma la stessa similitudine della vergogna non sarebbe stata immaginabile senza il tradimento di
Brod, perché solo il tradimento ha liberato l'autore dalla vergogna che l'assillava.
Il tradimento di Brod era la massima aspettativa di Kafka. Perché solo il tradimento poteva
assecondare la realizzazione di un progetto che non ammetteva che una strada. La devozione non ha
avvantaggiato Max Brod, ma Kundera lo denigra con la facilità con cui si umiliano gli stupidi, per i
quali la devozione deve essere sentita come una colpa minore del contrario.
73
Bestie
Se Joyce non fosse andato oltre i Dubliners e Stephen Dedalus, Federigo Tozzi sarebbe rimasto
esattamente alla sua altezza, come a quella di ciò che Kafka direttamente pubblicò. Tuttavia, anche
così non è minore, la letteratura proletaria non può che custodirlo e difenderlo come suo campione.
La raccolta di prose liriche dal titolo Bestie è indicativa di questa posizione intransigente (Chi dirà
la mia gioia quando, grattandomi i capelli con le unghie, la mamma mi disse che mi avevano
attaccato i pidocchi?). In un racconto come La matta, tratto dalla raccolta Giovani, si può trovare,
come anche altrove nella narrativa di Tozzi, una istruttiva, eloquente rappresentazione della
crudeltà.
In una notoria marginalità, la protagonista, confinata dal disprezzo attivo della comunità, subisce
una sopraffazione senza fine e senza tregua. Già all'inizio del racconto, la prima scena rievocata, al
cimitero davanti alla lapide di Anna Franchi, della matta, il cui nome, la cui identità è perduta
praticamente per tutti, la vede piangere di rabbia e di disperazione sulla strada. Ognuno diceva
qualche cosa, che facesse ridere sempre di più. L'umiliazione si completa con altri interventi.
Questa donna, racconta Tozzi, era stata, da giovane, quasi ricca. Ma aveva perduto il marito per un
incidente. Per vivere, s'era messa a vendere la frutta. E alla fine non la riconosceva più nessuno,
nessuno le parlava e, del resto, lei stessa aveva capito che faceva meglio a non parlare, e si rifiutava
di attaccare qualunque discorso. Ma i discorsi non sono incompatibili con lo scherno e
l'emarginazione. Il disprezzo appare sotto sembianze irriflessive, ma la sua logica necessita che un
certo discorso sia stato appreso bene dalla comunità che lo mette in atto.
In ospedale, curata come una povera bestia per un cancro alla lingua la sua faccia era diventata
orribile, però non si lamentava mai. Dal suo letto veniva un odore nauseabondo, ma che fosse morta
se ne accorsero il giorno dopo, perché non si sentiva nemmeno più respirare. Naturalmente, come
nella Metamorfosi di Kafka, la sua morte portò sollievo agli altri.
74
Nel cono della legge
Icone della legge Massimo Cacciari.
La porta sta sempre aperta; anche il guardiano si è tirato da parte, così che il contadino può
affacciarsi e guardare all'interno. Potrebbe entrare, se vuole, malgrado il divieto del guardiano. Il
contadino potrebbe sempre sorpassare di corsa il primo guardiano, ma già la vista del terzo non la
potrebbe più reggere, dovrebbe subito fallire, tornare sui suoi passi, tacere.
Nota. Potrebbe non reggere la vista del terzo guardiano, ammesso che lo voglia guardare, ma che
debba per ciò tornare indietro e tacere, questo non è affatto stabilito.
Il contadino, che non si attendeva questa difficoltà, preferisce attendere, anzi decide (egli può
dunque decidere!) di attendere che gli sia concesso il permesso di entrare.
Nota. Può darsi che questa difficoltà fosse stata prevista, e tanto da non essere più considerata una
difficoltà, essere dimenticata, per voler restare lì. Può darsi che non fosse affatto una difficoltà, ma
che di entrare gli fosse, del tutto, cessata la tentazione. Il permesso di entrare non l'ha mai atteso,
questo lo si può dire con certezza, perché altrimenti fingere di chiederlo per giustificare il suo stare
lì, del tutto volontario?
Sullo sgabello che il guardiano gli ha offerto passa la vita, domandando, pregando, osservando
insaziabilmente, fino all'ultimo respiro, quando il guardiano gli rivela che quell'entrata era destinata
a lui solo.
Nota. Lo sgabello era il suo posto di viceguardiano di quell'entrata, il corridoio, angosciante, era il
suo orizzonte, come per l'altro, d'altronde. Che non abbia maturato nessun diritto a un trattamento
assistenziale, piuttosto, sarebbe da addebitare alla naturale crudezza dei tempi, che il dottor Kafka
conosceva per esperienza professionale.
La strano divieto del guardiano suona chiaro: per ora non può lasciarlo passare, ma se ne ha voglia,
provi pure. Il contadino resta immobile sul suo sgabello di fronte alla apparente contraddittorietà
delle parole del guardiano; interroga il guardiano per spiegarle, risolverle. Le interpreta come un
enigma. (…) Non vede quel segno, puro, senza oltre, terribile nella necessità del suo gioco: la porta
aperta.
Nota. Perché ostinarsi a presumere che il contadino non abbia capito? L'ha capito, ciò che era da
capire, che la porta era per lui, che non c'era ostacolo, e che nulla c'era oltre la porta, che non valeva
la pena entrare, e che tutto si riduceva a chiacchierare con il guardiano, due guardiani per una stessa
porta, del tutto inutile, e inutilizzabile.
Immediatamente, non appena il sacerdote ha finito di narrare, Josef K. parla di inganno – ma in un
senso diametralmente opposto a come se ne parla nella parabola. Egli abbraccia irriflessivamente la
posizione del contadino e denuncia l'inganno che avrebbe perpetrato il guardiano.
75
Nota. Non c'è inganno, è ovvio, ma la parolachiave è l'irriflessione, non abbastanza riflessa, di
Josef K. È la fretta di morire che prova Josef K. a farlo parlare così, quale altro inganno, cosa d'altro
se non inganno?
Il sacerdote parla dell'altra teoria secondo la quale proprio il guardiano sarebbe stato ingannato.
Nota. Due opinioni specularmente false, più le altre che derivano da esse, irradiano la verità che non
vedono, per il fatto di celare proprio quella.
All'opinione che afferma che il contadino è stato ingannato può opporsi chi sostiene che l'ingannato
è il guardiano; e ci può essere, ancora, un'altra diversa opinione: ingannati sono entrambi. (…) Si
dovrebbe sostenere, allora, che è la Legge stessa a ingannare? (…) K. non sa abbandonare il punto
di vista della contraddizione; per lui il testo espone un'idea che può essere vera o falsa soltanto.
Anche dopo che il sacerdote indica il nocciolo del problema: non bisogna ritenere tutto vero, ma
tutto necessario, egli vi insiste: la bugia diviene allora l'ordine del mondo.
Nota. Che cosa è necessario se non la bugia come ordine del mondo? pensa Josef K. Il suo punto di
vista non è determinato dalla stanchezza, cioè da un non volere pensarci più, ma la stanchezza
coglie il possessore della verità, quando vi giunge, instancabilmente; dopo, la spossatezza ha un
significato, quello che ci è comune in quanto esseri umani, come per K. nel Castello, dopo le parole
di Bürgel. Dunque Josef possedeva la risposta alla questione della parabola, la sua risposta a come
troncare la ridda delle interpretazioni.
L'interpretazione edificante e consolante dell'interpretare come perpetuazioneconservazione del
senso del testo, della originarietà del testo, l'interpretazione come ripresentazione dell'Origine –
quest'epoca si chiude in Kafka.
L'interpretare, in sé necessario, autonomo, perciò, rispetto alla dimensione dell'Origine, nulla sa in
sé, nel suo limite, di tale dimensione.
Nota. Il non sapere di Josef è al di qua e oltre il limite dell'interpretazione, della disperazione
inalterabile dell'interpretazione. La corruttibile disperazione dell'ingannato, di colui che si crede
ingannato, e di colui che non lo è più.
Eppure, mai era stata la risposta del Castello – anzi, di uno dei portieri del Castello – alla richiesta
di K. di potervi accedere l'indomani, più precisamente: né oggi, né un'altra volta.
Nota. Non si può trascurare che il mai nel Castello, permette ancora meglio di capire, come il
divieto si faccia improrogabile, per difendere ciò che non c'è. D'altronde la richiesta giustifica i posti
di lavoro. Perciò si parla, e si ripete, continuamente di estrema improbabilità che la norma sia
disattesa.
Tocchiamo forse il punto più doloroso dello stile di Kafka, se comprendiamo come in esso il
possibile sia pensato secondo una prospettiva metafisicamente opposta. Il possibile viene qui inteso
nella sua tragica, nuda, necessità. Ineliminabile, per le ragioni più volte indicate, esso non è tuttavia
soggetto ad alcuna metafora, ad alcuna trasposizione ad altro da sé. Il possibile è inteso in sé, come
necessità. E cioè: mai il possibile potrà farsi reale. Se divenisse reale, non sarebbe più possibile. E
se il possibile è solo reale, allora è questo reale, questo esserciqui, di fronte al guardiano, dinanzi
all'apparente chiacchiera di Bürgel, condannati al mezzosonno, al medioconscio, della nostra
76
stanchezza e della nostra delusione.
Nota. Finalmente il testo in questione si avvicina alla riflessione sul reale del possibile; è l'inganno
il possibile, il possibile l'inganno, giacché il reale non è altro che la soddisfazione del possibile.
Tutta l'essenza delle vedute di K. è racchiusa nella tesi che ci sia un'unica logica fondata
sull'immediata certezza del principio di non contraddizione. Ciò è tanto più straordinario, poiché
egli vive una vicenda nella quale esso viene continuamente contraddetto.
Nota. Potrebbe darsi che le continue contraddizioni dichiarino il principio di non contraddizione
come il più importante, in quanto il più eluso.
K. continua a ritenere che dietro i messaggi che riceve vi sia qualcosa – un congegno che non riesce
ad afferrare – in grado di porne in ordine le apparenti contraddizioni, un principio capace di
eliminarle.
Nota. K. sa che non c'è un principio capace di eliminarle, proprio per questo le contraddizioni sono
segni decisivi, che lui ha ragione nel cercare di smontarle ciò mantiene tutto in ordine.
Le contraddizioni devono essere tolte; la loro inaudita alterità essere riportata alla identità di quella
logica. Esse devono essere sapute.
Nota. Le contraddizioni non devono essere tolte, la loro alterità essere protetta dalla identità di una
logica che non deve essere saputa, perché non c'è, questo è il compito dell'agrimensore, è ciò che
deve essere misurato.
L'apparenza deve, apparentemente, fargli torto, perché il suo lavoro riesca.
Il principio di non contraddizione è a fondamento di qualsiasi azione obbediente; la sua necessità
coincide con il metodo dell'azione unicamente volto alla Erfüllung del comando ricevuto.
Nota. Il lavoro di K. misura l'oscillazione di fronte alla contraddizione e nella contraddizione. Il
lavoro produce, il sue effetto è dimenticare, produrre la parola vuota. Esserne sicuri.
77
La morte con Leucotea
La nube: “La morte, ch'era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene”, cioè la morte è il
meglio di quella che era la vita senza limiti, senza destini, la vita nella quale si è “tutto nel gesto che
fai”, ma gli immortali (seppure minuscoli) le danno un senso che si prolunga, un'ombra eterna.
La chimera: in Oriente a fare le crociate, a farne di più.
“La beffa e il tradimento: prima ti tolgono ogni forza e poi si sdegnano se tu sarai meno che uomo.
Se vuoi vivere smetti di vivere”. Perché la terra è ora giusta e pietosa, cioè ingiusta, crudele e
traditrice. Quando camminiamo tutto ciò che urtiamo, ad ogni passo, è “un cadavere, un odio, una
pozza di sangue”, ma la legge degli dei è che nessuno si uccide. “La morte è destino, non si può che
augurarsela, Ippòloco”.
I ciechi: Un bambino fa il bagno, si tuffa e si rituffa, gode dell'acqua e nell'acqua muore. Di cosa
sono responsabili gli dei: del godimento o della morte? Essi fanno le cose, cioè le nominano,
rendendole, alcune, vili. Ma le cose del mondo sono roccia, e le cose noi le urtiamo. Gli dei sono
serpenti, anzi il dio più antico è ambiguo ed equivoco; ed il disgusto è la prima sensazione adulta.
Le cavalle: “La nostra allegria non sapeva più confini”, eravamo bestie nel pantano, ma oggi loro,
gli dei, “ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce, devono trafiggere e distruggere e
rifare”. Gli dei sono la morte, e il figlio di Corònide sarà colui cui gli uomini guarderanno “per
sfuggire il destino, per ritardare di una notte, di un istante, l'agonia”.
Il fiore: Un bambino gioca con il radioso, poi il disco del dio gli si conficca sulla fronte, d'altronde
“si comincia e si muore nel sangue”, e “quell'ansiosa speranza che fu il suo morire fu pure il suo
nascere”, e “non gli mancò, della gioia perfetta, nemmeno la fine rapida e amara”.
La belva: La belva non si tocca, la si sogna: “Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in
una, le portasse con sé, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei, racchiudesse infinite cose
della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni andati che tu non saprai mai, giorni futuri,
certezze, e un'altra terra e un altro cielo che non ti è dato possedere?”.
Schiuma d'onda: “A niente si sfugge”. Chi potrebbe mai pensare che l'amore sia calma? L'amore è il
mare, da cui sorse Venere, è tumulto (“Nessuno ha mai pace”), monotono, tedioso ribollire. E lei
che non ha nome, perché da lei si fugge, è l'inquieta angosciosa e il nostro mutare, sfiorando le cose,
dice la ninfa, è arrestato da chi ci possiede, dunque la morte, nella quale ancora nulla si ferma,
perché dalla morte si rivive.
La madre: “Non è nulla un nemico” in confronto alla madre. “Tutti attende una morte, per la
passione di qualcuno”, perché il coraggio l'ha solo chi non sa, e al contrario, sapere fa condurre una
vita da morti (cioè “sei quasi il nulla”), eppure se la domanda stolta è: perché ci uccidono; l'altra va
al cuore della verità, al sangue di madre.
I due: Ci saranno giorni che dovranno ancora nascere e che noi non vedremo, ma nemmeno ciò che
abbiamo visto sempre sapremo. Per questo non è un buon guerriero chi non teme la morte? Ciò che
si vede allora è il peggio, finché arriva la terra a serrare la bocca.
La strada: si può dire così: che ci sono stati tanti giorni che non abbiamo visto e ogni tentativo di
sfuggire il destino, quello stare in guardia allo spasimo ogni istante contro di esso è proprio quello il
destino. E tu Edipo perché ti lagni d'aver goduto più di tanti? Sai a chi lo dici? Vero è che altro è
parlare, altro è soffrire e vero è che ciò che si trova non è ciò che si cerca.
La rupe: Ciascuno avrà la morte che si merita, perciò gli dei avranno l'oblio, quando s'estinguerà la
paura di loro. Dunque la vittoria è ciò che chi decide di perdere offre all'altro nutrendone pietà?
Dubito di ciò senonché ha capito bene la regola: “Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che
è stato sarà”.
78
L'inconsolabile: Non è affatto tale, gli altri (le altre) vorrebbero però che tale fosse, a prezzo di
sbranarlo (“le nostre feste più gioiose sono quelle dove scorre del sangue”). Chi ama non sa di
amare se stesso .
L'uomo lupo: “ Gli dei non t'aggiungono né tolgono nulla: solamente, d'un tocco leggero,
t'inchiodano dove sei giunto”, però “c'è una pace di là dalla morte” (…) “Cos'è che ci salva se non
l'essere risparmiati dalle metamorfosi e dunque ritrovarsi con la stessa bocca, la stessa voce, le
stesse mani ad ogni risveglio?”
L'ospite: La terra si nutre del sangue per nutrire il sangue.
I fuochi: Qualcuno deve bruciare nei roghi, se a bruciare è qualcuno che non serve, gli dei si
accontentano.
L'isola: Chi vuole ingannare chi? Calipso dice che chi è immortale è quasi mortale, cioè accetta
l'istante mentre lo nega, non spera di vivere (né di morire), però nel cuore ripudia ciò che dice.
Dunque? Voce ingannevole quando dice di rompere il destino, perché altrimenti ciò che fai, lo farai
sempre?
Il lago: Gli dei concedono ciò che desideri, anche e soprattutto se non sai ciò che desideri (cioè se
vuoi morire). La terra di morti è per noi quella in cui si è arrivati per primi e l'impressione varrà
ancora per un po'. Infine non è la felicità ciò che si chiede agli dei.
Le streghe: Gli uomini, gli esseri umani, non sanno (non possono) sorridere e scherzare sulle cose
divine, sul destino, forse solo perché “la loro vita è così breve che non possono accettare di fare cose
già fatte o sapute”. Ecco dunque perché la morte li attira così tanto. Ciò che hanno di immortale è il
ricordo, quello che portano e quello che lasciano (chissà). “Nomi e parole sono questo. Davanti al
ricordo sorridono anche loro, rassegnàti”.
Il toro: “Quel che si uccide si diventa”.
Gli argonauti: La verginità delle cose attira (cioè suscita paura) a fare imprese, ad essere crudele, a
diventare dio per giacere con la dea (che però è “la povera donna che voi siete e che son tutte”) ed
essere deluso. Comunque tutti noi, che abbiamo compiuto imprese e ucciso mostri, abbiamo patito e
siamo morti per una maga.
La vigna: in questo capitolo c'è la chiave che apre i dialoghi all'intimo senso secondo il quale sono
stati scritti e disposti, cioè composti “Tu sei mai stata in un vigneto in costa a un colle lungo il
mare, nell'ora lenta che la terra dà il suo odore? Un odore rasposo e tenace, tra di fico e di pino?
Quando l'uva matura, e l'aria pesa di mosto?” Ebbene, a che serve quest'immagine, Pavese? Si
potrebbero dimenticare “Paesi tuoi”, “Il compagno”, “La luna e i falò”? O “La bella estate”?
Il dio tebano è la dea tebana. “Chi gli resiste s'annienta. Ma non è più spietato degli altri”. Sorridere
è come il respiro per lui. E infine, se gli dei, se le dee, sono del tutto simili ai mortali, anche questo
sarà risveglio (“per svegliarti più forte, devi cedere al sonno”). Leucotea, cioè Leucò, era in prima
stesura Leucina. (Si è avvicinata o si è allontanata? Ferina, umana o divina?) Nel “Toro” una frase,
un primo appunto, dice, sull'origine del dialogo: “Un padre non sa quello che fanno i figli”.
Gli uomini: Zeus scende tra gli uomini troppo spesso. Perché? “soltanto vivendo con loro e per loro
si gusta il sapore del mondo”, che non è che il sapore delle donne (delle bestie), poiché sono “il
frutto più ricco della vita mortale”, e, da uomini, come uomo va accostato.
Il mistero: “Tutto quello che toccano (gli uomini) diventa tempo. Diventa azione. Attesa e
speranza”. Anche il morire loro. “Tu gli hai dato le biade, io la vita”, il pane e il vino, dice Dioniso,
senza interposto personaggio, nella nota introduttiva: “Quel che piace di meno è...” . Nel sangue,
dice Demetra , ci hanno trovato. “Se per loro la morte è la fine e il principio, dovevano ucciderci per
vederci rinascere”. Perciò dovremo dirgli che “moriranno e avranno vinta la morte”. “Carne e
sangue, come adesso, come sempre”.
Il diluvio: “Nessun mortale sa capire che muore e guardare la morte”, mentre noi sappiamo solo
“guardare e sapere”. “Mi chiedo che cosa sarebbe morire”, dice l'anadriade, “vorrei provare e poi
79
svegliarmi, si capisce”. “Sentila, ma morire è proprio questo – non più sapere che sei morta”. (Loro)
sbagliano perché chiamano speranza il destino e in esso non sanno vedere (che credere di vedere)
che il ricordo. Perché non sanno vivere come eternità il capriccio del destino che gli è dato?
Le muse: “Ma la fatica interminabile, lo sforzo di star vivi d'ora in ora, la notizia del male degli
altri, del male meschino, fastidioso come mosche d'estate – quest'è il vivere che taglia le gambe”.
“Torna sempre il fastidio”. “E cos'altro è il ricordo se non passione ripetuta?”
Gli dei: “Non c'è moto né attesa. Quel che è stato è per sempre”. “Non è facile vivere come se quello
che accadeva in altri tempi fosse vero”, eppure lo fu e ciò fu trovato allora angoscia e disagio; prima
di esserlo era la promessa di un incontro.
A margine: una tecnica che da L.F. Céline non ho appreso (con nessuna fatica) è che scrivere è
insultare, insultarsi nell'insultare, esaltarsi, ed esultare dell'insulto. Eppure la morte va trattata come
si merita, di ciò Céline è stato maestro, molto più mite e misericordioso di quanto si pensi di solito.
80
I Guermantes della Kolyma
Tra i Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, uno si intitola Marcel Proust.
Un qualsiasi fesso poteva aver rubato il libro su ordine di un ladro, per dare prova del suo
coraggio, del suo desiderio di appartenere al mondo dei delinquenti – i signori della vita di un
campo. Un qualsiasi fesso poteva farlo perché il libro era sull'orlo della panca, nell'enorme cortile
dell'ospedale. Il narratore e Nina Bogatirëva erano stati seduti sulla panchina. Avevano parlato un
poco di argomenti tristi. Alle spalle avevano le colline della Kolyma dove lui aveva trascorso dieci
anni di peregrinazioni. Nina era un'inserviente e aveva il compito di guardare i malati. Il narratore
faceva l'infermiere al turno di notte. Aveva dunque il tempo per leggere. I Guermantes era stato il
primo volume di Proust letto dall'infermiere (ero stato sopraffatto). Il libro, come pure dei pantaloni
di velluto, erano arrivati per posta ad un altro infermiere. L'occasione serve a ricordare la morte di
un comunista olandese nel '37 (la baracca era talmente stipata che non consentiva di dormire che in
piedi) che scendendo lentamente arrivò al pavimento.
L'altro infermiere, il proprietario del libro, era furibondo. Il furto estemporaneo era una tradizione
della Kolyma, una tradizione di fame. Alla Kolyma sapevano rubare tutti. Dei Guermantes erano
sparite le tracce.
Ma a chi poteva interessare Proust, in quel mondo? Forse J. London.
La storia di Nina. Venticinque anni più cinque per avere rifiutato un maggiore che la voleva.
Secondo il narratore non avrebbe potuto rimanere nell'ospedale, ma Nina era convinta di sì, per una
sua relazione, tenuta nascosta con un uomo. Nina rimase per un po' a fare dei paralumi di carta in
ospedale, poi la spedirono con un convoglio.
Il narratore scopre che il suo protettore era stato Volodja. È lui che parla: Una volta, sul continente
avevo una regola assoluta nei campi femminili. Appena cominciano a dire in giro che stai con una
donna, io la ficco nell'elenco e hop... con il convoglio. E ne chiamo una nuova. A fare i paralumi. E
di nuovo è tutto in regola.
La sorella Tonja rimase nell'ospedale, ma prese la sifilide. La reazione Wassermann risultò positiva
per Zolotnickij, il detenuto comune con cui stava, ma anche per Volodja, che scomparve
dall'ospedale. Per uno che va, ne ritorna un'altra, cioè Nina, destinata alla zona femminile malattie
veneree.
Le erano nati due gemelli. Non erano fatti per vivere, sono morti.
Il libro? Sono stata io a prenderlo. Volodja mi aveva chiesto qualcosa da leggere.
81
Il primo cekista
Questo racconto della Kolyma di Varlam Šalamov è interessante per una serie di considerazioni
dell'autore.
Gli uomini si comportano in modo diverso al momento dell'arresto. È assai difficile piegare
l'incredulità di alcuni. Poi, poco alla volta, giorno dopo giorno, si abituano al loro destino e
cominciano a capire qualcosa.
La prigione non ama i furbi. In una cella per ventiquattr'ore su ventiquattro ognuno sta sotto gli
occhi di tutti. Nessuno, nel carcere preventivo ha la forza di nascondere la sua vera natura, di farsi
passare per quello che non è, per minuti, giorni, ore, settimane, mesi di tensione, di nervosismo,
quando il superfluo e l'ostentato si staccano dalle persone come un guscio. E resta ciò che è
autentico, che non è creato dalla prigione, ma da questa verificato e messo alla prova. Resta la
volontà, non ancora sottomessa, non ancora schiacciata, come quasi ineluttabilmente accadrà nel
lager.
Ognuno ha la sua vicenda, la sua lotta, un suo comportamento che non può essere dettato da altri,
il suo dovere, il suo carattere, la sua anima, la sua riserva di forze interiori e la sua particolare
esperienza. Le qualità umane vengono messe alla prova non solo e non tanto dalla cella di una
prigione, quanto al di là delle pareti della cella, in qualche piccolo studio d'istruzione.
Adesso dicono che ci siano degli esecutori speciali. Ma sai come andavano le cose con Dzerzinskij?
Come?
Se la corte assegnava la pena di morte, la condanna doveva essere eseguita dal giudice istruttore
che aveva condotto l'inchiesta, da quello che aveva fatto il rapporto e aveva chiesto l'esecuzione
capitale. Tu chiedi la pena di morte per quest'uomo? Sei convinto della sua colpevolezza, sei certo
che sia un nemico del popolo e che meriti la morte? Allora uccidilo con le tue mani. C'è una gran
differenza tra firmare un pezzo di carta, confermare la sentenza, e uccidere di persona...
Sì, grande...
E tu, Gavrjuša, di fucilazioni ne hai viste?
Sì che ne ho viste, chi è che non ne ha viste?
Ed è vero che il fucilato cade a faccia avanti?
Sì, è vero. Quando è voltato verso di te.
E se gli sparano da dietro...
Allora cade di schiena, a pancia in su.
La cella venne rapidamente a sapere tutti i particolari dell'esistenza di Alekseev, capo della
squadra dei pompieri di una fabbrica di Narofimisnsk: ecco perché l'abito nero statale. Sì, membro
del partito dall'estate del 1917. Sì, soldato artigliere, aveva preso parte ai combattimenti dell'ottobre
a Mosca. Sì, espulso dal partito nel 1927, poi reintegrato. E di nuovo espulso: una settimana prima.
No, io non ero giudice. Il fatto è che non sono molto istruito. Facevo semplicemente parte di una
pattuglia. Lottavo contro il banditismo, eccetera. Poi mi è venuta questa malattia e mi hanno
smobilitato. Come epilettico. E poi ho cominciato a bere. Dicono che non aiuti a guarire.
82
Ci sono due scuole di giudici istruttori. La prima ritiene che il detenuto vada subito stordito,
assordato. Questa scuola basa il proprio successo su un brusco attacco psicologico, sulla
pressione, sul soffocamento della volontà dell'inquisito finché questi non si è ancora ripreso, non ha
avuto ancora il tempo di orientarsi, non ha concentrato le sue forze morali.
Per la seconda scuola invece solo la prigione può estenuare, indebolire la volontà di resistenza del
detenuto. Più tempo il detenuto passerà in cella prima di vedere il giudice, più quest'ultimo ne
trarrà vantaggio.
La vita di prigione, del carcere preventivo, favorisce i litigi. Bisogna saperlo, capirlo, mantenere il
controllo, imparare a distrarsi...
E allora Aleksandr Grigor'evic Andreev, il segretario generale dei forzati politici, indicando il
corpo nero che strisciava giù dell'inferriata, disse: Il primo cekista...
83
Antologia di controproverbi surrealisti
Premessa. In rue de Grenelle 15, a Parigi, nell'ottobre del 1924, apriva il Bureau de Recherches
Surréalistes. A novembre Breton pubblicava il Primo manifesto del surrealismo. Negli stessi giorni
nasceva La revolution surréaliste, la rivista diretta da Pierre Naville e Benjamin Péret.
La rivista pubblica, secondo il gusto del giorno, i proverbi surrealisti. Apparentemente essi seguono
le linee dettate dall'inconscio, in riga con la cosiddetta scrittura automatica, che tuttavia non poteva
affatto essere tale, se non per una finta sofisticata, per quanto erano contraddittoriamente amanti
della buona letteratura, i surrealisti. In base a questo sedicente abbandono psichico P. Éluard e B.
Péret potarono del buon senso i 153 proverbi agendo in profondità, sporgendosi dalle linee di fuga
della superficie, portandosi, spostandosi da esse, appunto, secondo volute volutamente casuali, nelle
profondità dell'insensatezza. Disordinare i detriti a cercarvi l'oro dell'utopia della comunicazione.
1. Prima del diluvio, disarmate i cervelli.
2. Gli elefanti sono contagiosi.
3. La dizione è una seconda punizione.
4. Sonno che canta fa tremolare le ombre.
5. I grandi uccelli fanno le piccole persiane.
6. I labirinti non sono fatti per i cani.
7. Il sole non brilla per nessuno.
8. Un po' più verde e meno di biondo.
9. Bisogna battere la propria madre finché è giovane.
10. Un'ombra è un'ombra quand'anche.
11. Il silenzio fa piangere le madri.
12. Chi non intende altro che me intende tutto.
13. Morire quando non è più il tempo.
14. La grandezza non consiste nelle astuzie, ma negli errori.
15. Se non ne rimane che uno è il fulmine.
16. Usare la propria corda per appendersi.
84
17. Un ubriaco per i curiosi.
18. Il mio prossimo, è ieri o domani.
19. A ciascuno la sua pancia.
20. Quando la strada è fatta bisogna rifarla.
21. Nel paesaggio, un bel frutto fa una gobba e un buco.
22. Non si è mai sbiancati che dalle pietre.
23. Tutto ciò che vola non è rosa.
24. Un granchio, non importa sotto quale nome, non dimenticherà il mare.
25. Una maestra ne merita un'altra.
26. Appeso alle ciliegie.
27. Non grattate lo scheletro dei vostri avi.
28. Quando la ragione non è là, i sorci ballano.
29. Mettersi una trottola sulla testa.
30. Passa o fila.
85
Nervosismo misurato
estratto dal Pesanervi di Antonin Artaud
Tutta la scrittura è una coglioneria.
Le persone che escono dal vago per cercare di precisare qualsiasi cosa di ciò che passa nella loro
testa sono dei coglioni.
Tutti i letterati sono dei coglioni, specialmente quelli di questi tempi.
Tutti coloro che hanno dei punti di riferimento nello spirito, voglio dire da un certo lato della testa,
su dei punti ben localizzati del loro cervello, tutti coloro che sono maestri della loro lingua, tutti
coloro per i quali le parole hanno un senso, tutti coloro per cui esistono delle altezze nell'anima, e
delle correnti nel pensiero, coloro che sono lo spirito dell'epoca, e che hanno nominato queste
correnti di pensiero, io penso ai loro bisogni precisi, e a questo stridio che emette da ogni parte il
loro spirito,
sono dei coglioni.
Coloro per cui certe parole hanno un senso, e certe maniere d'essere, coloro che fanno così bene
delle cerimonie, coloro per cui i sentimenti hanno delle classi e che discutono su un grado
qualunque delle loro esilaranti classificazioni, coloro che credono ancora a dei termini, coloro che
agitano delle ideologie avendo acquisito un rango dall'epoca, quelli di cui le donne parlano così
bene e queste donne pure che parlano così bene e che parlano delle correnti dell'epoca, coloro che
credono ancora ad un orientamento dello spirito, coloro che seguono delle voci, che agitano dei
nomi, che fanno gemere le pagine dei libri,
costoro sono i peggiori coglioni.
Voi siete del tutto gratuito, giovane!
No, io penso a dei critici barbuti.
E ve l'ho detto: niente opere, niente parola, niente spirito, niente.
Niente, se non un buon PesaNervi.
Una sorta di stazione incomprensibile e del tutto diretta al luogo di tutti nello spirito.
Non sperate che io vi nomini questo tutto, tanto meno che vi parli delle parti in cui si divide, che io
vi dica il suo peso, che lo segni, che io mi metta a discutere di questo tutto, e che, discutendo, mi
perda e che mi metta pure senza saperlo a PENSARE, che si chiarisca, che viva, che si mostri con
una moltitudine di parole, tutte bene sfregate di senso, tutte diverse, capaci di mettere in mostra tutte
le attitudini, tutte le sfumature di un molto sensibile e penetrante pensiero.
Ah questi stati che mai non si nominano, queste situazioni eminenti dell'anima, ah questi intervalli
dello spirito, questi minuscoli fallimenti che sono il pane quotidiano delle mie ore, ah questo popolo
formicolante di dati, queste sono sempre le stesse parole che mi servono e veramente non ho l'aria
di deformare il mio pensiero, ma lo deformo più di voi in realtà, barbe di asini, coglioni pertinenti,
maestri della falsa parola, bucatori di ritratti, feuilletonisti, nasi inforcati, erbagisti, entomologi,
piaghe della mia lingua.
Ve l'ho detto, che non ho più la mia lingua, questa non è una ragione perché voi persistiate, perché
voi vi ostiniate nella lingua.
Andiamo, io sarò compreso entro dieci anni dalla gente che farà ciò che voi fate. Allora si
conosceranno i miei geysers, si vedranno i miei specchi, si avrà appreso ad alterare i miei veleni, si
scopriranno i miei assortimenti d'anime (e i miei giochi con loro).
86
Leonora Carrington, the witch
André Breton per presentare Leonora Carrington ricorre all'usurato termine di strega dall'opera di
Michelet. Colui che aveva reso, con eleganza, giustizia finalmente alle streghe, culminando con due
regali, in particolare, di pregio inestimabile perché accordati solo alle donne. L'illuminismo di
lucida follia, e il sublime potere della concezione solitaria. Inoltre le aveva difese dalla reputazione,
diffusa dalle Chiese, di essere vecchie e brutte, quando invece spesso erano perite precisamente
perché giovani e belle.
A chi potrebbe oggi corrispondere meglio quella descrizione che a Leonora Carrington? Questo si
chiede André Breton.
Le persone rispettabili che la invitarono a pranzo in qualche elegante ristorante, una dozzina di anni
fa o all'incirca, ancora non hanno superato l'imbarazzo che provarono quando, durante la
conversazione, lei si toglieva le scarpe e pazientemente li copriva di mostarda, i piedi. Di tutti quelli
che lei ha invitato a casa sua a New York, credo di essere stato l'unico ad avere cercato alcune
pietanze su cui lei aveva passato ore di preparazione meticolosa, su un libro di cucina del
sedicesimo secolo, compulsandolo sul momento, con pure e semplici intuizioni per ovviare alla
mancanza di ingredienti che erano diventati introvabili o troppo rari. Deve ammettere Breton che
una lepre stufata con le ostriche, ad onorare la quale fu obbligato a beneficio di tutti quelli che
avevano preferito accontentarsi del suo aroma, lo indusse a spaziare maggiormente per un po' la sua
partecipazione a simili banchetti. Su questi e molti altri exploit, attraverso i quali, senza dubbio, si
deve intendere il significato dell'indossare e togliere la maschera che deve proteggere e salvare (lei)
dall'ostilità del conformismo, regnava il suo vellutato e ironico sguardo rafforzato dalla sua
discordanza con una voce roca. La curiosità, qui portata al suo più ardente punto, non trovava
praticamente nessuno sfogo salvo che nel vietato. Da uno di quei viaggi che offriva scarse speranze
di ritorno, e di cui ha relazionato con devastante precisione in Down Below (Giù in fondo), Leonora
Carrington ha conservato una nostalgia per i lidi a cui una volta si era accostata e che non aveva
disperato di raggiungere di nuovo, questa volta senza offrire nessuna resistenza, come se fosse
garantito un permesso di viaggiare in ogni direzione a volontà. Una prova sufficiente di questo è
data dalle ammirevoli tele che ha dipinto dal 1940, senza dubbio le più investite di quel moderno
meraviglioso da cui sono penetrate per mezzo di una luce occulta che ci può molto insegnare sulla
sua visione, insieme fisica e mentale, infatti il dovere dell'occhio destro è di affondare nel
telescopio, mentre il sinistro interroga il microscopio, per cui, per la seconda visione, la ragione
deve conoscere le ragioni del cuore e ogni altra ragione. Questi sarebbero i poteri attribuiti alla
strega Leonora Carrington.
87
Una lettera di Walter Benjamin
Walter Benjamin a Gerhard Scholem del 12 giugno 1938.
La lettera avrà come argomento il Kafka di Brod. Di questo libro W. Benjamin rileva come la tesi
dell'autore contraddica il suo stesso atteggiamento, per cui questo discredita la prima, che oltretutto
non è esente da riserve. Per esempio la bonomia dell'autore verso l'oggetto della sua biografia
finisce con l'essere impietosa, come quella di chi ha avuto una ostentata intimità con il santo, perciò
togliendo ogni autorità al contenuto del testo. Il giudizio di Benjamin sarà ripreso da Kundera, che
non è la prima volta che si appropria di un giudizio altrui senza citarne la fonte, vedi anche le
riserve sull'impegno del poeta P. Éluard.
Brod è insensibile, manca di contegno, dimostra una sorprendente mancanza di tatto, di senso dei
limiti e delle distanze, e questa incapacità si fa addirittura particolarmente scandalosa, quando
l'autore ricorda la volontà di Kafka di distruggere tutta la sua eredità letteraria. Fortunatamente
Benjamin non mette in dubbio che Kafka sapesse che ciò significava essere sicuri della salvezza
delle proprie carte. Benjamin si limita a rimarcare il dilettantismo e la faciloneria di Brod, la sua
incapacità a misurare le tensioni che percorrevano la vita dell'amico, che lo portano a nutrire
un'istintiva diffidenza per tutte le interpretazioni che evadano da quella strada edificante su cui
vorrebbe far incamminare i lettori. Ma Benjamin torna a incolparlo della confidenza con cui tratta
Kafka, sebbene si renda conto che Platone ha fatto con Socrate, in altro modo, qualcosa di analogo,
l'abbia fatto, cioè, rivivere, elevandolo a protagonista di quasi tutti i dialoghi scritti dopo la sua
morte.
I passi interessanti della lettera sono i seguenti:
Intendo dire che per il singolo questa realtà (la nostra) è ormai quasi impossibile da percepire, e
che il mondo di Kafka, tanto spesso così sereno e popolato di angeli, è il complemento esatto della
sua epoca che si accinge a sopprimere grandi masse di abitanti di questo pianeta. L'esperienza
corrispondente a quella del privato cittadino Kafka, da grandi masse verrà forse fatta solo in
occasione di questa loro eliminazione.
In Kafka non si parla più di saggezza. Restano solo i prodotti della sua disgregazione. Essi sono
due: c'è da una parte la diceria delle cose vere (una sorta di giornale teologico sussurrato in cui si
tratta del malfamato e dell'obsoleto); l'altro prodotto di questa diatesi è la follia, che certo si è
giocata integralmente il contenuto proprio della saggezza, ma in compenso preserva la
piacevolezza e la distensione di cui la diceria è sempre priva.
La follia è l'essenza dei personaggi prediletti da Kafka; da don Chisciotte, agli assistenti, fino agli
animali. (Essere animale per lui con ogni probabilità significava semplicemente aver rinunciato,
per una sorta di pudore, alla figura e alla saggezza umana).
Il cosiddetto fallimento di Kafka è rimarcato alla fine di questa lettera: una volta certo del fallimento
finale, tutto, lungo il cammino, gli riuscì come in sogno. Sono parole autobiografiche, senza dubbio,
queste di Benjamin. Il punto interrogativo dell'amicizia di Brod, con cui si chiude la lettera vorrebbe
alludere a ciò che il destinatario non poteva essere, ma si sforzò invece di essere, con fervore.
Dunque è manifestamente falso che Benjamin dichiarasse di non capire il significato e il valore
della scelta di Kafka riguardo a questa amicizia.
88
Infine, a saldo, ciò che tutti sanno: l'opera di Kafka è contrassegnata rigidamente in senso negativo,
quindi Benjamin inserisce tra parentesi una valutazione valida per tutto il secolo e non solo per il
praghese; la sua caratterizzazione negativa sarà verosimilmente sempre più fruttuosa di quella
positiva.
89
Lo spirito della passeggiata
Durante una Passeggiata può accadere qualcosa o no, si può accedere alla soglia di un altro
universo o no, ma ciò che stupisce di più, per una superiore leggerezza, è il tono insulso di quella di
Robert Walser. Ma il carattere insulso dei dialoghi e anche del fantasticare del passeggiatore sono
naturalmente ingannevoli, ingannatori proprio perché, in fondo, sono in sintonia con il pensare più
consono, più intimamente vero dell'autore. Sicuramente si tratta di un mondo di pazzi, quello al
quale appartiene questa storia, se non fosse che anche ai pazzi è dato vivere in questo mondo, che
evidentemente non è degno di continuare a rimanere quello che è senza essere trasfigurato. Ci sono
le librerie, le banche, gli uffici postali, le fabbriche, gli artigiani, le automobili, gli uffici delle
imposte. Il narratore si accorge che la sua passeggiata potrebbe essere considerata insulsa, allora la
difende, e la difende davanti al funzionario, il sovrintendente o tassatore, che ha da obiettare
sull'entità del reddito dello scrittore, per via delle numerose passeggiate. Che sia più ricco di quanto
stimato? Il tono insulso, ora chiaramente canzonatorio, permette all'autore di esprimere dei pareri e
dei giudizi tipici di una protesta rivoluzionaria, sebbene di sera, era imbrunito, ormai buio, quando
finalmente stanco, anche i pazzi alla fine si stancano, dopo varie effusioni e perdoni, si ritrovi a
pensare alla morte e poi a una ragazza abbandonata, dopo aver raccolto dei fiori. Il pensiero che
conclude la passeggiata è il seguente: Ho raccolto fiori solo per deporli sulla mia infelicità? Al
lettore, stremato, non resta che chiedersi che cosa accadrebbe delle sua capacità critiche se l'autore
avesse voluto solo mentire fino in fondo, adottando la maschera di una strabiliante dabbenaggine,
premunendosi, però, con l'astuzia di chi non vuole far credere di stare agendo seriamente, di
avvertirci che stava raggirando la sua falsa buona coscienza? Alla fine ci eravamo abituati al fluire
assurdamente fiorito di questi discorsi.
La risposta, ad ogni buon conto, si trova, perché l'autore non pone molta cura a nasconderla,
presentandola sotto forma di un consiglio, di una breve riflessione rivolta a chi commissiona la
costruzione e ai costruttori di fontane per le piazze dei paesi alpini.
Non si guarniscano mai né si inghirlandino di fiori fontane monumentali: i fiori sono certo belli,
ma la loro funzione non è quella di banalizzare e cancellare la grave, austera bellezza di un'opera
di scultura. L'amore per i fiori può anzi degenerare in una mania assolutamente sciocca. Sotto
questo come sotto altri aspetti si cerchi si moderarsi. Personalità come i civici consiglieri e simili
possono in ogni momento, se vogliono avere la cortesia di farlo, informarsi gentilmente presso la
competente sede e comportarsi poi da brave persone.
90
Conversation
Un'intervista, condotta da Kristen Ross e dallo stesso tradotta, con Henry Lefebvre nel 1983 verte
sui suoi rapporti con i situazionisti. It's a delicate subject, dice in apertura Lefebvre, che ricorda il
periodo amichevole dal 1957 fino al 1961 o al '62. La prima domanda è piuttosto ovvia: come
vivevano? I live of my wits, rispose Debord a una domanda del genere, ricorda Lefebvre. Doveva
avere avuto parecchio denaro, probabilmente dalla famiglia, che viveva in Costa azzurra, ma
ammette di non sapere rispondere. Comunque non lavoravano, Michele Bernstein p.e. scriveva
oroscopi per i cavalli che partecipavano alle corse che venivano pubblicati nei racing magazines.
La teoria della costruzione di situazioni di Constant era collegata alla sua teoria dei momenti, ma il
concetto di nuova situazione non era mai molto chiaro, dice. L'urbanismo unitario consisteva nel far
comunicare diverse parti di una città tra di loro, per esempio Constant fece qualcosa con i walkie
talkies ad Amsterdam e a Strasbourg. Ma l'urbanismo unitario fu presto abbandonato, quando
l'esplosione dell'urbanizzazione sconvolse tutte le grandi città con la creazione di enormi periferie.
La teoria era nata per città storiche come Amsterdam, che potevano essere rinnovate negli anni
Cinquanta. Più in là nell'intervista Lefebvre ritorna sulla teoria della deriva, dicendo che si trattava
di rendere simultanei diversi frammenti di una città, delle parti che possono essere viste solo in
successione renderle simultanee.
A Strasbourg Lefebvre aveva conosciuto degli studenti, che poi sarebbero diventati situazionisti, già
nel 1958, al tempo dell'opposizione alla guerra d'Algeria. In un altro periodo, ma qui Lefebvre
mescola date e momenti diversi, ebbe una relazione con Nicole, una giovane di Strasbourg, da cui
ebbe una figlia: Armelle. Lui aveva modo di frequentare questi studenti come insegnante e poi a
casa come amici di Nicole. Tra questi ragazzi c'era Mustapha Khayati, il tunisino autore della
brochure sulla Miseria nell'ambiente studentesco.
Niente droghe per i situazionisti parigini, dice, non era questa la via per creare nuove situazioni, su
cui facevano conto, invece, i provos di Amsterdam. Debord beveva, Lefebvre ricorda: we drank
tequila with a little mezcal.
Sull'I.S.: I was never part of the group. I could have been, but I was careful, since I knew Guy
Debord's character and his manner, and the way he had of imitating André Breton, by expelling
everyone in order to get at a pure and hard little core. C'è una evidente falsità in questa frase,
quando dice: I could have been part of the group, mentre non ne aveva nessuna possibilità.
Ricorda un viaggio da Parigi alla sua casa nei Pirenei a Navarrenx. Durante il viaggio si fermarono
alle grotte di Lascaux e discussero sul significato delle pitture che non devono essere viste. Una
tappa a SaintSavin per vedere gli affreschi in una cripta. A Sarlat fecero una specie di festa e
bevvero e Lefebvre che guidava fu quasi arrestato per eccesso di velocità nell'attraversare un paese.
Durante il soggiorno in casa di Lefebvre scrissero un testo programmatico. Ricorda che bevvero un
centinaio di bottiglie in pochi giorni, che non mangiarono mai e che andavano a dormire alle nove di
mattina per dormire tutto il giorno. In una occasione successiva i situazionisti accusarono Lefebvre
di plagio. Si tratta del testo sulla Comune di Parigi, che, secondo Lefebvre, invece, sarebbe stato
scritto insieme. Lefebvre rammenta di avere consultato a Milano gli archivi dell'Istituto Feltrinelli
che conservano numerosi documenti sulla storia del movimento operaio. Infine, con una caduta di
tono, dice di non avere perso tempo a leggere le accuse dei situazionisti.
La rottura avvenne riguardo alla rivista Arguments, ma Lefebvre non spiega il motivo, parla di una
situazione molto complicata, della perdita di una rubrica telefonica con i numeri di qualcuno a cui
avrebbe dovuto telefonare e degli insulti di Debord che si era sentito tradito. In questo discorso
accenna alla rottura molto amara con Eveline, che era stata amica per lungo tempo di Michele
91
Bernstein, al rapporto con Nicole, che era incinta, e al tentativo di Denise, la ragazza di René
Vienet, di convincerla a lasciarlo e ad abortire. C'erano delle sordid reasons dice Lefebvre.
Alla fine il carattere di Debord:
There were all kinds of circumstances that might have made him more polemical, more bitter, more
violent. In the end, everything became oriented toward a kind of polemical violence. I think they
ended up insulting just about everyone. And they also greatly exaggerated their role in may '68,
after the fact. Alla fine il veleno.
92
Il segreto della pubblicità non è occulto
JeanPierre Voyer scrive, nell'aprile del 1973, a Ken Knabb, traduttore in inglese di Reich, mode
d'emploi, segnalandogli una difficoltà che pare insormontabile al mittente: En franҫais, publicité
veut dire à la fois advertising et public welfare, res publica, chose publique. Et bien évidemment, la
pub – the ad – est exactement le contraire du public welfare, de la public property.
L'idea di Voyer è che la misère est la seule et véritable proprieté du malheureux public. Elle est en
ceci commune. Seulement elle l'est secrètement et en ce sens non publiquement.
Voyer si spiega molto bene in Reich, modo d'uso, quando scrive che la modernizzazione è consistita
essenzialmente nel privare la vita quotidiana della sua negatività, cioè la pubblicità della sua
miseria, la pubblicità della sua nullità.
Il segreto della miseria della vita quotidiana è il vero segreto di Stato. Il segreto meglio custodito
custodisce una non occulta miseria dentro i fasti del paradiso delle merci e della loro incessante
circolazione. Il definitivo asservimento degli esseri umani alla mercificazione, come
l'assolutizzazione del valore in quanto pubblicità del vero vissuto, ha consentito che la vita
quotidiana entrasse nella circolazione delle merci come lo spettacolo che previene ogni idea: tutto
deve sembrare compiuto. Lo spettacolo è questo inversione realizzata.
Per cui lo spettacolo è la somma dello spirito, esattamente come il proletariato risiede nella sua
invisibilità, cioè nella visibilità del proletariato abolito.
La pubblicità della miseria, cioè garantire la sua visibilità, dovrebbe essere il compito della teoria.
Rendere manifesta la vera miseria, tanto più radicale quanto più occulta, quando tutto indica il
contrario e tutti i mezzi finiscono per esaltare l'avversario, è un compito ridicolo, direbbe Bataille,
cioè impossibile.
Lo spettacolo dell'abbondanza, la gestione individuale e spettacolista dell'abbondanza serve a
rendere invisibile la miseria. Si tratta di una elaborazione massiva proprio perché la pubblicità della
miseria non si distingue dall'idea della sua soppressione. La soppressione di una miseria tutt'altro
che occulta, perché in essa risiede il vero vissuto segreto, non ha alcuna possibilità attuale di
divenire pubblica, pubblicamente pratica, perché nella nihilazione, il fascino dello spettacolo è il
tutto. Che questa totalità sia segreta, cioè una verità non rivelata, non ha molta importanza per il
pubblico, che la rispetta come la sua regola fondamentale.
La pubblicità propriamente detta, spiega Voyer, dovrebbe essere il comunismo, la comunità, la vraie
publicité au sens de 17891793. In realtà è più probabile che il comunismo sia la pubblicità del tardo
capitalismo. Il comunismo sarebbe allora, al contrario di Voyer, la pratica che non vede la sua
azione.
D'altronde, se si prende il carattere au sens de Reich pour un simple symptôme, pour le symptôme
d'un effet qui est encore caché, qui agit ancore dans l'ombre, et qui ne peut agir que dans l'ombre,
puisque sa connaisance ne se distingue pas de sa destruction, si finisce per commettere un errore
grossolano laddove si pretende di concludere la questione, perché, riguardo al sintomo, la
93
conoscenza si distingue dalla sua distruzione! Il sintomo trasloca, è la forzalavoro al massimo
grado di flessibilità.
È legittima dunque la preoccupazione di Voyer che il carattere sia frainteso per assumere un ruolo
più importante di quello che gli spetti, da lettori incompetenti dell'affiche. Ma è senz'altro vero che
la complicità della gente è il tratto dominante dello spettacolo (la gente è in gran misura complice
dello spettacolo dominante) e il carattere è la forma di questo complicità, infatti il carattere n'est
qu'un mode particulier (da leggere e intendere come generale) de l'effet de valeur.
Une pièce de Marivaux, auteur français du XVIIIe siècle, porte le titre Comment l'esprit vient aux
femmes. (On devine facilement de quelle façon!). Voyer aveva scritto nell'affiche: È così che lo
spirito viene agli esseri umani; in una maniera facilmente indovinabile il capitale, cioè il nihil del
valore, ha soggiogato i rapporti umani. Lo spirito è lo spettacolo.
94
Porta e Beolco
Prima di parlare di Carlo Porta è forse meglio inquadrare la situazione della cultura italiana di
questo scorcio dell'Ottocento. Nel periodo tra il 1818 e il 1819 usciva a Milano un foglio azzurro, Il
conciliatore, creato da un gruppo di romantici e diretto dal Pellico. Questo foglio fu soppresso dopo
13 mesi dagli austriaci a causa dell'identificazione, per altro non errata, dei romantici con i liberali.
Il Pellico stesso nel '19 scriveva: “Romantico fu riconosciuto sinonimo di liberale, né più usarono
dirsi classicisti fuorché gli ultra e le spie”. Quelli erano gli anni in cui era stata operata la
Restaurazione, il ritorno all'Ancien Régime, gli anni in cui si diffondevano le varie sette liberali, tra
cui la Carboneria, organizzazione alla quale erano affiliati alcuni dei redattori del foglio azzurro.
Il valore del Conciliatore, che idealmente possiamo considerare come una ripresa e un superamento
dei temi del Caffè, come allacciamento all'opera del Parini, sta soprattutto nell'aver pubblicizzato la
necessità dell'inserimento della cultura italiana all'interno del contesto europeo. Di qui le traduzioni
delle opere letterarie straniere, le polemiche romantiche sulla lingua, la denuncia dello stato della
letteratura italiana, considerata sterile e accademica. Si inserisce poi la ricerca del pubblico al quale
rivolgersi. Per gli artisti romantici, che coscientemente si ponevano come gli intellettuali organici
della classe ascendente, il pubblico era individuato appunto nella massa borghese e piccolo
borghese.
Giovanni Berchet, nel 1816 pubblicava la Lettera semiseria che proseguiva la battaglia contro
l'irrigidimento formale nel quale era scaduta la lingua letteraria italiana, lingua a cui si erano fatte le
esequie; egli proponeva una lingua viva, quella parlata, il cui valore consisteva nel cogliere e nel
rappresentare i sentimenti del popolo. Popolo nel quale non rientravano né gli ottentotti (la plebe
abbrutita) né i parigini (gli intellettuali e i letterati): i primi perché non erano in grado di intendere
la poesia, i secondi perché erano troppo raffinati, “la cui fantasia è stracca, il cuore allentato per il
troppo esercizio”. L'ottentotto del Berchet è descritto così: “Avvolto perpetuamente tra il fumo del
suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti, dei quali domandare alla propria
memoria l'immagine, pe' quali il cuore gli batta di desiderio”. Questo essere così animalescamente
descritto lo possiamo identificare nella realtà del tempo tra il sottoproletariato urbano, quello a cui
si consacrerà Carlo Porta, che riuscirà a vedere in lui qualcosa di più che il fetore delle capre.
Carlo Porta nacque nel 1775; dal 1800 fino alla fine della sua vita (1821) passò le sue giornate in
ufficio, normalmente, e dedicandosi alla famiglia e agli interessi letterari. Una vita da piccolo
borghese, come piccoloborghesi erano i destinatari della sue opere.
Per comprenderle meglio bisogna tenere a mente le radici della sua evoluzione artistica; si tratta di
non escludere l'apporto di Parini, del Caffè, la sua educazione illuminista e infine più
profondamente la letteratura dialettale del Goldoni come del Beolco detto Ruzante. Possiamo
immediatamente tracciare un parallelo tra il Giovannin Bongee, il Marchionn di gamb avert con
Ruzzante (secondo Salinari “un contadino umiliato e offeso, povero, pauroso, schernito e ingannato
da tutti, abbandonato e tradito dalla moglie, che tuttavia mantiene una sua forza vitale che gli fa
sognare impossibili rivalse”), con Bilora, che tuttavia reagisce al rapimento della moglie da parte di
un benestante con l'omicidio. Bilora si oppone con rabbia, ma freddamente, al suo destino, non
come il Marchionn, povero e patetico, che lo subisce fino in fondo, fino ad allevare come suo,
ingenuamente, un figlio d'altri. Ecco le parole di Bilora: “Adesso vedrai che ti levo il prurito dal
culo, e poi botte, e dai, e me lo prenderò, e lo spoglierò da capo a piedi e poi... via a gambe levate. E
lo lascerò qui, buttato come una merda di vacca”. In Bilora c'è la stessa amarezza furente del 'Ntoni
di padron 'Ntoni, c'è già il verismo. Nei personaggi del Porta si vorrebbe sfondare, lo si sogna, il
recinto delle umiliazioni quotidiane, ma non vi si esce, addirittura, fino alla Ninetta del Verzee, ci
95
sono squarci comici che inframmezzano la storia e le considerazioni amare, ma quasi patetiche, del
Giovannin Bongee, che non si riscatta. Qui si mostrano le differenze tra i due autori che, pur avendo
in comune lo stesso consapevole atteggiamento antiletterario e realistico, pur usando lo stesso
linguaggio (quello dialettale, parlato), pur occupandosi dello stesso strato sociale (il pescatore
diseredato, il sottoproletario, la puttana, ecc.), in situazioni simili (tradimento, miseria) dicono cose
del tutto diverse. In Ninetta del Verzee, invece, scomparendo ogni patetismo peloso e ogni comicità,
c'è molta tristezza. È la ragazza sedotta e poi condotta alla perdizione, la quale pur sentendo di non
potercela fare più continua ad andare avanti. Porta ha descritto la condizione delle masse suburbane,
ne ha ricavato dei tipi e ha narrato la loro storia; li ha colmati di rassegnazione e di tiriamo a
campa', ma non poteva, vorremmo dire, per un credo interiore, anche dargli la possibilità di
ribellarsi, ai suoi ottentotti, quella ribellione che quasi trecento anni prima, il Beolco aveva offerto al
Bilora. Non una rivolta di classe, ma almeno una rivolta, che potremmo dire, esistenziale, ma che si
rovesci nel sociale, come quando il giovane Baldo del Folengo, che afferra un pietra e tramortisce
un ragazzo di città, perché “i ragazzi di San Lonardo non potevano mandar giù che un pitocchetto di
villa, uno stronzo di Cigala l'avesse così grassa con loro, cittadini di città e per di più delle prime
famiglie”. Alla loro prepotenza lui oppone la propria giustizia.
La polemica sociale del Porta era diretto risultato della sua esigenza di una religiosità pura, fuori e
contro le gerarchie ecclesiastiche, così egli prende in giro la Donna Fabia Fabion de' Fabian in
Offerta a Dio (la preghiera). Il motivo è futile, una scivolata nello scendere dalla carrozza, che
eccita l'ilarità dei popolani presenti, mente la donna indispettita va a pregare. La sua preghiera è
una bestemmia volgarissima (il turpiloquio della Ninetta al contrario è una preghiera) e la vendetta
si realizza elargendo un quattrino ai suoi derisori. In La nomina del cappellan egli analizza la
miseria (non solo materiale) di pretuncoli di campagna.
Carlo Porta credeva in Dio, dunque, e ha voluto trascrivere in dialetto milanese il sermone della
montagna?
Se sì, si spiegano tante cose, il perché i suoi personaggi non uccidano o non si uccidano, per
esempio, e si rassegnino alla propria disgrazia. La Ninetta, il Giovannin, il Marchionn saranno i
primi dell'altro mondo, ripagando le sconfitte terrene. Carlo Porta nell'altro mondo ci credeva e lo
concedeva ai suoi personaggi.
96
Il ribelle trattato da Jünger
“I processi in corso continueranno e, come avviene per ogni situazione segnata dal destino, qualsiasi
tentativo di frenarli o di respingerli lungo la linea di partenza otterrebbe l'effetto contrario, non
farebbe altro che facilitarli e accelerarli”.
Il Trattato del ribelle, manifesta già dal titolo la passione per le antinomie della rivoluzione
conservatrice.
“Quando ci sentiamo perfettamente al sicuro, il nostro pensiero si limita a giocare con la catastrofe:
la coinvolge nei suoi piani come fattore di improbabilità, e per mettersi al riparo gli basta qualche
modesta rassicurazione. Ai giorni nostri si verifica l'opposto. Dobbiamo destinare quasi tutto il
capitale alla catastrofe proprio per riuscire a tenere aperto l'accesso a una via mediana, che ormai è
diventata sottile come il filo di un coltello”. La teoria della catastrofe si conclude con l'avvertimento
che non ci è concessa la libertà di evitarla, pur esistendo in essa qualche libertà.
L'arsenale del terrore è pronto da un pezzo intorno a noi, ma lo spettacolo non è nuovo, i nuovi
mondi sono sempre e soltanto copie dello stesso mondo, però la paura assume lo stile dei tempi.
“Ogni attaccante, nella guerra civile planetaria, deve sapere fino a che punto, ormai, sia difficile
tenere le retrovie”. Il ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle
istituzioni, qui tutto è semplice, non servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di
partito. Comunque la propaganda si sostituisce alla morale non appena le istituzioni si tramutano in
armi della guerra civile.
La propaganda deve conoscere il suo uditorio, il suo pubblico, i suoi clienti. “Le domande incalzano
sempre più da vicino, si fanno sempre più assillanti, e sempre più importante diventa il modo in cui
noi rispondiamo. Non dobbiamo dimenticare che anche il silenzio è una risposta. Ci chiedono
perché abbiamo taciuto alla tal ora e nel tal luogo, e ci rilasciano una ricevuta per le nostre risposte.
Sono i dedali del tempo a cui nessuno può sfuggire”.
La soluzione del nichilismo planetario, per Jünger, ricalca la Passeggiata di Walser. Il bosco, tra
Heimlich e Unheimlich, tra l'essere la grande casa della morte, e la sede del pericolo
dell'annientamento, è pure il luogo del trionfo, che si trova a un passo dal precedente, dunque sarà
una passeggiata a salvare il mondo, ha scritto Jünger.
97
La febbre rossa dei lemuri
La febbre del ragno rosso di William S. Burroughs si occupa prevalentemente dei lemuri.
“Il Popolo dei Lemuri è più vecchio dell'Homo Sapiens, molto più vecchio. Le sue origini risalgono
a centosessanta milioni di anni fa, quando il Madagascar si staccò dal continente africano. Il loro
modo di pensare e di sentire è fondamentalmente diverso dal nostro, non orientato verso il tempo, la
sequenza, la causalità. I lemuri trovano questi concetti ripugnanti e difficili da capire”.
“Il tempo è un tormento umano; non un'invenzione, ma una prigione. Qual è quindi il significato di
centosessanta milioni di anni senza il tempo? E che significato ha il tempo per i lemuri in cerca di
cibo? Non ci sono predatori qui, non c'è molto di cui aver paura. Hanno il pollice opponibile ma non
fabbricano strumenti. Sono indenni dal male che riempie l'Homo Sapiens quando afferra un'arma –
ora è lui ad avere il sopravvento”.
“L'Homo Sapiens ha creduto che gli altri animali esistessero solo perché lui potesse mangiarli?
Evidentemente sì. I bulldozer stanno distruggendo le foreste pluviali, i timidi lemuri e le volpi
volanti, i gibboni canterini di Kloss, che producono una musica più bella e variegata di qualunque
altro animale terrestre, e i lemuri colugo, capaci di volo planato ma indifesi a terra. Tutti spazzati
via, per far posto a una razza, quella umana, sempre più svalutata...”.
“C'è stato una volta, un periodo di ibridazione rampante, che ha dato origine alla varietà di specie
che vediamo oggi. Esistono infatti alcune creature di transizione,come il jaguarundi, classificato
come felino ma più somigliante a una lontra arborea. Ma la maggior parte degli ibridi non è
sopravvissuta, e quelli che sono sopravvissuti hanno eretto una rigida difesa biologica contro
ulteriori ibridazioni”.
“Oppure prendiamo il lemure albino umanoide, con enormi occhi rotondi di un argento
madreperlaceo e enormi orecchie che tremano e vibrano a ogni suono. Gli occhi non hanno pupilla,
il loro campo visivo è lo stesso di chi guarda attraverso una lente ad angolatura larghissima senza
punto focale. La creatura non è priva di difese, visto che è dotata di unghie forti e acuminate e di
canini aguzzi”.
“Si prevede che i lemuri del Madagascar di estingueranno tra un centinaio di anni, l'eredità di
centosessanta milioni di anni distrutta nello spazio di una vita umana”.
98
Le fiere delle vanità (freaks)
La terza parte del romanzo “Oltre il confine” di Cormac McCarthy è contrassegnata da una scena
primordiale: un uomo succhia gli occhi di un prigioniero fuori dalle orbite. Essi penzolano ancora
vedenti.
In “Città della pianura” il romanzo inizia effettivamente quando Troy racconta:
“La Oldsmobile aveva una grossa griglia ovale per proteggere il radiatore, davanti al muso, una
specie di gigantesca schiumaiola, e quando arrivai davanti all'auto vidi che era piena e strapiena di
teste di conigli. Voglio dire, ce ne saranno state un centinaio tutte ammassate insieme e incollate alla
griglia, e il muso dell'auto e il paraurti e tutto il resto erano coperti di sangue e budella di conigli, e
quei conigli, penso io, probabilmente al momento dell'impatto avevano voltato la testa, qualcosa del
genere, perché guardavano tutti in avanti, e gli occhi facevano paura. I denti storti. Sogghignavano.
Non riesco a darti un'idea dello spettacolo”.
Il cane giallo rotolò su sé stesso sobbalzando, poi si rialzò e continuò a correre con il cappio intorno
al collo. John Grady sopraggiunse al galoppo alle spalle di Billy, fece volteggiare il lazo, prese il
cane giallo per le zampe, frustò il cavallo con l'estremità raddoppiata della fune e la fissò al pomolo
della sella. Il lazo di Billy si allentò di colpo e strisciò sul terreno con un sibilo finendo per fermarsi,
e il grosso cane giallo, preso fra le due funi, volò improvvisamente nell'aria. I lazos produssero un
unico breve suono sordo e il cane si spaccò in due.
Il sole si era alzato da meno di un'ora e nella luce che pioveva obliqua sulla mesa l'esplosione di
sangue davanti a loro fu vivida e inaspettata come un'apparizione. Qualcosa di assolutamente
incontrollabile, evocato dal nulla. La testa del cane roteò nell'aria portandosi dietro le spire delle due
funi, mentre il corpo del cane piombava a terra con un tonfo soffocato.
Due autori costituiscono un arco.
“Di che più che altra femmina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto,
volentier tutto il corpo n'avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma veggendo che ciò
esser non poteva, con un coltello il meglio che poté gli spiccò dallo'mbusto la testa, e quella in un
asciugamano inviluppata e la terra sopra l'altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza
essere stata da alcun veduta, quindi si dipartì e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente ed amaramente pianse,
tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e
bel testo, di questi ne' quali si pianta la persa o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel
drappo, e poi messavi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo basilico salernetano, e
quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime non innaffiava già
mai...”
99
Acque scure
Oliver Lee ripeteva sempre che lui era venuto quaggiù perché questa terra era così desolata che
nessun altro voleva abitarla e così l'avrebbero lasciato in pace: Naturalmente si sbagliava: Riguardo
all'idea che l'avrebbero lasciato in pace quantomeno.
Conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere non offendendo
alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi
del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo
non ti sia contrastato.
Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi
in solitudine: cosa che nell'isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà.
Oggi le difficoltà per chi si volesse isolare dagli altri sono maggiori, quasi insolubili. Comunque si
può ricominciare dall'inizio del discorso dell'islandese:
Tu dei sapere che io fino nella mia prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della
vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri
per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano, sopportando e cagionandosi
scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più
si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano.
Quando sei bambino hai tutte queste idee su come sarà il futuro, disse Billy. Poi cresci un po', e
cominci a ridimensionare le aspettative. Secondo me alla fine del processo ti riduci a cercare solo di
soffrire il meno possibile. A ogni modo, questa terra non è più la stessa. Niente di questa terra è
come prima. (…) Non è più la stessa. Non lo sarà mai più.
100
L'origine è la meta
Nel sostenere non l'identità di origine e meta, ma proprio questo, Kraus e Benjamin, che non
anticipano lo Stalin di Orwell, hanno considerato che la prova di ciò che avventatamente
sostenevano era nei “Demoni” di Dostoevskij? Kirillov sta per essere suicidato non solo da sé
stesso, ma per sé stesso no, di sicuro, comunque dice, con entusiasmo esaltato:
“Io mi ucciderò per cominciare e per dimostrare. Io non sono ancora Dio per forza e sono infelice,
poiché sono costretto a proclamare il mio libero arbitrio. Tutti sono infelici, perché tutti hanno paura
di proclamare il loro libero arbitrio. (…) Io sono terribilmente infelice, perché ho una terribile
paura. La paura è la maledizione dell'uomo... Ma io proclamerò il mio libero arbitrio; sono
obbligato a credere di non credere. Io comincerò e finirò, se aprirò la porta. E salverò. Solo questo
salverà tutti gli uomini e già nella generazione successiva li rigenererà fisicamente; perché, per
quanto posso giudicare, l'uomo, nel suo aspetto fisico attuale, non può fare a meno di Dio in nessun
modo: Per tre anni ho cercato l'attributo della mia divinità e l'ho trovato: l'attributo della mia
divinità è il Libero Arbitrio! È tutto ciò con cui io posso dimostrare il punto supremo della mia
rivolta e la mia nuova paurosa libertà: Poiché essa è assai paurosa. Io mi uccido per affermare la
rivolta e la mia paurosa libertà.”
A proposito della confessione che Petr Stepànovic vuole che Kirillov scriva, sull'assassinio di Satov,
l'ispiratore finisce per supplicare tremando: “Perché ci credano bisogna scrivere nel modo più
oscuro possibile, proprio così, proprio coi soli accenni. Bisogna mostrare solo una piega della
verità, giusto ciò che basta per incuriosirli: Si inganneranno da sé stessi sempre assai di più di quello
che potremmo ingannarli noi ed a sé stessi certo crederanno più che a noi, e questo è meglio di tutto,
meglio di tutto!”
Kirillov conserva una certa ispirazione, del tutto inattesa: “Detta, finché la cosa mi diverte: Non
temo i pensieri degli schiavi altezzosi! Vedrai tu stesso che tutto il mistero sarà svelato! E tu sarai
schiacciato...” Naturalmente ha ragione, proprio perché non ce l'ha più, ma in questo modo si finisce
per dire o scrivere cose interessanti, come la chiusura della dichiarazione: “Vive la république
démocratique, sociale et universelle ou la mort!... No, no, non così: Liberté, egalité, fraternité ou la
mort.” La delizia finale riguarda la firma, prima Kiriloff, gentilhomme russe et citoyen du monde,
poi gentilhomme séminariste russe et citoyen du monde civilisé.
È probabile che prima di scrivere che, in senso “rivoluzionario”, per critica, l'origine è la meta,
bisognasse aver dimenticato queste pagine, e soprattutto le successive, di Dostoevskij.
101
Der Kampf um die Suppe
“Es Beginnt”.
Nell' “Eine winterliche Reise” Peter Hanke scrive che “Le Monde”, ex giornale preferito dall'autore:
“non descrive più i suoi soggetti, e neppure lontanamente, cosa che sarebbe ancora migliore e più
nobile, li evoca, ma li afferra con avidità – ne fa degli oggetti. Tipico della nuova linea di tendenza il
modo, una volta impensabile per “Le Monde”, con cui certe persone vengono subito caratterizzate
tramite il loro aspetto fisico, di norma come appunto di recente in un occhiello una fotografa d'arte
americana, definita “un'affascinante quarantenne sovrappeso” (o qualcosa del genere) – quasi che
l'apparente morigeratezza iconografica del giornale producesse nel frattempo un tipo di immagini
radicalmente diverso, immagini verbali, metafore da non prendere sul serio”.
Metafore da non prendere sul serio? Quattro pagine dopo, un'immagine viene commentata con la
seguente morigeratezza: “E la foto la vidi poi su “Time”: un gruppetto piuttosto rado di sloveni in
tenuta da combattimento lievemente fantasiosa che presentavano la neonata repubblica con
striscione e bandiera. E tra loro, a quanto ricordo, quasi non c'era gente davvero giovane, in ogni
caso il reparto o truppa non aveva niente di giovanile – di quei campioni della libertà premono nella
mia memoria piuttosto alcuni ultratrentenni panciuti, piantati lì quasi fossero alla fine di una
scampagnata di vitaioli, le bandiere come decorazioni di un teatro all'aperto, e fino ad oggi non
vuole uscirmi di testa il mio primo pensiero di fronte a quell'immagine, che erano stati dei
buontemponi così, abbastanza allegri, e non dei combattenti per la libertà ad aver abbattuto come se
niente fosse i quasi settanta giovani soldati incapaci di cavarsela con la superiorità delle loro armi.
Naturalmente questa è forse un'assurdità – che però dimostra come reportage e immagini trasmessi
così si trasformino o si deformino in chi li riceve.”
102
Time after Zeit
Il tempo dopo che è durato
Qualche anno dopo (dieci) il canto alla durata, nel viaggio ai fiumi serbi Peter Handke scrive che gli
è rimasto, proprio nell'isolamento di quasi tutti, palpabile per il suo nitore cristallino, qualcosa come
il “popolo”, altrove certo a ragione dato per morto: tangibile, in quanto vive così visibilmente nella
diaspora nel suo stesso paese, ciascuno nella sua personalissima dispersione (in aggiunta, dice, gli
uccelli nell'alberodormitorio sulla piazza della stazione del sobborgo, gonfi per il freddo, ognuno a
distanza dall'altro, e tra i corpi anche qui la neve che cadeva). Ed è rimasto o è non effimero, detto
in parole povere, già il solo viaggiare in un mero paese interno, persino quasi privo di laghi naturali,
solo con dei fiumi, ma quali! L'esperienza della durata è un po' più della nostalgia di uno spazio che
non c'è più e che il tempo degli uomini ha travolto. Il viaggio stesso in Serbia: “osceno” nel suo
annotare “cose di scarsa importanza”, in attesa di una collettiva “seconda, la comune infanzia”. Di
certo qualcosa come il popolo non “resta”, ma il sogno di piccole cose rivelatrici, che lo
costituiscano altrove, dove non c'è, né c'è stato, sì.
“Eppure ecco io sono nello stato di grazia della durata
finalmente non più del tutto solo”
(…)
“Io sono anche tutti gli altri
che già prima di me sul lago di Griffen sono stati”
(…)
Prima Handke aveva scritto:
(…)
“Eppure è, questa pozza che si sta asciugando,
e che molto presto sparirà,
pensano così i progettisti dell'autostrada,
un grande luogo della durata per me”.
Oppure:
“al Lago di Doberdò, cioè nella lingua del luogo
slovena: Doberdobsko jezero”.
(…)
“Nel silenzio di questi laghi
so io, cosa faccio,
e poiché so, cosa faccio,
so anche, chi sono.
Sto sulle loro rive
gli occhi e orecchi aperti,
e lascio la sera venire”.
103
La durata è un atto di fiducia (non tolgono gli altri la “meinem Vertrauen”) verso un luogo, che è
custodito nella mente. La mente comunque ha bisogno di un posto, di un luogo fisico dove poter far
riposare una sensazione, un'illusione a cui non si possa non essere affezionati, perché qualcosa, che
sappiamo importante per noi, che è prima della nostra esperienza, vi si è depositato, e forse vi si può
perdere. Tuttavia senza l'esperienza dell'acquietamento, non vi è sensazione che dica la durata.
104
L'attendente
In “En attendant Godot” di Samuel Beckett, Vladimir ed Estragon pare che attendano. Non
attendono affatto, ma fingono, o simulano l'attendere come un'estroversione felice per condurre una
vera vita. Questa è la loro. D'altronde l'attendente del titolo, in realtà che o chi mai attende?
Nessuno, si sa. Era quella volta, ora l'incarico non esiste più da molti anni, generalmente noto che
fare l'attendente era la simulazione di un'attività di servizio, presso la famiglia di un ufficiale, del
resto inesistente, per evitare i fastidi della vita di caserma, senza contarne i piaceri domestici.
L'attendente non ha mai atteso che ai propri istinti; infine un altro attendente della letteratura
europea è il buon soldato Švejk le cui avventure ha descritto Jaroslav Hasek.
105
L'alienazione del cappotto
La condizione alienata della vita moderna, ma non contemporanea, era stata descritta da Nikolaj
Vasil'evic Gogol' nel “Cappotto”. “All'ufficio gli si mancava del più elementare rispetto. Gli
inservienti... Un aiutocapostanza... I giovani impiegati lo deridevano e facevano della spirito a sue
spese, fin dove riusciva almeno alla loro ingegnosità burocratica...”. Tuttavia ricopiava meglio di
“Bartleby lo scrivano” di Herman Melville. Quando muore diventa finalmente un vendicatore, sotto
forma di fantasma, tanto è vero che un floscio gendarme non sentendosi di intimargli l'altolà, lo
sentì rivolgergli la parola di botto, sfoderandogli un pugno tale che tra vivi non troveresti uguale.
Allusione ambigua, però. Ma prima si dovrebbe ricorrere allo starnuto che sgomenta i tre gendarmi
che lo avevano fermato in flagrante furto di un cappotto marezzato nel vicolo del Kiriùskin. Ma il
risultato è lo stesso, perché la paura fece sì che i gendarmi concepirono una tale paura dei morti, che
si guardavano bene dal pigliare anche i vivi... ma non è strano che si trasformi, il fantasma, col suo
cappotto però, nella profezia di Stalin.
106
Il liberalismo russo
“Vi racconterò un fatto, signori – proseguì egli col tono di prima, cioè con un'apparenza di gran
fervore e calore, e nello stesso tempo per poco non mettendosi a ridere, forse, delle proprie parole –
un fatto la cui osservazione, la cui scoperta anzi ho l'onore di ascrivere a me e a me solo; per lo
meno nulla ancora se ne è detto o scritto in nessun posto. In questo fatto si riflette tutta l'essenza di
quella specie di liberalismo russo di cui vi sto parlando. In primo luogo, che cos'è il liberalismo, in
genere, se non un attentato (giusto o errato, questa è un'altra questione), all'ordine di cose esistente?
Non è vero che è così? Be', il fatto di cui parlo consiste in questo, che il liberalismo non è un
attentato all'ordine di cose esistente, ma un attentato all'essenza stessa delle nostre cose, alle cose
stesse, e non solo all'ordine e agli ordinamenti russi, ma alla stessa Russia: il mio liberale è arrivato
al punto di rinnegare la Russia stessa, cioè di odiare e colpire la propria madre. Ogni disgraziata, e
sfortunata vicenda russa eccita in lui il riso e quasi l'entusiasmo. Odia i costumi popolari, la storia
russa, tutto. Se c'è una giustificazione per lui, è forse questa, che non capisce ciò che fa, e scambia
la sua avversione verso la Russia per il più fecondo dei liberalismi (oh, voi incontrerete spesso da
noi questo liberale che gli altri applaudono e che forse, in fondo, è il più inetto, il più ottuso e il più
pericoloso conservatore, senza ch'egli stesso lo sappia!). Quest'odio per la Russia certi nostri liberali
lo prendevano, ancora poco tempo fa, quasi quasi per vero amor di patria, e si vantavano di vedere
meglio degli altri in che cosa esso dovesse consistere; ma ormai sono diventati più espliciti, più
sinceri e hanno cominciato a vergognarsi persino delle parole come amor di patria, hanno
addirittura messo al bando ed eliminato questo concetto come nocivo, come privo di senso”.
da “L'idiota” di Fëdor Dostoevskij.
107
Die Walsche di Joseph Zoderer
L'essere estranei è una condizione comune per quanto elettiva, ma le scelte sono giudiziose.
“(...) lo sapeva fin troppo bene, la gente non era cambiata, era diventata solo più cortese, in
apparenza...”.
“A suo padre era bastato morire nel paese dal quale gli era stato impossibile andarsene, come tutti
avevano potuto constatare...”.
L'epifania del vero sentire giunse anche per Olga – la walsche – quando prese lo slancio per il
manrovescio ma non riuscì a cogliere l'ubriaco e sfiorò solo la fronte china del vecchio Ploser
(“perfino il vecchio Ploser aveva demolito il vecchio maso, la casa e anche la stalla e costruito una
pensione”). (…) Avviò il motore e inserì la marcia indietro; prima però di togliere il piede dalla
frizione, chinò la testa verso il volante e si baciò il dorso della mano.
108
Impossibile da utilizzare
Si dice di solito che la letteratura ha il compito di familiarizzare con il terribile, soprattutto quando
chi ne usufruisce non lo sta già vivendo. Resta che un libro come “Nei mari estremi” di Lalla
Romano è apparso come qualcosa di relativamente insolito. Eppure l'esperienza direttamente vissuta
del terribile è più che frequente. Nulla di nuovo vi circola, neppure di meno usuale si potrebbe dire,
però nella forma le circostanze dettano le loro condizioni a una scrittrice che non ha dimostrato
nessuna paura del vissuto, nel senso di una difesa per mezzo dell'astrazione.
Non mi parlava, non mi guardava.
Guardami, sono qui.
Sono qui che non ci sono.
(…)
È assorto, triste. A cosa pensi?
Alla realtà.
Ero pronta alla verità. Ma adesso penso: è stata una vittoria della materia? Hofmannsthal dice che
“Ogni uomo che muore porta con sé un segreto: come gli sia stato possibile – spiritualmente –
vivere”. (…) Se non avessi domandato, non l'avrebbe detto...
Un verso di Canetti: “... ma solo i pensieri di cui nessuno sa nulla mantengono in vita un uomo”.
Dietro il suo silenzio c'era questa vertigine (per me).
Lui non aveva bisogno di consolazione; ma qualcosa mi tentava.
Le ultime righe di “Minima mortalia” che dovrebbero essere precedenti al libro di cui sono
un'appendice, sembrano scritte per uno già morto. In effetti lei scrive: “come se dovessi
salvaguardare un'esistenza: riuscire a non uccidere (a non lasciar morire) quello che trovo vivente
nei miei sensi e nei miei pensieri”. Essendo “un impegno non esclusivamente formale” (la scelta dei
temi). Impossibile “utilizzarli” gli appunti , “inserirli nel testo”, ecc. Poi invece per via di una
prodigiosa riapparizione del blocchetto sotto una pila di carte...
Nessuna meschinità c'è nel libro, ma ironia nel finale della storia. I loculi, per lui e per lei.
“Dobbiamo metterlo sotto o sopra? Io dissi: Nel vagone letto lui si metteva sotto e io sopra. Fate
così”.
Nota: Paronomasia
Dal “Canzoniere” di Umberto Saba, per un contrappunto non improvvido, quanto improvvisato si
potrebbe esportare, per affinità elettive, la poesia “A mia moglie”, in cui lei è salita ad essere, nella
litania: pollastra, giovenca, cagna, coniglia, rondine, formica e pecchia. In genere si sa che le
metamorfosi di Lina, meno che infantili, servono a sbarazzarsi delle inibizioni, e per salvare la
felicità da ciò che la canta e la racconta. L'affinità per cui le due opere triangolano tra loro è con il
Cantico delle creature di S. Francesco, come chiunque può riconoscere facilmente.
Lalla Romano nei “Minima Mortalia”: “il mio corpaccio – diceva una donna che aveva il marito
malato – il mio corpicino – diceva una donna malata che aveva il marito sano”.
109
Programma per la felicità
Il “1984” di George Orwell dovrebbe essere letto con qualche modifica. Si può scegliere un breve
passo come prova. Come fa un uomo ad affermare il suo potere su un altro uomo, Winston?
Winston ci pensò un po' su, Facendolo felice – disse infine.
Esattamente. Facendolo felice. L'obbedienza non basta. Se non è felice, come si fa ad essere sicuri
che egli non obbedisca alla sua volontà, anziché alla tua? Il potere consiste appunto nell'infliggere la
felicità e l'esaltazione. Il gradimento. Riesci a vedere, ora quale tipo di mondo stiamo creando? Esso
è proprio l'esatto perfezionamento di quella stupida utopia edonistica immaginata dai riformatori del
passato. Un mondo di paura, di tradimenti e di torture e di felicità gioie autoesaltazioni, un mondo
di gente che calpesta e che è calpestata, un mondo che diventerà non meno, ma più spietato, man
mano che si perfezionerà. Il progresso, nel nostro mondo, vorrà dire soltanto il progresso della
sofferenza e della gioia. Le civiltà del passato pretendevano di essere fondate sull'amore e sulla
giustizia. La nostra è fondata sull'odio e sul divertimento. Nel nostro mondo non vi saranno altri
sentimenti oltre la paura e la sfrenatezza, il furore e il godimento, l'esaltazione e l'autoesaltazione.
Tutto il resto verrà distrutto, completamente distrutto. Già stiamo abbattendo i residui di pensiero
che erano sopravvissuti da prima della Rivoluzione. Abbiamo abolito i legami tra figli e genitori, tra
uomo e uomo, e tra uomo e donna. Nessuno ha la stupidità di fidarsi più della propria moglie, del
proprio figlio; nel futuro non ci saranno né mogli né amici. I bambini verranno presi appena nati
alle loro madri così come le uova vengono sottratte alle galline. La procreazione diventerà una
formalità come il rinnovo di una tessera. Non esisterà più il concetto di lealtà, non ci sarà più amore
eccetto la passione per lo spettacolo. Non ci sarà più il riso se non il riso di trionfo su qualcun
altro...
110
Impunture
L'erpice della colonia penale, la macchina disegnatrice, scriverebbe oggi “Godi!” anziché “Sii
giusto!”. Il secondo comando sarebbe stato adatto per Ivan Il'ic, a cui la malattia compie l'identica
funzione. La morte di Ivan Il'ic presenta varie somiglianze con “La metamorfosi” dello stesso
Kafka. D'altronde la metamorfosi è la morte, e che il morente, prima il malato, sia uno scarafaggio è
una figura stilistica. Per entrambi i casi il sollievo dei sopravvissuti garantisce il lieto fine della
storia. In entrambi c'è una figlia che vorrebbe sposarsi, in quello di Tolstoj, c'è in più il collegialetto,
il figlio tredicennequattordicenne che è l'immagine del padre da giovane.
E fu come una conferma dei loro nuovi propositi, che alla fine del tragitto la figlia si alzasse per
prima stirando il suo giovane corpo. Essa faceva viste di chiedere consiglio a Petr Ivanovic sulla
pensione; ma questi s'avvide che in realtà già sapeva nei minuti particolari quanto lui stesso
ignorava: ossia che somma si poteva spillare al fisco in occasione di quella morte; ma voleva sapere
se non ci fosse verso di cavarne anche di più. (…) Allora essa sospirò e si mise evidentemente a
studiare il modo di liberarsi del suo visitatore.
Nella Coscienza di Zeno, costui (Zeno Cosini) prende uno schiaffo o riceve un beneficio dal
padre morente, conservando sempre il dubbio che non fosse stato né questo né quello. Un pensiero
del genere l'avrà avuto il collegialetto?
Il moribondo seguitava ad urlare disperatamente e buttava le braccia in qua e in là. Una sua mano
capitò sulla testa del collegiale. Che la prese, vi premé le labbra e scoppiò a piangere.
Questo atto conduce il moribondo alla morte, finalmente in pace, sebbene non riesca a comunicare
il perdono, ma solo un lasciar andare, che non è la stessa cosa.
111
Tenebrosità del cuore
Cuore di tenebra si traduce in due maniere: tenebrosità del cuore e cuore dell'ottenebramento. Per la
metafora Joseph Conrad ricorre alle descrizioni:
(…) nella sua discesa curva e impercettibile, il sole si abbassò, e da bianco incandescente si mutò in
un rosso appannato senza raggi e senza calore, come se stesse per spegnersi improvvisamente,
colpito a morte dal tocco di quella oscurità che incombeva su una folla di esseri umani.
Immediatamente ci fu un cambiamento sulle acque, e la serenità si fece meno brillante ma più
profonda. Il vecchio fiume in quell'ampio tratto terminale riposava quieto, nel morire del giorno,
dopo secoli di buon servizio alla razza che popolata le sue rive, disteso nella tranquilla dignità di via
navigabile che porta agli estremi confini del mondo.
Noi guardavamo quel fiume venerabile non nella vivacità di un breve giorno che viene e passa per
sempre, ma nella luce augusta delle memorie durature.
(…)
Risalire quel fiume era come viaggiare indietro ai primordi del mondo, quando la vegetazione
tumultuava sulla terra e alberi enormi ne erano i signori. Un fiume vuoto, un grande silenzio, una
foresta impenetrabile. L'aria era calda, spessa, pesante, torpida. Non c'era gioia nel brillare della
luce solare. (…) Ci si perdeva su quel fiume come ci si perde in un deserto, e si cozzava tutto il
giorno contro i bassifondi, cercando di trovare il canale, fino a pensare di essere soggetti a un
incantesimo e tagliati fuori per sempre da tutto ciò che si conosceva una volta – in un luogo lontano
– forse in un'altra vita. C'erano momenti in cui il proprio passato riaffiorava, come a volte capita
quando non si ha nemmeno un attimo da dedicare a sé stessi; ma riaffiorava sotto forma di un sogno
inquieto e chiassoso, ricordato con stupore tra le realtà opprimenti di quello strano mondo di piante,
e acqua, e silenzio. E quella quiete animata non somigliava in nulla e per nulla a una pace. Era la
quiete di una forza implacabile che covava un proposito imperscrutabile.
(…)
Quando si deve badare a cose di quel genere, ai semplici avvenimenti della superficie, la realtà – la
realtà, vi dico – svanisce. La verità interiore è nascosta – per fortuna, per fortuna.
Ora si capisce che il tema del cuore di tenebra è il patto con il diavolo. Ma perché ci sia patto ci
deve essere sfruttamento economico, dal cuore londinese alla stazione commerciale:
File di negri polverosi con piedi larghi e piatti arrivavano e partivano; un fiume di merci lavorate,
manufatti di cotone di infima qualità, perline di vetro e filo di ottone fluiva verso gli abissi delle
tenebre, e di rimando veniva un prezioso torrente di avorio. (…) Si diffondeva su tutto un'ombra di
ottusa rapacità, come un puzzo di cadavere. (…) E tutt'intorno la silente regione selvaggia che
circondava quel pezzetto disboscato sulla terra mi colpiva come qualcosa di possente e invincibile,
come il male o la verità, in paziente attesa che quella strana invasione avesse termine.
L'invasione non può senz'altro terminare, quando è appena cominciata...
Non è il signor Kurtz ad avere stretto il patto con il diavolo, da solo almeno, Marlow già nel nome lo
ha consumato, ed il lettore sa che ora tocca a lui o a lei.
Il mare aperto era sbarrato da un nero banco di nubi, e la tranquilla via navigabile che conduceva
agli estremi confini della terra scorreva cupa sotto un cielo coperto – sembrava portare verso il
cuore di una tenebra immensa.
112
Odile crocodile
Il personaggio Odile del romanzo omonimo, di Raymond Queneau, evidentemente deve somigliare
alla Janine sposata nel 1928. Nello stesso anno si stabilisce il legame con il gruppo della rue du
Château, cioè con Prévert, Tanguy e Duhamel. L'anno successivo la rottura con A. Breton. Roland
Travy è un personaggio di Queneau, un personaggio che racconta il se stesso dell'autore. In una
intervista a RibemontDessaignes, che è pure personaggio del romanzo, Queneau dice, tra l'altro, di
avere iniziato a frequentare la Centrale Surrealista nel 192425, di avere litigato per motivi personali
con Breton e di avere avuto prima una reazione appassionata e violenta, da cui si è liberato
scrivendo Odile, in cui però non si parla solo di questo. Nel romanzo André Breton ha il nome di
Anglarès.
Anglarès si riconosceva da lontano. Aveva capelli lunghissimi, un ampio feltro nero e occhiali a
stringinaso assicurati all'orecchio destro da un largo nastro. Avrebbe avuto l'aria di un fotografo
d'altri tempi se non ci fosse stata la cravatta rossa a denotare le sue tendenza moderniste. Qualche
pagina dopo Queneau presenta al lettore l'abitazione del capo del gruppo, incaricato di una
prodigiosa missione storica, si insinuava, e dottore in medicina. Un villino molto compunto, la
classica abitazione di un medico. Ma dentro si sentiva subito la tana del cartomante o dell'indovino
birmano. Un'ampia stanza serviva contemporaneamente da sala da pranzo, di ricevimento e di
lavoro, per quel tanto almeno di lavoro che vi si faceva, suppone maliziosamente il narratore.
Immagini pretenziose pendevano dai muri. Materiale di cui il protagonista non sa precisare la natura
era ammucchiato accuratamente su assicelle di legno pregiato. Della biblioteca, lui racconta che i
nomi che poté vedere incontrarono solo la sua ignoranza. Il gruppo sembra al narratore che
pubblichi opuscoli teosofici, ma vi si attendeva con più impazienza l'arrivo dell'Anticristo che
quello del cavallo bianco. Per ottenere la liberazione dello spirito e del proletariato si auspicava una
mescolanza a base infrapsichica e subconscia di metapsichica, materialismo dialettico e mentalità
primitiva. Durante la conversazione a cena Roland Travy ammette che non sia facile spiegare la
bellezza delle funzioni automorfe o delle sezioni coniche, della loro armoniosa architettura. Dice di
esplorare il mondo delle realtà matematiche, o dell'inconscio matematico come semplifica Anglarès.
Verso la fine del romanzo, durante una riunione del gruppo di Anglarès, qualcuno dice: dobbiamo
fare la rivoluzione con i mezzi più radicalmente infrapsichici e combattere il borghese con ciò che
più gli ripugna: l'escremento. Ma un altro aggiunge: bisogna rotolarci nel fango e respirare l'aria
del crimine. Un altro, un ex nullificatore integrale: e nella lotta non dimentichiamo quest'arma
potente: la demenza precoce o la sua simulazione. Infine uno spiritista incubofilo: non faremo mai
la rivoluzione se non riusciremo a stregare tecnicamente la totalità della borghesia.
Nel corso del primo incontro Anglarès racconta a Travy d'avere acquistato una pietra da un rigattiere
di Belleville. Quella pietra rassomigliava molto a un coccodrillo. Spiega che due giorni prima una
veggente aveva visto nel globo di cristallo un coccodrillo che scende una scala. Infine dice di aver
trovato una citazione, due versi, nei poemi di Teoclasto d'Avidya: il coccodrillo amorfo dalle labbra
di corallo – scende senza fretta lungo la via San Gallo. Una risonanza nell'inconscio. Mentre
passava per via San Gallo, Anglarès aveva trovato nella vetrina di un rigattiere il coccodrillo che
concretizzava le premonizioni. Dopo questo episodio, una donna, Manon, incipriandosi dice: le
crocodile croque Odile. Il narratore, nella stessa pagina, fa suo quel gioco di parole quando Adèle
gli chiede se è innamorato di quella pollastra.
113
Fortineum
In Una opportuna premessa a Ventiquattro voci per un dizionario di lettere Franco Fortini scrive
dell'intenzione ironica non ho detto sarcastica né cinica del libretto. Si capirà in breve
l'opportunità della premessa. Ma intanto negandole, queste intenzioni che nomina, cioè
denegandole, le afferma. Aggiunge che lo specialista non avrà nemmeno bisogno di sorriderne. Ciò
vorrà dire che lui sorriderà per lo specialista, farà da sé ciò che teme, temendo ciò che si farà, che
non potrà non essere fatto. Conclude la premessa con questa frase: Ho meglio capito quanta
passività di classe reggesse la boria di falsa libertà che per tanti anni mi aveva fatto credere
possibile di separare le ore migliori dalle peggiori e di distinguere da quello costretto il mio lavoro
gratuito. Accredita a sé stesso una boria che sicuramente poteva non avere provato se non per un
senso di colpa a cui attribuire lo sguardo colpevolizzante di un altro immaginario, che poteva non
addossarsi senza giustificato motivo. La giustificazione citata prima serve a motivare la decisione
per bisogno di soldi, anche pochi di aver compilato delle voci per un repertorio di lettere e arti a
dispense settimanali. La furia lo spinge a dire dell'altro su di sé, con una onestà, che per essere
troppa è sfacciata, e insieme con intransigenza, quella per cui ogni vacillare richiede una teoria
esplicita.
Dunque, ritornando a quegli anni per tanti anni che rievocava Fortini, lui ricordava che finiva di
trovare giusto aver compenso e salario per lavoro finto o mal fatto o bestemmiato, e nulla o quasi
per quello che gli reclamava pena e impegno intero. Eppure si sente che la nota è falsa: né lavoro
finto, né mal fatto o tanto meno bestemmiato. Cioè, non che non possa corrispondere a nulla di
reale, ma neppure può trattarsi di verità, in questo modo esibita, dissimulata da un'autocritica di
stampo maoista (la Premessa è del 1968). Tuttavia ciò che è gratuito, in realtà, non lo è, afferma
Fortini, perché in esso si trova la giustificazione del sistema, e la sua conferma, per cui si produce
altro da quello che la voce contabile scrive come motivazione invisibile, nelle lettere di
accompagnamento degli assegni, e facendolo liberamente, nel tempo libero. Ma chi giustifica chi in
queste righe e da chi, o cosa, è giustificato?
L'abilità di stendere frasi o pagine a comando e quasi su qualsiasi argomento mi ha consentito di
nutrirmi, di fornire abiti a acqua calda alle persone della mia famiglia, di usare un'auto. Potrebbe
non bastare l'evidenza, sentendo la necessità di aggiungere: in una condizione di relativo privilegio.
Perché si presenta come un pennivendolo chi non è, credo, mai stato accusato di esserlo? Brecht,
dice, ci ha insegnato a difendere il proprio valore di mercato, a imparare l'attitudine a contendere
per il soldo con competenza sindacale e avarizia, a pretendere anticipi, liquidazioni, rendiconti. Qui
è felice, addirittura, di stupire. La generosità e il pudore di molti (qui, di nuovo, implicitamente si
include, e non per denigrarsi) sono serviti a pagare numerose canaglie culturali. Ma il corrispettivo
è che non si tratta solo di nobili sentimenti, ci sono anche senso di colpa e complicità.
Della trentina di voci che Fortini compila, ricorda un impegno volenteroso: Cercavo di fare del mio
meglio. Ciò andrebbe inteso, come riferito ancora a un intellettuale venduto (scrive: sono cresciuto
in mezzo all'istituto ridicolo della recensione letteraria, ossia nella improvvisazione presuntuosa), a
ciò che non gli è rimproverato, o forse sì? Si sta sottoponendo a un processo popolare, per cui
l'imputato redige la propria accusa?
Nel procedere egli si rimprovera lo stile oscuro il gergo sublime e convulso e, prima, l'ignoranza
grammaticale nessuno mi ha mai insegnato la grammatica . Invece può darsi che sia condivisibile
il giudizio per cui la chiarezza pare opporre qualcosa di indistruttibile al flusso della
contraddizione, esattamente, pare, giacché la forma verbale dice tutto. Eppure la successiva frase ci
consegna la nozione del trascorrere dei tempi, là dove stabilisce un posto per l'ordine o il falso
114
ordine che sia: l'ordine sembra il segno di una società che si vuole o si vive come omogenea, e una
proposta di ordine per l'intellettuale impegnato.
Ripete che era tutto contento di scrivere quelle voci, per un rinnovato impegno intellettuale a
vantaggio delle masse, del volgo delle edicole. L'edicola e il video sono gli strumenti, i soli di cui
dispongano i nostri concittadini, necessariamente corrotti d'una funzione insostituibile, così la
definisce.
Molto più interessante dove afferma che la cultura e la ricerca noprofit, quando siano
convenientemente sovvenzionate, da governi, fondazioni, industrie e simili, imitano l'autenticità e la
necessità così perfettamente che la produzione di ideologia necessaria a giustificarne l'esistenza
costa meno del rassicurante foglietto a stampa accompagnatore di costose specialità medicinali.
L'autocritica, evidentemente così necessariamente impostata, si rafforza nel seguente motto: mi
difendo ora come posso dalla illusione tipica dell'intellettuale, che cioè per incarnarsi la storia
abbia scelto proprio il suo cervellino.
L'autore neppure pretende che queste pagine siano necessarie, così deve avergli suggerito di
concludere il giudice del tribunale del popolo. In fondo queste voci egli le ha scritte in età che per
tanti insegnanti è, come si dice, pensionabile. Si rinvia il compito ai più giovani.
Il commiato è che è tempo di scrivere per il popolo ossia per un lettore più esigente, la condanna
erogata consiste in un servizio, nel servire il popolo. Una conclusione maoista, la conclusione del
processo, anche se poi, come detto all'inizio, Fortini sfugge alla condanna che si somministra da sé
(forse).
Una citazione altrettanto doverosa quanto inopportuna: La compilazione, la redazione del libro
scolastico, l'esposizione, il riassunto non sono soltanto un esercizio di purgazione, di umiltà e di
modestia che darebbe spazio e tempo al ripensamento delle strutture espositive. Sono, potrebbero
essere, se affrontati liberamente e con integrale chiarezza critica, una grande lezione
prerivoluzionaria; lezione, naturalmente, nelle due direzioni di ogni atto di docenza.
115
Tristano
L'ultima delle Operette morali, scritta a Firenze nel 1832 e stampata nel 1834 nella seconda
edizione, è il Dialogo di Tristano e di un amico. Che abbia un valore conclusivo è facile
comprendere leggendolo. Tristano è Leopardi, che sceglie il nome del cavaliere medioevale, o
quello del Tristram Shandy di Sterne.
Tristano è allibito dalle reazioni causate dalle Operette morali, delle quali fu rigettato non qualche
proposizione particolare ma tutto, perché la vita non è infelice e se all'autore pareva tale, doveva
essere effetto d'infermità, o d'altra miseria particolare.
Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bela e pregevole; e tale la
credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti.
Più in là, continuando lo stesso discorso, dice: Se questi miei pensieri nascano da malattia, non so:
so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni
inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare
intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed
accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.
Infine, riflettendo ancora, sulle reazioni alla sua opera, nota evidentemente che le cose da lui
affermate sono tutto meno che nuove, nuova la sua opera quanto quella di Omero o di Salomone. E
mi ricordai anche che da quei tempi insino a ieri o all'altro ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli
scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine.
L'ultima operetta morale è dunque, a partire da questa constatazione, dedicata alla novità portata
dalla modernità, alla scoperta della felicità in corso nel secolo decimonono.
Confesso che io avevo il torto a credere quello che credevo, ammette ironicamente, come altre simili
ironie concluderanno le sue frasi in questo dialogo. Comunque, a cancellare il sospetto che sia un
debole, o un simulatore, Leopardi Giacomo, scrive: il corpo è l'uomo. Dove tutti sanno poco si sa
poco, la spartizione tra ignoranti impostori da un lato e ignoranti presuntuosi dall'altro è prova certa
della crescita attuale del sapere e della superiorità dell'epoca presente. L'errata, primitiva, idea del
Tristano che solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di
cognizioni, sia atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano è giustamente
abiurata.
I libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli,
vedete ben che, siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quello che
costano.
È tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi
grandi che pure credo che vi siano; ai quali, nell'immensa moltitudine dei concorrenti, non è più
possibile aprirsi una via.
Viva la statistica! Vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i
manuali e le tante belle creazioni del nostro secolo!
Che fare allora di un volume come quello delle Operette morali? Bruciarlo è il meglio. Non lo
volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici,
ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore.
Conclude Tristano, decidendo, sacrificandosi come capro espiatorio, di dare ragione ai suoi critici
che gli imputano la malattia come movente del suo pensiero:
Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero
dell'avvenire che io faccio, come accade nella mia solitudine, e con cui vado passando il tempo,
consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della
116
prima età, e il pensiero di essere vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la
morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al
mondo. Questo è il solo beneficio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato
la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morire oggi, e
che dovessi scegliere, io direi, morire oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.
117
Correnti segrete
1. Le ricorrenze della critica
Linee generali
1.
Visto che ogni politica rivoluzionaria si riduceva all'utilizzazione saltuaria della critica, di cui
pretendeva di essere il punto di arresto e l'ultima precauzione verso il suo sviluppo autonomo.
Visto che ogni politica rivoluzionaria ha continuato a difendere il progetto rivoluzionario in quanto
progetto di un fallimento e il cambiamento radicale in quanto scopo da fallire ad ogni costo.
Visto che ogni politica rivoluzionaria ha evitato di comprendere il significato passato del
movimento operaio, e a maggior ragione quello presente, a favore dello spossessamento della sua
immagine tradizionale, al fine di rilevare la perdita di questo progetto come suo peculiare merito,
mentre si era già disintegrato nel corso degli anni, senza aver fatto nulla più di accorgersene, né
impedire che tutti se ne accorgessero.
Visto che ogni politica rivoluzionaria, come il suo rifiuto positivista, si erano costituite come
organizzazioni per la smentita formale della storicità del metodo dialettico e trialettico. È urgente
considerare i punti seguenti come il segno delle trasformazioni intervenute negli ultimi anni a
proposito del ritardo indefinito del cambiamento radicale.
Anche se non è soltanto adesso, né per la prima volta nel corso del nostro secolo, che la questione
sociale si pone in maniera autonoma, secondo il programma di una felicità irresistibile alle masse,
dopo essere stata a lungo imprigionata nell'economia e nella politica.
2.
L'usura irreversibile che si è impadronita dei progetti classici della sovversione ha mostrato
definitivamente la rottura con le fantasmagorie del grande giorno e della rivoluzione come stato
eccezionale di un'epoca. (Così come è accaduto con la confusione tradizionale tra cambiamento
radicale e guerra).
3.
Si tratta di liberare la critica (di cui non abbiamo conosciuto le conseguenze che in forma politica)
dai suoi ostacoli utopici, scientisti e parzialmente analettici, per ricostruirne il carattere essenziale
(quali che siano i suoi debiti riconoscibili e i suoi punti d'onore), secondo un movimento contrario a
quanto sta avvenendo nell'epoca della nihilazione, e cioè mentre si sta rendendo la società
effettivamente sociale a vantaggio di ogni imperativo mercantile.
118
4.
Il perno dell'illusione della politica rivoluzionaria e perciò, in misura minore, della critica che vi era
sottomessa, è stato quello di immaginare un proletariato fissato per l'eternità nel ruolo di ispiratore
del cambiamento radicale, e inoltre di esecutore di un cambiamento acefalo. Il proletariato
identificato spesso nella classe operaia occidentale e, qualche volta, nei suoi strati sociali adiacenti,
senza tenere conto dell'immensa estensione di quanto era ritenuto un resto. Solo una
proletarizzazione generale delle illusioni occidentali ha potuto portarle alla loro estrema usura e alla
loro futura scomparsa o probabile sostituzione, mentre il processo di emancipazione che essa
determina potrebbe ricadere costantemente nell'errore capitale, cioè nell'oblio della sua storia.
5.
Credere che la storia non sia che un processo che si compie al di là dei desideri e delle esperienze
degli uomini ha fatto dolorosamente dimenticare che l'esigenza centrale del cambiamento radicale è
stata quella di fare in modo che le vittime della storia lo fossero (e lo siano) ancora di più.
6.
Ne consegue che il movimento del nostro tempo è quello limitato della manifestazione diretta della
critica. Critica potata al di qua di ogni sprazzo di parziale lucidità, come arresto provvisorio. Né
contro lo sviluppo del capitalismo, di cui la teoria è stata la narratrice popolare, né contro un secolo
e più di movimento operaio e di teorie rivoluzionarie, il cui oblio incombe. E, indissolubilmente, la
critica come comprensione pratica contemporanea dello sviluppo del mondo e della sua
trasformazione radicale nella nihilazione.
2. Frammenti della vita corrente
… il momento è venuto, dice il Tricheco, di parlare di parecchie cose. Di scarpe di battelli … e di
ceralacca. Di cavoli … e di re.
Lewis Carroll
La politica non ha più, e nessuno ricorda che abbia mai avuto, nulla di così grandioso da poter
ridurre l'immaginazione, né di tanto importante da trattenere l'attenzione. Non porta con sé nessun
destino manifesto che possa concentrare gli sforzi di una generazione, di cui, comunque, nessuno
saprebbe cosa farsene se non reprimerli sull'istante. I grandi sogni sono concepiti per spegnersi
quando si applicano ai problemi della politica tradizionale che intralciano lo pseudodinamismo
riformista, l'ultimo, pertanto il più efficace tranquillante del capitalismo, nella misura in cui, sotto la
sua copertura democratica, si giocano spregiudicati scontri sotterranei sulle stesse soluzioni. La
vita corrente intende essere debitrice dell'interesse vitale per il presente, secondo l'offerta più
119
attuale. L'illusione riformista che un avvenire ugualmente radioso sarebbe appartenuto in pari
misura a tutti ha finito per cedere fragorosamente dappertutto, e nessuna prospettiva concreta
contiene più i vantaggi sperati a compensazione della miseria delle illusioni. L'avvenire non sarà
nulla senza una compensazione accresciuta del presente offerta dalla nihilazione, mentre lo sviluppo
della critica non avrà indicato un procedere proprio alla vita corrente e le possibili conseguenze al
di là della politica che implicano l'importanza della socialità, in negativo s'intende. Le relazioni vive
di oggi che implicano l'importanza della socialità tramite la reificazione integrale dei rapporti,
vogliono vaste modifiche della vita sociale. La circolazione delle idee non è nulla senza
l'affermazione della differenza, nei progetti individuali di consumo. La propria vita non deve più
essere irriducibile ai modelli prefabbricati, modulari, d'esistenza commerciale. E le differenze nelle
vite si sono sempre intrecciate, a un certo momento, a partire da qualche decennio, alle grandi
dinamiche merceologiche. Vlaminck cita una persona che dice: La prossima volta le città saranno
punite (dalle nuove forme di distribuzione) . Esse tuttavia permettono ancora l'articolazione della
differenza, e questo è sempre stato, una volta, il terreno delle rivoluzioni, perché qui tante vite sono
potute sfuggire al controllo, anche se sparita ogni forma di opposizione, oggi se ne diffonde una
pseudo articolazione commerciale. Ma il problema è questo. L'affermazione di una nuova vita
sociale dentro il consumo, una vita che è passata attraverso la fase degli isolamenti massicci, essa
sola può avere in sé la forza di rimodellare le città alle nuove forme del dominio della merce, cioè
della nihilazione.
“Bisogna smetterla di costruite le caserme del destino” (A. Jozsef), dicono i nuovi consumatori
integrali.
Bisogna pensare il reale presente con tutte le proprie forze invece di recitare la tragedia (Alain)
I punti di riferimento spariscono, sfumano, l'economia politica, da tempo, ha confuso le piste e il
controllo delle nuove forme di comunicazione rende difficile, se non impossibile, la comprensione
di tutto ciò che appare. La vita corrente ha potuto dischiudersi attraverso il consumo della vita; il
quotidiano è comunque del tutto una funzione. Per dirla in breve, in fuga costante davanti alla
propria realtà, in quella apparentemente definitiva dello spettacolo della merce.
“Nelle città vivono anche gli uomini che un'altra verità ha resi sordi, essi non sentono nessun
crollo”.
Kandinskij
Perché nulla potrebbe essere cambiato senza che lo sia a livello della vita corrente. Ed essa non sta
né avanti né dietro la critica, ma con la critica, intesa come funzione della spettacolarizzazione del
nihil. Al di là dell'astrazione quotidiana, dei blocchi aggressivi e degli atteggiamenti paranoici, al di
là di ogni fuga vi è la fluidità spettacolare della socialità che permette di concepire i cambiamenti
essenziali da operare. Ma, evidentemente, nulla di ciò che è dato facilita questo relax che vuole la
vita corrente verso e contro ogni pseudopoliticizzazione dello spettacolo della nihilazione. D'altro
canto le assenze (manques) di “vera” vita, il timore che i desideri incompiuti si dileguino, non
devono essere visti come irreparabili rinunce al consumo. Così pure la febbrilità e la
drammatizzazione hanno fatto il loro tempo... La socialità non è questo effimero fantomatico né
questa esaltazione romantica che, per aver troppo tirato sull'assoluto, è diventata soltanto
romanzesca. Ciò che nella prospettiva dei dominati può costituire un dramma, un soggetto di
120
riflessione pessimista, o anche il punto di partenza di metafisici della disperazione, può essere
rimesso al suo giusto posto, quello dei dettagli dimenticati che si sono gonfiati perché all'inizio
nessuno ha prestato loro troppa attenzione. Non c'è nessuna sfida atemporale da rilevare e nessuno
deve considerarsi erede di un regolamento di conti storico. Il contenuto presente della vita non è più
quello che è stato. Oggi chiede tutta la presenza individuale di coloro che sono contemporanei al
crollo della politica, perché attivamente dimentichino ciò che è passato. Altrimenti, come diceva
Attila Jozsef, non saranno considerati molto diversi da quel superstizioso guardiano di notte
condannato a vedere fuochi fatui e falsi segnali...
Chi si preoccupa oggi di socialità, di sviluppare la critica come forma di consumo, di affermazione
della differenza nello spettacolo della nihilazione? Quasi tutti!
3. L'ignoranza non ha mai aiutato nessuno
“Pioveva così forte che i porci si ripulirono e tutti gli uomini s'infangarono”. Lichtenberg
Aver parlato di colonizzazione della vita quotidiana è stato un pleonasmo. La guerra larvata per la
vita corrente ha come forma d'azione la quotidianizzazione dell'esistenza. In generale l'agitazione
sostiene parecchie lotte per la colonizzazione della vita corrente, sotto le forme del suo contrario.
Come ogni lotta per la decolonizzazione, le sue affermazioni comportano felici ambiguità: nelle
loro affermazioni queste lotte di appoggiano a ideologie diffuse, davanti alle quali sono quasi
interamente prive di critica. La depoliticizzazione vi trova un terreno favorevole giacché la varietà
dei rifiuti espressi, pur andando nel senso di un rifiuto di valori tradizionali, non ha niente a che
vedere con il ritorno in scena del passato rivoluzionario, aggiornato o no al gusto attuale. Con il
pretesto della fine della presa di coscienza la sinistra ha contribuito a rinverdire il blasone della
politica, facendovisi affossare, ma ridandole così credito. Questa politica per tutti mira a una
democratizzazione dei ruoli nella politica, insomma (con il pretesto della irresponsabilità) a una
svelata partecipazione a un medesimo stato di cose fondamentalmente incontrollabile: il riformismo
della sinistra e il riformismo estremista hanno teso a confondere ancor più la situazione presente.
La sinistra ha fatto credere a un potere di rivendicazione, l'estremismo a un potere di contestazione.
Qui non si trattava più di semplici carenze che si alimentavano vicendevolmente, ma di gravi
anomalie: invece di cercare di rischiarare la differenza del tempo presente, tutto ciò che si dice
rivoluzionario, cioè il suo esatto contrario, è partito alla ricerca di nuove identità su misura: una
identità femminile, una identità bretone, una basca e altre ancora. Così il disgelo delle antiche
situazioni sclerotizzate ha condotto a nuove felici, cioè redditizie, fissazioni, certamente più precarie
ma non meno offuscanti. Le ambiguità della decolonizzazione consistono nel fatto che malattie
croniche si trasformano in una serie ininterrotta di malesseri che durano poco tempo ma che si
rinnovano non meno. Le dissuasioni di ordine diverso non sono affrontate per quello che sono, per
121
la semplice ragione che questo circuito chiuso non permette di osservarle: l'aspetto mobile
sostituisce lo stato stazionario. L'effetto regressivo è tuttavia cumulativo e perviene agli stessi
risultati. Per vedere del nuovo bisogna fare qualcosa di nuovo e smettere d'indirizzare i nuovi
sguardi attraverso le stesse vecchie fessure.
Di fronte alla crisi mondiale più completa, più moderna e anche meno conosciuta, il riformismo al
potere (non meno internazionale) si organizza, abbatte frontiere, si mette all'opera perché contenerla
è impossibile. Sa che non può farvi fronte: per questo segue l'onda del movimento e intende
utilizzare per fini utili allo sviluppo del capitalismo della nihilazione queste energie che le antiche
strutture non potevano più canalizzare. Sono in corso da tempo grandi lavori di rinnovamento
perché tutti i settori erano da rivedere. Dopo un momento d'irrigidimento, le istanze del capitalismo
mondiale hanno coscienza che non era più possibile nulla di meno della massima spregiudicatezza.
Dunque bisognava andare avanti e prendere in considerazione ristrutturazioni della più grande
ampiezza.
Una volta migliorato, il sogno americano è necessario che si diffonda e che una serie di altri sogni
lavorino insieme: i sogni brasiliano, canadese, messicano, cinese, indiano, siberiano. Tanti sogni,
tante grandiose ricerche e ristrutturazioni e relativa Occidentalizzazione. I vecchi regimi, tanto
condannati da tante manifestazioni nel corso degli anni sono caduti dall'oggi al domani, perché non
rendevano più. Scoppiavano perché il riformismo non ha più bisogno di discorsi e di polizie,
incessantemente all'opera: meno poliziotti e più risultati immediati. Ciò che realizza in pochi giorni,
non l'otterrebbero anni di manifestazioni di sinistra. Ma, sul lato pratico, sul riformismo la sinistra
non ha più senso. I conflitti che minacciano di esplodere possono rallentare e anche danneggiare per
un momento l'estensione e l'ascesa del riformismo, ma mai in ogni caso fermarla. Perché in una tale
situazione, dopo un periodo di ricorso a vecchi metodi di ristabilimento dell'ordine, ripartirebbe più
forte che mai. Ma esso non vuole arrivare a questo punto e preferisce evitarli. D'altro lato tali
disordini non sarebbero neanche l'esumazione del passato rivoluzionario. Neanche il missaggio dei
migliori momenti del passato più remoto costituirebbe una base capace. Sarebbe l'occasione di un
trapasso di poteri e nient'altro per un rapido balzo in avanti del capitalismo sempre dissimulato da
altre crisi, ampiamente esagerate se non semplicemente inventate di sana pianta. I progressi della
messinscena sono notevolissimi e lo sviluppo dell'intelligenza critica è reso difficile dalla diffusione
di macroscopiche distorsioni, comprese le correnti o tendenze che si pretendono rivoluzionarie, e
cioè operano attivamente per l'ordine esistente. Tutte queste forme si prestano ad aumentare la
confusione per il fatto che le correnti ideologiche inventate dalla nihilazione appaiono sempre più
come pure illusioni catastrofiste. Ma si può continuamente contare su un simile aiuto esterno,
fornito dalla nihilazione stessa? O vedere nella sparizione della conoscenza storica la sola
anticipazione consentitaci?
Tuttavia non bisogna confondersi tra queste raffiche di confusione praticata a tutto spiano dall'intero
apparato mediatico. Distinguere l'amico dal nemico e non procedere in maniera cieca è ciò che è
diventato il più difficile compito. La piena occupazione della vita quotidiana è l'anima del
riformismo, ma in assenza di una corrente critica moderna, ciò necessita dell'integrale sfruttamento
del mondo. Quali che siano state le esitazioni dovevano cadere le barriere ideologiche, questo fatto è
una banalità moderna. Le restrizioni alla lunga non pagano, malgrado i nessi logici. In realtà questi
sono una somma di consigli perché è proprio l'estensione della migliore ripartizione, ciò cui mira il
riformismo. Secondo la logica del cliente per cui un granello di sabbia basta per inceppare una
grande macchina, il riformismo ha tenuto conto di quei milioni di granelli che sono gli individui. Se
ne occuperà sempre più seriamente.
E se, in seguito all'eccesso sublime il linguaggio proibisse ormai il proprio uso?
122
A questo punto si levano i partigiani del passato a dire ciò che è stato già detto, ciò che bisogna fare
e che non si è ancora vissuto: vivere in questa catalessi della realtà fino a gettarvisi a corpo morto.
I partigiani del passato che decantano i progressi della vita sociale come gioco della dinamica
sociale, naturalmente vogliono intendere che si tratti del medesimo contenuto di un immaginario
passato veicolato più liberamente e non vedono che il riformismo può liberalizzare molti settori
piuttosto che rinnovare un piccolo romanticismo da strapazzo, dunque fare l'elogio della criminalità,
della violenza, e di tutte le nozioni che si pensa di poter opporre alla banalità. Sono i cantori della
banalità, della mediocrità insaporita dal gusto ineffabile del mistero del tempo in divenire. Infatti
essi ignorano lo sviluppo storico dell'individualità, della sua relazione effettiva col tempo del
capitale. L'insolita eredità da essi ingenuamente accettata, dopo momenti di artificiale esaltazione
suscettibili di riempire il loro vuoto di determinazione, è il loro stesso scoraggiamento.
“Parlano senza pudore di ciò che non conoscono, mescolano la parte maledetta, briciole di Bataille,
di Nietzsche, e reclamano il diritto alla differenza... Essi immaginano che tutti resteranno
impressionati dal loro vaniloquio, che nessuno si renderà conto delle loro spacconate”.
In ogni potere c'è almeno una frangia riformista, che corrisponde allo sfruttamento della cultura
passata, del tempo passato, di un passato che però non va oltre all'affare di essere messo a profitto,
un buon prodotto consumabile che troverà sempre clienti che non l'hanno ancora assaggiato. Tutto
viene pareggiato in barba alle condizioni che ha nel suo nascere, ogni frammento è integrato in un
vasto insieme, mediocre, senza sapore né qualità. E la grande trovata è il diritto alla differenza che
è soltanto il diritto di immettere nel mercato qualsiasi merce.
La pretesa dei progetti classici di insurrezione voleva attaccare l'intero campo dello sviluppo storico.
Dal modo come la faccenda è stata portata avanti, essa aveva preso l'aspetto di un torneo limitato ad
alcuni circoli intellettuali e lo stile ne è stato così segnato. La svolta successiva è stata decisa per
non giustificare la regressione terrorista, da respingere in blocco di qualunque colore sia. La notte
senza contorni delle azioni sommarie non deve trovare orecchie compiacenti, data l'assoluta
mancanza di criteri. Non c'è nulla di eroico nel sostenere l'ondata omicida.
Questa ignoranza del qualitativo delle lotte operaie passate ha sempre caratterizzato le reazioni
ammirate dell'aggressione. Ma, in definitiva, qual è il motivo di questo astratto bisogno di
un'assoluta tabula rasa? La difficoltà della critica fa rinculare gli arditi, compresa l'impotenza a
misurarsi specificamente con lo sviluppo delle condizioni dominanti. Se si ignora a che punto si è,
se non si discerne chiaramente la situazione presente, si è consegnati impotenti a tutti gli intrighi del
potere. C'è ancora qualcosa: nel vuoto lasciato dalla scomparsa dell'IS (ciò in quanto l'IS ha
rappresentato il massimo di serietà nel periodo precedente), l'assenza di ogni rigore ha permesso lo
sviluppo di una ammirata falsificazione nei suoi confronti. Con il pretesto di prendersela con gli
errori ultimi dell'IS, si prendono la rivincita contro quanto di più autentico c'è stato in questo
processo. Poiché la serietà e il rigore ritengono gli individui responsabili delle loro idee e azioni, in
quel caso non c'è una scusante perpetua agli errori commessi. Ma l'IS almeno ha avuto un momento
di realtà, essa resterà per molto tempo ancora il passaggio obbligato dove alcuni dei problemi reali
del nostro tempo trovarono la loro prima comprensione. Una comprensione che non ha saputo dare
allo sviluppo critico a essa sotteso tutta l'attenzione dovuta. Volendo figurare a ogni costo su una
scena politica.
123
4. L'apotenza della critica.
È necessario rettificare il giudizio che quest'epoca dà di se stessa. L'estremo compiacimento di certi
commenti, così come l'allarmismo al polo opposto, dissimulano la differenza radicale tra questa
epoca e le precedenti. Non è più sufficiente gridare la propria rivolta, il malcontento è ormai
sospetto quanto la contentezza, perché il cambiamento radicale non può più partire dalla politica e
ancora meno da miglioramenti economici. Ormai il cambiamento radicale può partire solo dalla sua
origine essenziale, dalla determinazione che gli individui possono raggiungere nella loro critica,
diversamente vissuta, della vita corrente. Non ci sono più scappatoie possibili. Il rimprovero al fatto
che si usi ancora il termine critica può venire solo da coloro che non vedono la critica come un
termine. La critica è il risultato di una relazione vissuta con il mondo contemporaneo, dunque di
una relazione essenziale. Ma per arrivare a ciò si deve contare sulla propria capacità di
discernimento, sul proprio giudizio e correre i rischi conseguenti a una reale indipendenza. Per far
fronte a queste difficoltà, essere abbastanza sicuri, bisogna mettere da parte qualsiasi indolenza alla
quale incoraggiano i partigiani della facilità. Contrariamente alle idee più diffuse, il tempo attuale
non è quello di una totale distensione e di rilassamento.
Il quotidiano è vivere alle soglie dell'angoscia nel tempo della felicità di massa. D'altronde ogni
affermazione fatta in questo ambito è ribaltabile. La critica non è un coagulante sociale, non
avvicina gli individui che tirano conclusioni simili sulla propria vita. Non c'è critica senza critica
della socialità. Le fantasie compensatorie non sono proprietà riservata di un particolare strato
sociale. Queste manifestazioni si trovano in tutto ciò che qualitativamente mostra la vita degli
individui, conferendo loro una indiscutibile debolezza verso quelle di chiunque altro. Esse si trovano
nella fine delle fissazioni, nella sfiducia verso lo sola realtà della situazione presente che diventa
indisponibile al presente.
124
Il tempo sospeso
La notte è la prima prosa dei Canti orfici di Dino Campana. Una città, rossa di mura e turrita, su
una pianura sterminata, immensi archi vuoti di ponti su una palude ai lati di un fiume. È la città di
Dite, la città infernale, sospeso il corso del tempo.
La stessa città potrebbe sembrare quella di De Chirico, per via di una torre barbara che dominava il
viale lunghissimo di platani. Tutto è deserto, le finestre mute, la torre otticuspide rossa
impenetrabile arida è la mitica custode dei sogni dell'adolescenza. Nella generale vacua lucentezza
meridiana vagano dei vecchi e una donna dal riso incosciente. C'è l'ombra del poeta che lo guida a
una porta. Dentro, una donna dal corpo ambrato dorme e poi ascolta curiosa. Una ruffiana dal
profilo di montone racconta fino a sera, fino alla conquista dell'ancella. Ma, sfiorite le rose della
giovinezza, torna a rivivere ciò che è arido e dolce (ma come?), sul panorama scheletrico del
mondo. Sono i ricordi, tormento dei dannati. Scopre ora dietro la ragazza pura e bruna, che tutto era
di una irrealtà spettrale. C'erano panorami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il
cielo in pose legnose. Ora la scena cambia, passa all'ombra dei portici stillata di gocce di luce
sanguigna. Un'altra matrona parla, c'è un'altra fanciulla. Faust era giovane e bello, dice di sé il poeta.
Ero bello di tormento, inquieto, pallido assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fugge verso
le città colossali, e sale sulle nevi delle Alpi. Una fanciulla lo ama e dorme dimentica nei suoi sogni
oscuri. Ancora una forma scheletrica vivente. La matrona abita la capanna ai margini della città, il
poeta esala la sua vita, il suo sangue tiepido, come la fanciulla la sua giovinezza. Le stelle brillano
rosse e calde nella lontananza: l'ombra delle selvagge nell'ombra, la scena nel quadro della porta
aperta. L'intransitabile è stato varcato.
Nella seconda prosa della Notte, Il viaggio e il ritorno, tutti i preludi erano taciuti oramai, la notte
era accesa nel suo brulicame di stelle e di fiamme. Come una mostruosa ferita profondava una via.
Arido rosso e dolce è il panorama scheletrico del mondo, dominato dall'antica nemica, la Chimera
dei sogni. Tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno. Il cuore del poeta era affamato di
sogno, per lei, per l'evanescente come l'amore evanescente: le timide mammelle gonfie di luce, tu
leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il mondo è
popolato di spettri, di autocrati.
Segue la prima poesia, una dedica e un'invocazione alla Chimera, l'antica nemica, regina dell'ignoto
poema. L'invocazione ha sapore dannunziano, da vergini delle rocce.
In Giardino autunnale (Firenze) è notevole la fanfara che straziante sale, per il preannuncio,
sebbene inconsapevole, per chi si opina sulle date, inoltre: stanno le bianche statue a capo i ponti
volte: e le cose già non sono più. La realtà spare, cioè sparisce e dà fuoco. E dal fondo silenzio
come un coro tenero e grandioso sorge... La quale intonazione è maniera del presentire, cioè la
falsità del sentimentalismo. L'ultima parola inganna: dice presente ma intende il contrario. Perché
l'assente, al morente sole che insanguina le aiuole, grida l'ultimo saluto, spettrale.
La speranza (sul torrente notturno) è la Chimera, principessa delle porte aperte della morte, e dei
gorghi della sorte.
Una fatua sera è descritta nell'Invetriata, ma nella stanza c'è una piaga rossa languente, e odore di
putredine. La sua stanza poco importa se si tratta di una lampadina.
125
Il canto della tenebra è dolce, più dolce ancora è la morte, l'ineguagliabile. La sorte ti ha vinto,
lettore, hai assistito a un atto, che sembra d'amore disperato, ma il poeta a cosa pensava?
La sera di fiera fa pensare a un Pascoli meno perverso, sebbene più lubrico forse, ma Campana
vuole far credere che si tratti solo di una canzonetta volgaruccia, da abbandonare di porta in porta.
Elenco delle suggestioni pascoliane:
Il cuore di stasera mi disse: non sai?
… incantava la rosea
freschezza dei mattini
… e soleva vagare quando il sogno
e il profumo velavano le stelle
(che tu amavi guardar dietro i cancelli
le stelle le pallide notturne):
e bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
La petite promenade du poète è la solita, sarebbe niente da dire se non il realismo della saliva
disgustosa nella bocca, via del tanfo, via dal tanfo. Le frequentissime ripetizioni di parole e di frasi
nei Canti orfici devono ricordarci che si tratta di canti.
Il diario della Verna, sembra un saggio di giornalismo dannunziano, una messa in prosa
dell'Alcyone e della pseudofrancescana Sera fiesolana, la prima parte; nella seconda, il poeta ritorna
al suo personale decadentismo (da intendere alla lettera). Ripenso alla mia fanciullezza: quanto
tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta
dell'infinità delle morti! Questo, l'altro, non l'avrebbe scritto né pensato: il tempo è scorso, si è
addensato, è scorso: così come l'acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il
silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l'ombra... Nella
nostalgia, proiettare l'immagine del suo cadavere, appare come un indizio di esclusività.
Le Immagini del viaggio e della montagna sembrano contrassegnate da un impallidito spirito
dannunziano, per esempio, scegliendo a caso, in modo da sbagliare meno:
Come ombre d'eroi veleggiavamo
De l'alba non ombre nei puri silenzi
… Piangendo: giurando noi fede all'azzurro
… Verso le solitudini alte de gli orizzonti
… Ascolta quieto: le note
… Nell'aria non so qual bacchico canto
… Sovra l'arido sogno, serenato!
… La messe, intesa al misterioso coro. Ecc.
Solo un abbaglio, solo ombra che torna, ch'era dipartito..., o quieto è lo spirto mimetico, nel
congedo.
Nel Viaggio a Montevideo ritornano, si tratta di una presenza familiare ormai, le gravi matrone e la
fanciulla della razza nuova, a tenere in tenera compagnia il poeta, che altrimenti si lascerebbe
andare su battelli ebbri e cose del genere.
Batte botte parla dell'occhio disumano del destino e d'un passo che risuona solitario di notte.
126
Nella prosa dedicata a Firenze, dopo i primi due paragrafi, nel primo gli adolescenti vivificano la
bellezza marmorea, nel secondo la sepolta bellezza etrusca di una fanciulla, solo con il terzo, il più
lungo, si entra nel vivo (la nostalgia acuta di dissolvimento) della questione: una delle osterie
malfamate del vico centrale, di fronte a un palazzo rosso dal quale guardano i visi ebeti di prostitute
disfatte. Dietro l'invetriata dell'osteria sono rivolti questi sguardi, al di là del passaggio fetido di un
orinatoio, la muffa dei muri corrosi. Il fumo acre delle pastasciutte acide, le mani inanellate dei
mantenuti, tre minorenni precoci, tre tedeschi sparuti e scalcagnati attorno a un litro.
Con la descrizione in prosa di Faenza riecheggiano motivi già presenti altrove: la grossa torre, la
piazza dai palazzi rossi, le contrade deserte, lo scenario delle logge ad archi bianchi e leggeri e
potenti, un'ostessa pallida, qualche matrona piena di fascino, le nude stampe scheletriche, le
ragazzine dalle lisce gambe lattee. Composta l'immagine finale: grandi figure della tradizione
classica chiudono la loro forza tra le ciglia.
Degna (sempre che si tratti di dignità) del primo surrealismo la prosa Dualismo, lettera aperta a
Manuelita Etchegarray. Prima di Nadja e di Odile. So Manuelita: voi cercavate le grande rivale.
Sogno di prigione: in una cella bianca piena di angeliche voci, nel viola della notte il blu del sonno.
Anika è guidata da un buffo dall'occhio infernale, lei canta, lui grida, passando accanto alle chiese
di marmo bianche. Dal parapetto del cimitero il poeta vede arrivare la porpora del treno con le rosse
occhiaie che si gonfiano. Lui che guarda è anche nel treno indemoniato. Perché alza le braccia nella
luce? Si arrende o si esalta dei contrasti?
Della prosa, La giornata di un nevrastenico (Bologna), vale l'addio; per l'addio ci vuole
un'indifferenza raggiunta e acquisita – infatti avvisa: Tutto mi è indifferente. Di seguito continua:
Oggi risalta tutto il grigio monotono e sporco della città – per la città come riflesso del mondo
(tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi di tutto
quello che ci ha fatto soffrire). Vale come riepilogo dei temi orfici: Passeggio sotto l'incubo dei
portici. Una goccia di luce sanguigna, poi l'ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza
dei seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall'ombra sotto un lampione s'imbianca un'ombra che ha
le labbra tinte. O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall'ombra
mostri l'infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria!
Ma è la poesia Genova che espone in una rassegna completa le ossessioni di cui è intessuta la lirica
di Campana. Il campionario, frettolosamente elencato, presenta, in ordine:
la tacita marina infinita, l'anima partita, il verde sogno arcano, l'apparenza sovrumana, le statue
superbe, le sfingi, segreti dedali, torreggiare bianco, ignoto turbine, la piazza dilagante, l'arcato
palazzo rosso, portico grande, la sinfonia, l'invetriata, rauche grida, porta disserrata, la febbre della
vita, le prostitute, i vichi marini, l'ambigua sera, arabeschi nell'ombra, l'ombra illanguidita, le
Chimere nei cieli, le ali rosse dei fanali, l'eco attonita, irreale riso, rumori lontano, silenzi solenni,
cielo stellare, velario di diamanti, luce mediterranea, ombre di viaggiatori, lune elettriche, ciminiere,
la tristezza inconscia de le cose che saranno, la nube che si forma dal vomito silente, opulenta
matrona, la femmina dei porti, suoni di navi, luce vacillante, cigolava di catene la gru, il debole
cuore, la finestra spenta, nuda mistica la notte tirrena.
127
Le città di sale
Citazioni da Le città bianche di Joseph Roth.
A trent'anni potei finalmente vedere le città bianche che avevo sognato da ragazzo. La mia infanzia
trascorse grigia in città grigie.
Ho ritrovato le città bianche così come le avevo viste in sogno. Soltanto chi ritrova i sogni
dell'infanzia può tornare bambino. Io non avevo osato sperarlo.
Una domenica pomeriggio arrivai a Lione. Questa città si trova al confine tra il Nord e il Sud
dell'Europa. È una città di mezzo.
Il bucato dell'intera città è mondato nel Rodano. (…) E io mi convinco che una città che giace tra
due fiumi sia abitata da gente per bene. L'acqua è un elemento sacro.
Appena dietro la cattedrale comincia Roma, una Roma viva. (…) Le pietre gareggiano in luminosità
con la luna, e il Rodano e la Saona scorrono in incantevole armonia, uno veloce, l'altra circospetta,
ma diretti alla stessa meta.
Vienne è morta nel fiore della sua bellezza, e in ciò è davvero simile a una dea spodestata. Non si è
logorata, non è decaduta.
Avignone è la più bianca di tutte le città. Non ha bisogno di boschi. È un giardino di pietra cosparso
di fiori di pietra. (…) La sua pietra è bianca e sconfinatamente tragica.
Oggi non giacciono forse queste epoche in pace l'una accanto all'altra, essendosi esaurita la forza di
entrambe?
Nel primissimo vagito della civiltà di una razza ormai da lungo tempo divenuta invisibile,
appartenente a una parte del globo inghiottita dal mare, in quel primissimo vagito era già racchiusa
la nostra ultima e definitiva civiltà. Non esiste l'illimitato e puro avvenire così come non esiste
niente che vada completamente perduto. Nell'avvenire c'è il passato.
Dalla pietra, dal sole, dal fogliame e dall'umidità nasce quella meravigliosa luce del giorno che ci
capita talvolta di sognare. Il soffitto consiste di ampie e lunghe volte. I santi si appoggiano alle
molte colonne binate che separano il cortile dal porticato. Ogni santo ha donato un cantuccio a una
coppia di rondini. Ognuno di loro deve prendersi cura di due uccelli.
I mostri mitologici farebbero bene a restare nel Nord, dove la nebbia li isola e ne accresce la
mostruosità. Quando scendono a Sud, la gente perde distanza e rispetto nei loro confronti.
(Marsiglia) Qui si frantuma tutto ciò che sembrava immutabile. Ma poi si ricompone. Costruzione e
distruzione si susseguono incessantemente. Nessuna epoca, nessun potere, nessuna fede, nessun
concetto qui è eterno. Chi posso chiamare straniero? Lo straniero è vicino.
128
Qui non si è disposti facilmente a versare il proprio sangue. Qui si trova un'infanzia, la propria
infanzia e quella dell'Europa.
Ciò che dico non viene preso alla lettera. Ciò che taccio è stato sentito. La mia parola è ancora
lontana dall'essere mancanza di carattere. Il mio silenzio non è enigmatico. Ciascuno lo capisce.
È come se non si dubitasse della mia puntualità, benché il mio orologio sia sbagliato. Non si
deducono le mie qualità dalla qualità di uno dei miei attributi. Nessuno regola la mia giornata. Se la
perdo è stata comunque la mia giornata. (Un perdigiorno! Tagedieb – Com'è tedesca questa
parola! A chi appartengono i giorni che abbiamo rubato a noi stessi?).
Nota: Le città di sale, e di gesso, di calce e di vetro. “Qui dunque giacciono le rovine di Les Baux.
(…) Ora la roccia è di nuovo roccia”. L'illusione della trasparenza e della quiete del tempo si
sedimenta comunque in nostalgia (l'ultima parola del testo di Joseph Roth). Ma anche ciò che riluce
candido al cielo turchino è amaro. A Marsiglia, annota Roth, la povertà è peggio che miseria. È un
inferno dal quale non si sfugge. D'altronde, anche se tutte le persone della mia generazione sono
scettiche, egli dice, si finisce per ritrovare ciò che non si credeva d'avere mai posseduto. Così si
spiega la domanda posta alla fine di questa escursione sul testo di Roth, con cui egli aveva
inaugurato la sua.
129
The wrong sector of the right side
Nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, che tutti sanno che è il migliore romanzo sulla resistenza,
Johnny si sente fuori posto tra i comunisti. Tito ha diciannove anni appena compiuti. I
giovanissimi, i ventenni come Tito conoscevano e giudicavano l'esercito soltanto dietro l'8
settembre, per cui la sprezzante sufficienza del silenzio era la più alta clemenza rivolta a ogni cosa o
detto attinente l'esercito. Ma neppure Tito è comunista: Sono nella “Stella Rossa” perché è la
formazione che ho incontrato, dice, il merito è loro d'averla organizzata e d'avermela presentata a
me che tanto la cercavo, come finora non ho cercato niente altrettanto intensamente.
Johnny, se non avesse trovato le formazioni azzurre, avrebbe dovuto morire con essi, con l'umanità
inferiore. Inoltre, ormai era schierato nel grande dualismo a prezzo dell'immediata, indisquisibile
esecuzione. In Omaggio alla Catalogna, oltre ai comunisti di Stalin, c'erano quelli del POUM e gli
anarchici. Per Fenoglio, la scelta di Johnny è rimarcata da una lombrosiana superiorità (nessuno era
lontanamente della sua classe, fisica e non). L'ideologia si deve fare natura, per divenire fatale.
130
La teoria non cerca la pratica
Se le idee sviluppate dalla teoria, almeno in minima parte, avessero avuto un inizio di realizzazione
pratica massiva, il mondo sarebbe già stato cambiato... recita La théorie en quête d'une pratique
tratto da Le fils de Mr. Hyde del 1978.
Il fallimento pratico della teoria l'avrebbe mostrato il dopomaggio all'estensore del documento
sarebbe dovuto al fatto che le pratiche isolate non possono che indebolirsi e sparire. La pratica
rivoluzionaria merita di essere conosciuta e deve scavalcare il muro del silenzio, deve farsi pubblica
e non solo sotto forma di una constatazione d'esclusione.
La teoria resta in cerca di una pratica coerente e generalizzata.
Ma, bisogna dire, se la teoria ha fallito praticamente non è stato un insuccesso passato sotto silenzio,
neppure è stato un insuccesso che non abbia avuto pubblici e numerosi testimoni e comparse
praticanti. Questo non può sfuggire a nessuno. Che la società attuale si giustifichi attraverso la paura
di tutti verso tutti gli altri non è cosa da poco, e neppure che la paura generi un mercato, per cui la
merce più pregiata sia pagata a prezzo di rimozioni e di mutilazioni sordide. La teoria non è una
merce, ma se non lo è, giacché afferma di non esserlo, spesso però tende ad essere ancora più simile
a ciò che dice di non essere. La solidarietà umana è in effetti la vera insicurezza.
La teoria deve essere compresa come l'intelligenza di una situazione storica e personale, si dice nel
testo, per cui piacerebbe sapere come le due cose siano andate d'accordo, per chi l'ha formulata, dato
che, di solito, ha potuto accontentare solo l'una o l'altra.
131
Envoi de l'envie
su Shakespeare. Il teatro dell'invidia
di René Girard.
Tra concordia e discordia vi è una perfetta continuità, tanto cruciale per Shakespeare quanto lo era
per i tragici greci, e non meno inesauribile quale fonte di paradosso poetico. Se vogliono che la loro
opera sopravviva alla transitorietà delle mode, i drammaturghi come i romanzieri devono scoprire
questa sorgente essenziale del conflitto umano – cioè a dire la rivalità mimetica – e devono scoprirla
da soli, senza ricorrere all'aiuto di filosofi, moralisti, storici o psicologi, che sull'argomento
osservano un silenzio unanime.
• La questione degli altri.
Shakespeare può essere esplicito riguardo al desiderio mimetico come lo sono alcuni di noi, e il suo
vocabolario è abbastanza vicino al nostro da consentirci di comprenderlo immediatamente. Parla di
desiderio suggerito, di suggestione, di desiderio geloso, di desiderio d'emulazione e via dicendo.
Ma la parola essenziale è invidia, usata da sola o in espressioni quali desiderio invidioso o
emulazione invidiosa.
• Qui sono gettate le basi di un discorso, che vuole essere inteso come solitario e solido,
solidamente solitario, solido nella misura in cui è solitario, ma anche solitario perché l'unico
solidamente fondato. Il pretesto.
• A metà del volume shakespeariano Girard ripropone un esempio di terminologia, con la
parola emulation, emulazione, che “aveva un connotato peggiorativo, e significava
semplicemente rivalità mimetica. È uno dei termini più usati da Shakespeare: insieme a
emulous, in Troilo e Cressida appare sette volte. Se lo consideriamo sinonimo di rivalità
mimetica, comprendiamo perché egli qualifica tale emulazione pallida e spossante: essa
divora in modo insidioso la sostanza di tutto quello che tocca, lasciandosi dietro solo una
conchiglia vuota”.
L'invidia brama l'essere superiore che né l'oggetto desiderato né colui che lo desidera, ma soltanto
una congiunzione dei due sembra possedere. Involontariamente, l'invidia testimonia di una
mancanza di essere che disonora l'invidioso, soprattutto dopo la celebrazione nel Rinascimento
dell'orgoglio metafisico. Per questo motivo, l'invidia è il peccato più difficile da confessare.
Scopo del presente lavoro è quello di mostrare che quanto più un critico si attiene rigorosamente a
un approccio mimetico, tanto più resta fedele a Shakespeare. A molti, non c'è dubbio, tale
riconciliazione tra critica pratica e teorica sembrerà impossibile. Questo libro vuole dimostrare che
hanno torto. Non tutte le teorie si equivalgono in rapporto a Shakespeare: la sua opera obbedisce
agli stessi principi mimetici che io applico nell'analisi di essa, e vi obbedisce in modo esplicito.
132
Due giovani che crescono insieme imparano le stesse lezioni, leggono gli stessi libri, fanno gli stessi
giochi, e concordano quasi su tutto. Tendono anche a desiderare gli stessi oggetti. Lungi dall'essere
un fattore marginale, questa continua convergenza è un elemento costitutivo della loro amicizia: si
manifesta in modo talmente regolare e inesorabile, che sembra preordinata da un destino
soprannaturale. In realtà si basa su una imitazione reciproca, così spontanea e continua da restare
inconscia.
Questo tipo di imitazione non ci stupisce. Ci è facile immaginare ciascuno dei due gentiluomini che
copia il modo d'essere dell'altro, le sue abitudini, il suo accento, i suoi sentimenti di simpatia come
quelli di antipatia, e tutto ciò alla maniera ancora infantile e innocente di due giovani amici. Non
pensiamo mai, invece, a quello che rivela il desiderio di Proteo per Silvia, all'imitazione di tipo
conflittuale.
Ogni volta che non vedono il mondo con gli stessi occhi, i nostri amici sentono che qualcosa non va.
Ognuno dei due cerca di persuadere l'altro a riorientare il suo desiderio in maniera tale da farlo
coincidere di nuovo con il proprio. L'amicizia è questa coincidenza costante di due desideri. Ma
invidia e gelosia non sono due cose diverse. La mimesi del desiderio è a un tempo il meglio
dell'amicizia e il peggio dell'odio. Questo evidente paradosso svolge nel teatro di Shakespeare un
ruolo di primo piano.
La retorica, di questi tempi, è tornata di moda, ma curiosamente per la stessa ragione che aveva
portato i nostri predecessori a metterla da parte: il suo disinteresse per la verità, che lusinga il nostro
compiacimento per noi stessi. Noi aspiriamo a un divorzio totale tra linguaggio e realtà, e siamo
così certi di trovarlo nella retorica che il nostro nichilismo si sente rassicurato.
• Nulla da dichiarare, apparentemente, ma qui si trova, non certo negletta, l'obiezione che
l'autore trascura di fare al soggetto dichiarante. Una teoria del desiderio mimetico,
dell'invidia gelosa, pone il suo autore su un doppio piano, di soggetto mediatore e soggetto
mediato.
Valentino è un mezzano involontario, che prefigura quello consapevole delle commedie della
maturità. Si dà da fare così assiduamente contro i propri interessi, che viene da chiedersi dove si
trovi il suo vero desiderio.
I nostri desideri non sono veramente convincenti finché non sono rispecchiati da quelli altrui.
Appena un gradino al di sotto della piena coscienza, anticipiamo le reazioni dei nostri amici e
cerchiamo di incanalarle nella direzione della nostra scelta incerta, direzione da cui il nostro
desiderio non deve mai deviare se non vuole apparire mimetico. Una determinazione del genere non
è preordinata come di solito si crede. Con l'aiuto del suo modello condizionato mimeticamente,
Valentino consolida il proprio desiderio ancora esitante, trasformando in tal modo in una verità
completa la mezza verità del suo amore per Silvia.
L'ansia di Valentino di veder nascere il desiderio mimetico in Proteo è essa stessa mimetica, e
l'asimmetria della posizione in cui si trovano rispettivamente i due amici, invece di distruggere, crea
la simmetria fondamentale della loro collaborazione mimetica.
Lo stesso individuo che fa quanto è in suo potere per comunicare il proprio desiderio all'amico,
diventa folle di gelosia al minimo accenno di successo.
133
Accanto all'imperativo tradizionale dell'amicizia imitami ne è apparso misteriosamente un altro
non imitarmi. Tutti i sintomi patologici sono reazioni all'incapacità dei due amici di affrancarsi da
questo duplice legame, o anche solo di percepirlo chiaramente.
Se è vero che di tutti i nemici il peggiore è un amico, dovrebbe seguirne che il migliore di tutti gli
amici è un nemico. Se questo paradosso sembra un'esagerazione, basta rileggere il Coriolano,
l'ultima delle grandi tragedie shakespeariane. Invece di due amici stretti che diventano nemici e poi
di nuovo amici, Coriolano e Aufidio sono due feroci guerrieri e rivali all'ultimo sangue che per
qualche tempo diventano amici intimi.
Lo spirito tragico opera secondo il principio: più intenso è il conflitto, meno spazio vi è per la
differenza. Shakespeare formula questa cruciale verità mimetica in vari modi: non appena i conflitti
li leggiamo in una luce mimetica, la loro razionalità diventa evidente.
Gli uomini più orgogliosi vogliono possedere gli oggetti più desiderabili. Non saranno mai sicuri di
goderne appieno, fintanto che la loro scelta sarà esaltata soltanto da vuote adulazioni: chiedono una
prova più tangibile, che li desiderino altri uomini, in gran numero e tra i più prestigiosi. A questo
desiderio essi devono sconsideratamente esporre il loro tesoro più prezioso.
Il Sogno di una notte di mezza estate è un'opera mimetica, ma di un genere più complesso di quelle
che la precedono. Invece di un unico rapporto, qui abbiamo un aggrovigliarsi di interazioni
mimetiche, una lunga escalation di rivalità che al loro culmine giungono a un tale grado di ferocia
da sfociare nel caos più violento. Appena toccato il fondo, tuttavia, l'intera struttura subito inizia a
risalire verso la luce, lasciando intravedere una conclusione felice.
I quattro innamorati, il loro desiderio è ossessionato dalla carne, ma totalmente disgiunto da essa.
Non è mai istintivo e spontaneo, non può mai basarsi sul piacere degli occhi e degli altri sensi. Il
desiderio è sempre attirato dal desiderio allo stesso modo in cui, in un'economia speculativa, il
denaro lo è dal denaro. Naturalmente, potremmo dire che i quattro personaggi amano l'amore. Ciò
non è del tutto sbagliato, ma l'amore in generale non esiste, e una tale formulazione oscura il punto
cruciale: la presenza di un modello che è trasformato in rivale, la natura di necessità gelosa e
conflittuale della convergenza sullo stesso oggetto.
Shakespeare fa della satira su una società di cosiddetti individualisti, in realtà totalmente asserviti
gli uni agli altri. Prende in giro un desiderio che cerca sempre di differenziarsi e distinguersi tramite
l'imitazione di qualcun altro, ottenendo sempre il risultato opposto: Sogno di una notte di mezza
estate è un primo trionfo della moda unisex. Al centro della commedia vi è un processo di
simmetria crescente fra tutti i personaggi, e tuttavia non così perfetto da far apparire goffa la sua
dimostrazione.
La circolarità cacofonica nel testo inglese Some true love turned and not a false turned true –
suggerisce ironicamente il contributo paradossale delle ideologie differenzialiste e individualiste
alla crescente uniformità mimetica. Il differenzialismo è l'ideologia dell'impulso mimetico portato al
più alto (e più comico) grado di autodistruzione inconsapevole. Tutto ciò assomiglia in maniera
stupefacente al nostro mondo contemporaneo.
• Nota del lettore. La circolarità del verso non è cacofonica ma didascalica.
134
La tradizione degli ostacoli esterni e dei tiranni non mimetici è l'essenza stessa della tradizione
comica. Oggi più che mai: su di essa si fonda l'ideologia della psicoanalisi, quella della nostra
controcultura, di ogni sorta di liberazioni, di tutto ciò che ruota intorno al culto della giovinezza.
Oggi più che mai essa si prende sul serio: noi tutti dobbiamo far finta i credere che la giovinezza sia
perseguitata. Ogni generazione ripropone questo messaggio quasi sia un qualcosa di completamente
nuovo, cui nessuno aveva mai pensato prima. Fin dal tempo dei Greci, il teatro è stato un veicolo
importante di questa ideologia, ma Shakespeare costituisce una insigne eccezione. Il suo
atteggiamento è così insolito che, pur di non accettarlo, lo si ignora.
• Nota: René Girard, in questo passo, nega una generalizzazione, sebbene per essa un qualche
significato, e qualche malizia, questi tempi sottendano, per subordinare la negazione al
ricevimento di un'altra generalizzazione, l'incomprensione del maestro, della sua opera, che
a lui tocca ristabilire correttamente. A tutti gli altri studiosi dell'opera shakespeariana,
quattro secoli di interpretazioni, esistono solo come generica entità collettiva, plurale
mistificazione versus Girard.
• Nell'introduzione l'autore scrive: Il termine interpretazione, inteso nel suo significato
corrente, non è quello più appropriato per descrivere il mio lavoro. Io mi sono prefissato un
compito più elementare: leggere per la prima volta alla lettera un testo che non è mai stato
analizzato con l'occhio attento a temi essenziali alla letteratura drammatica quali sono il
desiderio, il conflitto, la violenza, il sacrificio.
• Ma ciò che è detto elementare è ciò che ribalta la questione, ciò che rende inconsapevoli tutti
gli altri.
Anche amore e odio sono la stessa cosa, e il desiderio mimetico è l'essenza di entrambi. Le due
antagoniste fraintendono quel che accade esattamente nella stessa maniera. Nessuna delle due può
credere che l'altra abbia tradito in alcun modo l'amicizia o l'amica, e nessuna lo ha veramente fatto:
ciascuna si sente tradita dall'altra.
Doppi è il termine della teoria mimetica per indicare questo rapporto, che non è immaginario come
sostiene Lacan, ma assolutamente reale, e costituisce la base di ogni fraintendimento nella
commedia e di ogni conflitto nella tragedia. Quanto si è detto nel primo capitolo su Valentino e
Proteo, può essere qui ripetuto di Ermia ed Elena. Ma questa volta l'accento cade su qualcosa che
nell'opera precedente era appena suggerito: l'identità e la reciprocità costanti dei due protagonisti al
centro del conflitto che li oppone.
Il desiderio rende la sua verità mimetica sempre più visibile man mano che la sua storia interna si
rivela. Questa evoluzione è sempre già iniziata: destino del desiderio mimetico è quello di appagare
se stesso ogni qualvolta gli si presenta la possibilità di seguire il proprio corso fino alla fine.
Sono molti gli adolescenti che provano un'intensa attrazione per quei compagni di scuola che
sembrano riuscire in tutto, e tale esperienza può o meno segnarli per la vita. Shakespeare è uno
splendido esempio di quello che nella nostra epoca barbara sembra impossibile: il poter affrontare
con equilibrio e ironia questioni così appesantite dal bagaglio delle ideologie, che al più timido
accenno ci sembra di essere investiti da una valanga.
• Il timore della valanga, all'accenno di problemi adolescenziali, sembrerebbe più di
incongruità che di delicatezza, segnale, tuttavia, a discarico del teorico, poche righe prima
135
non c'era esitazione di timorosa prudenza ad affermare che l'approccio di Freud appare
rigido ed essenzialista, cioè volgare.
Più soccombiamo al mimetismo del desiderio, e meno percepiamo la legge mimetica che governa il
nostro comportamento, come il nostro linguaggio. I quattro innamorati passano il tempo a
insegnarsi l'un l'altro una lezione che nessuno di loro capirà mai. Tutti i pezzi del puzzle si trovano
al posto giusto, perfettamente incastrati, e man mano che le due ragazze si scambiano le loro
opinioni, anche il quadro d'insieme si precisa sempre meglio. Tuttavia a coloro che l'hanno
composto continua a sfuggire il suo significato.
Tutti e quattro gli innamorati rincorrono lo stesso sogno ontologico attraverso lo stesso metodo,
assurdamente controproducente. Più insistono, più si perdono nel labirinto della notte di mezza
estate, e non passerà molto tempo prima che le loro ridicole incomprensioni si traducano in una
violenza da incubo. Ognuno di loro è responsabile di quello che accade, ma nessuno lo scoprirà
mai.
“Io ucciderò lui, ma lei sta uccidendo me”.
La preferenza data agli ossimori non è una questione di scelta stilistica: riflette l'ambivalenza del
desiderio per un mediatore a un tempo idolatrato come modello e aborrito quale ostacolo
insormontabile. Shakespeare si prende gioco dei suoi personaggi, ma non di coloro che lo ascoltano
con un po' di attenzione.
• Il grande gioco di Girard e Shakespeare. “Tutte le affermazioni retoriche diventano prima o
poi letteralmente vere”. (…) “Noi misconosciamo questa verità perché non è oggettiva né
soggettiva, ma interindividuale”, (intersoggettiva).
Ogni affermazione è vera in rapporto alla posizione di chi parla nell'ambito della sua configurazione
del desiderio. Dal momento che il numero di queste posizioni è limitato e ciascun membro del
gruppo le occupa tutte a turno, la retorica dà sempre una immagine accurata di quel che accade.
Il mito è inseparabile dalla simmetria violenta dei doppi mimetici, e non è una coincidenza casuale
che in tutto il mondo i protagonisti del mito sono spesso proprio i doppi.
Il desiderio mimetico trasforma gli esseri umani in mostri morali oltre che fisici.
I quattro innamorati appartengono alla media del genere umano: come la maggior parte di noi,
hanno la tendenza a eludere qualsiasi cosa possa minare le loro rassicuranti certezze, e a pensare
come individui autonomi. Gran parte degli spettatori somigliano a Lisandro e a Ermia per il fatto
che capiscono non quello che i versi dicono veramente, ma quello che i personaggi in realtà
intendono dire, che è poi quello che vogliono sentire.
• Il pubblico non capisce niente, di questo si tratta, per fortuna che coloro non capiscono
perché altrimenti potrebbero prendersela. Ma Shakespeare, in questa interpretazione, “non
ha nulla da temere”.
• Neppure il lettore capisce qualcosa, naturalmente, essendo la dichiarazione già implicita
nella questione della mimesi. L'implicazione mimetica annulla ogni critica in sintomo.
• Più avanti Girard specifica nettamente un aspetto decisivo della mimesi: “La mimesi è per
sua natura percettiva, e coglie immediatamente la più piccola discrepanza tra le parole e le
136
azioni dei suoi mediatori: se tra le une e le altre vi è uno scarto, si ispirerà sempre a ciò che
il modello fa, non a quello che dice”.
• Il non capire nulla non è privo di sensibilità percettiva.
Quando percepiamo vagamente la distanza che separa la sua, di Shakespeare, concezione del
desiderio dalla nostra, con aria costernata ci ammoniamo gli uni con gli altri osservando che egli
potrebbe essere un conservatore. Nel campo del desiderio, consideriamo sempre sovversive e nuove
le idee che amiamo, e che in realtà sono sempre le più conservatrici, i cliché già logori all'epoca del
Rinascimento, che Shakespeare derideva nelle sue commedie.
Il carattere satirico dell'opera è suggerito dal titolo stesso, Come vi piace. Rivolgendosi agli
spettatori, l'autore annuncia che, per una volta, non ha scritto il proprio genere di commedia, ma il
loro. Come tutti i grandi satiristi, Shakespeare deve essere stato assediato dalle richieste di una
visione meno scoraggiante del genere umano. Ai grandi scrittori mimetici si chiede sempre di
rinunciare all'essenza stessa della loro arte, il conflitto mimetico, a favore di una visione banalmente
ottimistica dei rapporti tra gli uomini, sempre descritti come gentili e umani, mentre tutto ciò riflette
in realtà l'ipocrisia più crudele.
• L'economia politica della teoria mimetica. La teoria mimetica si presta, in maniera
inconfutabile, a divenire la teoria di tutto ciò che mette in relazione individui tra di loro, cioè
la teoria complessiva e generale.
“... Cogliete l'occasione, vendete, non è roba / che va in tutti mercati”.
La metafora di quest'ultimo verso è perfettamente in sintonia con le teorizzazioni recenti di alcuni
economisti riguardo al carattere mimetico della speculazione finanziaria. JeanPierre Dupuy e altri
hanno interpretato alcune osservazioni di Keynes alla luce della teoria mimetica. Secondo loro, in
un regime di mercato libero i valori fluttuano in funzione non della legge della domanda e
dell'offerta, ma della valutazione di ogni singolo speculatore della stima che nel loro insieme gli
speculatori faranno del rapporto tra domanda e offerta. Siamo molto lontani da una legge obiettiva
in sé: intesa in questo modo, la legge della domanda e dell'offerta non può mai determinare una data
situazione direttamente, dal momento che è sempre soggetta ad essere interpretata, e ogni
interpretazione è mimetica e autoreferenziale.
Gli economisti si occupano di un gioco mimetico che gran parte di loro sottovaluta per via di una
credenza feticistica nei cosiddetti dati oggettivi. I calcoli matematici possono elaborate dei dati
oggettivi, ma non possono tener conto delle interpretazioni: per questo motivo, non esiste quantità di
dati economici abbastanza grande da rendere una previsione infallibile.
Il termine narcisismo al giorno d'oggi è usato comunemente come sinonimo dell'amore di sé degli
elisabettiani. Parlare di narcisismo invece che di amore di sé sembra più scientifico, ma il significato
è lo stesso. Il termine non designa un attributo naturale, come la parola carattere, ma è altrettanto
fuorviante poiché analogamente a quest'ultimo implica che nella nostra struttura psichica esista un
elemento più o meno permanente. Un concetto del genere non può che essere d'ostacolo alla
comprensione di Shakespeare.
Freud non ha mai dipanato il mistero fondamentale di due (o più) desideri che una discordia
insanabile divide violentemente perché troppo concordi, cioè perché si imitano reciprocamente.
137
In un passo della Recherche, Proust osserva che, in materia di desiderio, ogni malgré è un parce que
mascherato. Ciò è vero del malgrado di Olivia: lei dice esplicitamente che il rifiuto di Cesario
l'affascina, e che le piace vederlo nel disdegno e nell'ira del suo labbro. Olivia si innamora non
malgrado l'atteggiamento sprezzante di Viola, ma in conseguenza di esso. Cesario le sembra un sole
così abbagliante da spegnere il proprio.
Il duca Orsino sa che nessun oggetto desiderato, finendo nelle sue mani, può mantenere il proprio
fascino a lungo. Solo un rivale vittorioso può dare vigore al desiderio, dato che quest'ultimo è
irrevocabilmente autodistruttivo. L'unica soluzione radicale per affrancarsi dalla sua tirannia è la
rinuncia totale.
L'esperienza insegna che vi è un qualcosa di insoddisfacente in tutti gli oggetti che possono essere
posseduti: ma non dice nulla, strettamente parlando, sugli oggetti che non possono essere posseduti.
Orsino è fiducioso di poter fare in modo che Olivia resti per sempre crudele. Dato che il suo
desiderio è il modello dell'amore di sé di Olivia, egli pensa che basta congelare per un tempo
indefinito la situazione a proprio favore perché continui a desiderarla, e perché lei respinga non solo
lui, ma ogni altro innamorato possibile: Olivia sarà l'eterna prigioniera del proprio monumentale
amore di sé stessa ecco il regalo che le fa Orsino.
Lungi dall'essere una nuova trovata escogitata dalla televisione, l'arte di sedurre per interposta
persona è vecchia quanto l'umanità: risale alle religioni primitive e non è mai passata di moda. Nel
mondo contemporaneo, ovviamente, è più importante che mai. La tecnologia moderna accelera gli
effetti mimetici. Li ripete ad nauseam, ed estende il loro raggio d'azione al mondo intero, li
trasforma in una industria di tutto rispetto che noi chiamiamo pubblicità, ma senza modificarne la
natura intrinseca.
Cressida manca sì d'esperienza, ma è intelligente e d'istinto comprende quali restrizioni una donna
deve imporre a sé stessa, se vuole sopravvivere nella giungla della strategia erotica. Tale strategia
richiede che una donna accorta non si conceda al proprio innamorato: il buon senso le suggerisce di
tener conto della natura mimetica del desiderio di lui.
La costanza di un innamorato è inversamente proporzionale alla premura con la quale la sua amante
ne soddisfa i desideri.
Cressida fa a Troilo solo ciò che prima o poi Troilo avrebbe fatto a lei, se solo gliene avesse lasciato
il tempo. Dopo aver passato la notte con Cressida, Troilo pensava che sarebbe stata per sempre alla
sua mercé, ma lei lo ha trascinato in una trappola dalla quale, questa volta, egli non può uscire.
Troilo e Cressida è un test divertente per verificare la nostra perspicacia mimetica.
• Perché limitarsi al Troilo e Cressida?
Se i desideri cominciano ad allontanarsi da un oggetto, se ne allontaneranno sempre di più, e sempre
più in fretta, in virtù dello stesso circolo vizioso che in precedenza li aveva attirati, e che adesso
opera in senso opposto. Di lì a poco, i soldati non adoreranno più il loro idolo, e Achille si sentirà
del tutto spodestato.
138
Il punto essenziale è il predominio degli altri nella vita delle persone famose, il cui successo non
diventa reale se non possono vederlo riflesso negli occhi di coloro che li guardano.
L'essere del piacere è fornito dagli altri.
“Il tempo è come / un padrone di casa alla moda: all'ospite che parte stringe / appena la mano, e a
braccia aperte / vola incontro a quello che è in arrivo”.
Questi ultimi versi fanno pensare a certi presentatori della televisione americana che, disponendo
solo di pochi istanti tra due stacchi pubblicitari, accolgono il loro ospite come fosse un messia, per
poi congedarlo poco dopo come l'ultimo dei miserabili. I nostri tempi non sono che una versione
riduttiva di fenomeni che risalgono tutti alla prima modernità, all'epoca di Shakespeare, e che sono
già stati messi in risalto da lui. Solo grazie alla nostra incrollabile presunzione possiamo
considerarci gli inventori della nostra stessa nullità: la quale è ingigantita, ma non modificata
radicalmente dalla tecnologia.
I grandi autori drammatici, ivi compresi Moliére e Racine, hanno delle affinità maggiori con i
nemici che con i difensori del teatro. Il loro genio implacabile rigetta le ovvietà dell'idolatria
culturale. Il grande teatro non è mai fiorito se non in quei periodi nei quali era osteggiato e bandito.
Troilo e Cressida è antiaristotelica a oltranza; credo che non sia eccessivo definirla come il vero
teatro della crudeltà che Artaud ha sempre sognato, senza mai poterlo realizzare.
Alla disintegrazione del degree (gerarchia) corrisponde un dilagare della rivalità mimetica così
imponente che somiglia alle epidemie la cui evocazione è ricorrente in quadri apocalittici come
quello delineato nel discorso di Ulisse. Le epidemie sociali e patologiche sono esse stesse prive di
differenziazioni. Il principio differenziale sembra avere la funzione di sopprimere la rivalità
mimetica: di tanto in tanto, però, soccombe di fronte all'attacco virulento del male che avrebbe
dovuto prevenire.
• La rivalità mimetica dovrebbe essere accentuata dal principio differenziale della gerarchia.
Al contrario di quel che crediamo, ai suoi tempi il gergo convenzionale era già quello di oggi: il
desiderio non può essere nel torto, esso è sempre puro, innocente, amante della quiete. La satira
shakespeariana è tanto discreta quanto implacabile.
Se fosse vissuta negli anni Sessanta, Ermia avrebbe certamente rivendicato il diritto di ciascuno a
fare quello che gli va. In realtà, fa sempre quello che vogliono gli altri: che obbedisca o no al padre,
lascia decidere d'amore gli occhi degli altri.
Excursus:
• “I due gentiluomini di Verona è una commedia di rivalità mimetica, ma si tratta ancora,
innanzitutto e soprattutto, di una commedia su una figlia alla quale il padre davvero
impedisce di sposare l'uomo che ama”.
• Il davvero usato da Girard, sembra una parentesi che esprima un pensiero contrastante a
quello del discorso aperto, una specie di a parte in un dialogo comico.
• Tuttavia alcune pagine dopo si trova un'affermazione che pareggia lo sbilancio, a conferma
del pentimento del pentimento: “drammatico ha esattamente lo stesso significato di
139
mimetico”.
• Più avanti ancora, un altro passo indietro: “Il Sogno di una notte di mezza estate è l'opera più
effervescente che Shakespeare abbia mai scritto, la più anticipatrice riguardo a molti aspetti
del processo mimetico. Tuttavia, vuoi perché si tratta di una commedia, vuoi, forse, perché
appartiene al primo periodo di Shakespeare, essa non offre una presentazione esplicita del
ciclo mimetico e del meccanismo della messa a morte collettiva quale abbiamo incontrato
nel Giulio Cesare”. Il ciclo mimetico sarebbe riconsiderato come implicito e parziale,
dunque.
Laddove la maggior parte degli scrittori moderni dà per scontato che, per perpetuarsi, il potere abbia
a sua disposizione delle risorse illimitate e una volontà non solo intelligente ma infallibile e
demoniaca, Shakespeare pensa esattamente il contrario. Il potere, laddove esiste, è di continuo
minacciato, e si trova sempre sull'orlo del collasso poiché è affascinato dalla propria distruzione.
La più profonda aspirazione del potere è l'abdicazione.
Una volta che la rivalità mimetica oltrepassa una certa soglia, i rivali ingaggiano tra loro lotte
interminabili, il cui effetto è di renderli sempre più indifferenziati: diventano tutti dei doppi gli uni
degli altri.
L'invidia ama nascondersi, ma non può rinunciare alla compagnia, dal momento che vuole fare
adepti, e per contagiarli deve mettersi in mostra.
Il risentimento politico e l'ammirazione personale sono i due volti della rivalità mimetica.
Bruto vuole salvare la Repubblica, ma la Repubblica non vuole essere salvata.
La libertà è morta, e in ultima analisi non importa se la gente segua Bruto o Marco Antonio.
Potendo scegliere, preferisce il più volgare ma, in assenza di un vero demagogo, è pronta a seguire
chiunque. Ormai non è altro che una massa mimetica alla ricerca di modelli.
Il vero modello è l'assassinio di Cesare, e il desiderio di vendicare il capo assassinato si inscrive
nella mimesi della cospirazione. Cinna è la prima vittima del tutto estranea e innocente.
Una folla non è mai a corto di ragioni per massacrare le sue vittime. Più esse appaiono numerose,
più in realtà sono insignificanti.
La tendenza generale è chiara: è necessario sempre meno tempo e bastano ragioni sempre più futili
perché un numero crescente di persone si polarizzi contro un numero corrispondente di vittime.
In Shakespeare, come in tutti i grandi scrittori mimetici, l'indecidibilità politica è la regola.
Shakespeare non cerca di essere imparziale.
Per Shakespeare, la reciprocità mimetica è ciò che struttura i rapporti umani.
• Infine la conclusione: “La violenza dell'assassinio di Cesare è diventata la violenza
140
fondatrice dell'Impero romano”. La spiegazione: Secondo la teoria mimetica, le comunità
umane si uniscono intorno alle loro vittime trasfigurate perché in precedenza si erano unite
contro di esse”. “Il processo della violenza collettiva, che sia o meno unanime, è sempre una
versione di quel che chiamiamo capro espiatorio”.
Nessuno ha percepito più chiaramente di Shakespeare la tendenza propria dell'uomo alla violenza
arbitraria e la maniera in cui la dissoluzione di ogni significato nella violenza mimetica distrugge
ogni cosa sulla sua strada.
Il Giulio Cesare non è incentrato né su Cesare né sui suoi assassini, non si tratta di un episodio della
storia romana, ma della violenza collettiva in quanto tale. Suo protagonista ultimo è la folla
inferocita, ed è questa a dare all'opera la sua unità.
Se l'escalation violenta della crisi dura abbastanza a lungo, la minaccia di un annientamento totale
diventa concreta, e tra gli stessi pensatori mimetici la paura è tale che presto o tardi essi si
trincerano dietro a qualche contratto sociale.
Ciò è vero non solo per Hobbes, ma anche per il Freud di Totem e tabù.
L'idea del contratto sociale è la grande copertura umanistica della rivalità mimetica, la scappatoia
classica per coloro che arretrano davanti alla logica della violenza.
• L'assurdità mirabolante del contratto sociale, ciò che è inverosimile è reale.
Non c'è che una vittima, ma di essa non si può fare a meno.
Nell'Iliade, Ettore è ucciso in singolar tenzone da Achille. In Troilo e Cressida, questo modo leale di
combattere lascia il posto a un assassinio collettivo ben poco ammirevole, commesso dagli
scagnozzi di Achille, i Mirmidoni.
I cristiani usano la parola misericordia in modo così perverso da riuscire a giustificare la loro sete di
vendetta e la loro cupidigia senza privarsi mai della loro buona coscienza. Essi credono di
adempiere al dovere di essere misericordiosi semplicemente ripetendo la parola misericordia in
continuazione.
Il doppio gioco shakespeariano a me pare indubitabile, ma non può essere dimostrato in modo
oggettivo: se l'ironia potesse essere dimostrata, cesserebbe di essere tale.
• Con questa motivazione Girard dà dell'antisemita a Marlowe per L'ebreo di Malta, ma
riscatta Shakespeare per il Mercante di Venezia.
• Una piccola resa più che una concessione: “Il significante letterario è destinato a divenire
una vittima”. “Il significante sacrificato scompare dietro al significato”.
Proprio come Rosencrantz e Guildenstern, Ofelia si pone al servizio del voyeurismo e dello
spionaggio universali, diventando uno strumento docile nelle mai del padre e di Claudio.
Nessuna differenza separa più lo scandalo dalla convenzione, la rivolta più audace dal conformismo
più piatto. I contrari si fondono, ma non in una superba sintesi hegeliana, bensì nell'immondizia che
ci viene proposta con l'etichetta del postmoderno. Il sale della terra non sa neppure di aver perso il
141
suo gusto, e l'avanguardismo più sfrenato finisce nelle banalità di un Polonio.
• L'esitazione di Amleto.
Come mai, ci si chiede, un giovane di buona educazione, può avere delle remore ad assassinare il
fratello di suo padre, che è anche il re del suo paese e il marito di sua madre? Un vero enigma, in
effetti.
L'unico modo in cui i nostri discendenti potranno spiegarsi questo flusso curioso di critica letteraria
sarà quello di supporre che all'epoca, nel XX secolo, al primo segnale di qualche fantasma, il
professore di letteratura era capace di sterminare la propria famiglia senza battere ciglio.
• L'ironia di Girard si dispiega su Ernest Jones “amico personale e biografo di Freud”, “una
persona riverita da tutti, uno le cui opinioni hanno un gran peso”, “essendo in linea diretta
nella successione apostolica”. “Non dubita per un solo istante che l'esitazione amletica è un
grave sintomo, ma lui stesso poi esita tra due patologie ugualmente temibili: la paralisi
isterica della volontà e l'abulia specifica”.
È di moda ai nostri giorni sostenere che viviamo in un mondo del tutto nuovo nel quale anche i
nostri maggiori capolavori letterari sono diventati irrilevanti.
Dal momento che intorno a noi un numero crescente di avvenimenti, oggetti e atteggiamenti
proclama con maggiore insistenza lo stesso messaggio, per evitare di sentirlo dobbiamo condannare
una parte crescente della nostra vita a essere insignificante e assurda.
Prima o poi Desdemona è destinata a innamorarsi di un giovane aristocratico simile a lei: è questo
che Iago non ha neppure bisogno di suggerire, perché Otello ne è già spontaneamente convinto:
Come tutti gli innamorati, il Moro non si rende conto che la moglie gli somiglia più di quanto le
apparenze non dicano. Ciò che lei cerca in lui, la sua estrema alterità, differisce meno di quel che
sembra a prima vista da ciò che lui cerca in lei. Nessuno dei due percepisce la dinamica centrifuga
del desiderio che entrambi illustrano alla perfezione perfino nello loro rispettiva incapacità di
ritrovare il proprio temperamento nel comportamento dell'altro.
Desdemona è talmente affascinata dal mondo cupo e violento di Otello che, scoperte le sue
intenzioni assassine, non cerca in alcun modo di salvare la propria vita. Al contrario, si prepara alla
morte come si preparerebbe a una notte d'amore.
Questa fusione di libido e morte violenta è il risultato finale della mimesi conflittuale, quella
conflagrazione suprema cui le commedie non possono alludere.
Lungi dall'essere un fraintendimento, la tragedia finale suggella l'intesa ultima della coppia.
Nella misura in cui cresce la sua ossessione rispetto agli ostacoli che continua a generare, il
desiderio di incammina inesorabilmente verso l'annientamento di sé e dell'altro, proprio come i
giochi degli amanti conducono all'orgasmo.
Se il desiderio non genera niente, se non riproduce se stesso mimeticamente, l'immagine soggettiva
che proietta non rinvia ad alcuna realtà oggettiva: noi crediamo di apprendere qualcosa al di fuori di
142
noi stessi, quando in realtà non afferriamo che fantasmi. O il desiderio non produce alcuna
conoscenza reale perché non ha alcuna discendenza mimetica, oppure comprende istintivamente gli
unici esseri che l'interessano veramente perché produce lui stesso i loro desideri.
Non tutte le proiezioni sono ingannevoli; se lo fossero, i desideri altrui risulterebbero
completamente inconoscibili.
• Autocritica: “Io colgo sì un'autocritica nel Racconto d'inverno, ma essa chiama a una
revisione piuttosto che a un rigetto della legge mimetica.
• Una proiezione ingenua: la fede nella legge mimetica è di “un folle geniale chiamato William
Shakespeare”.
Non è necessario cercare dei correlativi precisi a livello biografico per sentire che nei lavori
dell'ultimo periodo è all'opera una dinamica della veridicità che parte dall'Amleto, prosegue coi
primi due romances e culmina nel Racconto d'inverno.
Leggere il Racconto d'inverno come una sorta di confessione personale a me sembra una ipotesi
plausibile.
Per molti anni, il principio mimetico aveva affascinato Shakespeare quale fonte di configurazioni
strutturali complesse e di capovolgimenti paradossali, da lui messi in scena con vivacità
straordinaria. Poi, gradualmente, nelle tragedie della maturità il suo interesse per il meccanismo
della rivalità mimetica si è affievolito, ed egli si è focalizzato sempre di più sulle sue conseguenze
morali e umane, sulle sofferenze inutili che questa follia produce.
Tra i molti capolavori di Shakespeare, il Racconto d'inverno a me pare meritare un posto particolare,
in quanto è il più commovente. Segni di umiltà e di compassione non sono mai mancati nel teatro
shakespeariano ma erano rari, il che sembrerebbe giustificare che si presenti lo scrittore stesso come
un uomo senza volto, un non valore, una non persona, un non essere nessuno, nadie. È così che
Jorge Luis Borges ritrae Shakespeare nell'interpretazione mezza fantastica e mezza seria proposta
nella sua raccolta di saggi El Hacedor. Usando la parola nadie come suo leit motiv, Borges
suggerisce in effetti che Shakespeare abbia pagato il proprio genio con l'anima.
La confutazione più eloquente di Borges è fornita dal Racconto d'inverno, l'opera nella quale
l'umanità dell'autore traspare più che in ogni altra, e quella in cui, per la prima volta nel teatro di
Shakespeare, una prospettiva trascendentale si schiude silenziosamente.
143
Opale
Nota introduttiva alle conclusioni sul titolo: Lo spazio litterario, da litter in inglese, non è letterario,
perché non c'è posto per questo spazio, che non esiste, ma si può credere che lo sia di più o di meno,
a seconda delle pretese. Si potrebbe anche dire lettierario, forse più comprensibile in italiano. “Lo
spazio letterario” è il titolo di un'opera di Maurice Blanchot. In questo frangente si riporta il litter di
Lacan, come esempio, per una metrologia empirica. La fessurazione del testo, è misura di quella
dell'interprete.
La breccia è una ferita, dove insiste lo sguardo del pervertito (Lacan).
Da “Problema dello stile e la concezione psichiatrica delle forme paranoiche dell'esistenza” di
Jacques Lacan:
“Possiamo concepire l'esperienza vissuta paranoica e la concezione del mondo da essa generata,
come una sintassi originale che contribuisce a sostenere la comunità umana attraverso legami di
comprensione caratteristici. La conoscenza di questa sintassi ci sembra un'introduzione
indispensabile alla comprensione dei valori simbolici dell'arte, e in modo tutto particolare ai
problemi dello stile e cioè delle virtù di convinzione e di comunione umana ad esso caratteristici,
non meno che ai paradossi della sua genesi , problemi sempre insolubili per qualsiasi antropologia
che non si sia liberata del realismo ingenuo dell'oggetto”.
Ultima pagina, o quasi, del “Seminario sulle psicosi”, a pag.380: “Non dirò che il pur minimo gesto
fatto per alleviare un male dia la possibilità di un male maggiore: esso comporta sempre un male
maggiore”. Ma Lacan aggiunge: “Ciò detto, la cosa non porterà lontano”.
Dal Seminario sulle psicosi dell'anno '55'56:
“Psicosi non è demenza. Psicosi è, se volete non c'è ragione di rifiutarsi il lusso di impiegare questa
parola ciò che corrisponde a quel che si è sempre chiamato, che si continua legittimamente a
chiamare, le follie”. (pag.6)
“...comprendere i malati. Questo è un puro miraggio”. (pag.8)
“...pensare che ci sono cose che vanno da sé, per esempio che quando qualcuno è triste, è perché
non ha ciò che il suo cuore desidera. Niente di più falso c'è gente che ha tutto ciò che il suo cuore
desidera ed è triste ugualmente. La tristezza è una passione di tutt'altra natura”. (pag.9)
“Della psicologia umana, occorre dire ciò che diceva Voltaire della storia naturale, e per dirla tutta,
che è quanto di più innaturale”. (pag.10)
“Traducendo Freud, noi diciamo l'inconscio, è un linguaggio”. (pag.15)
“Può succedere che un soggetto rifiuti l'accesso, al suo mondo simbolico, di qualcosa che ha pure
sperimentato, e che all'occasione non è altro che la minaccia di castrazione”. (pag.16)
“Ciò che cade sotto la rimozione fa ritorno, giacché rimozione e ritorno del rimosso non sono che il
diritto e il rovescio di una medesima cosa”. (pag.16)
“Non diventa folle chi vuole, come avevo affisso sul muro della mia sala di guardia in quel tempo
antico, un po' arcaico”. (pag.19)
Una citazione, presa a caso, dal Seminario sulle psicosi:
“La psicoanalisi dovrebbe essere la scienza del linguaggio abitato dal soggetto; nella prospettiva
144
freudiana, l'uomo è il soggetto preso e torturato dal linguaggio”. (pag.290)
Poco sotto, nella stessa pagina: “Non inganniamoci la psicoanalisi non è una egologia. Nella
prospettiva freudiana del rapporto dell'uomo col linguaggio, questo ego non è affatto unitario,
sintetico, è scomposto, complessizzato in istanze differenti, l'io, il superio, l'es”.
“Il senso del mistero non è mai assente nel pensiero di Freud. È all'inizio, a metà, alla fine. Credo
che se lo si lascia dissipare, perdiamo l'essenziale del procedimento stesso su cui ogni analisi deve
essere fondata. Se perdiamo per un solo istante il mistero, ci perdiamo in una nuova forma di
miraggio”. (pag.256)
Il comprendere: “Questo rilievo che ho fatto l'ultima volta, che il comprensibile è un termine sempre
fuggente, inafferrabile, è sorprendete che non sia mai pesato come una lezione primordiale, una
formulazione obbligata all'ingresso della clinica. Cominciate dal non credere che comprendete.
Partite dell'idea del malinteso fondamentale”. (pag. 25)
“La fenomenologia dello spirito” è spesso presente nel “Seminario” di Lacan. Un esempio:
“Il padrone ha preso al servo il suo godimento, si è impossessato dell'oggetto del desiderio del
servo, ma in ciò allo stesso tempo ha perso la sua umanità. Non era affatto l'oggetto del godimento a
essere in causa, ma la rivalità in quanto tale. La sua umanità, a chi la deve? Unicamente al
riconoscimento del servo. Solamente, poiché lui non riconosce il servo, questo riconoscimento non
ha letteralmente alcun valore. Com'è abituale nell'evoluzione concreta delle cose, colui che ha
trionfato e conquistato il godimento diviene completamente idiota, incapace di altro che di godere,
mentre colui che ne è stato privato conserva tutta la sua umanità. Il servo riconosce il padrone, ha
dunque la possibilità di essere riconosciuto da lui. E impegnerà la lotta attraverso i secoli per esserlo
effettivamente”. (pag.48)
Sulla poesia:
“C'è poesia ogni volta che uno scritto ci introduce in un mondo diverso dal nostro, e, dandoci la
presenza di un essere, di un certo rapporto fondamentale lo fa diventare ugualmente nostro. La
poesia fa sì che non possiamo dubitare dell'autenticità dell'esperienza di san Giovanni della Croce,
né di quella di Proust o di Gerard de Nerval. La poesia è creazione di un soggetto che assume un
nuovo ordine della relazione simbolica con il mondo”. (pag.92)
Della certezza:
“Sicuramente la certezza è la cosa più rara per il soggetto normale”. (pag.88)
Sul malinteso:
“...vi insegno che il fondamento stesso del discorso interumano è il malinteso”. (pag.192)
“...dirò che è con una esplicita intenzione, se non assolutamente deliberata, che io conduco questo
discorso in modo tale da offrirvi l'occasione di non comprenderlo del tutto. Questo margine
permette che voi stessi diciate di credere di seguirmi, cioè restiate in una posizione problematica,
che vi lascia sempre la porta aperta a una rettificazione progressiva. In altri termini, se io mi
arrangiassi in modo da esser molto facilmente compreso, talché abbiate la certezza che ci siete,
ebbene, proprio in virtù delle mie premesse riguardo al discorso interumano, il malinteso sarebbe
irrimediabile”. (pag.192)
Sulla relazione analitica:
“...il soggetto comincia con il parlare di sé, non parla a voi in seguito parla a voi, ma non parla di
sé quando avrà parlato di sé, che nell'intervallo sarà semplicemente cambiato, a voi, saremo
145
arrivati alla fine dell'analisi”. (pag.189)
Approssimazione, molto facilmente, sbagliata: tra S e A (Altro) passa la parola fondamentale che
l'analisi deve rivelare c'è un circuito immaginario che l'ostacola tra i due poli immaginari del
soggetto a e a'. il soggetto è in a' (la sua frammentazione naturale) e si riferisce all'unità
immaginaria che è l'io, a, dove si conosce e misconosce (“egli non sa neppure chi parla in lui”).
Sulla retorica:
“...ciò che si ritrova in fondo ai meccanismi freudiani sono quelle vecchie figure di retorica che, col
tempo, hanno finito per perdere per noi il loro senso, ma che per secoli hanno suscitato un
prodigioso interesse. La retorica, o arte dell'oratore, era una scienza e non soltanto un'arte”.
(pag.284)
Sull'io:
“...la teoria dell'io in Freud è fatta, al contrario, per mostrare che ciò che chiamiamo il nostro io è
una certa immagine che abbiamo di noi, che ci dà un miraggio, di totalità indubbiamente”.
(pag.287)
Sull'Altro:
“L'Altro è dunque il luogo in cui si costituisce io che parla colui che sente”. (pag.323)
“...c'è sempre un Altro al di là di ogni dialogo concreto, di ogni gioco interpsicologico”. (pag.323)
Sul superio:
“Non posso qui dilungarmi sulla relazione che esiste tra il superio, che non è altro che la funzione
del tu, e il senso di realtà”. (pag.327)
“Questo superio è sì qualcosa come la legge, ma è una legge senza dialettica, e non per niente la si
riconosce, più o meno a ragione, nell'imperativo categorico con quella che chiamerei la sua
neutralità malefica un autore la chiama il sabotatore interno”. (pag.326)
In un Seminario, imprecisato, ma forse è quello sui “Quattro concetti fondamentali della
psicoanalisi” si trova questa frase:
“...dato che l'opposto del possibile è sicuramente il reale, saremo portati a definire il reale come
l'impossibile”.
“La trappola, il buco nel quale non bisogna cadere, è di credere che il significato siano gli oggetti, le
cose. Il significato è tutt'altra cosa è la significazione”.
“I poli immaginari del soggetto, a e a', ricoprono la relazione detta speculare, quella dello stadio
dello specchio”.
Dal Seminario “L'etica della psicoanalisi”:
“...e vi ho sempre detto che è importante non capire per capire”.(pag.350)
“Il fool è un semplice, un ritardato, ma dalla sua bocca escono delle verità, che non solo sono
tollerate, ma messe in funzione, per il fatto che talvolta il fool è rivestito delle insegne del buffone.
Quest'ombra felice, questa foolery di fondo, ecco che cosa faceva ai miei occhi il pregio
dell'intellettuale di sinistra”. (pag.231)
“Knave a un certo punto del suo impiego si traduce con valet (servitore), ma è qualcosa che va oltre.
Non è il cinico, con quel che tale posizione comporta di eroico. In senso proprio, è ciò che Stendhal
chiama le coquin fieffé (il furfante matricolato), ossia, dopotutto, il signor Tutti, ma un signor Tutti
con più decisione. Ognuno sa come un certo modo di presentarsi che fa parte dell'ideologia
dell'intellettuale di destra consista per l'appunto nel porsi per quel che effettivamente è, un Knave, in
146
altri termini, nel non ritrarsi di fronte alle conseguenze di quel che si chiama realismo, cioè, quando
è necessario, nel rivelarsi di essere una canaglia”. (pagg.23132)
“Dopotutto, una canaglia vale uno stolto, quantomeno per il divertimento, se il risultato della
costituzione delle canaglie in branco non fosse infallibilmente una stoltezza collettiva”. (pag.232)
“...per un curioso effetto di chiasmo, la foolery, che dà il suo stile individuale all'intellettuale di
sinistra, finisce benissimo in una knavery di gruppo, in una canaglieria collettiva”. (pag.232)
147
Biblioteche eccentriche
Il personaggio di don Ferrante, nel ventisettesimo capitolo dei Promessi sposi di Alessandro
Manzoni, è descritto come un uomo di studio, uno a cui non piaceva né di comandare né di
obbedire. Nel suo studio trovavano posto poco meno di trecento volumi. Gli autori sono il Cardano,
i celebri ventidue libri De subtilitate, e altri, il De restitutione temporum et motuum coelestium, e il
Duodecim geniturarum, il meno valido Alcabizio, Diogene Laerzio e Aristotele, Magia naturale del
Porta, il Trattato delle erbe, delle piante, degli animali di Alberto Magno. In fatto di storia i suoi
autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana e il Guazzo. In politica il Bodino, il
Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini, ma soprattutto Machiavelli e Botero, poi lo Statista
Regnante di Valeriano Castiglione. Nella scienza cavalleresca don Ferrante godeva e meritava il
titolo di professore, perché non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente
d'intervenire in affari d'onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria le opere di
Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei, l'Albergato, il Forno primo e il
Forno secondo di Torquato Tasso. L'autore degli autori in materia era però Francesco Birago. Per
quanto riguarda le lettere amene Manzoni tace la collezione ferrantina scusandosi perché noi
cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia di andare avanti con lui in
questa rassegna, anzi a temere di avere già buscato il titolo di copiatore servile per noi, e quello di
seccatore...
È vero comunque che Manzoni tace anche sui titoli delle cento opere che rimangono di Federigo
Borromeo, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano
nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d'antichità sacra
e profana, di letteratura, d'arti e d'altro.
Nel Don Chisciotte fanno un inventario della biblioteca del fantasioso cavaliere il curato e il
barbiere, composta da più di cento volumi grandi e ben rilegati, oltre a molti altri piccoli. Il primo
titolo è I quattro libri di Amadigi di Gaula, poi le Gesta di Splandiano, figlio legittimo di Amadigi,
e Amadigi di Grecia e altri Amadigi. Si passa all'autore di Don Olivante di Laura e del Giardino di
fiori. Quello che segue è Florismarte d'Ircania, il Cavaliere Platir e Il Cavaliere della Croce, poi
Lo specchio della cavalleria, Bernardo del Carpio e Roncisvalle. Aprirono un altro libro:
Palmerino d'Oliva e accanto ad esso c'era Palmerino d'Inghilterra. Poi il famoso Don Belianigi e la
Storia del famoso cavaliere Tirante il Bianco. Tra i libretti, La Diana di Jorge di Montemayor e La
Diana seconda del Salmantino, poi I dieci libri della fortuna d'amore di Antonio di Lofraso, Il
Pastor d'Iberia, Ninfe di Henares e Disinganno della gelosia. Ancora Il pastore di Fillide e il grosso
volume intitolato Tesoro di varie poesie. Verso la fine troviamo il Canzoniere di Lopez Maldonado,
La Araucana di don Alonso di Ercilla, La Austriada di Juan Rufo, Il Monserrat di Cristòbal di
Virués, Le lacrime di Angelica, La Carolea e Leone di Spagna, entrambi di don Luigi Avila.
Nell'elenco finisce anche La Galatea di Miguel de Cervantes. L'autore del romanzo parla di sé per
mezzo del curato: Questo Cervantes è un mio grande amico da molti anni, e so che è più portato
per le disgrazie che per i versi. Il suo libro è ricco di immaginazione; propone qualcosa e non
conclude niente; bisogna aspettare la seconda parte che lui promette; forse, correggendosi, otterrà
l'indulgenza che ora gli è negata.
148
Morti erotiche
La vergine guerriera in punto di morte, quando viene trafitta, è rappresentata con un erotismo
evidente. La morte sostituisce l'abbandono erotico, Thanatos supplisce Eros.
Nel Canto undicesimo dell'Eneide si legge l'episodio notissimo della morte di Camilla:
(…) Ma essa per nulla dell'aereo / ronzio s'avvide, o del colpo diretto dall'alto, / fin che l'asta
giungendo s'infisse sotto la nuda / mammella e a fondo entrata, ne bevve il sangue di vergine.
(…) Essa morente vuol togliere il dardo, ma fra le coste, / nell'ossa, con squarcio profondo, sta la
ferrea punta. / Esangue si spegne; si spengono vitrei nella morte / gli occhi e il roseo colore d'un
tempo le lascia il volto.
(…) Fredda, allora, a poco / a poco in tutto il corpo si fece e il collo languente / e il capo avvolto da
morte chinò, caddero l'armi / e sdegnosa con gemito fuggì la vita fra l'ombre.
In situazione diversa non si tratta di un agguato come quello dell'etrusco Arrunte, ma di un duello
tra cavalieri che non scoprono nome e stato altrimenti uno dovrebbe dichiararsi innamorato dell'altra
muore Clorinda, ma nella descrizione della ferita c'è qualche somiglianza, nel Canto dodicesimo
della Gerusalemme liberata:
(…) Spinge egli il ferro nel bel sen di punta / che vi s'immerge e 'l sangue avido beve; / e la veste,
che d'or vago trapunta / e le mammelle stringea tenera e leve, / l'empie d'un caldo fiume. Ella già si
sente / morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.
Clorinda muore da cristiana, battezzata dal rivale e innamorato Tancredi:
(…) Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse, / colei di gioia trasmutossi e rise; / e in atto di morir
lieto e vivace, / dir parea: “S'apre il cielo; io vado in pace.” / D'un bel pallore ha il bianco volto
asperso, / come a' gigli sarian miste viole, / e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso / sembra per
la pietade il cielo e 'l sole; / e la man nuda e fredda alzando verso / il cavaliero in vece di parole / gli
dà pegno di pace. In questa forma / passa la bella donna, e par che dorma.
T. Tasso accentua il patetismo fino ai suoi estremi (il morir vivace); il gesto della mano e le parole
di pace sottolineano le differenze con l'episodio precedente.
La matrice di queste morti erotiche potrebbe essere rintracciata in quella di Pentesilea. Achille che
l'uccise se ne innamorò vedendone il corpo, spogliato dell'armatura. Tersite non ebbe modo di
pentirsi dei suoi scherni. Si disse, in un mito più tardo, che da Pentesilea e da Achille era nato un
figlio, Caisto.
149
Il sangue della Medusa
Per Lucano la guerra civile tra Pompeo e Cesare provoca un ritorno anticipato al caos, inteso come
la fine dei tempi. Roma, dalla sua fondazione, è stata segnata dal fratricidio. L'ambizione è
pericolosa perché fa anteporre l'interesse personale a quello dello Stato e ciò apporta rovina e
distruzione. Il poema Farsaglia termina bruscamente nel decimo canto, con Cesare che si rifugia
nell'isola di Faro di fronte ad Alessandria, dopo aver incontrato Cleopatra e dopo che gli era stata
offerta la testa di Pompeo; nel penultimo si trova la descrizione dei serpenti del deserto libico.
L'abominevole sangue della Medusa, la velenosa putredine, fermenta arroventandosi sulla sabbia
polverosa. Il primo mostro che sollevò il capo dalla sabbia fu l'aspide sonnifero dal collo rigonfio.
Poi snodò le spire l'enorme emorrois, poi la chersidra e i chelidri che strisciano in una scia di fumo,
il cencro con il ventre screziato come e più dell'ofite tebano. Ancora l'ammodite, del colore della
sabbia, la cerasta che fa oscillare il dorso, lo scitale, la bruciante dipsade, la pesante anfisbena, con
la duplice testa, il natrice che inquina le acque e i giaculi alati, il paria e l'avido prestere, la sepse
che manda in putrefazione le carni e le ossa, il basilisco, che atterrisce sibilando, e infine i draghi
che la torrida Africa rende letali: fendete con le ali le alte regioni del cielo e date la morte a tutti e ai
vostri destini micidiali non occorre veleno.
In questo elenco si avverte la cura nella premonizione, precisa al dettaglio, del catalogo delle armi
moderne.
150
From Zacinto to Zante
E. A. Poe ha scritto un sonetto, To Zante, che si dice ispirato all'Itinéraire de Paris à Jerusalem di
Chateaubriand, tradotto in inglese nel 1813, con il titolo Travels in Greece, Palestine, Egypt and
Barbary. L'isola d'oro, il Fior di Levante: ce nom de fleur me rappelle que l'hyacinthe était
originaire de l'île de Zante, et que cette île reçut son nom de la plante qu'elle avait portée. Il
giacinto è uno dei fiori più cari a Poe, come si legge nel primo verso.
A Zante
Isola graziosa, che dal più bello di tutti i fiori,
il più gentile di tutti i nomi gentili tu prendi!
Quante memorie di quanto raggianti ore
alla tua vista e solo al tuo sorgere!
Quante scene di quante perdute gioie!
Quanti pensieri di quante speranze sepolte!
Quante visioni di una ragazza che è
non più – non più sulle tue verdi balze!
Non più! Quel magico triste suono
che tutto trasforma! I tuoi incanti non pregherò più
la tua memoria non più! Terra esecrata
da adesso considererò la tua spiaggia fiorita,
isola giacintea! Purpurea Zante!
Isola d'oro! Fior di Levante!
Con il sonetto foscoliano, questo dell'americano presenta delle somiglianze trascurabili: una
sensazione di fatalità connessa alla bellezza della natura. Quel non più, ripetuto cinque volte da Poe,
rimane tuttavia estrinseco rispetto all'esordio, senz'altro più sincero, della lirica di Foscolo. Il tema
dell'esilio è presente anche nel sonetto di Poe, ma da chi o da cosa sarebbe esiliato? Delle
imprecisate, ma grandi senza dubbio, quantità di sentimenti (sono nominate ben sette volte delle
quantità) e di ricordi lo legherebbero all'Isola d'oro. Attraverso delle negazioni invece si custodisce
il legame di Foscolo con Zacinto, e anche in questo caso, esse sono più veritiere e più reali, almeno
rispetto agli esclamativi di Poe (in numero di dodici). Anche se in fatto di dismisura, addebitabile in
parte all'epoca, e di cui in modesta parte traspare qualcosa nella esagerata considerazione di sé che
esprime nella sua bella lirica, il poeta italiano non ha dovuto invidiare molto a nessuno.
151
La Decadenza e la sazietà
Un famosissimo sonetto di Paul Verlaine annuncia la fine della decadenza. La decadenza è giudicata
dal senso di sazietà d'un poeta mediocre, i cui acrostici indolenti, i cui poemi fatui finiscono nelle
fiamme. Il languore, in senso proprio, è del sole, nella penna del poetastro. La noia, un ennui d'on
ne sait quoi, costituisce la vera sofferenza. Il servo frivolo, in realtà, ha stancato, il vino è stato
bevuto, le idee sono esaurite. Altrove, làbas, si combattono delle battaglie cruente. I grandi barbari
bianchi sfilano sotto gli occhi del poeta. La rappresentazione è falsa in un modo stupefacente (ô n'y
pouvoir mourir un peu!), ma è questa falsità a renderla contemporanea di un'altra decadenza rispetto
a quella di Verlaine. In particolare il senso di sazietà verso i piaceri, nei sinthomi che dilagano.
Io sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi barbari bianchi
componendo degli acrostici indolenti
d'uno stile d'oro ove il languore del sole danza.
L'anima soletta ha male al cuore di una noia densa.
Laggiù si dice che vi siano dei combattimenti sanguinosi.
Non potere, essendo così debole ai voleri, così lento,
non volere che fiorisca un po' quest'esistenza!
Non volere, non potere morire un po'!
Tutto è bevuto! Bathylle, hai finito di ridere?
Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Più niente da dire!
Solo, un poema un po' fatuo che si getta al fuoco,
solo, uno schiavo un po' frivolo che vi trascura,
solo, una noia, di un non so che, che vi affligge!
Nel romanzo I fiori blu, Raymond Queneau fa sognare Cidrolin, un parigino del 1964 e il Duca
d'Auge agire ogni 175 anni. Chi sta sognando chi? Come nell'apologo orientale di Chuangtze.
Il Duca, per recarsi a Parigi il 25 settembre del 1264, sceglie tra i palafreni il suo roano preferito,
chiamato Demostene perché parlava, pur col morso tra i denti.
“Ah, mio buon Demò, disse il Duca d'Auge con voce lamentosa, quanta tristezza, quanta
melancolia m'opprimono!
Sempre la storia? domandò Sten.
Non c'è gaudio che in me lei non dissecchi, rispose il Duca”.
La situazione storica si presentava poco chiara, resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora
qua e là.
Anche qui si vedono passare i grandi barbari bianchi: Sulle rive del vicino rivo erano accampati un
Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca
152
corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno,
vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevano calvadòs. O al contrario sono i barbari che
vedono passare il Duca: i Celti con aria gallicana, i Romani con aria cesarea, i Saraceni con aria
cerealicola, gli Unni con aria univoca, i Franchi con aria sorniona, i Vandali con aria vigile e
urbana. I Normanni bevevano calvadòs.
Mentre si addormenta Cidrolin si sveglia il Duca con l'impressione di avere mangiato male.
153
Colazioni e sottigliezze linguistiche
Il 16 giugno del 1904, a Dublino; vi fa accadere qualcosa, ma non molto, James Joyce. La colazione
di Leopold Bloom (Ulisse) appartiene al capitolo designato da Joyce in una lettera con: Calipso. La
colazione.
I rognoni anticipano le rogne che accompagneranno per tutta la giornata, finché sarà esausto,
Leopold Bloom.
Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la
spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno di arrosto, fette di fegato impanate e
fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli
lasciavano nel palato un fine gusto di urina leggermente aromatica.
(…) Giovedì: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un
zinzino di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz.
Si potrebbe introdurre in questo posto la superiore maestà dell'Imperatrice di Blandings, ma ci si
può accontentare (come di uno spuntino) di una breve scena tra i guardiani di porci all'inizio di
Ivanhoe di Walter Scott con una simpatica questione linguistica.
Gli animali, pur rispondendo al richiamo (del guardiano) con note non meno melodiose, non si
affrettavano affatto ad allontanarsi dal ricco banchetto di faggiole e di ghiande con le quali erano
ingrassati o ad abbandonare le rive fangose del ruscello dove molti di essi, mezzo affondati nella
mota, se ne stavano sdraiati beatamente senza badare affatto alla voce del custode.
(…) I porci trasformati in normanni per mio sollazzo? domandò Gurth.
Spiegami un po' questa faccenda, Wamba, perché il mio cervello è troppo ottuso e ho troppe cose
per la testa per capire indovinelli.
Diamine, come li chiami tu questi animali che se ne vanno grugnendo? domandò Wamba.
Porci, porci, disse il pastore anche i matti come te lo sanno.
E porco è buon sassone, disse il buffone ma come li chiami quando sono scuoiati, e tirati giù e
squartati e appesi per le gambe come i traditori?
Maiali rispose il porcaro.
Mi compiaccio che anche uno scemo come te sappia queste cose disse Wamba. E maiale, mi
sembra, è buon franconormanno: così che quando sono vivi e custoditi dallo schiavo sassone,
portano il nome sassone, ma diventano normanni e sono chiamati maiali quando sono portati nella
sala del castello e imbanditi alla nobiltà.
154
Aquileia di Strabone
Aquileia, poi, che è la più vicina al recesso dell'Adriatico, è fondazione dei Romani, fortificata
contro i barbari dell'interno. Si risale con le navi verso la città rimontando il corso del Natiso per
circa 60 stadi. Essa serve da emporio a quei popoli illirici che abitano lungo l'Istro (il Danubio):
costoro vengono a prendere i prodotti provenienti dal mare, il vino che mettono in botti di legno
caricandole su carri e, inoltre, l'olio, mentre la gente della zona viene ad acquistare schiavi, bestiame
e pelli. Aquileia è situata fuori dei confini dei Veneti. Il confine è segnato da un fiume (forse il
Tagliamento, ma non corrisponde alle condizioni presentate da Strabone) che scorre giù dalle Alpi
e attraverso il quale, con una navigazione di 1200 stadi, si risale fino alla città di Noreia (forse
Neumarkt), presso la quale Gneo Carbone si scontrò con i Cimbri senza tuttavia riuscire a vincerli.
Questa regione possiede sabbie aurifere in luoghi naturalmente predisposti al loro lavaggio e inoltre
vi si estrae e si lavora il ferro.
Proprio nella parte più interna dell'Adriatico c'è un santuario di Diomede degno di menzione, il
Timavo: esso ha un porto, un bosco bellissimo e sette fonti di acqua fluviale che si riversano subito
nel mare con un corso largo e profondo. Dice però Polibio che, ad eccezione di una, tutte le altre
sono di acqua salata e che gli abitanti chiamano il luogo sorgente e madre del mare.
(…) Dopo il Timavo c'è il litorale degli Istri fino a Pola, che appartiene all'Italia. In mezzo c'è la
fortezza di Tergeste, che dista da Aquileia 180 stadi. Pola sorge su un golfo che ha la forma di un
porto con alcune isolette comode per l'approdo e fertili. È antica fondazione dei Colchi, inviati alla
ricerca di Medea e che, non essendo riusciti nell'impresa, si condannarono da sé all'esilio.
Come disse Callimaco:
quella che un greco chiamerebbe città degli esuli,
ma la loro lingua denominò Pola.
Sono dunque i Veneti e gli Istri che abitano la regione transpadana fino a Pola.
Al di sopra dei Veneti stanno i Carni, i Cenomani, i Medoaci e i Simbri (forse Insubri): di costoro
alcuni furono ostili ai Romani; i Cenomani e i Veneti, invece, combatterono a fianco dei Romani sia
prima della campagna di Annibale, quando facevano guerra ai Boi e ai Simbri, sia dopo.
155
La più volgare delle eloquenze volgari
Alla ricerca di un volgare italiano Dante Alighieri al tempo del De vulgari eloquentia, ne troverà
non mille ma di più (in hoc minimo mundi angulo non solum ad millenam loquele variationem
venire contigerit, sed etiam ad magis ultra). Quattordici grandi divisioni e, all'interno di queste,
innumerevoli altre. A quale volgare il titolo di peggiore? Il peggiore sembrerebbe essere stato
trovato già all'esordio della trattazione: quello dei Romani è detto tristiloquio. Dicimus igitur
Romanorum non volgare, sed potius tristiloquium, ytalorum vulgarium omnium esse turpissimum.
Ciò a causa dei loro costumi corrottissimi. Ma si scopre immediatamente, che, analizzandoli
frettolosamente, Dante nota in molti di essi degli orribili, e non emendabili, difetti. Subito vengono
scartati, dopo il romano, quello della Marca d'Ancona, quello di Spoleto, le parlate dei Milanesi e
dei Bergamaschi, degli Aquileiesi e degli Istriani che dicono Ces fastu?, eruttando crudamente
(crudeliter accentuando eructuant), le loquele mantanine e rusticane come quelle dei Casentinesi e
degli abitanti di Fratta, infine i Sardi, che neppure sono italici (qui non Latii sunt sed Latiis
associandi videtur), ma agli italici sembra doversi accompagnare, come sono privi di grammatica
(gramaticam tanquam simiae homines imitantes).
Rimane tra i pochi il volgare di Sicilia, ma neppure questo appare degno di essere ad altri anteposto
(prelationis honore minime dignum est), per le difficoltà di pronuncia, come si nota da questo verso:
Tragemi d'este focora se t'este a boluntate. I Pugliesi fanno orribili barbarismi (turpiter barbarizant)
e i paesani orrendamente parlano (loquantur obscene comuniter). I Toscani in suo turpiloquio sint
obtusi, i Genovesi abusano della lettera z, i Romagnoli hanno un parlare effeminato (feminam tamen
facit esse credendum), i Bresciani, i Veronesi, i Vicentini e i Padovani uno aspro e irsuto (yrsutum et
yspidum), ma anche i Trevigiani e i Veneziani. Cosa rimane della italica selva, si domanda ora
Dante (quod de ytalica silva residet). Forse a Bologna appartiene la più leggiadra loquela, perché ha
saputo acquistare dagli Imolesi e dai Ferraresi e dai Modenesi elementi tali che per la loro
mescolanza ne è riuscita temprata di laudabile gentilezza (ad laudabilem suavitatem remaneat
temperata). Tuttavia ciò non basta per farne un volgare aulico ed illustre (non etenim est quod
aulicum et illustre vocamus). Infine Trento, Torino e Alessandria sono così presso alle porte d'Italia
che non possono avere purezza di loquela (turpissimum habent vulgare).
Se si sottraggono i Sardi, di cui Dante esclude, riammettendoli con riserve ingiuriose, l'italianità, gli
Aquileiesi e gli Istriani fanno pessima figura, anche se in ottima compagnia.
Che italiano poteva nascere da tante turpissime loquele?
156
La più profonda associazione
La più profonda associazione dell'uomo con i suoi simili è la dissociazione, pensa Ulrich una
mattina dopo essere rincasato assai malconcio, cioè dopo essere stato aggredito all'improvviso da tre
uomini. Orologio e portafogli erano scomparsi, egli non sapeva se fossero stati rubati dai tre figuri o
se nel breve tempo in era rimasto a terra privo di sensi glieli avesse sottratti un ignoto filantropo. La
colpa, in un certo senso, era nell'aver esitato un attimo a fuggire. Non voleva credere che quelle tre
facce subitamente ghignanti nella notte con rabbioso disprezzo mirassero soltanto al suo denaro. Si
era abbandonato all'impressione che un qualche odio verso di lui si fosse lì per lì condensato
prendendo corpo, l'aveva rallegrato il pensiero che forse non erano furfanti ma tre borghesi come
lui, solo un po' brilli e privi di freni inibitori. Anch'egli, infatti, provava qualche cosa di simile.
Ulrich aveva la sensazione di non essersi comportato come doveva, anche dopo essersi accertato
dell'errore commesso, che era di carattere sportivo.
Accanto alle strade dove ogni trecento passi una guardia municipale punisce ogni minima
trasgressione all'ordine e alla legge, ve ne sono altre dove sono necessarie forza e astuzia come
nella foresta vergine. L'umanità produce Bibbie e cannoni, tubercolosi e tubercolina. È
democratica, e ha nobili e re; edifica chiese, e contro le chiese edifica atenei; trasforma i conventi
in caserme, ma assegna alle caserme cappellani militari. Naturalmente fornisce anche ai malfattori
mazze di gomma piene di piombo per picchiare sul corpo di un loro simile fino a scassarlo, e poi
appronta per quel corpo solitario e malmenato soffici letti di piume come quello che accoglieva
Ulrich.
(…) Pareva ad Ulrich, dopo l'involontaria esperienza, che avesse addirittura pochissima utilità
abolire qui i cannoni, lì i re e diminuire con un maggiore o minore progresso la stupidaggine e la
cattiveria; perché la misura dei soprusi e delle malvagità torna immediatamente a colmarsi, come
se il mondo scivolasse sempre indietro con un piede mentre con l'altro avanza.
Magari si potesse di tutto ciò scoprire la causa e il meccanismo segreto, pensa il narratoreautore
dell'Uomo senza qualità, Robert Musil.
157
Il sonetto di Groto
Il celebre sonetto sessantaduesimo delle Rime di Luigi Groto, conosciuto allora come il Cieco di
Andria, costituisce un vertice del manierismo, come si trova scritto in qualche antologia. Il poeta ciò
che afferma lo nega e questo nell'unico, identico sonetto. Una stessa quantità di verità è presente sia
nella tesi che nell'antitesi (sette versi della lirica, che in sé è abbastanza arida, contengono una
proposizione antitetica e sette ne contengono due). La particolarità del sonetto è dunque d'essere
retrogrado, di poter essere letto, ciascun verso, dal principio alla fine e dalla fine al principio. Ma
oltre alle prime due letture del sonetto ne possono essere fatte altre due; come scriveva Groto: in
duo si loda, e in duo si biasima amore. La nozione di realtà è svanita in seguito allo scambio
illusorio di affermazioni e negazioni.
1.
Fortezza e senno Amor dona, non tolge;
giova, non noce; al ben, non al mal chiama;
trova, non perde onor, costumi, fama;
bellezza e castità lega, non sciolge;
dolcezza, non affanno l'uom ne colge;
nova perfida Amor rompe, non trama;
prova, non crucia; il duol odia, non ama;
prezza, non scherne; in buon, non in rio volge;
vita, non morte dà; gioia, non pena;
sorte buona, non ria; frutto non danno;
invita al ciel, non a l'inferno mena;
accorte, non cieche or l'alme si fanno;
aita, non offende; arma, non svena;
forte, non molle Amor; dio, non tiranno.
2.
Tolge, non dona Amor senno e fortezza;
chiama al mal, non al ben; noce, non giova;
fama, costumi, onor perde, non trova;
sciolge, non lega castità e bellezza;
ne colge l'uomo affanno, non dolcezza;
trama, non rompe Amor perfida nova;
ama, non odia il duol; crucia, non prova;
volge in rio, non in buon; scherne, non prezza;
pena, non gioia dà; morte, non vita;
danno, non frutto; ria, non buona sorte;
mena a l'inferno, non al ciel invita;
158
si fanno l'alme or cieche, non accorte;
svena, non arma; offende, non aita;
tiranno, non dio Amor; molle, non forte.
3.
Fortezza e senno Amor dona non, tolge;
giova non, noce; al ben non, al mal chiama;
trova non, perde onor, costumi, fama;
bellezza e castità lega non, sciolge;
dolcezza non, affanno l'uom ne colge;
nova perfida Amor rompe non, trama;
prova non, crucia; il duol odia non, ama;
prezza non, scherne; in buon non, in rio volge;
vita non, morte dà; gioia non, pena;
sorte buona non, ria; frutto non, danno;
invita al ciel non, a l'inferno mena;
accorte non, cieche or l'alme si fanno;
aita non, offende; arma non, svena;
forte non, molle Amor; dio non, tiranno.
4.
Tolge non, dona Amor senno e fortezza;
chiama al mal non, al ben; noce non, giova;
fama, costumi, onor perde non, trova;
sciolge non, lega castità e bellezza;
ne colge l'uomo affanno non, dolcezza;
trama non, rompe Amor perfida nova;
ama non, odia il duol; crucia non, prova;
volge in rio non, in buon; scherne non, prezza;
pena non, gioia dà; morte non, vita;
danno non, frutto; ria non, buona sorte;
mena a l'inferno non, al ciel invita;
si fanno l'alme or cieche non, accorte;
svena non, arma; offende non, aita;
tiranno non, dio amor; molle non, forte.
159
Breve nota su un naufragio di metafore
In uno dei Racconti neri di Ambrose Bierce, Un naufragio psicologico, ci sono diverse simmetrie: il
racconto di articola in due parti che si rispecchiano: ci sono due navi, due viaggi, due William
Jarrett. Ma le simmetrie e le corrispondenze non si arrestano qui; per esempio, nella prima e nella
seconda parte del racconto si cita un passo, lo stesso, di un'opera inesistente, e di un autore
inventato, Le meditazioni di Denneker. Poche righe di bassa qualità, che sondano delle grette e
superstiziose suggestioni. Ma è significativo che la vicenda narrata mantenga la stessa condotta
improntata al cattivo gusto di bassa lega del passo citato: l'inspiegabile che avviene è infine solo una
trita e insipida fantasticheria. Forse non poteva succedere assolutamente niente da uno dei due lati
della speculare presunta vicenda. Ambrose Bierce ha voluto simulare un'invenzione scadente? Per
sfruttare il torpido sonno di qualche sprovveduto lettore?
La metafora del titolo si spiega con qualche scorno del lettore. La maestria dell'autore è tutta nella
dissimulazione del significato del titolo.
160
Nocchieri
Dante pellegrino nei regni dell'oltretomba generalmente mostra pietà del dolore altrui e non
infierisce. Il suo umano contegno lo si verifica ovunque tranne rare occasioni, in una di queste è
protagonista Filippo Argenti. Nel Canto ottavo dell'Inferno si incontra un traghettatore, Flegiàs,
secondo dopo il Caronte dell'Eneide e quello identico, o quasi, mantenuto dal poeta fiorentino sulle
rive dell'Acheronte. Tutti sanno che il primo verso del canto (Io dico, seguitando, che assai prima...)
dai commentatori più antichi è stato spiegato come una ripresa del poema, quando Dante ricevette
da Firenze il manoscritto dei primi sette canti. La ripresa cioè marcherebbe il momento dell'esilio.
Flegiàs viene avvisato da Virgilio: più non ci avrai che sol passando il loto, dunque il diabolico
galeotto se ne rammarica come colui che grande inganno ascolta che li sia fatto.
Mentre i viaggiatori corrono la morta gora, un pien di fango interpella Dante, dicendo: Chi se' tu
che vieni anzi ora? Egli risponde subito per le rime, forse per il tono della domanda poco
appropriato, e forse perché istintivamente Dante ne avverte un'insidia latente.
S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che sì se' fatto brutto? Nella risposta del poeta c'è evidente
del disprezzo e dell'aggressività, che altrove non largisce immediatamente.
Vedi che son un che piango. È la risposta del dannato che non risponde, cioè non si rivela, come non
aveva risposto, non rivelandosi, Dante alla precedente domanda. Viene da pensare che i due si siano
riconosciuti subito, e istantaneamente abbiano ripreso a odiarsi come se fossero entrambi ancora a
Firenze. Infatti Dante dicendo: con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti
conosco, ancor sie lordo tutto, conferma d'averlo riconosciuto già alla prima occhiata. Il dannato si
afferra alla barca con l'intento di far cadere Dante nello Stige, ma Virgilio interviene e lo sospinge:
Via costà con li altri cani! Questo orgoglioso e tracotante iracondo come i suoi pari, simili a porci
in brago, sono condannati a stare nella melma per l'eternità. Dante, dopo essere stato baciato da
Virgilio, e benedetta la madre, vuole è un evento straordinario vederlo punito subito, affogare
malmenato in questa broda. Dante racconta che vide quello strazio far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano, e finalmente viene fatto il nome dell'anima
dannata: A Filippo Argenti!, e costui in se' medesimo si volvea co' denti, questo fiorentino spirito
bizzarro.
È interessante che Dante stesso prefiguri per sé un soggiorno in Purgatorio per espiare la sua
superbia. Ma l'incontro con Filippo Argenti è burrascoso come pochi altri. Di quale colpa si era
macchiato Filippo Argenti? Come suggerisce il suo nome, l'avidità e la ricchezza, potrebbe aver
intrigato per entrare in possesso dei beni di Dante subito dopo la condanna all'esilio. In questo modo
si spiegherebbe la rabbia di Dante, che riprendendo la stesura del poema, vuole vendicarsi
immediatamente, senza aspettare di collocarlo ancora più in fondo all'Inferno.
161
Il candido
Nella Storia della mia vita, Giacomo Casanova riferisce d'essersi recato da Voltaire. Presentatogli ci
fu uno scambio di battute in cui ebbe la meglio Voltaire. A Casanova toccava aspettare l'occasione
per rifarsi, con quello che aveva complimentato come suo maestro per vent'anni.
Le occasioni servono solo ad aumentare i dissapori tra questi due campioni di gentiluomini. Alla
fine si finisce per parlare di superstizione e Casanova, al contrario di Voltaire, afferma di
considerare la battaglia conto di essa del tutto sprecata, perché una vittoria con cosa sostituirebbe la
superstizione?
Il dialogo che segue è tra un finto ingenuo che espone i suoi principi e un cinico gentiluomo che
sa che certi principi potrebbero essere pericolosi alla sua classe sociale. Comunque neppure Voltaire
arriva ad auspicare che il popolo sia sovrano. Chi è questo solo, che non è un monarca, che dovrà
governare? Voltaire sembra pensare ad un odierno Presidente della Repubblica dotato di poteri
esecutivi. L'amore per l'umanità che sembra traboccare nel finto candido, della cui arguzia
Casanova ha sgomento, non sembra un grande argomento all'italiano. Ami pure l'umanità, ma la
ami per quel che è. L'umanità non è suscettibile dei benefici che lei vuole prodigarle e che la
renderebbero più disgraziata e più perversa. Le lasci la belva che la divora e che le è cara.
Ciò era esattamente quello che aveva in mente Voltaire.
162
La reputazione
Nella recensione di Barthélémy Schwartz al libro di Guy Debord, Cette mauvaise réputation, si
affaccia una obiezione al metodo scelto da Debord nell'affrontare le critiche rivoltegli. Lo scritto
raccoglie non solo le critiche, ma les exemples de déformation, le informazioni false sulla sua vita,
recensite dal 1988 al 1992. Insomma, queste possono essere raggruppate in due categorie distinte:
gli articoli scritti su di lui dai differenti media, ces articles ont en commun d'être tous délibérément
mensongers. Nella seconda categoria, meno importante come numero di pagine, figurano invece dei
testi che provengono des milieux radicaux (la brochure Echecs situationniste, le revues Les mauvais
jours finiront, L'Encyclopédie des nuisances, Maintenant le communisme, le livre L'Antiterrorisme
en France de Serge Quadruppani). Schwartz nota come Debord si mostri più a suo agio nel
ridicolizzare e nel ridurre a niente le critiche provenienti dai media. Le critiche reprises des milieux
radicaux sont volontairement mises par sur le même plan que les déformations produites par les
medias. Perché? Le critiche di Les mauvais jours finiront meriterebbero attenzione, scrive il
recensore, L'Encyclopédie des nuisances presenta un bilancio critico degli anni situazionisti, ma
Debord risponde con questa frase, giudicata très insuffisant: J'étais comme j'étais et rien de très
différent ne pouvait en venir. Si tratta di capire cosa voglia dire il silenzio, che in qualche modo, ben
definito, costituisce una risposta. Breton si era comportato diversamente con i detrattori del
surrealismo, con coloro che avevano abbandonato il movimento, sottolinea Schwartz. Nessuno degli
ex ha parlato dell'I.S. Che vorrà dire? Si tratta di un paragone fuorviante, ed è meglio lasciarlo
perdere. Se Debord non ha risposto alle critiche provenienti dal cosiddetto ambiente radicale, sarà,
probabilmente, perché non gli riconosceva quell'alterità che aveva creduto potesse avere nel '68. In
poche parole, sono convinto che l'illusione rivoluzionaria si sia spenta già nello stesso anno, e la
conseguenza sia stata lo scioglimento dell'organizzazione. Ciò che è successo dopo ha chiuso
definitivamente la questione rivoluzionaria. Nessun giudizio sugli epigoni e nessun commento era la
sola risposa possibile, avendola già espressa, nell'unica maniera comprensibile a chi avesse voluto
capirla.
Nota.
Nel 1973 era apparsa una brochure edita dal Centre de Recherche sur la Question Sociale, scritta da
Daniel Denevert, con il titolo Théorie de la misère, misère de la théorie. In questo rapporto sulle
nuove condizioni della teoria rivoluzionaria, il primo capoverso dice: L'effort théorique organisé, le
plus avancé depuis Marx, accompli par les Internationaux Situationnistes, a non seulement jeté ses
derniers feux, il semble même vouloir se satisfaire d'une place parmi les curiosités au Musée de
l'histoire révolutionnaire.
Vi è in queste parole la coscienza di un canto del cigno. Si dice inoltre che i risultati del reale sforzo
teoricopratico situazionista hanno finito per conoscere un renversement complet de leur sense,
pour ne plus constituer qu'un verbiage culturel particulier, dans la pseudocommunication
généralisée.
La comprensione effettiva della situazione che mostra di possedere Daniel Denevert, attraverso le
frasi citate di questo esordio, è contraddetta dalla volontà di ricominciare, di riprendere il discorso
rivoluzionario. I nove paragrafi successivi dimostrano con larghezza questa abiezione della volontà.
163